Paolo Ruffilli, Poesie esistenzialistiche da Affari di cuore (Einaudi, 2011) con un Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
Una sorta di ironica, autoironica, desublimata epopea dell’amor quotidiano e dell’amor profano
nell’epoca della caduta del «sacro», ed insieme diario post-lirico della passione amorosa
 

 Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato di poesia: Piccola colazione (Garzanti, 1987; American Poetry Prize), Diario di Normandia (Amadeus, 1990; Premio Montale), Camera oscura (Garzanti, 1992; Premio Dessì), Nuvole (con foto di F. Roiter; Vianello Libri, 1995), La gioia e il lutto (Marsilio, 2001; Prix Européen), Le stanze del cielo (Marsilio, 2008), Affari di cuore (Einaudi, 2011), Natura morta (Nino Aragno Editore, 2012, Poetry-Philosophy Award), Variazioni sul tema (Aragno, 2014, Premio Viareggio). Di narrativa: Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003); Un’altra vita (Fazi, 2010); L’isola e il sogno (Fazi, 2011). Di saggistica: Vita di Ippolito Nievo (Camunia, 1991), Vita amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (Camunia, 1993); oltre a numerose curatele di classici italiani (Leopardi, Foscolo, Nievo, gli scrittori garibaldini) e inglesi (Morris, Emily e Charlotte Bronte, Dickens, G. Eliot, Compton-Burnett, Lawrence, Collins), per Garzanti, Mondadori, Rizzoli, Fazi. Ha tradotto: R. Tagore, Gitanjali (San Paolo, 1993), La Musa Celeste: un secolo di poesia inglese da Shakespeare a Milton (San Paolo, 1999), La Regola Celeste – Il libro del Tao (Rizzoli, 2004), Osip Emil’evič Mandel’štam, I lupi e il rumore del tempo (Biblioteca dei Leoni, 2013), Costantino Kavafis, Il sole del pomeriggio (Biblioteca dei Leoni, 2014), Anna Achmatova, Il silenzio dell’amore (Biblioteca dei Leoni, 2014), Boris Pasternak, La notte bianca (Biblioteca dei Leoni, 2016), K. Gibran, Il Profeta (Biblioteca dei Leoni, 2017).

Giorgio Linguaglossa
da sx Sabino Caronia, Giorgio Linguaglossa, Laboratorio di poesia, Roma 2017

Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Una sorta di ironica, autoironica, desublimata epopea dell’amor quotidiano e dell’amor profano nell’epoca della caduta del «sacro», ed insieme diario post-lirico della passione amorosa, canzoniere di una materia non più cantabile né orientabile: il rapporto amoroso o lo stato di innamoramento, con tutto ciò che ne consegue in termini di prevaricazione dei personaggi l’uno sull’altra; direi con prevalenza del dispositivo ottico e delle visioni  in plein air, come dall’alto di un elicottero, rispetto al dispositivo fonetico e fonematico, dove la raffinata lectio dei classici del Novecento risulta perfettamente digerita. Soluzioni post-penniane si giustappongono su un tessuto prosodico di impianto narrativo, il tutto immerso in un liquido di contrasto tipicamente post-moderno, un modernismo dove il verso libero si presenta come una linda camicia perfettamente inamidata e stirata. In questa operazione non sono più significativi l’assonanza, la rima o il significante, quanto ciò che spegne la tradizionale orchestrazione sonora, ciò che decolora e sbiadisce i panni novecenteschi. Leggiamo la poesia «In posa» della raccolta citata, dove l’andante largo si stempera in uno sviluppo poematico di stampo neocrepuscolare:

È più forte di te: / mi guardi giù le scarpe, / ti piace l’accordo / delle tinte su, / il taglio dei vestiti… / Fino a che punto / della posa / pretendi o inviti / che io sia tenuto / a questa lista / dei dettagli? / Dici che l’una / dà valore / all’altra cosa. / Era destino / che mi piacesse / un’arrivista / un po’ borghese, / però ogni volta / nel rendermene conto / per me è dolore / che ti dimentichi / del contenuto / per il contenitore.

Paolo Ruffilli mette a punto la tecnica del contrappunto e del controcanto, che utilizza in tutto il libro:

Sono stato per te / il cuscino e una coperta / la sedia e la poltrona / il freno da tirare, / se serviva, / e una spinta alla salita / il puntello e la deriva / e perfino un muro, / la sponda di fronte / a tutto ciò che assale / o ciò che circonda, / il faro nella zona / del tuo scuro, / le tue scale e il / tuo tramite sicuro, / una porta aperta / e la via di uscita: / un ponte, un’autostrada / per la vita. / Che vuoi / che ti risponda? / Che, certo, ti conviene / e che, per quanto vale, / mi puoi considerare / il tuo supremo / bene strumentale.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa
Paolo Ruffilli

Mi chiami / quando hai voglia / per riempire il vuoto / di affetto e vanità. / Tanto lo sai / che sono pronto / a venirti incontro / perché per me / è importante / che ti ami io / e ti ringrazio comunque / per il modo / che hai di amarmi, / tu, in passività. / Prenditi pure / quello che ti pare: / certo che / lo puoi fare. / Ti vengo / tra le braccia / per trovarmi / e, guardandoti, / per guardarmi / in faccia / in tutta libertà / senza indulgenza, sì, /ma con pietà. / Infelice / della mia felicità.

Come recita il titolo, Affari di cuore, vuole anche alludere alla condizione commerciale narcisistica che contraddistingue le relazioni erotiche, il carattere riflesso, la sostanza riflessa e irriflessa che contraddistingue la riproduzione dei rapporti erotici sulla base dei rapporti omoerotici che regolano la vita delle post-masse, quasi che parlare di coscienza e di autocoscienza sia ormai una operazione numismatica, donde la predisposizione melanconica e autoironica del personaggio narrante. È questa la cifra stilistica significativa della poesia di Paolo Ruffilli, erede tardo novecentesco della disgregazione della lirica che il Novecento ci ha lasciato in eredità.

Minuscoli “pharmaka”, cammei pseudo narrativi, ma non ci si lasci ingannare dalla apparente leggerezza dei testi, Ruffilli non adopera rime se non per incrociarle, vanificarle, annullarle e quindi raddoppiarle quasi a ricordare che esse un tempo fecero pur parte della tradizione alta. Ritorna in quest’ultimo libro il metodo del controcanto, messo a punto nel lontano Novecento nell’opera d’esordio, Piccola colazione (Garzanti, 1987). È scomparso ogni impianto veristico, i personaggi si muovono in interni, in zone neutre, in strade, si suppone, in locali, in luoghi di incontro propri dell’evo mediatico; sembra caduta e per sempre, l’illusione di un possibile anche se improbabile riscatto, siamo al di fuori del gioco dell’autenticità; ciò che resta è soltanto un edonismo personalistico dove delusione, inganno, raggiro, sincerità, autenticità dei personaggi sono avvolti in un’unica dimensione, quella del post-contemporaneo privo di idoli, di sogni e di utopia.

Di certe cose / non vuoi parlare / e preferisci / l’intermittenza virtuale / sul display / del mio telefonino. / «Ma ho paura – mi dici nel messaggio – di non essere capace / poi a frenare». / Lo dici da vorace, / è il tuo vantaggio. / La verità è che / non ti piace / rinunciare / né a me né agli altri / compreso tuo marito / e ci pretendi / in proprietà / del tuo destino, / se non addirittura / del tuo famelico appetito. / Del resto, / proprio per questa / avidità di vita / mi hai rapito… / Ma sono stanco / per il mio amarti / di essere punito.

Sono venute a mutare le condizioni sociali e politiche del fare poesia e anche il suo oggetto: non più la ragazza Carla ma la storia di una signora borghese e del suo amante, che poi sarebbe l’autore, e noi tutti, nonché le condizioni dello stile. Siamo in pieno post-moderno, sembra dirci Ruffilli, e questo, oggi, è l’unico modo di fare poesia. Affari di cuore costituisce un raro esempio di come si possa fare un elegantissimo canzoniere dell’amore perduto e ritrovato e poi di nuovo smarrito, alla maniera moderna e alla maniera antica, alla maniera di Catullo, Orazio, Mimnermo.

Nell’età che è trascorsa dal ciclostile degli anni Sessanta al computer portatile dell’era internettiana, nel mentre che sono perenti, in caduta libera, tutti gli avanguardismi e le parole innamorate, tutti i manierati eufuismi, Paolo Ruffilli ci consegna il romanzo in versi dell’amor leggero con un linguaggio trasparente e ilare, sul filo di rasoio di un tratto di penna agile ed ilare. Ogni composizione è un montaggio di fotogrammi sottratti all’inautenticità, o all’autenticità, che poi è la stessa cosa. Ciò che rimane è un profumo, un alone, un’aura desublimata, corriva, posticcia come solo è possibile nell’età della leggerezza dell’essere. E che la leggerezza sia una tremenda e deliziosa croce che si abbatte sugli abitanti del nostro tempo epigonico, opino non ci sia dubbio alcuno, se appena gettiamo lo sguardo su queste poesie così abilmente sofisticate da apparire quasi telefonate.

Non deve in alcun modo meravigliare che siano venute a cadere le ipotesi di scritture modernistiche o post-modernistiche, se per modernismo si intende una poetica che alligna, come un alligatore, sulla pellicola del Novecento. E non v’è ombra in questo canzoniere, non v’è magrezza, c’è la scioltezza e l’agilità di un’età che ha perso essenza, peso, e così la passione è occasionale, gli incontri, imbarazzanti mistificazioni o divertite dissimulazioni. Non c’è più il volo di un Hermes in grado di gettare un ponte tra gli umani, e l’oggetto erotico è confinato nella sua bidimensionale incomunicabilità. I personaggi amanti sono trattati come figurine di seta o trapezisti mossi da una mano invisibile, i gesti stereotipati e stralunati sono il frutto del sogno di un burattinaio misterioso che forse ha dimenticato che la vita ha la stessa stoffa del sogno e i burattini, a loro volta, sono il sogno di un orco de-naturato e immaginario, e che l’orco è l’invenzione di un dio assente, un deus absconditus dell’evo della civiltà mediatica.

È come se una maledizione avesse tolto la gravità da sotto al tavolo del mondo, così che gli oggetti, i personaggi burattini galleggiano sul mare dell’inessenza, sbattuti di qua e di là, senza tempo e senza spazio, in una dimensione sottile come la pellicola di un film. E il burattinaio è un orco che ha dimenticato la propria inessenza. Le parole di questo post-ironico romanzo in versi dell’amore borghese sono della stessa pasta delle nostre parole. È questa la posta in palio del libro.

Paolo Ruffilli Piccola colazione Garzanti, Milano, 1987
Paolo Ruffilli Affari di cuore Einaudi, Torino, 2011

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

da Affari di cuore

Tutto il contrario

E mentre vai dicendo
che non è giusto,
che non c’è niente
da fare
per noi due
e ci dobbiamo
per forza separare,
lo so che stai mentendo
e sento
che non credi
neppure a una parola
e vuoi che ti risponda
che non è vero,
affogando la tua nella mia carne
cucita e abbottonata,
che non rimanga
nessuna parte di te
da me scollata:
a fondo e per intero
tutta completamente a me
inchiodata.

Occasione

E, via, confessa
che nell’amare me
ami te stessa.
Che non sia proprio
per vivere davvero
dentro di sé il resto,
sentirsi il palpito
dell’emozione
scivolare nella carne
e farne l’occasione
per ritrovarsi uniti
a quel che ci si oppone
in una eterna guerra
di posizione.

Le unghie e i denti

Sono tornato solo
per morderti e graffiarti
e per colpire
a schiaffi e pugni
la tua carne
e farti usare
infine su di me
le unghie e i denti.
Che siano ancora
più evidenti
le facce del dolore
nei segni e nelle tracce
di lividi e rossore
delle tue ire,
porte aperte
della spinta urgente
a resuscitare
da questo mio morire.

Di testa

Lo sai, mi piace.
Sarà il mio modo
tutto di testa.
Che tu tenga
le scarpe…
almeno una,
questa che ti porti
dietro;
sentirla addosso a me,
toccarla intanto
che mi calpesta.

A rate

Mi ti concedi a rate:
incontri, lettere,
telefonate…
E sempre controllato
è il modo
che hai tu di amministrare
gli imprevisti dell’amore
organizzato
per qualità e per date,
senza contare affatto
sul mio piacere
degli abusi.
Mi vedi istigazione
e rischio insieme
dentro le certezze
del tuo impero.
È vero,
sì, hai ragione
che prendo tutto
mentre intanto
non mi accontento
mai di niente
nel mio volere solo
l’assoluto.
È per questo
che mi stai perdendo…
anzi no, se
ancora non lo sai,
mi hai già perduto.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Passività

Mi chiami
quando hai voglia
per riempire il vuoto
di affetto e vanità.
Tanto lo sai
che sono pronto
a venirti incontro
perché per me
è importante
che ti ami io
e ti ringrazio comunque
per il modo
che hai di amarmi,
tu, in passività.
Prenditi pure
quello che ti pare:
certo che
lo puoi fare.
Ti vengo
tra le braccia
per trovarmi
e, guardandoti,
per guardarmi
in faccia
in tutta libertà
senza indulgenza, sì,
ma con pietà.
Infelice
della mia felicità.

Il tuo vantaggio

Di certe cose
non vuoi parlare
e preferisci
l’intermittenza virtuale
sul display
del mio telefonino.
«Ma ho paura –
mi dici nel messaggio –
di non essere capace
poi a frenare».
Lo dici da vorace,
è il tuo vantaggio.
La verità è che
non ti piace
rinunciare
né a me né agli altri
compreso tuo marito
e ci pretendi
in proprietà
del tuo destino,
se non addirittura
del tuo famelico appetito.
del resto,
proprio per questa
avidità di vita
mi hai rapito…
Ma sono stanco
per il mio amarti
di essere punito.

*

C’è un’ora in cui
tutto riposa
e, finalmente,
trova il suo posto inaspettato
ogni cosa
e l’alito del vento
facendosi discreto
invita il movimento
dentro l’incavo
della sua posa…
è come quando
il gatto steso
chiude il suo cerchio
con uno scatto…
Le voci assottigliate
tintinnano appena
come le posate
contro il piatto
è la promessa della vita
è quasi una certezza
distesa e preservata
dentro la fortezza.
Sfiorandomi,
la testa con la mano,
stavo sul piccolo
divano del giardino
leggendo
di Paolo e di Francesca
dispersi nell’aere dell’inferno.
E tu di già partita
fissandomi, discesa
e risalita di nuovo sulla bici,
piangendo mi chiedevi:
«Perché siamo infelici?»