Il n. Uno uscirà in marzo, in copertina il poeta Alfredo de Palchi
Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 9:59
Avevo scritto in un precedente Commento del 2014:
«Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«anti messaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili. Che cade ed accade come per una sua legge di gravità. Che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria».
Alberto Bevilacqua giunge a capire, acutamente, che oggi si può fare poesia soltanto se adoperiamo una «lingua estranea e provvisoria», una lingua che parliamo in un «corridoio di un anonimo ufficio», «in una stanza ammobiliata», in «una camera d’albergo» per incontri clandestini, una lingua di plastica, di stracci… Ecco, direi che Bevilacqua giunge fin qui… ma non può andare oltre… non può andare oltre la sua ontologia estetica…
*
Posto qui tre poesie di Raymond Carver, il padre del minimalismo americano con un commento di Valerio Pedini:
Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio. «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare.
Stamattina mi sono svegliato con la pioggia che batteva sui vetri. E ho capito
Tre poesie di Raymond Carver:
Compagnia
Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa
Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.
Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.
Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano. (Valerio Pedini)
G. Linguaglossa: Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io
Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 11:04
A proposito del minimalismo italiano,
dirò che c’è una bella differenza tra il minimalismo di Carver e il minimalismo italiano, anzi, c’è un abisso… Quello di Paolo Ruffilli è un minimalismo inimitabile, alla maniera di Carver ma con lo stile ruffilliano.
Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io. Credo di essere incompatibile con il minimalismo italiano, quel medesimo minimalismo che ha imperversato sul nostro paese per più di quaranta anni come una epidemia, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi e che ha impedito di fare le riforme di cui il paese aveva estremo bisogno. Il minimalismo è il pensare in piccolo, pensare e vivere nella convinzione che tanto le cose si metteranno a posto da sole; minimalismo è stato il colpevole silenzio della Chiesa che per quattro soldi dati dallo Stato italiano alle scuole cattoliche, ha preferito tacere in lungo e in largo sulla deriva antropologica, politica, filosofica e psicologica degli italiani; minimalismo è la doppiezza, l’ambiguità, l’ipocrisia, l’ironia facile e a buon mercato. Minimalismo è avere un concetto minimale dell’etica e dell’estetica oltre che della politica. Minimalismo è il «particulare» da cui prendeva le distanze il Guicciardini; minimalismo è farsi gli affari propri, è un sistema di pensiero antropologico. Noi in Italia non abbiamo minimalisti del calibro di Carver o della Szymborska, noi qui abbiamo e Magrelli e i magrellini, i Rondoni e i rondoniani…
il problema era già stato acutamente analizzato da Giacomo Leopardi nello Zibaldone e da Gramsci nei Quaderni quando rifletteva sulla necessità di una “riforma morale e intellettuale degli italiani”. Senza questo distinguo non si può comprendere come il mio personale atteggiamento non è solo di natura estetica ma è collegato a quel problema antropologico e storico che da prima dell’unità d’Italia era stato già intravisto da un pensatore come Machiavelli (intendo il problema di costruire un partito nazionale attorno ad un Principe). Insomma, ritengo che il problema dell’estetico non sempre si esaurisce entro il campo dell’estetica, a volte va visto entro il campo più generale che colloca il problema della delibazione estetica entro il campo più generale della Riforma politica, amministrativa, filosofica, estetica e anche religiosa del Paese. Per quanto riguarda il campo della riforma religiosa, lascio questo compito alla Chiesa e al suo capo, ma per gli altri ambiti ritengo che sia dovere anche dei poeti prendere una posizione chiara, univoca nei confronti di quello che va sotto il nome di “minimalismo italiano”, che è una forma mentale, una visione antropologica, una visione anche politica (intesa come coincidenza di interessi tra arte e status quo della società italiana). L’adesione o no al “minimalismo italiano” costituisce, nella mia visione (per fortuna non solo mia ma anche di un giovane come Valerio Pedini e di tutti i redattori dell’Ombra delle Parole), un discrimine, un confine irrinunciabile nella convinzione che l’atto estetico non è un atto neutrale e personale ma un atto eminentemente politico, un atto di educazione estetica per dirla con Schiller.
Gino Rago
27 gennaio 2018 alle 12:05
SEGNALAZIONE
Fresco di stampa, segnalo ai frequentatori de L’Ombra delle Parole questo libro di fondamentale importanza sulla poesia italiana contemporanea:
Giorgio Linguaglossa, Critica Della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), NOE, Edizioni Progetto Cultura, Roma, gennaio 2018, Pagine 512 € 21.00 –
“(…) Critica della ragione sufficiente è un titolo esplicito. Con il sottotitolo “verso una nuova ontologia estetica”. Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non avere fine.
I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare a una “ragione sufficiente” (…)
Un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo…”.
Anna Ventura
27 gennaio 2018 alle 12:41
Condivido la convinzione che un atto estetico sia anche politico; mi lascia perplessa il rovescio dell medaglia: un atto politico è anche estetico? Alla luce della realtà odierna sembrerebbe proprio di no. E nemmeno il passato ci aiuta: Pericle fu un grande esteta,ma il prezzo che pagò la Grecia fu troppo alto; l’atto estetico non aveva tenuto conto delle conseguenze concrete, e, come sempre, furono i più deboli a pagare.
Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 15:54
A proposito del minimalismo, ricevo alla mia email e pubblico questo contributo dello scrittore Piero Sanavio:
— il minimalismo, variante dell’intimismo, questo continuo rifugio di molta poesia contemporanea nazionale non escluso l’Ungaretti post Porto sepolto(figlio di Apollinaire) e Montale, questo D’Annunzio senza gli aggettivi. Non parliamo della cosiddetta poesia civile. Sicché, malgrado le sue ignoranze della cultura classica, e gli inevitabili errori, più interessante, con tutti i possibili distinguo, mi risulta il primo Quasimodo. Questo, e un’esperienza con la poesia neogreca e la lettura di Kavakis, mi spinge a valutare la riproposta della cultura classica che ritrovo in Giorgio Linguaglossa. Le tre poesie inedite:
“Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il console?»
”I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso”
“Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata” –
mi sembrano importanti non soltanto dal punto di vista formale (memorie della grande stagione poetica che da Marot, traduttore di Virgilio, scende a Browning), ma ideologico nel senso di recupero di una cultura che appartiene all’Occidente e alla quale gli stessi poeti del Nuovo Mondo (Lowell) non sono stati sordi. Ti accludo qste tre poesie, o potremmo chiamarle “dramatis personae”. Tu mi conosci, sai benissimo che non sono né nazionalista né cultore dell’antico ma di fronte alla corrente ignoranza e riduzione della scrittura a confessioni intimistiche e\o dichiarazioni di fede per un partito, quest’altra scelta mi sembra un doveroso correttivo.
Così, ogni mattino mi reco pienodi angoscia al Campidoglio
Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il Console?»
Adesso spero proprio di essere inessenziale,
invisibile, trascurabile come un piccione
che becca tra gli orti del Foro.
«Chi vivrà vedrà», mi dico tanto per consolarmi.
«In fin dei conti il Console può essere sconfitto dai barbari
o dalla guerra civile o da se stesso».
Ma ecco Silla, nel manto di porpora,
sulla biga addobbata,
di ritorno dalla guerra vittoriosa,
l’ennesima guerra tra le mura della Repubblica,
che fa ingresso con le sue legioni,
tra squilli di trombe
e rullio di tamburi sotto l’Arco di Trionfo.
«È il suo trionfo o il nostro?», chiedo al mio fidato amico Claudio
assiepati alla transenna del Foro della Repubblica.
Ogni mattino mi reco in allarme
ai piedi del Campidoglio, negli uffici
del Consolato e cerco il mio nome
tra quelli iscritti alle liste di proscrizione
sperando ch’io sia tra gli assenti.
«E se lo trovassi? – mi chiedo – che cosa farei
se trovassi il mio nome nelle liste di proscrizione?
Andrei subito dal Console per rendergli omaggio?
Lo supplicherei di essere risparmiato?
Rinnegherei la mia fede repubblicana?
O magari reclamerei la mia fedeltà in lui,
nel console vittorioso
che tante volte ha risolto con le armi
il contenzioso?
Mi prostrerei ai suoi piedi a invocare clemenza?».
Così, ogni mattino mi reco pieno
di angoscia al Campidoglio,
ma ormai spero davvero di trovare il mio nome
tra quelli iscritti nelle liste di proscrizione;
finalmente sarei libero, libero di fuggire
o di umiliarmi dinanzi alla toga del Console;
mi getterei ai suoi piedi scongiurandolo
di risparmiare me e la mia famiglia,
lo invocherei di liberarmi della mia angoscia,
di mozzarmi subito la testa o,
peggio ancora, di lasciarmi libero tra gli orti
del Foro, proprio come un piccione.
I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso
Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;
inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave
e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.
Nel Foro non prende mai una posizione
univoca, chiara, ciò che dice in
privato non lo ripete certo in pubblico.
È abile, sfuggente come una biscia, oleoso
come la resina del Ponto Eusino,
dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,
una ipocrisia, ma ciò che è più grave,
non riesco neanche a detestarlo.
Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,
un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,
non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli
il suo faccione impolverato di cerusso?
In fin di conti è un mio simile: un teatrante, un attore,
ha un mento, un naso aquilino, proprio come me.
«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».
Druso ha il volto foderato di cerone da teatro,
scivoloso di biacca, il mento leporino
e gli occhi cisposi per il vino in eccesso
bevuto la notte innanzi, ascolta
ciò che gli torna immediatamente utile,
quando non gli conviene fa il pesce in barile;
dei nostri discorsi sulla res publica
dice «che sì, che no, che forse, che insomma…».
Del resto, sto molto attento quando
nei conviti privati mi porge il cratere colmo di vino,
fingo di bere con un sorriso sordido…
mentre con la coda dell’occhio
sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.
Evito di guardare in volto il capo delle guardie
quando fa ingresso in casa di Mecenate
con il suo codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.
Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato
dei miei pensieri pubblici…
Io Cesare, davanti allo specchio, chiedo a Cesare
Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata
Come quando sei a teatro e vedi
sul fondale trascorrere delle ombre indecifrabili,
incomprensibili icone, però, che parlano
una loro lingua muta;
geroglifici, criptogrammi, tracce misteriose
degli dèi scomparsi, di infausti eventi;
e credi di riconoscere un profilo,
un volto, una immagine, un segmento,
una mano tesa in aiuto
(o pronta ad impugnare una spada…)
Io Cesare, davanti allo specchio, chiedo a Cesare:
«È il tuo quel volto?», «Sono per te quei segni?»
Il mio dèmone mi dice che «le Moire
sono più antiche del Fato, che la mia filosofia
è aggiogata ad un carro più antico».
Mi dice anche: «guardati dai tuoi generali, Cesare!»*.
«È tua l’immagine che vedi riflessa nello specchio!»
«Una mano compirà quel gesto. Ti colpirà alle spalle.
Una Moira l’ha deciso.
Che tu forse speravi avesse dimenticato.
Ma è lì il gesto, nel nodo che Lachesi ha intessuto nel filato
del tuo manto di porpora, che dimora
nel secchio senza fondo della tua anima».
Mi chiede ancora il dèmone: «È tua quella mano,
la mano che ha impugnato la spada?
La spada chiama altra spada, Giuliano,
l’odio chiama altro odio».
«Sì, chiedo al dèmone: quel volto che vedi riflesso nell’immagine
dello specchio corrisponde alla mia “anima”?».
«Sì, – ha risposto il dèmone –
quel volto corrisponde al tuo profilo,
alla linea sghemba del tuo mento leporino,
alle rughe che hai agli angoli degli occhi
almeno nelle sue linee, diciamo così, generali».
«Sì – ha replicato Cesare – ritengo di essere sempre io
il riflesso di quel volto che ho considerato,
troppo spesso, in modo incongruo, discontinuo,
a volte fraudolento,
scambiando l’effetto per la causa
o la causa per l’effetto.
Sì, sono proprio io quel volto,
il volto che gli dèi mi hanno dato,
il destino che le Moire mi hanno concesso».
*giunto nel 363 d.c. con il suo esercito a Ctesifonte, Giuliano, a soli 33 anni, fu assassinato da una congiura di alcuni ufficiali cristiani. Ecco il resoconto di Ammiano Marcellino sugli ultimi istanti di vita dell’imperatore:
“Giuliano, giacendo sotto la tenda, rivolse la parola ai circostanti depressi e tristi “é venuto il tempo, amici, di uscire dalla vita. Sono in procinto di pagare alla natura il debito che chiede, non afflitto e addolorato, ma ammaestrato dai pareri dei filosofi su quanto l’animo sia più beato del corpo, conscio che tutti i dolori, come infieriscono sui codardi, così cedono il passo a chi persiste. Non rimpiango alcuna delle mie azioni nè mi opprime il ricordo di un grave delitto, sia quando venivo relegato nell’ombra e nelle ristrettezze, sia dopo la mia ascesa al principato. Ho conservato l’animo esente da macchie, come penso, reggendo l’impero con moderazione. Considerando che il fine di un giusto impero fosse l’interesse e la salvezza dei sudditi, fui sempre alquanto propenso ad una situazione tranquilla. Ora me ne vado lietamente, e ho venerazione per il nume eterno, poiché prendo congedo non dopo una lunga e dolorosa malattia, ma nel mezzo della gloria fiorente”
(Inediti, da Tornare alla corte di Cesare? – 2010-2016)
Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
Rossana Levati
27 gennaio 2018 alle 17:52
Vorrei aggiungere al contributo proposto da Pietro Sanavio, e sulla scia delle sue considerazioni, queste due poesie che ho letto stamattina, pubblicate sull’Ombra nel 2014:
Zbigniew Herbert
Il ritorno del proconsole
Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo
(traduzione di Paolo Statuti)
Giorgio Linguaglossa
Il generale Germanico scrive al suo comandante di Coorte Giulio Decimo
…mio amato Giulio Decimo, tu dici
che «non son sicuro di voler tornare
ma tornerò alla corte di Cesare,
domani o anche dopodomani».
Cosa vuoi che ti dica?, un tempo
sei stato un valoroso soldato,
il tuo generale era fiero di te,
vessillifero della centuria, ti ho visto in
cento battaglie sempre davanti ai manipoli,
forse sei stato inviso agli dèi ctonii
se mille frecce non ti hanno colpito
e cento spade si sono spezzate sul tuo scudo…
Tu mi dici che adesso pianti gli alberi
di ulivo sui declivi dei colli di Miromagnum
e insegni ai bambini le poesie di Ennio
e dei neoteroi di Roma, e che sei
contento così, che il tuo animo
ha trovato la quiete che cercavi…
Lascia che io ti dica come tutto ciò è fallace amico mio
Cesare si pasce della nostra quiete,
lui è munifico e beffardo, sordido
e astuto, distribuisce frumento
alla plebe, sesterzi ai fedeli pretoriani
e spettacoli con i tori, i leoni e con curiosi
cavalli dal lungo collo che vengono dall’Africa,
le arene sono rosse per il sangue
dei gladiatori, i prezzi della Suburra
sono alla portata di tutte le tasche
e il regime è democratico, temperato;
ci danno ad intendere che il Principato
sia lo sbocco naturale del peripato…
Cinquanta inverni ci pesano sul volto
attraversato da spighe di grano maturo.
Ti chiedo: per quanto tempo ancora dovremo
tollerare questo Cesare di argilla?
Per quanto tempo ancora dovremo fingere
assenso alle sue magagne e inneggiarlo
con iperboli sottili e lambiccate?
Per quanto tempo, Giulio Decimo?
Già, dicono le folle che Cesare è magnanimo,
che alla corte di Cesare c’è posto,
che c’è sempre un posto al sole
per chi accetta di stare all’ombra.
«Appunto – dico io – per chi accetta di stare all’ombra».
Commento di Rossana Levati
La giudico una interessante forma di poesia che riprende le radici della cultura occidentale, come afferma Sanavio, e che racchiude anche molti elementi di una poesia civile:
Una “corte di Cesare” (quale corte? Quella antica o quella odierna?) che incombe sullo sfondo, con le sue attrattive e la sua pericolosità (come non ripensare a Orazio, quando si giustifica con Mecenate, nella Epistola VII, perché, dopo aver chiesto quattro o cinque giorni di riposo lontano da Roma, non solo non vi è tornato per tutta l’estate e l’inverno, ma si rifiuta di farlo fino ai venti della prossima primavera..); vi si descrive il regime di un imperatore “munifico e beffardo” che si pretende e si presenta “democratico, temperato”; un “Cesare d’argilla” che vuole essere ammirato, che richiede inni ed elogi con “iperboli sottili” e che è pronto a cedere un posto al sole purchè si resti all’ombra, alla sua ombra…
Ho trovato questo testo grandioso, perché gli echi di Orazio ma anche di Tacito (il ritorno di Agricola alla corte di Domiziano) vi si assommano, perché getta una luce obliqua sul presente e sui rapporti tra politica e cultura, tra luoghi in luce e luoghi in ombra nella stessa cultura, strettamente connessa con la macchina del potere “imperiale”; e perché vi ho ritrovato, come nel “Monologo di Giuliano l’Apostata” segnalato da Sanavio, una dolente riflessione sul potere e sulla sua fragilità e cecità, come ci indica Kavafis nelle sue poesie dedicate a Cesare, Antonio, Nerone, tutti travolti da una storia che non hanno saputo né comprendere né controllare.
Caro Tallia, tu dici: stiamo bene qui, all’ombra del sicomoro
Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 18:27
Una lettera di Germanico al suo compagno d’arme Tallia
Caro Tallia, tu dici: stiamo bene qui, all’ombra del sicomoro
tra cespi di forsizie e ciuffi di araucarie, simulando deferenza
per le ipotiposi del Cesare di argilla, in fin dei conti
l’eternità è una figura del presente… a furia di rotolare nella sua corte
di mezzani e di faccendieri il Cesare andrà a sbattere contro
quella cosa che i posteri chiamano, con un eufemismo, la storia…
Mi auguro, Tallia, che tu abbia ragione, ma se ragione non hai,
almeno vivrai incolume gustando il vino mieloso della tua cantina
e i fichi secchi della cirenaica.
Tre Poesie di Giuseppe Talia
27 gennaio 2018 alle 23:58
Caro Germanico, bene non sto. Il sicomoro non produce frutti.
L’infiorescenza carnosa degli acheni si è seccata.
I mezzadri non pagano più l’affitto ed anche il podere
da quando i galli hanno smesso di mietere, non produce che erbacce.
Me ne sto all’ombra del pitosforo nano, l’ unica pianta a resistere
In questi mesi di siccità, con indosso il finissimo cashemere
della Mongolia, ingualcibile e antibatterico, hot couture.
Paolo Ruffilli
Mi ama. Non ho dubbi. Me lo ripeto come un mantra.
Ogni suo whatsapp me lo ricorda: – Che fai? Sei solo?
E solo sto. Mi tiene sotto scacco. – Domani non posso.
No, domani no. E quando sarà, che pioggia d’oro!
Che baci possenti! Poche parole, sì ma veraci. Mi ama,
non ho dubbi. Torna da viaggi con i capezzoli doloranti.
Nacht und Nebel
Amavo Vincent.
Una mattina la Gestapo bussò alla mia porta.
Stavo preparando la colazione.
Vincent era ancora nel tepore
Del letto. Drinner oder draussen!
La porta si chiuse alle mie spalle.
Un treno e la neve che non finiva mai.
Vincent e il tepore del letto.
Un ricordo lontano, lontano.
Mi cucirono sul petto un triangolo rosa.
La pelle attaccata all’osso.
Fame e stenti nei capannoni dissenterici.
Quanti siamo? Quanti saremo?
Il Wissenschaftlich-humanitäres Komitee?
Lontano, lontano.
Ogni tanto scambio qualche parola con Adna.
Mi mostra il suo triangolo nero.
Mi racconta delle serate
Al Dorian Gray, al Flauto Magico.
Io chiudo gli occhi. Vincent, Vincent. Dove sei?
E una sera Vincent mi venne in sogno:
Otgeschlagen – Totgeschwiegen
Risposta in poesia di Giorgio Linguaglossa
28 gennaio 2018 alle 10:09
I poeti di corte
caro Tallia, i poeti di corte, tu lo sai,
sono timidi e infidi, incidono, gli inetti, sulle tavolette di cera
i loro versicoli ossequiosi al Cesare di turno,
lo vezzeggiano, lo inneggiano, lo adulano e,
nel mentre che cicalano alle sue spalle,
indorano le loro parole, le incartano con del papiro egizio
per farle apparire preziose…
ciarlano di pitosfori e di limoni, brigano con il Palazzo
per ottenerne favori al Corriere della sera e alla Stampa,
vergano sulla terza pagina le loro insulse noticine letterarie
mentre irridono i Malvolio e i Benvolio, che non sai mai
con chi se la prendano veramente, gli inetti…
i sordidi non nominano mai i loro interlocutori
dicono soltanto che sono dei mestatori e che non sanno
quello che scrivono…
gli inetti, caro Tallia, sono una malfida congrega di malvissuti
che inneggiano a Venere e a Giove, Marte non li turba e,
se del caso, ammiccano anche a quel galileo
che oggi va tanto di moda qui nell’Urbe.
Giorgio Linguaglossa
28 gennaio 2018 alle 12:53
Posto qui due poesie di Anna Ventura. Due poesie due ritratti. La prima narra di Cesare tra «i boschi nordici, d’inverno» ripreso da una cinepresa nascosta durante una campagna militare nel nord dell’Europa (non sappiamo quale, ma non è importante), lui «che sarà il padrone del mondo», mentre invece gli avvenimenti decisivi che riguarderanno la sua persona viene decisa a migliaia di chilometri di distanza, nell’Urbe… Nella seconda poesia la cinepresa nascosta ci informa del momento dell’ultima decisione del poeta scrittore Petronio arbiter, quando decide di auto togliersi di mezzo, con una cena tra gli amici, declamando poesie e cibandosi di leccornie tra battute di spirito e celie. L’argomento centrale di queste poesie è sempre quello, il problema del rapporto tra il poeta e il Potere. Possono passare secoli o millenni ma il problema è sempre quello che ha fatto scrivere a Platone di voler esiliare i poeti dalla città.
Due poesie di Anna Ventura
Tu quoque
Cesare nei boschi nordici, d’inverno.
Dorme poco, mangia niente;
se non combatte, scrive. La parola
si affila come un’arma. Come un’arma
è infallibile. Cesare sa
che sarà il padrone del mondo,
ma ora è solo,
nel bosco innevato. Le guardie
dormono, il fuoco
si va spegnendo in piccole lingue
rosse e gialle. Cesare
non ha rimorsi,
non ha rimpianti,
non ha paura. Ma a Roma,
nelle quiete stanze
di una casa patrizia,
lì dove si aggrumano
tutti i rimorsi,
tutti i rimpianti,
tutte le paure,
lì dove il condottiero
nessun pensiero indirizza,
lì un pugnale si affila.
Petronio Arbiter
L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”.
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.
Una poesia di Gino Rago
28 gennaio 2018 alle 15:55
Il filosofo Erèsia
Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,
risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,
il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua:
non mi aspetto l’eternità e so che nessun verso oltrepasserà la morte.
I poeti lo sanno da sempre: le poesie sono mortali».