Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

 

Giorgio Linguaglossa
Gino Rago: La poesia è un Enigma?

 

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

 

Chiosa Linguaglossa:

 

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

 

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».[1]

 

Gino RagoDa queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 

Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».[2]

 

Giorgio Linguaglossa

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

 

Gino RagoCosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

 

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

 

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

 

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

 

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi?

 

Risposta: Provo qui a chiarire quello che voglio dire con la dizione «metafora silenziosa». Noi tutti stiamo dentro un orizzonte degli enti e un orizzonte degli eventi. Anche il Linguaggio ci sta dentro. Anzi, il linguaggio è quell’evento che si presenta come ente, ed è per mezzo di questo ente che noi possiamo cogliere tutti gli altri enti. Infatti diciamo che il linguaggio fonda gli enti, appunto, in questo senso.
Ma io dicevo qualcosa di diverso: che c’è un «prima» del Linguaggio (questo è un pensiero incontrovertibile), ed è a questo «prima» che noi dobbiamo fare riferimento quando parliamo del «Linguaggio». Ebbene, di questo «prima» nulla sappiamo e nulla potremo mai sapere, ma che ci sia, è un fatto incontrovertibile. Il linguaggio è già una «istanza di mediazione», noi esperiamo il «mondo» attraverso questa mediazione, possiamo dire che siamo prigionieri di questo recinto che è la nostra mediazione linguistica di cui i nostri organi percettivi ne sono una emanazione biologica e storico-sociale.

 

Per dirla con Lacan e Heidegger, il Linguaggio è il vino che sta dentro la «brocca» di Heidegger, e, come ha bene spiegato il filosofo tedesco: «Il vuoto, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene. […] Il vuoto della brocca determina ogni movimento della produzione. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui essa consiste, ma nel vuoto che contiene».
È dunque il «vuoto» della brocca che dà forma al vino. È il «vuoto» che dà forma al «Linguaggio».

Ora io dico un pensiero forse ardito ma al quale tengo molto: È la grande poesia che consente l’attraversamento, per lampi, del Linguaggio e fa intravedere quel «vuoto» che sta al di là del Linguaggio. È quello che accade in alcune pochissime poesie quasi sovrumane di pochissimi poeti (Hölderlin, Leopardi, Eliot, Mandel’štam …), che s-fondano il Linguaggio e ci fanno intravedere quel qualcosa di cui noi non potremmo mai fare esperienza… Questa cosa misteriosa io ho denominata «metafora silenziosa», ma non perché sia una semplice metafora fatta di verba, ma perché attraverso i verba ci fa intravvedere quel qualcosa che sta «prima» del Linguaggio(…).

 

1] J. Derrida La scrittura e la differenza trad. it. Einaudi, 2002 p. 177
2] P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli,
Milano, 1972, p.165

 

Giorgio Linguaglossa

È dunque il «vuoto» della brocca che dà forma al vino. È il «vuoto» che dà forma al «Linguaggio»

 

Domanda di Pasquale Balestriere:

 

Caro Giorgio,

 

trovo molto più condivisibile quest’ultimo tuo intervento. Nulla ho da eccepire sul contenuto dei primi tre paragrafi. Tuttavia qualcosa non funziona in questa conclusione: “È dunque il «vuoto» della brocca che dà forma al vino. È il «vuoto» che dà forma al «Linguaggio»”. Credo che qui occorra distinguere tra un vuoto assoluto e un vuoto relativo. E qui dico che Il vuoto relativo della brocca che dà forma al vino è determinato dall’artifex dal vasaio il quale in tal modo stabilisce la “forma” del vino; proprio come, per analogia, è un artifex (poeta o artista in genere), e non il vuoto che dà forma al linguaggio (e conta poco che il vuoto lo preceda, se non per provocarlo). Sono abbastanza d’accordo anche sui contenuti dell’ultimo paragrafo. Solo che quello che tu chiami «vuoto» io chiamo «essenza delle cose» e all’espressione «metafora silenziosa» io toglierei l’aggettivo. Il nome è più che sufficiente.

 

 Risposta di Giorgio Linguaglossa

 

caro Pasquale Balestriere,

 

non è tanto nel numero di metafore che tu acutamente hai individuato ne «L’infinito» (solo due), né nelle metafore tradizionali quello che io tento di esprimere, vorrei dire un’altra cosa, una cosa che non può essere detta con nessun’altra metafora tradizionale, una metafora non fatta di «verba» o, almeno, non solo di «verba» ma che comprende tutte le parole di una poesia facendone una «metafora complessa», una sorta di «prisma», di «Aleph» dal quale si riverbera una luce intensissima. Quella luce è appunto la luce che promana da alcune poesie come «L’infinito» di Leopardi. È la metafora che ci conduce molto vicino al «vuoto» dell’universo e che sta appena «dietro» e «sotto» l’universo e dal quale esso universo un giorno di circa 14 miliardi di anni fa sortì da un punto infinitesimalmente piccolo.

 

Risposta di Giorgio Linguaglossa

 

caro Lucio Mayoor Tosi,

 

la poesia è una astronave con un motore fatto di anti materia che ci può portare a distanze di miliardi di anni luce in un battibaleno. Ma per percepire la presenza di questa astronave di parole occorre una sensibilità e una intelligenza che la signora Valduga non possiede.

 

Nella grande poesia, la cosalità della «Cosa», delle cose, viene liberata dalle cose stesse… le «cose» si liberano del loro vestito fenomenico di «oggetti» e ci indicano quella «Cosa» misteriosa che sta «dietro» e «prima» di tutte le «cose» che è il «vuoto». Dunque, è la cosalità delle cose che ci indica il Vuoto.

 

Come scrive Fabio Milazzo: «il gesto che istituisce l’orizzonte non fa parte dell’orizzonte stesso, così come l’occhio non può essere visto ma resta sempre inconscio, sottratto alla presa conoscitiva del soggetto conoscente [10]: è “condizione prima” che ritraendosi permette l’emergere di ciò che esiste nello spazio creato. La condizione risulta indescrivibile dal condizionato, questa la regola logica fondamentale che rende il vuoto della Cosa “impossibile”, cioè irrappresentabile. Il vaso è al contempo una cosa (Sache) e la Cosa (das Ding), oggetto tra gli altri e “significante primo” che permette di pensare la possibilità stessa del vuoto.»2

 

Analogamente, la Forma della poesia è la condizione prima affinché possa emergere quella «Cosa» che è inconoscibile, perché non appena emerge alla rappresentazione linguistica, subito scompare ritraendosi…

 

1] Piero Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio Rizzoli, 1972 p. 165
2] Fabio Milazzo cit. in https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/10/22/

 

 

Giorgio Linguaglossa
Lei s’incamminò tutta sola in quella domanda oscura

 

Una poesia di Carlo Livia

 

Il terrore negli specchi

per Antonio Sagredo

Nel teatro dei risorti s’incontrano la morte e il suo assassino
e un Dio si ammala
A vedere quel silenzio d’uragano il cielo esce dalla prigione
Gli incesti sottili dilagano e l’inferno scende a patti con l’addio
Non resta niente in quella gabbia
dove sognano un ragno che divora la notte dei peccati
I desidèri delle fanciulle azzurre uccisero il confine
ma non poterono ridarmi la vita
Lei s’incamminò tutta sola in quella domanda oscura
in cui ero già scomparso

 

*

Fritz Hertz -Francesca Dono

 

caro tesoro – una poesia di Fritz Hertz

 

Caro tesoro, sono uscito presto. A voce bassa. Velocemente come un ladro.
In cucina lascio due mele . Sulla sedia inclinata il tailleur di lana verde . La sveglia ha suonato mezzo secolo. Nel frattempo mi sono rasato e spogliato sotto il neon per ben tre volte. Avevo la saponetta di sempre.
Il solito rumore della scala.
Caro tesoro , c’è modo di svegliare questo sonno?
Le foche battono la fiacca. Tutti chiedono il tuo mondo. Non avrai (per caso) scordato il nostro amore? Agamennone è qui. Sul selciato del vicino di casa. Dal rovescio della notte in pieno giorno. Tu lo capisci _ vero?

 

Giorgio Linguaglossa
È attorno al Ding come Fremde, estraneo, e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo
esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto

 

 

da Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan – Nóema, 4-1 (2013) http://riviste.unimi.it/index.php/noema 167

 

…nel Seminario VII L’etica della psicoanalisi (1959-60). La problematica che abbiamo richiamato emerge chiaramente con quello che è il concetto centrale di questo seminario, ovvero das Ding, la Cosa. Lacan ricava questo termine da Freud, che con esso indicava l’oggetto di un primo mitico godimento, di un soddisfacimento pieno e impossibile; oggetto quindi che è essenzialmente perduto, ma la cui perdita lascia una traccia nell’apparato psichico del soggetto.

 

Lacan valorizza il termine caricandolo di una serie di connotazioni e gli conferisce così un ruolo strategico. Lo si può osservare già richiamando alcune delle numerose espressioni utilizzate da Lacan per caratterizzare la Cosa e che permettono di cominciare a delinearne la funzione e lo statuto: «È attorno al Ding come Fremde, estraneo, e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto» [40]; «Altro assoluto del soggetto» [41]; «Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato» [42]; «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung» [43]; «Das Ding, infatti, è proprio al centro nel senso che è escluso. […] Questo Altro preistorico impossibile da dimenticare […] che mi è estraneo pur essendo al centro di me» [44]; «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» [45]; «fondamentalmente velata» [46]; «quel luogo centrale, quell’esteriorità intima, quell’estimità che è la Cosa» [47].

 

Das Ding sta dunque a indicare qualcosa di essenzialmente estraneo (in quanto straniero e straniante, non in quanto indifferente) per l’esperienza dell’io: è il primo esterno, l’altro assoluto del soggetto, che rimanda a un tempo letteralmente «preistorico», anteriore a tutta la storia del soggetto, in quanto passato primordiale che non è mai stato presente. Questo «altro» è quindi irriducibile anche alla dinamica del principio di piacere, alle leggi dell’inconscio strutturato come linguaggio, così come all’ambito del significato, all’esperienza come totalità di significati per un soggetto: la Cosa è «fuori significato». Che la [40] J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 61.

 

Giorgio Linguaglossa
gunnar-smoliansky-1976 – «che cos’è una cosa?», «in che cosa consiste la cosalità delle cose?»

 

Cosa sia un’estraneità radicale non significa tuttavia che essa non riguardi il soggetto o meglio che il soggetto non sia riguardato da essa: proprio nella sua estraneità la Cosa condiziona in modo decisivo il soggetto, diventando il centro di gravità attorno a cui ruota tutta la sua attività inconscia, rappresentativa e linguistica; un centro che tuttavia non è esso stesso rappresentabile, non si dà come tale, rimane velato. Da qui le espressioni ossimoriche e paradossali che Lacan è condotto a utilizzare, come «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» ed «estimità»: la Cosa è simultaneamente esteriorità e intimità, è un’esteriorità e un’alterità intima al soggetto, e questo significa che quel che è più intimo al soggetto si rivela essere un’estraneità radicale ad esso. La Cosa non è «centro» in quanto fondamento, perché questo centro è essenzialmente un vuoto: l’esperienza del soggetto si struttura e si muove attorno a un vuoto, che, alle spalle di esso, ne calamita e mette in movimento l’attività rappresentativa e quindi il desiderio.

 

Questo rimando al vuoto ci conduce al secondo riferimento essenziale che Lacan richiama nella sua analisi della Cosa, vale a dire la famosa conferenza di Heidegger intitolata precisamente Das Ding, La cosa, tenuta nel 1950 [48].

 

Heidegger pone qui la questione semplice e insieme decisiva «che cos’è una cosa?», «in che cosa consiste la cosalità delle cose?», cercando di pensare il darsi della cosa al di qua delle categorie scientifiche, ontologiche e metafisiche tradizionali: la cosa come oggetto rappresentato per un soggetto, come sostanza, come risultato di una produzione, come materia fisica quantificabile. Heidegger sviluppa la sua analisi con l’esempio della brocca e si chiede che cosa faccia della brocca una brocca, cioè innanzitutto un recipiente che contiene e in cui possiamo versare qualcosa. La parete e il fondo della brocca sono ciò che impediscono al liquido di uscire, ma non sono ciò che propriamente realizza l’atto del contenere:

Quando noi riempiamo la brocca, nel riempimento il liquido fluisce nella brocca vuota. È il vuoto ciò che, nel recipiente, contiene. Il vuoto, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene [49].

 

È il vuoto che propriamente riceve il liquido e che fa della brocca un recipiente. Il vuoto, «questo nulla nella brocca», struttura la brocca come tale: la brocca, in un certo senso, è il proprio vuoto. Il vasaio che crea la brocca, allora, propriamente non fabbrica la brocca, né si limita a dare forma all’argilla: egli dà forma al vuoto. Per esso, in esso e da esso egli foggia l’argilla in una forma. Il vasaio coglie [fasst] anzitutto e costantemente l’inafferrabile [das Unfassliche] del vuoto e lo produce come il contenente [das Fassende] nella forma del recipiente [Gefäss]. Il vuoto della brocca determina ogni movimento della produzione. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui esso consiste, ma nel vuoto, che contiene [50].

 

Indicando il vuoto come ciò che rende la brocca quel che è, Heidegger non si limita a operare uno scarto rispetto a una comprensione scientifica o comune della cosa. Il vuoto è un «nulla nella brocca» e questo significa che quel che fa essere una cosa non è a sua volta una cosa, non è dell’ordine dell’ente, ma è l’altro dall’ente e da ogni determinazione oggettiva: il nulla, di cui il vuoto è qui una figura.

 

41 Ivi, p. 62.
42 Ivi, p. 64, corsivo nostro.
43 Ivi, p. 67.
44 Ivi, p. 84.
45 Ivi, p. 119.
46 Ivi, p. 141.
47 Ivi, p. 165.
48 M. Heidegger, Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, HGA 7, 2000; tr. it. di G. Vattimo, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124. Sul rapporto Lacan-Heidegger a proposito di questa tematica cfr. M. Recalcati, La Cosa e la verità. Attraversare Heidegger, cit.
49 Ivi, p. 112.
50 Ivi, p. 113