«La domanda “che cos’è l’ente in quanto tale nel suo insieme?”, rimane la
domanda-guida della metafisica»
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Nel suo monumentale lavoro su Nietzsche (1961) Heidegger scrive:
«La domanda “che cos’è l’ente in quanto tale nel suo insieme?”, rimane la domanda-guida della metafisica».
Che significa questa frase apparentemente innocua? La poesia ha mai pensato che cosa significa e quali implicazioni ha questa domanda?
Con l’intervenuto «oscuramento» del pensiero metafisico che ha avuto luogo in Europa dalla seconda guerra mondiale, questa domanda è uscita fuori del discorso del pensiero filosofico e solo recentissimamente è tornata a circolare nei pensieri dei filosofi italiani ed europei molto probabilmente a seguito degli eventi che hanno visto e vedono l’Europa di nuovo protagonista. Quella «retorizzazione del soggetto» che è andata di moda nella poesia italiana ed europea a partire già dalla fine degli anni sessanta con l’annesso primato dell’io e della poesia psicologica, che psicologizzava ogni accadimento, anche il corpo visto come magazzino psicologico etc., anche quella poesia (che ha i suoi culmini nella poesia di un Mark Strand e del Montale di Satura, 1971, qui da noi), oggi è entrata nel cono d’ombra della cultura mass-mediatizzata, il si impersonale nell’ambito del quale si pone anche la domanda di poesia che produce altra poesia normalizzata dal si impersonale; oggi assistiamo ad una poesia di profilo basso, culturalmente non significativa che adotta in modo infantile la «retorizzazione del soggetto». Oggi la poesia che vuole essere significativa non può evitare di fare tre passi indietro rispetto a questa di moda invalsa in questi ultimi decenni, e ripartire da lì dove tutto ha avuto inizio: dalla fine degli anni Sessanta, e tentare di riconfezionare una forma-poesia che finalmente si liberi della deleteria psicologizzazione del testo, che ritorni ad occuparsi delle questioni «metafisiche». Prendiamo un esempio, che cosa vuole dire Paolo Valesio con questa poesia?
Vedi?/ Qui c’era una bella prigione…
Paolo Valesio
da La rosa verde, 1987, in Il servo Rosso / The red servant Poesie scelte 1979-2002, (2016)
Vedi?
Qui c’era una bella prigione…
La gabbia era dorata era sospesa
e sotto: Terra terra terra, vola!
Una prigione dorata? Magari …
(« la dorata prigione del vizio»*,
disse un papa al bambino nell’udienza;
e quel sottile, quell’eretto e bianco
offriva — non già la salvezza
ma la speranza di una nobiltà
a lui plebeo confuso che guardava).
Ma qui non c’è l’oro matto del vizio;
nemmeno l’oro puro della gioia.
È solo la indoratura
della umana ragione.
Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.
(Piazza del Duomo, Milano)
Il «frammento» sancisce l’ingresso della morte nell’opera d’arte, è la dimora dell’Estraneo. La patria ideale dell’Estraneo è il frammento, questo luogo sepolcrale. La composizione di Paolo Valesio, rende bene l’idea che la poesia è un ente prospettico, un ente che consente di scrutare a fondo ciò che c’è in quello che solitamente chiamiamo realtà e che noi identifichiamo con la dizione: contenuto di verità, intendendo con questa espressione un contenuto veritativo che appartiene alla nostra psiche, e che è una proiezione della nostra humanitas. Che cosa vuole significare la metafora della «bella prigione»?, e della «gabbia dorata»?, e perché il «papa» rivolge la domanda a un «bambino» in «udienza»?- Dopo la chiusura dell’inciso messo tra le parentesi tonde si dice qualcosa di decisivo, si dice: «È solo la indoratura / della umana ragione». Dunque, la ragione umana è solo una «indoratura» che non può adire al «vero» del messaggio che il «papa» vuole comunicare. Ma il «papa» comunica il messaggio a un «bambino» in quanto nella sua innocenza egli è libero dalla inautenticità degli uomini; gli adulti sono banditi dal messaggio, vengono esclusi perché attinti dall’inautenticità sono ormai incapaci di accedere alla verità del messaggio. Però, però, gli ultimi tre versi lasciano adito ad una speranza, perché
Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.
«Adesso», dopo le parole del «papa», che però nella poesia non sono riportate, «adesso» che la «scimmia del pensiero è ormai fuggita», forse soltanto «adesso» il parlare diventa valore, la parola può essere proferita. E questo che cos’è se non la tematica onniavvolgente del nichilismo della nostra epoca vista dall’angolo visuale di un poeta che crede? Che soltanto «le ideologie laiche assolutizzate del fascismo e del nazismo», come afferma qualcuno, rientrino nella legalità del nichilismo, è un pensare riduttivo e fuorviante; in realtà tutte le manifestazioni spirituali e politiche di questi ultimi due secoli rientrano di diritto nel nichilismo come «quadrante» della storia spirituale occidentale degli ultimi due secoli (e io direi anche della storia non occidentale). Infatti, Heidegger scrive:
«Il nichilismo è storia. Nel senso di Nietzsche esso contribuisce a costituire l’essenza della storia occidentale, poiché contribuisce a determinare la legalità delle posizioni metafisiche di fondo e del loro rapporto. Ma le posizioni metafisiche di fondo sono il terreno e l’ambito di quella che noi conosciamo come storia mondiale, specialmente come storia occidentale. Il nichilismo determina la storicità di questa storia».1
Credo sia inutile e pleonastico e filosoficamente inessenziale fare il processo al nichilismo, come se noi ne stessimo fuori, fossimo giudici imparziali che emettono una sentenza. Purtroppo, le cose non sono così semplici, non c’è il male da una parte e il bene dall’altra, non è possibile dividerli con un colpo di forbice filosofica o, peggio, politica, o, peggio ancora, religiosa. Che il nichilismo investa in qualche modo anche la letteratura e la poesia, in ciò non ci vedo un pensiero così astruso…
Scrive Nietzsche, c’è «Il nichilismo incompleto, sue forme: noi viviamo in mezzo. I tentativi di sfuggire al nichilismo senza trasvalutare quei valori: producono il contrario, acutizzano il problema» (n. 28 [VIII, II, 125]), uno stato di «sospensione» (come lo chiama Heidegger «nel quale i valori finora validi sono stati deposti e i nuovi non ancora posti»).2
* [Mi scrive Paolo Valesio: «Quel papa era un papa vero (Pio XII, credo), e la poesia ne cita testualmente alcune parole (“la dorata prigione del vizio”), pronunciate di fronte a un bambino, insieme con una massa di altri bambini, in una vera udienza»].
Si nasce perché l’anima
Daniela Marcheschi
(da Daniela Marcheschi, Si nasce perché l’anima, ZonaFranca, Lucca, 2009)
Si nasce perché l’anima
a Paolo Febbraro
Si nasce perché l’anima
vasta, ma eterea,
ad un certo punto
ha bisogno del corpo.
Il soffrire e il gioire puro
mancano del filtro della carne,
del saporoso
vivere animale –
dell’unico appetitoso
di spirito e materia.
Camminatrice è l’anima
e, come se zoppicasse,
con un gran fracasso
per un tacco rotto,
vuole una zeppa, un aggiunto
che le pareggi il passo.
L’espiazione non conta,
lo cambio l’assunto.
Si nasce perché l’anima
calda non è magra né grassa;
la Forma viene dalla materia
– è la sostanziosa impronta –
ne riceve il peso
ne trae la carcassa.
Senza misure certe,
è una femmina l’anima
ma troppo sensuale
e aspira ad occupare
e ad essere occupata.
D’amore sempre in voglia
lo fa, e senza pensare,
infine, resta impaniata.
Facile allora
che la delusione sia una soglia
larga e fatale:
così lascia il corpo
l’anima frustrata
prima o poi, per ritornare aerea,
quella traditora,
e per tornare incarnata ancora.
C’è chi più la sopporta
e per trattenerla ingrassa,
ma quale corporea vastità
potrà mai farle da sporta? Si nasce perché l’anima
forse non esiste,
perché il corpo forse non resiste
a pensarsi da solo:
si tratta d’un corpo-donna ancora
che figlia i propri inganni
che si danna perché non tollera
che il sé coincida con gli anni.
Umberto Galimberti: «L’accelerazione del tempo è in sostanza la destrutturazione
dell’anima». https://youtu.be/OMGrDBECV8I
Oggi è d’uso comune pensare quello che già Heidegger aveva dichiarato, che la metafisica trapassa in antropologia e quindi è lecito «sostituire la metafisica con l'”antropologia”».1 In questo contesto di pensiero filosofico, le parole «forti» di un tempo non poi troppo lontano come «anima», sono diventate «deboli», e il pensiero che le pensa collega questa parola ad un’altra parola chiave: il «corpo», parola tipicamente moderna, significativa del disagio odierno per questa «cosa» che sembra essersi staccata dall’«io» e sembra vivere una propria esistenza separata, alienata e ingombrante. Anche la parola «anima» è diventata ingombrante, ecco perché un poeta come Daniela Marcheschi ne fa addirittura un poemetto il cui titolo è «Si nasce perché l’anima»… lasciando degli immaginari puntini di sospensione dopo la frase assertoria, quasi a designare una presa d’atto dell’indebolimento progressivo cui questa parola è stata sottoposta nel mondo odierno e nel linguaggio di tutti i giorni. Un poeta non può non usare le parole che trova, non può cambiarle a suo piacimento, ma deve limitarsi ad usarle come tasselli o tessere di un mosaico più ampio. L’uomo non è più misura di tutte le cose, il vecchio detto di Protagora è stato svuotato di contenuto veritativo, sono le cose a non essere più a misura dell’uomo e dell’ente nel suo complesso…
È tutto a posto? / – Sì./ – Bene, allora la commedia può iniziare.
Giorgio Linguaglossa
[Backstage tra Amleto, il Signor K, e un terzo personaggio]
– Amleto, dov’è Polonio?
– A cena.
– A cena? dove?
– Non là, dove egli mangia, ma là, dove mangiano lui.4
– E tu che fai? [rivolto ad un terzo personaggio]
– Sto qui con la servitù.
– Prepari i cibi?
– Preparo le vivande.
– Prepari le stoviglie?
– Asciugo le forchette, lavo i bicchieri, affilo i coltelli.
– È tutto a posto?
– Sì.
– Bene, allora la commedia può iniziare.
Letizia Leone
da La disgrazia elementare (2011)
Altre pietre oracolari e reperti.
Babele, gran copia, turba magna. Un classificatore ha chiuso tutto in una stanza. Sconforto e carta: torri compatte pronte a schiantarsi sul pavimento.
Fogli non numerati
Volanti
Fitti di una grafia minuta che liofilizza l’epopea schizoide degli oggetti. Dentro quei fogli l’acustica della mondanità. Stoviglie, piatti rotti, screzi, l’intralciare di passi che frettolosi corrono a prendere, ad aprire, ad usare.
Conclamare la descrizione dell’oggetto. Un lavoro duro di anni davanti alla paralisi espositiva dei prodotti.
Spiare in pace l’intero strumentario delle civiltà: laboratori, officine, ambulatori, i depositi più bassi degli ospedali, mattatoi, macellerie, medicherie, armadi pieni di fiale colme di gocce da contare con cannule di gomma, sieri, oli senza fragranza, lavorio leggero di aghi.
Il classificatore si insinua, prende appunti, scende nei locali cantinati, stanze bianche sprofondate negli strati inferiori di ogni abbandono…
[la collana di poesia “Il dado e la clessidra” «l’epopea schizoide degli
oggetti» (Letizia Leone)]
Il processo di de-psicologizzazione e ri-metaforizzazione nella poesia odierna
Nella riflessione del Wittgenstein maturo, dalle Ricerche filosofiche in poi, è all’opera un tentativo di de-psicologizzazione del linguaggio, vale a dire un’indagine grammaticale relativa al modo in cui parliamo delle nostre esperienze «interne». Centrale, in quest’ultimo tratto del percorso wittgensteiniano, è il termine «atmosfera» (Atmosphäre): attraverso una critica di tale concetto, il filosofo austriaco analizza il nostro modo di parlare dei processi psicologici e, in particolare, della comprensione linguistica, intesa come esperienza mentale «privata». Contro l’idea che il significato accompagni la parola come una sorta di alone di senso, come un sentimento o una tonalità emotiva (Stimmung), Wittgenstein valorizza l’aspetto comunitario e già da sempre condiviso dell’accordo (Übereinstimmung) tra i parlanti. Il richiamo al modello musicale dell’accordo armonico tra le voci consente così di recuperare la dimensione atmosferica, auratica e coloristica dell’esperienza linguistica in cui si assiste a una «sintonizzazione» tra i parlanti coinvolti in un comune sentire, il cui luogo ideale è per eccellenza la forma-poesia.
Lucio Mayoor Tosi
S’apre una porta
Un notturno di seta deve essere passato
davanti alla casa in Illinois. L’uomo che stava piangendo
ora si vede al centro dell’umanità
dove tutti son voltati di spalle. E nudi.
«Nessuno sa del silenzio che c’è qui».
«Giuro su niente che ti sarò fedele e darò la vita
per ognuno che passi, anche sbadatamente, nel mio
corridoio».
« Nei libri di scuola si parla di rondini meccaniche
che a primavera. E di scritture distratte. Pomeriggi assolati».
Le figure, insieme ai versi, si rintanano
nell’ombra.
*
È difficile entrare dentro questa poesia, come ogni enigma è chiusa in sé, va in senso contrario alla «de-metaforizzazione» che Pier Vincenzo Mengaldo individuava nella poesia di Satura (1971) di Montale. Ma proprio in quanto ostica alla penetrazione del lettore la poesia impone la sua presenza, obbliga il lettore a tornarci sopra. La poesia non ha senso nel senso che ha molti sensi e tutti diversi, tutti dispari, tutti «sentieri interrotti» (gli Holzwege di Heidegger), e nessuno che conduca in qualche luogo perché non c’è un luogo che possa essere abitato, ci sono soltanto luoghi di sosta, luoghi parentetici. Ci sono sprazzi di una conversazione che è caduta nel buio, e pensieri che emergono dal buio ma che non sanno dove andare…
Mariella Colonna
Jean Paul gioca alla roulette
e punta sul nero. Vince.
Neri uccelli gridano nella notte,
si risvegliano i morti nel cimitero di Rouen
e vanno a svegliare i vivi.
Terrore.
L’alba spunta sulla Senna.
Jean Paul sta ancora giocando.
Punta sul rosso. Vince. Perde. Sembra impazzito.
Maledice il padre e la madre.
Di nuovo si fa notte senza stelle.
Henriette piange il suo amore perduto.
Piangono il cane il gatto il cardellino,
la domestica, gli utensili da cucina.
Ma Jean Jacques corre al Casinò
e trascina via il fratello prima che perda
il senno e se stesso.
La luna appare e scompare. È luce-ombra.
I morti si addormentano, finalmente,
insieme ai vivi.
Natura silente. Gli oggetti diventano cose, esultano,
si accendono anche i fuochi in campagna.
Jean Paul chiama invano: “Henriette!”
Un uccellino blu si posa sul mio libro e dice.
“Ogni storia impossibile s’incrocia col destino.
Henriette è tramontata insieme alla luna!”
(e se tutto fosse
un incubo di Jean Paul?)
(e se tutto fosse
un incubo di Jean Paul?)
Uno dei punti fermi della «nuova ontologia estetica» è il principio opposto all’adagio latino: ad impossibilia nemo tenetur. Nella NOE il «possibile» è commisto con l’«impossibile», il possibile con il compossibile; i tempi e gli spazi sono intercambiabili, isometrici e isomorfici; il tempo è spazializzato e lo spazio viene temporalizzato; il «metro» viene scardinato al suo interno: non c’è più alcun metro, sostituito dal «frammento»; i «frammenti» si moltiplicano e si dispongono in un ordine impensato e impensabile, un ordine metonimico; «gli oggetti diventano cose, esultano», saltano, volano, si ribellano; le «cose» diventano «persone» e le «persone» ridiventano «cose»; le «cose» si scollegano le une dalle altre e si ricollegano in un nuovo ordine. L’ordine dell’inconscio equivale all’ordine-disordine che regna nella «materia» della fisica quantistica, e la poesia di Mariella Colonna ne prende atto. Nella «nuova ontologia estetica» non ha alcun senso parlare di metro unilineare e unitemporale, la poesia di Mariella Colonna ne ha preso atto e si comporta di conseguenza: gli oggetti si animano, al pari delle persone, gli animali parlano, «un uccellino blu si posa sul mio libro e dice»… ma cosa dice? Qui è la valigia dell’inconscio che viene ad esser svaligiata…
*
È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della «nuova ontologia estetica»: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo… E qui saremmo, ovviamente, all’interno del territorio della «nuova ontologia estetica».
Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali, sulla ri-metaforizzazione del discorso poetico; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria». Ma questo è.
La verità, scriveva Nietzsche, è diventata «precaria».
Mario M. Gabriele
Gli oggetti, le cose, le parole:
gesso, cartone, plastica, vetro, album,
pannolini Huggies,
le cose e gli oggetti di pessima scelta,
di ottimo gusto, crackers,
Blupill, il bambino con il taglio
dell’ombelico, gli albi di Dylan Dog,
i libri di prima edizione,
o Mon Dieu,
ma quanti scarti di croste e molliche
per dire ogni sera:
“dacci oggi il nostro pane quotidiano”
così mi ritrovo tra ossari e faglie
con le mimose, e i rami di quercia,
un collare pesantissimo al collo,
la gorgiera, sogno irreale,
e la tua bocca sempre piena di I love you.
Ci prende in giro il Carnevale,
meno Pierrot, la siringa con Targin e Tramadolo;
da gennaio a dicembre ti amerò per il sì
e ritornando indietro ti amerò per il no.
Le cose, gli oggetti di pessimo gusto,
la lingerie color verde pistacchio
che aspetti? Che ti ritrovi di nuovo gli anni passati?
Che sappiamo del Galateo in bosco?
Poesia: zona keep out! Stradine e vialoni,
holzwege, se veramente mi trovi un bosco mai defoliato
lì porteremo il nostro rosario.
English translation by Adeodato Piazza Nicolai
Objects things, words:
chalk, cardboard, plastic, glass, albums,
baby Huggies,
things and objects of horrible choice,
of excellent taste, crackers,
Bluepill, the baby with a cut
in the umbelical chord, the albi of Dylan Dog,
the first-edition books
o Mon Dieu,
but how many throw-away crusts and soft bread crumbs
in order to say each night:
“give us this day our daily bread”
so I find myself among ossuaries and cracks
with mimosa, and oak branches,
a very heavy collar round the neck,
the gorget, unreal dream,
and your mouth always full of I love you.
The Carneval makes fools of us,
without Perrot, the siringe with Targin and Tramadol:
from January to December I will love you for the yes
and will return loving your no.
The things, the objects of horrible taste,
the pistachio green-coloured lingerie
what are you waiting for? To find again the lost years?
What do we know of the Galateo in the woods?
Poetry: a keep-out zone! Tiny roads and large streets,
holzwege, if you really find me a forest forever leafless
we will take them our rosary.
© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem by Mario M. Gabriele whose first line begins: “Gli oggetti, le cose, le parole:” All Rights Reserved.
Giorgio Linguaglossa
1 marzo 2018 alle 19:00
Le «cose», gli «oggetti» di pessimo gusto
le cose e gli oggetti di pessima scelta,
Le cose, gli oggetti di pessimo gusto,
Poesia: zona keep out! Stradine e vialoni,
holzwege, se veramente mi trovi un bosco mai defoliato
lì porteremo il nostro rosario.
Caro Mario, questa è una straordinaria poesia di «oggetti», morti, una galleria di oggetti-ossario della nostra esistenza, e tu ne hai fatto un monumento! Se ci fosse ancora in vita Anceschi ne sarebbe rimasto ammirato e deluso nello stesso tempo, perché non capirebbe, lui non potrebbe capire che fine hanno fatto i suoi «oggetti», che oggi, a distanza di sessantacinque anni sono diventati, stracci, scarti, residui, rifiuti, fossili da «zona keep out», da cui stare alla larga, un «Carnevale» di oggetti che ci assilla e ci droga in ogni istante della nostra giornata. Quello che per Anceschi all’inizio del paleocapitalismo italiano nel 1952 era una Buona Novella, oggi è diventata una idiozia insopportabile, quegli «oggetti» che oggi il capitalismo globale produce in modo globale e intollerabile, quegli oggetti sono diventati la nostra maledizione… e mi piace quella tua ironia di considerare al pari degli oggetti da pattumiera anche quel «Galateo in bosco» che tanto rallegra il cuore degli accademici. Non c’è nessun «galateo» nella civiltà degli oggetti, quella di Zanzotto era una inconscia apologia dell’esistente… E quanti autori sono caduti nel tranello di credere ingenuamente nella bontà degli oggetti! Che maiuscola ingenuità… Ma noi, noi della nuova ontologia estetica, siamo stati per fortuna vaccinati contro tutti questi luoghi comuni diventati pensiero positivizzato e sedimentato, noi sappiamo bene che quegli oggetti sono portatori di una ideologia tra le più belliciste che mai il mondo ha conosciuto… quegli oggetti, bisogna dirlo, sono il prodotto della nuova barbarie del nuovo mondo tecnologizzato. E un poeta degno di questo nome deve prendere le distanze da questa futile credenza… Gli oggetti non hanno alcuna magia… Gli oggetti sono i portatori di una nuova ideologia globale, quella della omologazione globale…
1 M. Heidegger Nietzsche, (Verlag, 1961) trad it. Franco Volpi, Adelphi, 1994, p.613
2 Ibidem, p. 613
3 Ibidem, p. 642
4 Shakespeare, Amleto