Annamaria De Pietro Quartine scelte – da Rettangoli in cerca di un pi greco (Marco Saya, Milano, 2017) – Con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 Giorgio Linguaglossa

L’oltre è un soffermarsi presso la linea: 
visualizzarne in altro modo l’intorno.

 

Annamaria De Pietro è nata a Napoli. Vive a Milano. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005). Nel 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Le ultime pubblicazioni sono Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015) e Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Secondo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2017).

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

 

Giorgio Linguaglossa

Stanotte cadono le stelle. Una
cada nel tuo bicchiere come ghiaccio

 

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento,

 

che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»

 

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Andrea Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

 

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo e la fine del Moderno. Annamaria De Pietro raddrizza l’endecasillabo, restaura la quartina rimata (ABBA – ABAB), e da lì parte per una scrittura elegantemente sillabico endecasillabica. In modo incredibile, qui c’è la gioia della rima, la gioia del solfeggio e del cantato e del cantabile. E non c’è dubbio che la De Pietro sia il poeta, tra quelli che io ho letto, che impiega l’endecasillabo in modo impareggiabile.  È il suo modo di rispondere alla crisi della poesia: la risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba o a percussioni da contrabbasso… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, e così l’epoca delle retroguardie. E Annamaria ne ha preso atto.

 

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che è stato il prodotto poetico del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi, paradossalmente, ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, è sufficiente una buona tromba di Eustachio e un buon paio di occhiali. La poesia della De Pietro assomiglia alla barchetta di carta che galleggia tra i flutti della materia equorea, «è un soffermarsi presso la linea», per dirla con Pier Aldo Rovatti.

 

Giorgio Linguaglossa

annamaria de pietro

 

 

Poesie di Annamaria De Pietro

 

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

 

 

L’oltre è un soffermarsi presso la linea: 
visualizzarne in altro modo l’intorno. Identificare, 
costruire, attraverso l’uso che facciamo del linguaggio, 
uno spazio di gioco, un’abitabilità. 
Mettersi in ascolto non di un «canto» sepolto e originario, 
bensì di un «groviglio» di significati…

 

(Pier Aldo Rovatti)

 

 

L’affaccendata

Più volte al giorno la morte
esce di casa, e si stanca
battendo a tutte le porte,
cercando un nome che manca.

 

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10 agosto

 

Stanotte cadono le stelle. Una
cada nel tuo bicchiere come ghiaccio
di forma chiara, in fuga dal setaccio
che rassomiglia al disco della luna.

 

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Carta

 

Oggi è di carta, come fa la luna
la lanterna cinese che sospende
il colmo buio, e l’albero ne prende
di calce in calce bianco come schiuma.

 

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Ballo tondo

 

Il demone scappò dall’altra banda.
Nella coda dell’occhio ne trattenni
la coda che batteva a guizzi i cenni
di richiamo, d’invito, di domanda.

 

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La rimonta

 

Amo il coltello nel pane che incontra
il molle resistente dentro il duro
della scorza cedevole, insicuro
passo di mezzo a finta per rimonta

 

Esistono dei piccolissimi gesti quotidiani che non vanno guardati con disattenzione. Hanno, intera, una loro propria falcata, che è bene seguire.

 

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L’irrimediabile irrequietezza del significato

 

Non ama una variante l’irrequieto
significato tanto che rigetti
ogni altra per sempre. Ganci stretti
sempre apriranno centone indiscreto.

[È vana illusione combattere con le varianti, pretendendosi campione feudale ligio di una sola, la perfettissima. Esse sono e rimangono tutte animate e fiorenti, e il significato in tutte si compiace, compiaciuto per sontuosa vanità della loro corte pressante. E se una soltanto, ora, viene privilegiata e scelta, prima o poi le altre troveranno un luogo nel quale collocarsi, ciascuna essendo la perfettissima, allora. Perché scrittura è un centone senza fine, perché il mondo è infinità di varianti. E a noi, di lizza in lizza, resterà una crescente collezione di maniche del buon ricordo, come ad Isabella d’Este restava un armadio di guanti destri, avendo lei regalato a molti, nel tempo, i corrispondenti sinistri, quelli dalla parte del cuore.]

 

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Guida

 

Non vi darò dove si scioglie l’acqua
dal cesto della terra in alto monte
confuso d’ombre, di tane di lontre,
di anitre dipinte d’oro e lacca.

 

[Dovrete trovarvelo da soli questo luogo di montagna alta animata e policroma, dovrete riconoscere gl’indizi sapendo (questo è e sia l’unico indizio che vi do) che il più significativo e rivelatore è l’ombra; ma sappiate pure che non per questo gli altri sono poco visibili. Basta vederli.]

 

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Giorgio Linguaglossa

L’ombra del mare si posa sul fondo

 

La rete a strascico

 

L’ombra del mare si posa sul fondo
dopo che accarezzò i pesci passanti
fra l’ombra e il lustro della sabbia, e i guanti
delle meduse dall’ orlo rotondo.

[Ricordo il Mar Nero dalla barca, brulicante di meduse. È proprio o quasi nero quel vastissimo lago che niente ha di marino (per questo mi piacque tanto): frasche verdi verdi verdi cadenti dalle coste alte nell’acqua, scrosciate da cascate, piccole frane strette d’acqua bianca.
Ed ecco, in una curva nella curva, Trebisonda di legno, la nera dama del lago. Trabzon, Karadeniz.]

 

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Moresca

 

Retta parola si timbra da sola
quando la carta è bianca e dell’inchiostro
la cava piatta sposa curvo il rostro
del timbro in bacio breve, tacco e suola.

 

[Fascinosissimi oggetti in coppia, una volta, il timbro e il tampone d’inchiostro.
E che dire, in tema, delle vetrine dei negozi di “timbri e targhe”? Meglio delle pasticcerie, meglio delle gioiellerie, quasi non azzardo paragoni con le librerie. Mi soffermo a guardarle avidamente, ammaliata dalla loro illimitata potenzialità tombale, sterile e pregnante, arida e magniloquente in bianco e nero.
E poi – appartengono o appartennero a qualcuno nomi cognomi e titoli in vari e bei caratteri (corsivi inglesi, gotici rotondi, astuti afgani) esibiti dai campioni di ottone e carta e cartoncino, o non sono che exempla in libertà, esercizi puri di nomenclatura, circo di gesti?; il Cirque invisible di Victoria Chaplin – che mai l’ometto Cav. Comm. Grand’Uff., a quanto ho letto, onorò di una visita.]

 

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La mossa in ombra

 

Mano per sé fondamente sicura
dell’altra via d’incertezza in penombra
getta i dadi di scatto, alla cattura
dei numeri sul legno piano in ombra.

 

[S’impone una complicità sotterranea e ribalda fra il colpo in luce e il colpo in ombra, fra le due mani sorellastre non sovrapponibili se non l’una di schiena all’altra, così che non si guardino, che non si riconoscano. Complicità fra ladri, ognuno per sé, due per ciascuno.]

 

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Del governo del prezioso

 

Palafreniere l’oro e i dizionari
fa correre in perfetto assetto al vento
nelle vie buie fra palma e guanto – lento
dispositivo noto solo ai bari.

 

Il baro: figura romanzesca e favolosa dai tratti segaligni, perfetti, di Lee Van Cleef. Non ci si aspetta di trovarselo di fronte all’improvviso, come qui. Ha tempi lunghi, lunghi maneggi, mani lunghe nei guanti, e suole ridere basso e piano, come una maschera o una canna che si muova nel vento. Discorre in una lingua ardua, di sé interprete e traduttrice. Fa tesoro di tutto e ogni cosa, ha una borsa di cuoio di Cordova, preziosa e vecchia.

 

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Il muro

 

Voltami la ragione volta al torto
perché sia dono libero e indecente
d’arbitrio alto la rosa, e poi più niente
altro che il muro sia alla rosa l’orto.

 

[Per via di levare: dicono che sia pratica proficua, dicono che sia sintomo sicuro
di mente sintetica e libera da fronzoli, e anche di una qualche forma di ‘maturità’ (parola che odio, a meno che non si stia parlando di meloni).
Io penso che il levare sia forma opulenta di presenze ambigue in movimento, e che molti strumenti e molte tecniche sottili entrino nel suo gioco. E penso inoltre che il senso del levare sia da cogliere non nell’esito finale (che poi non è altro che un potenziale valore al limite), ma nel processo che a quell’esito conduce, processo che non per sottrazioni si conforma, ma comunque, e come ogni altro, per pratica di affondo e ricca pesca nell’infinita universal cisterna.]

 

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L’incontro

 

Sale l’ombra sul muro, ma scende
a contropasso la notte. S’incontrano
soltanto quando il quinto ferro contano
a una finestra che una grata fende.

 

[Questa sia Spagna picaresca del malincontro, fra notte e notte, manto che fascia fuori più interni manti di case – e quel che avviene in quelle case io non lo voglio sapere. Per mia fortuna non lo so, perché sto qui, nel verso a scorcio della strada, dove fa muro la quartina.]

 

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Acquapendente

 

È lunga la serie dei numeri, e lei li ha tutti.
Li ha trovati una volta al mercato di Acquapendente
– nelle terre del papa. Pioveva quel giorno, un torrente
di pioggia scendeva, e tutta la serie dei flutti
lunga bagnava i suoi numeri controcorrente.

 

[Ci sono dei nomi di luoghi che chiudono in sé illimitate promesse (premesse?). Acquapendente è uno di quelli. Mi spalanca alla mente vedute settecentesche della campagna romana con rovine e zingari, pecore e cavalli, viaggiatori al grand tour, pini acquedotto ]un’osteria.

 

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Redondilla a tempo di tempo

 

Tempo più avanti va avanti
sé precedendo di costa
e non lo involano apposta
redini né remiganti.

 

Dodici case di legno
scalano scale di sasso,
passo e misura a quel passo
solo di sé fatto segno.
La serratura è un congegno
a dodici stretti tiranti
presi fra i denti a tornanti
di dodici chiavi di neve.
Lingua che lecca e che beve,
tempo più avanti va avanti.

 

Alberi gravi di vento
mettono fiore e poi foglia
per la nerissima spoglia
nuda che in ebano argento
agemina acuto d’accento
acuto, e strillo, una rosta
di frecce fredde – ne scosta
verde il piumetto una sfera
rossa che svia la filiera
sé precedendo di costa.

 

L’acqua si avvolge alla luna,
la luna srotola l’acqua
a fuso e a filo che spacca
acciaio tagliente di cruna.
E non si salva nessuna
onda affondata e nascosta
dalla vedetta che apposta
le reti medie che il mare
devono all’aria pescare,
e non lo involano apposta.

 

Il cane il gatto la mano
sfidano a gioco e a carezza
come la brezza e l’altezza
la banderuola e il volano.
Ora si flette lontano
polso a quei teneri amanti,
saluti chiusi nei guanti
dai treni in corsa e razzia
che non trascinano via
redini né remiganti.

 

[La redondilla è in spagnolo la quartina, rettangolo che quadra il redondo cerchio. Che è poi quello che fa, nella sua asseverativa brevità, una quartina, ogni quartina, minuto paradosso.
Ho rubato lo schema del testo a Lope de Vega, alle sue Novelle per Marzia Leonarda, un delizioso libro di racconti di fole, di viaggi e orienti e peripezie disseminati di brani lirici, e questa disseminazione fu per me un campo offerto di squisita libertà.
Una quartina-guida si propaggina in quattro decime, a ciascuna delle quali cedendo, in posizione di ultimo verso, i suoi quattro versi nell’ordine sequenziale da uno a quattro. Si instaura così un movimento circolare chiuso. Quartina come lungo, aritmetico rondò.
Scrivere questo testo fu entusiasmo, gioco di maschere, quasi un inchino.
Così s’inchina cedendo a una lunghezza felice il Secondo Libro delle Quartine.]