La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti
(ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose»
Giorgio Linguaglossa
Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»
sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tantomeno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?
Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?
È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’stam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:
[«Cose» dipinte da apprendisti pittori allievi di Lucio Mayoor Tosi
durante un corso di apprendistato alla pittura]
Osip Mandel’štam
«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.
Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.
Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».
Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».
L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».
Gino Rago
Dopo Lilith
[Dio presenta Eva ad Adamo]
“[…]
ti sento solo, Adamo, quindi ho deciso, ecco l’altra compagna;
ma non superare la soglia,
stai molto attento…
lei esce dalla tua costola non dai tuoi piedi,
esce dal tuo fianco, un po’ più in basso del braccio
ma dal lato del cuore, un po’ più in alto,
per essere amata.
Questo ti comando
[…]”
Jorge Luis Borges
Le cose
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e la scacchiera,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno piú in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
(Traduzione di Francesco Tentori Montalto)
da Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino, 1971
***
Las cosas
El bastón, las monedas, el llavero,
la dócil cerradura, las tardías
notas que no leerán los pocos días
que me quedan, los naipes y el tablero,
un libro y en sus páginas la ajada
violeta, monumento de una tarde
sin duda inolvidable y ya olvidada,
el rojo espejo occidental en que arde
una ilusoria aurora. ¡Cuántas cosas,
limas, umbrales, atlas, copas, clavos,
nos sirven como tácitos esclavos,
ciegas y extrañamente sigilosas!
Durarán más allá de nuestro olvido;
no sabrán nunca que nos hemos ido.
da Elogio de la sombra, Emecé Editores, Buenos Aires, 1969
Luigina Bigon
Il futuro
Il futuro, mostro senza testa.
Solo occhi che guardano, privi di segnali.
Una nebbia luttuosa morde il passato, ad ogni passo.
Chi arranca non può voltarsi indietro,
spinto da una forza che muove i passi
anche se il respiro è in affanno
e il sudore una pioggia di detriti,
come se il corpo volesse distillarti
fino all’essenza.
– Camminare senza mai sedersi.
Restare in piedi…
Si prosegue, ad ogni attimo,
verso il dove che ci scruta
e non pronuncia parole.
Guglielmo Peralta da La via dello stupore (Thule, 2017) sulla «soaltà».
2. Il sogno di una parola
Una parola, una sola parola viene, ad un tratto, a spalancarmi un mondo, un universo!
Evento sorprendente, miracoloso avvento annunciato dalla parola nuova, generata dall’unione del sogno e della realtà: ieri antagonisti irriducibili, oggi assolutamente compatibili, al punto che la realtà è l’altro nome del sogno e viceversa. Facce di una stessa medaglia, il sogno e la realtà ne costituiscono la “terza” faccia: la soaltà. Ecco la parola sognata nella quale essi sono strettamente congiunti!
In principio è lo s-guardo. Sulla scena interiore, dietro le quinte dell’occhio, lo
s-guardo, unico attore e spettatore, dà inizio allo spettacolo. Con questo visionario resto a lungo in attesa della rivelazione. E quando, per gradi, il sogno si dipana, l’artefice s-guardo, come lo Sguardo divino, benedice la parola, sorgente di luce inesauribile.
Soaltà mostra allo s-guardo il suo cielo diradando l’”ignoranza” dell’occhio e della mente. Così, senza divieto, cresce nel giardino soale l’albero della visione, e l’implume conoscenza prende il volo sulle ali del sogno pantocratore. Ed ecco che la parola nuova, informe nebulosa che in sé accoglie un universo, “esplode” con suono grande e silenzioso manifestando uno spettacolo infinito: un’epifania che riempie di meraviglia il cuore e la mente discoprendo la vera natura del mondo e delle cose. Una nuova visibilità muta lo scenario esteriore. Un nuovo orizzonte si svela ed è l’«est» che orienta lo s-guardo e ne suscita la rappresentazione. La soaltà, che nella luce «estiva» si palesa, è la visione che ac-coglie il mondo nella sua unione di sogno e realtà correggendo la conoscenza difettiva che abbiamo di esso a causa dell’occhio, il quale, incapace di discernere il sogno, dà carattere di evidenza a una realtà, che il pensiero riflettente giudica pura apparenza lasciando indovinare, al di là di essa, una realtà altra. E questa realtà è il sogno che edifica il mondo e ne garantisce l’esistenza reale. Soaltà è parola eponima che nomina il mondo interiore o della soggettività.
Essa colma una lacuna linguistica, perché ora questo mondo ha un nome al posto delle varie definizioni e aggettivazioni che di solito si usano per indicarlo. Essa è anche parola epifanica, perché svela la vera natura della realtà cogliendovi il sogno che la costituisce e che è il fondamento, il principio, l’origine di tutte le cose, e facendo della realtà stessa la manifestazione oggettiva e concreta della realtà interiore cui dà il nome. Ed è trina, perché oltre ad essere sogno e realtà è anche il mondo che consiste di queste due nature. Il sogno, questo sogno, non accade, come nella dimensione onirica, in assenza della normale attività della mente, ma in presenza della sua più alta funzione che è l’immaginazione creatrice, e in virtù di una voce che chiama in segreto e alla quale non si può non dare ascolto. Voce del silenzio luminoso, che sospende il mondo e i nostri sensi e accende la notte chiarendone l’oscurità profonda. Notte sacra, che esige risposte adeguate alle sue illuminazioni.
Rispondere è sapere ascoltare. Ed è un atto di devozione e una vocazione: una brama di vedere ascoltando. Sublime è la visione suscitata dall’ascolto. Sublime è l’ascolto sostenuto dalla visione. Essere devoti e vocati alla notte significa interpretare il mondo cogliendolo nella parola nuova, la quale lo rivela nella sua forma originaria e invisibile.
Carlo Livia
3 marzo 2018 alle 18.20
Perché è così dolce naufragare in questo mare, nel mistero che pervade e promana da questi testi, in cui si entra come in labirinti di specchi, privi di percepibili prospettive semantiche, le cui parole e sintagmi si illuminano riflettendosi a vicenda, con infinite, inafferrabili sfumature di senso?
Forse perché l’evidente inafferenza all’essere postula la necessità di una nuova strategia euristica, che conduca a scoprire un’ insospettata patria metafisica, indefinibile con il tradizionale strumentario concettuale, con la sua implicita hybris codificante e dominatrice, privilegiando un percorso di ascesi formale e dilatazione-trasgressione logica, più vicina alla mistica visionaria di Rimbaud che alle involuzioni intellettualistiche dell’ermetismo.
Ecco un testo che spero possa affiancarsi ai precedenti, ai cui autori è stimatamente dedicato.
Giochi proibiti
Dal frastuono di ferite e masticazioni si spalancò un vento di orologi guasti.
Nel ripostiglio degli amuleti ( falsi ) le divinità studiavano i miei pensieri.
Cercavo i corpi e le delizie dell’inizio, sul campanile che custodiva la prova d’amore.
Ma il cielo ( finto cieco! ) mi abbattè sul selciato.
Il tempo verdeggiava (veleno perfetto ) e stupidamente gettava l’ultimo candelabro nella cisterna.
( Eppure custodiva il cuore della madre in un angolo senza confini ).
Fuggii – confuso tra i mortali – con la rosa dei venti che mi aveva concepito per gioco.
Troppi sogni mi seducevano!
E la danza dell’addio – che sorrisi , che candore di voluttà prometteva nel suo amplesso!
*
Nerone
Giorgio Linguaglossa
Le «cose» rappresentano simbolicamente e istintivamente la continuità della vita
Il 4 settembre 476 il generale germanico Odoacre destituisce Romolo Augusto, l’ultimo imperatore di Roma. Nella commedia storica in quattro atti di Friedrich Dürrenmatt dal titolo Romolo il Grande, ecco come rappresenta la notizia che il Prefetto, Spurio Tito Mamma, ha appena portato: la notizia che Oreste, padre di Romolo e magister militum delle armate imperiali è stato sconfitto e si è arreso. L’impero d’occidente è in bilico. Ecco come Friedrich Dürrenmatt presenta la scena: Piramo, un servitore dell’imperatore entra:
«Piramo porta dentro un tavolino su cui si trova la prima colazione. Come prima portata, pane, prosciutto, vino greco, una ciotola di latte, un uovo alla coque. Achille (il secondo servitore) accosta una sedia, l’imperatore si siede, apre l’uovo».
Ecco, la scena del dramma viene rappresentata così, ci sono soltanto le «cose» concrete; gli oggetti che servono alla sussistenza e alla sopravvivenza sono i più importanti. L’impero d’occidente ha le ore contate, tra poche ore Odoacre destituirà Romolo Augusto e questi che fa? Si siede tranquillamente a tavola e si appresta a consumare la prima colazione. Le «cose» rappresentano simbolicamente la continuità della vita. Dürrenmatt mette in evidenza come nei momenti fondamentali dell’esistenza quando una calamità più grande di noi ci sta per capitare, istintivamente l’uomo si rapporta alle «cose» utili, vive e significative. Per prima cosa Romolo Augusto si appresta a mangiare, compie il rito mattutino più importante, quello deputato alla autoconservazione. Romolo Augusto scopre simbolicamente e inconsciamente la propria appartenenza alla «terra», il valore dei frutti della terra, queste sono le «cose», quelle cose che ci consentono la sussistenza. Quando tutto intorno a noi crolla, ci rivolgiamo istintivamente e simbolicamente alle cose.
Io penso che in una poesia, se si tratta di un’opera veramente significativa, non è possibile fare a meno della presenza delle «cose», le «cose» rappresentano i valori profondi della vita, e questo è evidente per esempio nell’arte figurativa: nel bel mezzo della crisi del fascismo Giorgio Morandi che fa? Dipinge solo ed esclusivamente delle bottiglie, dipinge soltanto nature morte di bottiglie. In quelle «cose» c’è tutto, ci siamo noi, la nostra storia. Che fa Giorgio De Chirico? Anche lui dipinge delle cose, ma dipinge altre «cose»: dipinge archi, strade deserte, statue illuminate da una luce livida, colonne di una civiltà sepolta con cavalli imbizzarriti immobili. Poi, con l’avvento della pittura astratta le «cose» vengono cancellate, letteralmente scompaiono. Dopo la pittura astratta non sarà più possibile riprendere a dipingere le «cose» come avveniva prima, gli «oggetti» prendono il posto lasciato vacante dalle «cose». Il mondo è cambiato. Il capitalismo dispiegato ha reso impossibile rappresentare le «cose» alla vecchia maniera. Poi, all’improvviso, il mondo cambia di nuovo e i pittori riprendono a dipingere le «cose», ma lo faranno in altro modo, con un diverso apparato categoriale e simbolico.
Per tornare alle nostre questioni, la «nuova ontologia estetica» riprende da dove la poesia italiana del novecento si era smarrita e aveva rappresentato soltanto degli «oggetti», magari desublimati, de-territorializzati, de-simbolizzati, ma pur sempre «oggetti». La «nuova ontologia estetica» riparte invece dalle «cose». Segna un nuovo inizio, segna una svolta. Dopo questa esperienza, per chi capisce veramente la posta in gioco, non sarà più possibile poetare alla maniera di Bacchini o di Alfredo Giuliani, per fare due nomi noti, qualcosa è nel frattempo cambiata inesorabilmente.
Prendiamo un autore, esaminiamo la prima poesia del libro le vocali vissute(1999, Ibiskos) di
Giuseppe Panetta (alias Talia)
Papà è una o disgiunzione
Mamma è una e congiunzione
I del collo
L del piede
M delle spalle
A dell’ascella
V delle dita
W
S della schiena
P del profilo
E capovolta dei denti
O della testa
U del cavallo
Il libro, ricorda Giuseppe Talia, è stato scritto dopo e durante una crisi che ha fatto letteralmente «esplodere» le vocali e le parole tra le sua mani. Talia si è trovato così a non avere più le parole rassicuranti di Bertolucci e di Pierluigi Bacchini della tradizione del novecento. La scoperta è stata traumatica per Talia: come poteva scrivere poesia se non aveva più a disposizione le parole, le vocali che avevano guidato la poesia italiana per un secolo? Ed è significativo che da questa crisi delle vocali e delle parole Talia non ne sia uscito se non con il contatto corroborante della «nuova ontologia estetica» nell’ambito della quale ha appena scritto e pubblicato il volume La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2018), 58 ritratti linguistici, 58 sestine dedicate ciascuna ad un poeta italiano, una sorta di scrittura in presa diretta, irriverente e defoliante direbbe Mario Gabriele.
Ma torniamo al libro di esordio, torniamo a le vocali vissute (1999), ecco la terza e la quarta poesia del libro, nelle quali è evidente la crisi di significazione delle parole e delle vocali:
Le a del mio seno gonfio
sono due bocche
due bacche
due more
due sassi del mare
Lingua che sincerpica
verso il naso con tutta
la libidine che può
I ridanciana ma immobile
Maiuscola Magari in Motorino
quasi a fissarla sulla strada
*
Altro che a sul tuo cammino
Altro che o a ciottoli
sul tuo cammino
Altro che e precarie
che u ciarliere o
i tempra dello spirito
*
Leggiamo il componimento «L’anguilla» di Eugenio Montale, scritta nel 1948 tratta dalla raccolta La Bufera e altro (1956), trenta versi in una unica proposizione interrogativa. «L’anguilla», la prima parola della poesia è collegata con l’ultima: «sorella»; la prima parola, a carattere denotativo, è unita da un nesso lungo trenta proposizioni, a una parola a carattere marcatamente denotativo, il tutto ad alludere ad una situazione emblematica; l’emblema è la spia stilistica di una poesia ad aura simbolistica nella quale le «cose» sono elencate e raffigurate per il loro valore semantico simbolistico. È chiaro che la poesia appartiene alla civiltà del simbolismo europeo e in quel contesto culturale trova la sua giustificazione estetica. Tutta la costruzione è impregnata di simbolismo, la stessa struttura semantica e fonologica è la tipica struttura montaliana del periodo simbolistico, qui le «cose» sono nominate per il loro valore allegorico, simbolico e allusivo. Nel 1971 Montale cambierà registro, nelle poesie di Satura entrano gli «oggetti» nominati per le loro funzioni denotative e basta. La rivoluzione s’è compiuta, la civiltà del simbolismo è finita.
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?
Le due parole, quella iniziale e quella finale, «anguilla» e «sorella» sono speculari, una apre e l’altra chiude il componimento, la consonanza è servente alla significazione simbolica del componimento e lo chiude definitivamente. In questa poesia, come in tutte quelle del simbolismo europeo, c’è una «apertura» e una «chiusura»; al contrario, è tipico delle poesie della nuova ontologia estetica la mancanza sia della «apertura» che della «chiusura», i componimenti sono liberi di oscillare e di espandersi nello spazio bianco della pagina.
Rossana Levati
4 marzo alle 13.56
A proposito della pittura di Morandi citata da Giorgio Linguaglossa, vorrei proporre una poesia di Adam Zagajewki dedicata al pittore italiano, che può accompagnare la riflessione qui presentata sugli oggetti e sul rapporto tra oggetti-pittura e poesia:
Adam Zagajewki
Morandi
Gli oggetti vegliavano anche di notte,
mentre lui dormiva sognando l’Africa;
la brocca di porcellana, due annaffiatoi,
le verdi bottiglie da vino, un coltello.
Quando dormiva sodo, come può dormire
solo un artista esausto, stremato,
gli oggetti ridevano, prossimi alla rivolta.
L’annaffiatoio, ficcanaso dal lungo becco,
sobillava gli altri, febbrile,
e il sangue pulsava selvaggio nella porcellana
ignara del tocco di labbra assetate,
solo occhi, sguardo, percezione.
Di giorno erano più docili e persino fieri:
tutta la ruvida esistenza del mondo
trovava rifugio in questi oggetti,
abbandonando per un attimo il ciliegio
in fiore e il cuore afflitto dei morenti.
(da La vita degli oggetti, edizioni Adelphi, traduzione di Krystyna Jaworska)
Questa poesia di Adam Zagajewski dedicata alla pittura di Morandi parte dal principio che la tela riesca a fissare, come fa anche la poesia, la vita in un equilibrio immobile, fuori dal tempo. Ma nel confine precario tra vita di un attimo e persistenza della vita che si anima oltre le forme che hanno tentato di fissarla, gli “oggetti”, che assumono vita nella tela del pittore, sono pienamente viventi, sono un luogo-rifugio, possono essere considerati dei sostituti della “ruvida esistenza del mondo” solo quando essi sono esposti allo sguardo del pubblico, “di giorno”, vivi di uno sguardo in cui lo spettatore, come il pittore, partecipa della loro vita.
Gli oggetti che non godono della percezione del pubblico, presenti sulla tela di notte, hanno forse una propria autonoma percezione del mondo, ma restano oggetti, tentano di animare una rivolta che fallisce perché si ferma un passo al di qua della coscienza, di quella coscienza che appartiene solo all’uomo che guarda, osserva il quadro e si interroga, come apparteneva al pittore che li ha rappresentati attribuendo ad essi un senso. In fondo, dice Zagajewski in un’altra poesia, “La tela”, la tela “avrebbe anche potuto essere un sudario” “e invece è diventata cosmo”. Se tuttavia nei dipinti gli oggetti hanno una propria autonomia: “gli zoccoli di legno sanno camminare da soli. /Le piastrelle del pavimento non si annoiano mai,/ giocano talvolta a scacchi con la luna” (“Pittori d’Olanda”), il senso del loro esistere all’interno del quadro è attribuito solo dall’uomo che contemplando il quadro non può che chiedere “cos’accadrà/ quando la mela sarà sbucciata/ quando tutti i colori diventeranno freddi?”.
E’ come se ci fosse un “osservarsi” reciproco di oggetti (che ambiscono, nella loro vita immobile, a diventare “cose”) e uomini, anch’essi sospesi sulla soglia del rischio di una trasformazione in oggetti: così nel museo egizio di Torino il poeta osserva “le statuette a protezione dalla morte, diventate inutili” perché ormai lontane dall’Egitto e dagli uomini che ne facevano uso, un “tagliaunghie di tremila anni addietro”, “le vigili mummie”, i “lisci coltelli” che forse rimpiangono di non essere più utilizzati per colpire qualcuno a tradimento e nota: “Impassibili, quasi con amicizia/ ci osservavamo, generazioni diverse/ di uno stesso mondo, muti oggetti imperfetti/ del desiderio e dell’oblio” (“L’alleanza”)
[I parallelebipedi]
Giuseppe Talia
4 marzo 2018 alle 16.30
Ci vuole una grande consapevolezza di sé come pure dell’altro da sé per compiere il balzo definitivo che porta l’Essere ad esplorare i diversi meccanismi che si instaurano nei diversi piani, individuali, collettivi, sociali, economici, per l’instaurarsi di un rapporto simbiotico con l’alterità, quando essa è appunto uno scavo profondo delle “cose” dentro l’universo personale e gli “oggetti” esterni che, irrorati di luce comunicativa, si integrano, perdono la loro precipua identità per divenire alterazioni delle qualità all’infinito (Hegel).
Ho da sempre cercato di privilegiare il tempo esterno (la Storia), rispetto a quello interno (l’esperienza), nella convinzione che se avessi trattato solo l’esperienza diretta avrei finito per fare monologhi sul mio “io”, oppure avrei concentrato i miei sforzi su questioni irrilevanti circa la mia vita (vedasi tutta la perdurante poesia minimal chic, romana o milanese poco importa) preferendo lavorare sull’esplosione del logos, “o gli epigoni o il sommovimento”. Per tre lunghi anni (1992-1995) mi sono autorecluso in una oscura provincia della Calabria, interrogando l’alfabeto, chiedendo lumi al cavolfiore nel giardino, al treno che passava sferragliando sul ponte di ferro, alla porta, alla sedia, al mio stesso sesso.
Racconto questo episodio. Nel 2006 fui invitato a leggere le mie poesie in un liceo di Firenze assieme ad un altro poeta conosciuto di cui non faccio il nome. Il poeta di lungo corso lesse le sue parole alte che risuonavano nella stanza come in un concerto di strumenti a corda strofinata. Gli studenti rimasero fermi e immobili, con gli occhi fissi per tutto il tempo. Quando fu il mio turno aprì il mio libriccino e comincia il concerto con gli strumenti a corda pizzicata.
Dissi loro che la poesia è ovunque. “La poesia è anche in questa stanza”. Prendete ad esempio una sedia, (Chi ti inventò/non aveva nulla da fare), oppure una porta (Quando sbatti lo sa solo l’aria/ Sei un limitare dello spazio/ e lo sa appunto solo l’aria).
I ragazzi sembrarono parecchio divertiti, avevano perso la rigidità e la diffidenza (ndr. Vollero copia del mio libro).
Ora, ricordando quell’episodio mi rendo conto che forse ho provocato uno spostamento, ho colpito qualche bersaglio, con leggerezza, è vero, che però non è superficialità, piuttosto l’uscire dalle secche rimuovendo la terra lessicale che sta al centro della germinazione, per riportare alla luce e in superficie il primo granello, ossia la materia stessa che è la sostanza originaria, necessaria ad essere l’Uno e il Tutto del linguaggio, per riformularlo nel giro di un nuovo circuito dove il disvelamento, e l’identificazione della parola interagiscono fino ad annullarsi e a riprodursi ogni volta. Il percorso per arrivare alla concentrazione o concrezione o con-creazione del sé, sta a monte, sta nel pensiero, nelle basi neurobiologiche della fruizione e della creazione, secondo l’assunto per cui “la creatività e l’immaginazione sono attributi di cui ogni cervello è in vario grado miracolosamente dotato, e che in vario grado esprime nelle sue attività.
Insomma, credo di essermi seduto anche io a far colazione in quel lontano 1992 e di aver aperto “l’uovo di tigre” (G. Linguaglossa).
Ringrazio, dunque, Giorgio, per questa nota e visto che ha citato il nuovo libro appena uscito, La Musa Last Minute, vorrei riportare una sestina dedicata a una poetessa romana, Silvana Baroni.
È un bel dire microchirurgia quando le avvertenze del bugiardino
Ci collocano in effetti planetari e collaterali come reperti autoptici
Della traumatologia dell’acquerugiola e della trementina
O forse più pervicace l’ombra delle fronde quando è un deserto
Di parallelebipedi che nel disordine della memoria dell’acqua
Non trovano la fonte aspra e forte ma anche di deflusso verso il mare.