Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti
Lettera di Petr Král
Chère Donatella Costantina Giancaspero,
merci de votre lettre et de l’intérêt que vous portez à mes écrits; l’article sur Notions de base, bien sûr, m’intéressera beaucoup.
Je comprends mieux, grâce à votre lettre, la notion de “nouvelle ontologie esthétique” et le besoin que vous avez d’une “devise” de cette sorte. Moi aussi, après tout, j’ai utilisé l’expression de “phénoménologie” poétique à propos de mes Notions de base, justement, ce qui n’est pas très loin de votre ontologie… Je trouve, en tout cas, que votre initiative pour relancer le débat sur la poésie dans le contexte actuel est une initiative heureuse et utile et qu’elle mérite d’être connue et suivie le plus possible; et si je peux y contribuer un peu, je n’hésiterai pas à le faire, selon les circonstances et avec mes moyens personnels.
Comme vous, je serais content si cela nous permettait également de nous rencontrer un jour. Avec un amical bonjour pragois, à vous et à vos amis ontologistes.
[Cara Donatella Giancaspero,
grazie per la tua lettera e il tuo interesse per i miei scritti; l’articolo su Nozioni di base, ovviamente, mi interesserà molto.
Capisco meglio grazie alla Sua lettera, il concetto di “nuova ontologia estetica” e la necessità si dispone di un “motto” di questo tipo. Io anche, dopo tutto, ho usato l’espressione “fenomenologia” poetica a proposito delle mie Nozioni di base, che non è molto lontano dalla vostra ontologia … Io penso, comunque, che la vostra iniziativa per rilanciare il dibattito sulla poesia nel contesto attuale è un’iniziativa felice e utile e che merita di essere conosciuta e seguita il più possibile; e se posso contribuire un po’, non esiterò a farlo, secondo le circostanze e con i miei mezzi personali.
Come te, sarei felice se ci permettesse anche di incontrarci un giorno. Con un amichevole buongiorno praghese, a te e ai tuoi amici ontologisti]
[Sabino Caronia, Steven Grieco Rathgeb, Grafica di Lucio Mayoor Tosi]
Sabino Caronia, soltanto un Appunto
Giorgio Linguaglossa scrive nel Retro di copertina del volume:
Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.
Il programma «minimo» annunciato nel sotto titolo diventa, come per magia, un programma «massimo».
Diamo la parola a Linguaglossa:
Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti
Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive: «l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica». Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo. Con Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale. La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte e stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredita di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.
Il «frammento» si da soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perche l’eta pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».
Esponente di rilievo dell’ermeneutica contemporanea, fortemente influenzato dal pensiero di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, Vattimo ritiene che l’oltrepassamento della metafisica sfoci in un’etica dell’interpretazione. La filosofia diventa pensiero debole in quanto abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma e intesa come continua interpretazione. Esistono, dunque, diverse ragioni che contrastano le pretese della filosofia fondazionale, ma il motivo di maggior peso e dato proprio dall’ermeneutica, arte e tecnica dell’interpretazione che riguarda il rapporto tra Linguaggio ed Essere.
Esistere significa vivere in relazione ad un mondo e questo rapporto e reso possibile dal fatto che si dispone di un Linguaggio. Le cose vengono all’essere solo entro orizzonti linguistici non eterni ma storicamente qualificati. anche il linguaggio non e una struttura eterna.
[Giuseppe Ungaretti, Eszra Pound, Grafica di Lucio Mayoor Tosi]
L’uomo e gettato all’interno di questi orizzonti linguistici, legge ed interpreta l’essere e si rapporta ad essi. Ma, trattandosi di orizzonti temporalizzati, vale a dire non eterni, è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute su Dio, sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità. L’avventura del pensiero metafisico è giunta al suo tramonto. L’uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L’uomo si apre al mondo tramite il Linguaggio che parla. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali.
La verità diventa la trasmissione di un patrimonio linguistico e storico, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo.
Umberto Saba scriveva in Quello che resta da fare ai poeti: «un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima invenzione». È proprio quello che fa Linguaglossa quando sposta il binario Debenedettiano dalla linea Saba-Penna alla linea Tranströmer-Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb nuova ontologia estetica della poesia italiana ed europea. Leggiamo un brano significativo.
Ha scritto Linguaglossa:
“Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).
Una poesia Sandro Penna
La vita… è ricordarsi di un risveglio…
La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)
Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.
Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer
Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.
[Petr Kral, Michal Ajvaz]
Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.
Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso «lo spazio espressivo integrale» della poesia transtromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.
Leggiamo quest’altra strofa:
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».
Giacomo Debenedetti, forse il più grande indagatore del romanzo del novecento, metteva in evidenza una linea Saba-Penna e dedicava particolare attenzione a poeti come Gozzano e Saba che sono certamente tra i meno innovatori della nostra tradizione del novecento, non a caso Elsa Morante intitolava Il poeta di tutta una vita un suo intervento sul notiziario Einaudi dell’aprile 1957. Il no a Saba, del resto, era già nel panorama poetico dei Versi di Renato Serra ed arriva fino ad un intelligente discepolo di Debenedetti, Alfonso Berardinelli il quale discorrendo recentemente della poesia di Saba non può fare a meno di sottolineare la predilezione di Debenedetti per la narrativa e la sua prevenzione nei confronti della «poesia ermetica».
Nel volume di Giorgio Linguaglossa si auspica una rivoluzione che sia consapevole dei valori della tradizione per potere radicalmente innovare e a questo proposito particolarmente significativo è il capitolo «Cenni sul concetto di Bello», che non può non richiamare alla mente le osservazioni di Giacomo Debenedetti e il pensiero di Kafka da cui parte la sua critica: «La nostra arte è un essere abbacinati dalla verità, solo la smorfia che si ritrae sul volto è vera, nient’altro che questo».
Le incursioni di Linguaglossa su concetti della fisica e della metafisica come il «vuoto», il «nulla» e la fisica quantistica, hanno un precedente illustre nelle pagine di Debenedetti sul trionfo dei brutti e sulla fisica quantistica, non a caso sono state sottolineate da critici esperti come Angelo Guglielmi e Mario Petrucciani il quale ultimo ha intitolato significativamente il suo intervento «Debenedetti e la musica dell’algoritmo».
Sulla scia di Debenedetti, Giorgio Linguaglossa non può fare a meno di richiamare Freud il quale dice che «non c’è nessun altro luogo di cui si possa dire con altrettanta certezza che ci siamo già stati [il grembo materno], non a caso il primo contributo di Debenedetti su Saba è intitolato «Il grembo della poesia»).
Scrive Linguaglossa a proposito della «crisi del soggetto»
«La crisi della ragione è nient’altro che la crisi del Soggetto. Anzi, deriva dalla crisi del soggetto cartesiano. Dopo Freud la crisi del Soggetto ha avuto una grandissima impennata: oggi abbiamo un soggetto in frammenti, un corpo in frammenti, un oggetto in frammenti». (in Critica, p. 169,170)
Nel dialogo tra Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa viene sottolineato come non a caso Freud, sul significato di creazione artistica, riconduce ogni cosa alla sfera intima e mentale. Ad esempio, la descrizione del sogno dopo Freud in Kafka, in Joyce e in Pirandello non può essere più la stessa.
A proposito del concetto di «Bello» si vedano le pagine dedicate al «Bello nel pensiero di Leopardi» [pp. 32-33] che preparano le altre sulla questione del «reale» e del «realismo» in cui è citato un pensiero dello Zibaldone leopardiano del 7 agosto 1921: «Il primo principio delle cose è il nulla, nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere in quel modo» [p. 35-36]. Altro punto importante è il riferimento all’Infinito di Leopardi a proposito della tematica della «metafora silenziosa» [pp. 72-73]
È questo che distingue la poesia di quanti pur pregevoli autori, come Mario Benedetti, dimostrano punti di vicinanza o di contatto, con il suo «scarto minimo» rispetto allo «scarto massimo» proprio delle «disfanie» tipiche della «nuova ontologia estetica» o delle discontinuità della poesia di Mario Gabriele il quale nel suo intelligente collage mette insieme frammenti delle réclame, delle canzoni dei R.E.M., della cronaca etc. in una linea che a me personalmente richiama il magistero poetico di un «Incendiario» come Aldo Palazzeschi secondo una linea diagonale che unisce il poeta italiano a Kjell Espmark, Tomas Tranströmer, Katarina Frostenson, Petr Kral, Michal Ajvaz tanto per fare dei nomi di poeti europei.
Quando morirò, vedrò la fodera del mondo
«io mi sentirei di tracciare una linea che va in diagonale da Corrado Govoni a Aldo Palazzeschi passando per i crepuscolari e lo Sbarbaro di Pianissimo al primo Montale. La prima metà del novecento italiano vive in questa gamma di possibilità stilistiche entro la quale si possono situare tutti gli altri poeti. Con il secondo novecento la questione si sposta e diventa preponderante il problema del discorso poetico, cioè l’adozione di un territorio linguistico contaminato, ibrido, spurio, contagiato dalla narrativa, dal pensiero saggistico, dai nuovi linguaggi mediatici. Tutto ciò ha avuto ed ha tuttora un enorme peso sulla poesia del secondo novecento e su quella di oggi a maggior ragione, direi un peso determinante». [Critica, p. 196, Giorgio Linguaglossa]
Vorrei concludere con una frase di Renato Serra che nella sua ricerca di «un’ora comune» scriveva nelle pagine memorabili del suo Esame di coscienza di un letterato: «E facciamo magari della letteratura. Perché no? Questa letteratura che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi sono vergognato di prendere sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne».
Una lettera di Giorgio Linguaglossa a Rossana Levati:
cara Rossana Levati,
Milosz è stato un mio maestro, tanto tempo fa leggevo i suoi versi con ammirazione. L’ammirazione è restata ma è subentrato il rammarico che non posso più contare sui suoi versi… Milosz è un altro tipo di poeta, lui era un credente, credeva nella «pesantezza» della parola e delle parole, viveva in un mondo regolato dalla cortina di ferro, le parole per lui erano di ferro… Adesso noi invece sappiamo di abitare un mondo di sabbia dove le parole sono sabbia di sabbia, e le parole di un poeta non sono altro che geroglifici inscritti nella sabbia. Noi della nuova ontologia estetica non potremmo mai scrivere un verso siffatto:
«Quando morirò, vedrò la fodera del mondo»
perché non c’è più un «Quando», noi sappiamo che non c’è mai stato un «quando», semplicemente non è mai esistito, che i nostri ricordi non ci sono più, che è saltata la continuità tra il passato del «Quando» e il presente del «quanto», siamo diventati «deboli» e «orfani», non possiamo più pronunciare le parole «pesanti», abbiamo dismesso l’avverbio «Quando» e lo abbiamo sostituito con l’avverbio «Forse», siamo entrati nel cono d’ombra delle parole d’ombra. Noi oggi potremmo tutt’al più scrivere:
Forse un giorno anch’io vedrò la fodera del mondo,
ma è molto improbabile… che ciò avvenga,
la distanza tra me e Milosz la possiamo cronometrare
in miliardi di chilometri che separano la cintura di Kuiper
dalla nebulosa di Oort. Le stelle del suo firmamento
stanno qui sul mio comodino insieme alle mie parole
di sabbia…
non ho altre certezze che la certezza della mia incertezza,
questa sì, la mia più grande certezza, dalla quale però
non mi è lecito arretrare…
La nostra è una ontologia della caducità, la nostra ontologia è diventata «debole», chi non l’ha capito non ha capito nulla di quello che è accaduto al nostro mondo. Ci sono rimaste le «parole deboli» e con quelle, volenti o nolenti, ci dobbiamo arrangiare. Chi usa le parole «forti», le parole dell’elegia, le parole del panlogismo del secondo novecento, il discorso zanzottiano e post-zanzottiano, le parole «fortificate» , le parole polifrastiche e paesaggistiche o non ha capito nulla del nostro mondo o è uno sciocco (che poi sono la stessa cosa). Quelle parole sono finite nel buco dell’ozono della afasia dell’ultimo Zanzotto (Meteo e Sovrimpressioni), e non poteva andare diversamente perché quelle parole corrispondevano ad una visione panlogistica del discorso poetico. A noi di quel mondo non ci sono rimasti che frammenti, e non ci resta altro da fare che impegnarci nella loro raccolta e catalogazione in un discorso poetico che sarà necessariamente frammentato e dissestato. A noi di quell’«armadio delle meraviglie» del novecento è rimasto questo, l’ha scritto Anna Ventura:
L’armadio delle meraviglie
Con mani tremanti e occhi azzurri
ho aperto l’armadio delle meraviglie
– c’era scritto anche fuori:
armadio delle meraviglie –
Ma dentro era vuoto.
Ho spiato ogni angolo, se mai
una piccola ampolla, una piuma,
una scatola cinese, una perlina
fosse rimasta ancora. Vuoto
dovunque, vuotissimo vuoto.
Ho rinchiuso le ante,
dolcemente, con grazia,
affinché nessuno sentisse
io cigolio dei cardini. Chi sa
forse è bene
che altri continui a credere
in questi armati e forse
in tutta la terra grandissima,
o in qualche vecchio museo,
ancora esiste un armadio
che non sia vuoto e risponda
al suo nome meraviglioso
con vere meraviglie. 1]
*
Come una fragile tazza
Come una fragile tazza
a ricami verdi
questo pomeriggio vuoto;
che orribile spreco – imperdonabile –
di splendore.
Il fatto è che abbiamo dovuto sgombrare molte case, abbiamo dovuto abbandonare molteabitazioni noi della fine del novecento, e queste fatiche ci hanno lasciati esausti. Leggiamo questa poesia di Anna Ventura:
Le case
Ho amato molte case
E due moltissimo. La prima
Era nel vecchio quartiere della città,
partiva da terra ma poi si capiva
che spaziava sui tetti in piccole terrazze fitte di voli.
La componeva
una serie di stanze minuscole
bianche di luce e calce – casa
di astronomo,
o di marinaio –
In fondo, l’altana coperta
Di travi decrepite,
gonfia d’aria e di sole.
Ma sotto ci abitavano gli straccivendoli,
e dai terrazzi a conchiglia si vedeva
la loro vita miseranda brulicante da basso.
Non piacque a mia madre,
anzi, le fece paura. Io invece
ne rimasi ferita a morte,
col tempo mi ammalai di nostalgia.
L’altra è la casa del vento,
tutta esposta a Occidente, davanti nulla,
solo gli spiriti dell’aria
che di giorno e di notte
bussano ai vetri con le loro manine.
Neanche questa casa piace.
E perché dovrebbe?
Solo che intanto io ho imparato
A mettere il bavaglio ai miei sogni,
accettato l’assioma
che la realtà rifiuterà di abbracciarli
nel suo concretissimo giro ma io
me li terrò lo stesso,
nel giro infingardo
della mia verità.
1] A. Ventura, L’armadio delle meraviglie, Collana di studi Abruzzesi, 2004 p. 13