Elio Pecora Poesie da Rifrazioni,Lo Specchio, Mondadori, 2018 pp. 150 € 18 – con un preambolo di Pier Aldo Rovatti da Abitare la distanza e una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
la scrittura poetica non può essere ridotta a «episodio»

 

Scrive Pier Aldo Rovatti:

 

«La scrittura e la sua scena non possono essere ridotte a episodio. La ripresa del problema filosofia/letteratura ha senso se ci aiuta in una “chiarificazione”, per dir così, del linguaggio e della scrittura  in rapporto alla pratica filosofica. Considerazioni sul tempo interno della scrittura (l’interruzione, la pausa, il silenzio ecc.) rientrano in questo ambito problematico, in cui è importante che avvenga uno scambio di informazioni e di esperienza tra chi scrive di filosofia e chi opera nel campo del discorso letterario. Non mancano, per altro, esempi recenti e recentissimi di tale scambio, e per tutti potrebbe valere l’importanza che ha avuto Maurice Blanchot nell’ambito della più significativa comunità filosofica del dibattito francese contemporaneo.

 

Prendiamo alcune affermazioni da Deleuze: “È attraverso le parole, in mezzo alle parole, che si vede e si ascolta”, “Lo scrittore, come dice Proust, inventa nella lingua una nuova lingua, in qualche modo straniera. Scopre nuove potenzialità, grammaticali o sintattiche”.1] Il filosofo è uno scrittore? Sì se consideriamo che la sua pratica è una pratica di scrittura, e se poi siamo disposti a riconoscere che la scrittura, in ogni caso, (quindi anche nel caso del filosofo) non è un semplice uso del linguaggio, ma un “intervento” nella lingua e quindi un’attività di spostamento e trasformazione. Un lavoro di scoperta e di invenzione: più precisamente – e mi riferisco alla metafora deleuziana della lingua straniera – un lavoro di spaesamento; la produzione, nella scrittura stessa, di un effetto freudiano di perturbamento (o di Unheimlich). Che lo sappia o no – sembrerebbe di poter dire -, chi scrive di filosofia è impegnato a dar luogo a variazioni linguistiche che tolgono una presunta chiarezza, familiarità e prossimità alle parole. Il suo compito, nello scrivere, sembrerebbe piuttosto quello di produrre una distanza; ma “produrre” non è poi la parola giusta, e forse sarebbe meglio dire, rendendo la parola un po’ più straniera, abitare una distanza. Deleuze parla anche di “delirio” (sempre sul punto di diventare una malattia), e ricorda Beckett, che a sua volta diceva che bisogna fare dei buchi nel linguaggio perché solo con quest’opera di trivellazioni il linguaggio manda fuori quel che sta annidato, imboscato in esso. Ma se il filosofo crede (ed è opportuno che lo creda) di dover e poter scrivere il pensiero, cosa possono allora significare questa distanza e questi buchi? e che ne è allora del pensiero nella scrittura?»1]

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

È che anche la scrittura poetica non può essere ridotta a «episodio», pur se dell’«episodio» ne conserva tutte le caratteristiche, anzi, che si presenta come rappresentazione di un «episodio», senza esserlo, senza volerlo in alcun modo rappresentare o legittimare, perché non è compito della poesia volerlo. È che la migliore poesia che si fa oggi è priva di scrittura critica, non c’è più un linguaggio critico che può sostenerla e condurla verso il tragitto della lettura, perché anche quel linguaggio è stato esautorato e defenestrato dagli «idiomi di accompagnamento» che sembrano così ben scritti e accuditi da fare invidia ad un critico intonso. Non sappiamo neanche quale linguaggio impiegare per questo tipo di «poesia», che non appare né troppo «in» né troppo «post», è una scrittura che sta a mezzo, né di qua né di là, una scrittura impigrita da uno strascico di antica nobiltà denominativa. Ma è proprio quella sovrana pigrizia, quella paresse e grazie ad essa che la scrittura poetica di Rifrazioni può brillare nella sua aura di sobria caducità, perché accetta senza rancore di essere parola della caducità, parola dell’indebolimento del senso, parola dell’indebolimento dell’essere. L’indebolimento delle parole si rivela chiaro in quell’aggettivo posto a ridosso della parola «dio», intendo «frecciuto», con quel quasi vezzeggiativo che è già un diminutivo che va a collimare con un altro aggettivo «indebolito», quello «sfiacchito», poco più giù, addebitato al «corpo». Forse una certa manutenzione negligente del verso la può fare soltanto chi ha il verso nel proprio registro di classe, quasi una nobile pigrizia dello stile:

 

Non v’è un tempo per l’amore. Il dio frecciuto
può presentarsi non chiamato all’uomo vecchio
e nel corpo sfiacchito fortemente accenderlo.
Ma se l’impenitente non soggioga poi
l’oggetto amato, una pena senza scampo
fa strenua e balbettante la resa.

 

Leggiamo un’altra poesia:

 

Non si tratta più di accordare lo strumento
ma lasciarlo vibrare, ora solo sfiorandolo,
ora percuotendolo in una furia irriflessa.
un poco appressarsi a quel che mancava.
… Come andare dietro un’ombra senza chiedersi
di dove provenga. in quella toccarsi.

 

È ovvio che qui «lo strumento» non è più la lingua, «non si tratta più di accordare lo strumento», intendo la negligenza della distanza dalle parole… perché il linguaggio non accetta di essere «accordato», manipolato, manomesso, il linguaggio va accettato per quello che è, con i suoi rumori, le sue zone franche, le sue zone di silenzio, con i suoi gorghi semantici; soltanto «sfiorandolo» quello «strumento» potrà offrire i suoi significati, e «percuotendolo» «in una furia irriflessa». Il simulacro, la deità che presiede a questo rito è Dioniso. Ascoltiamolo:

 

Di quale Dioniso parla se da questo stambugio
si promette un desiderio sconfinato.
Quel dio di doppiezze pianse anche lui
e da quel pianto germogliò l’uva che inebria.

 

 

 

Giorgio Linguaglossa
si promette un desiderio sconfinato

 

 

Dioniso è il dio dell’ebbrezza, del «desiderio» che muove tutte le cose, quel «desiderio» che viene evocato dalle parole e attraverso le parole, che viene portato dalla superficie e che conduce nella dimensione dell’ascolto profondo, nella dimensione della «distanza». Abitare il «desiderio» è già stare dentro una stanza, dentro una distanza, un girare intorno al «desiderio», viverlo dall’esterno e dall’interno al contempo. Dioniso è anche il dio che scuote dall’interno la fredda scrittura di Apollo, che è la scrittura della ricomposizione delle tensioni introdotte dal «desiderio». Un’altra parola chiave del libro, oltre a «desiderio» è «inquietudine», inquietudine e «rifrazioni» sono tre parole, l’una presuppone le altre, e tutte e tre contribuiscono a stabilire la Grundstimmung, la tonalità dominante del libro, perché la poesia, come dice Steven Grieco Rathgeb «è un luogo non una strada», ma noi non sappiamo mai se la strada condurrà in un luogo; è questa l’aporia massima: imboccare una strada sapendo che essa raramente ci porterà in un luogo. Una fredda scrittura apollinea vivificata dalla inquietudine della facoltà desiderante. È il desiderio che muove la poesia che è quella cosa che si scrive nelle intertemporalità, in quegli attimi di sospensione dal giogo del quotidiano, negli «interludi», e questo è forse il modo migliore per carpire il segreto del quotidiano. Il desiderio tende l’arco dello stile. Balugina la consapevolezza di «un altro tempo [che] corre in questo tempo», che la poesia la si fa e la si trova negli interstizi tra le temporalità. Leggiamo una poesia significativa:

 

Un altro tempo corre in questo tempo
che contiamo a minuti:
è l’ansa dove il sogno della mente
non conosce durata,
la parola che tenta se stessa
esatta, svelata.

 

*

 

Precipita lì ora, pure è la sola eternità
nella quale attestarsi.

 

Dove non è tanto importante la rima in «ata» del terzultimo con l’ultimo verso, quanto la apparente negligenza di infilare la rima proprio nel finale di stanza, quasi con noncuranza, quasi con stupore, come qualcosa di cui potremmo anche fare a meno: la rima che non sai più dove metterla, e che allora la metto in ultimo come per trarmi d’impaccio. In fin dei conti, la rima ha oggimai perduto la sua antica nobiltà denominativa, la sua gioia di vivere, la gioia del suono, quello che resta è quasi un impaccio, un incespicare, appunto, su una rima non necessaria, non voluta, non cercata. E in questo trattare le cose importanti con la massima noncuranza, proprio qui risiede un elemento di distinguibilità della scrittura poetica di Pecora. È qui la sua classe di scrittura, che sa di antico, come in certi verbi («adduce») che invece nel contesto della sua poesia diventa un verbo nuovissimo, o in certo lessico usurato che viene ripescato e riutilizzato, ma senza alcun riguardo per la scrittura ricercata, anche a costo di poterlo sembrare. Anche certe frasi assiomatiche sembrano dei logaritmi assiologici, e invece sono semplicemente dichiarazioni di indugio, di negligenza, di non belligeranza. Questo stile logaritmico mixato con una negligenza figlia dello stile colloquiale è il marchio peculiare della scrittura di Pecora: il poeta dice cose importanti come tra le righe di un discorso mezzo cancellato, di un discorso interrotto e ripreso e, infine, abbandonato per la via.

 

V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora
ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia
nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme
di cani affamati si presentano i pensieri più cupi,
le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda.
Del passato non resta nemmeno una stilla di bene,
non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte:
cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo
se riesci a trovare la forza di accendere la lampada,
di tornare alla pagina del libro lasciato prima
che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai
a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte
socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)

 

Forse la poesia è questo frangersi e rifrangersi di «rifrazioni», questo incrociarsi di raggi rettilinei che, attraversando i corpi, si propagano in altri raggi distorti. Elio Pecora prende a prestito dalle leggi dell’ottica questo singolare fenomeno che noi tutti abbiamo sotto gli occhi in ogni momento del dì.2] 
C’è in questa scrittura poetica quasi una reticenza psicologica, un «dolore frammentario», una incertezza, una frammentazione del dolore, un voler pensare in pensieri e un non volere pensarli, una oscillazione tra pensieri diversi che albeggiano e si spengono, quasi un indebolimento dei pensieri. C’è un ingombro di oggetti e di pensieri che pensano gli oggetti di cui «la nostra giornata si riempie»; c’è questo mistero delle cose che sembrano allontanarsi o rintanarsi «nel buio odoroso di un armadio, fra mucchi di vecchie carte,/ nella tasca interna di una giacca da portare in lavanderia». Il discorso sugli «oggetti» diventa scivoloso. Il discorso sugli oggetti è un discorso sulla alterità, e allora il discorso slitta, oscilla, imbocca percorsi litoranei, laterali, obliqui attraverso i quali si può giungere alla meta di essi senza eludere l’aporia che li abita e che abita in noi, perché se il discorso poetico non costruisse questi cunicoli, queste vie indirette e oblique allora non ne verrebbe mai a capo, di quelle aporie, intendo, che giacciono al fondo del nostro rapporto con gli oggetti e con le cose. L’unico modo che il discorso poetico ha è quello di attraversare la vita degli oggetti, nella certezza che disporsi al raggiungimento della meta sarebbe un proposito illusorio e fuorviante.

 

 

Giorgio Linguaglossa
Meglio eluderli gli oggetti, meglio eluderli i nomi, è preferibile mantenersi vicini alla nostra fragilità piuttosto che pronunciare parole arroganti, ultimative

 

 

Meglio eluderli gli oggetti, meglio eluderli i nomi, è preferibile mantenersi vicini alla nostra fragilità piuttosto che pronunciare parole arroganti, ultimative. E allora non rimane altro alla poesia che accettare di dover condividere il paradosso della propria estraneità alla nominazione, accettare il ruolo forse più limitato e limitante che è la produzione di una parola che non può più avvicinarsi al senso, forse perché il senso non abita più il sensorio, perché se ne è fuggito via con tutte le illusioni e le utopie che ci hanno accompagnato in vita.


Il fatto è che non si può uscire dal sortilegio, o dall’immaginario direbbe Lacan, non possiamo sortire né entrare in un luogo sconosciuto se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, perché la città del senso la puoi prendere soltanto con un trucco, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta è ragguagliabile ad un illusionista che illude le parole e le elude. «Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».3] E forse in questo bivio soltanto può abitare il senso, il senso residuo dopo la combustione, se un senso v’è nella parola poetica, durante questo «indebolimento della soggettività»4] che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo dimenticato la scaturigine.

 

Recentemente ho parlato del «raffreddamento delle parole» leggendo alcuni autori di poesia di oggi; non ho ricevuto risposta alcuna, come se avessi osato dire cose fastidiose, temerarie, come se la cosa non li riguardasse affatto, come se parlare di «raffreddamento delle parole» fosse un insulto o una diminutio; ed invece è una cosa tremendamente reale, significa che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate. E allora? Cosa resta delle parole? Cosa resta delle cose? «di quel che attende di essere preso e toccato»?, forse non resta che «una ressa di immagini specchianti che premono», quando «morire non può essere che svuotarsi di tutto». E allora, cosa c’è di più drammatico di questa nuova condizione esistenziale, quando ciò che resta è una «voglia irriflessa», «solo consumazione e spegnimento», perché non si dà un altro modo di darsi, «non una lacerazione» e neanche «un’uscita» perché «non si pronuncia la felicità, sta ferma nell’istante». È la nuova condizione esistenziale della «felicità frammentaria», del «dolore frammentario» «così da non avere più/ da ascendere o discendere», perché non c’è più un alto e un basso, tutto è già stato detto e vissuto «nel libro quarto dell’Odissea», che altro aggiungere?

 

Forse il mondo ha cessato di essere significativo, e forse al poeta di oggi non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ma è significativo che un poeta di origine napoletana come Elio Pecora, classe 1940, romanizzato nel bene e nel male, a lui sia toccato in sorte, ad un poeta inurbato nella capitale da così lunga data, di stendere in versi il resoconto esistenziale forse più lucido e disincantato della poesia di matrice novecentesca, «dell’indebolimento della soggettività» con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Poesie di Elio Pecora da Rifrazioni (2018)

 

Ha provato a stendere un elenco di quel che entra
nelle sue giornate: i volti, i nomi, gli oggetti
e quel che sta dietro le parole, e quel che s’aggiunge
nei pensieri ai pensieri. Quanto, anche nel giro
di un momento, vedono i suoi occhi. Quanto
accompagna ogni suo passo. E il numero interminabile
di quel che si muove e respira, e di quel che attende 
di essere preso e toccato. Non è mai solo
se, anche nella stanza più buia, si porta dentro
una ressa di immagini specchianti che premono.
Morire non può essere che svuotarsi di tutto,
non una lacerazione, non un’uscita,
solo consumazione e spegnimento.

 

*

 

Nell’immenso ordito la sua vicenda non è
che un intreccio infinitesimo, il disegno sbilenco
di una foglia prossima a insecchire. Sono tutti là
i suoi beni e le sue perdite, il veleno dei suoi assilli,
la torma indomabile delle sue paure, i ritorni
della contentezza, la voglia irriflessa di restare.
Sono là, a chiamarli – ciascuno perfino sorpreso,
incupito – i tanti e tanti ai quali ha dato
il nome e la vicinanza. Altri, nemmeno chiamati,
si presentano (il violinista sulla metro
alle fermate ficca in una sacca nera il suo strumento
da nascondere ai vigilanti, truci come il policemen
di Charlot; il barbone che per un euro cede
il foglio sul quale ha scritto frasi insensate;
il vecchio che blatera verità putrescenti
nel romanzo di Roth; la badante moldava
col telefonino che innesca Il Lago dei cigni…).
Fra quella folla così varia che lo abita
non gli si addice il posto appartato in cui riconoscersi:
il silenzio in cui – attento e paziente – ascoltarsi.

 

*

 

Tutti qui i paradisi e gli inferni, così da non avere più
da ascendere o discendere. Di quel che chiamiamo
“felicità frammentaria” godiamo ignari – sempre
perdura nel desiderio. Nella parte infernale
mai beghe di diavoli o gironi roventi,
solo ansia e sconforto, “dolore frammentario”.

 

*

 

Di quali e quanti oggetti la nostra giornata si riempie,
creature docili che ci attendono dove le abbiamo lasciate:
nel buio odoroso di un armadio, fra mucchi di vecchie carte,
nella tasca interna di una giacca da portare in lavanderia.

 

Non sappiamo se il coltello gode della sua lucentezza,
se il pettine si attrista sul cranio che ingrigisce,
le scarpe non fanno trapelare la loro stanchezza,
non trema di orgoglio il fante che avanza sulla scacchiera.

 

Privato di tanti utensili, dei molti congegni, l’uomo
il padrone – finanche il barbone trascina sacchi stracolmi
di resti cercati nelle immondizie – sarebbe vuoto già oltre la morte.
Invece, nel desiderio, intendere la vicinanza al dio!

 

*

 

Nel libro quarto dell’Odissea, in casa dell’ancòra biondo Menelao,
da tanto annientata Troia, solo in parte ritornati gli eroi,
Agamennone scannato dal fratello, del tutto pazzo Aiace,
Ulisse sperso per mare (nell’Ellade intera gli aedi
muovono al pianto i sazi commensali), Elena,
la più bella, proprio lei causa di ogni morte e rovina,
versa nelle coppe “il farmaco che placa
furore e dolore e fa dimenticare ogni pena”.

 

*

 

Tornato Odisseo a Itaca e al letto di ulivo,
sa che dovrà ripartire e, dopo un lungo errare,
raggiungere finalmente la terra felice
di dove scendere placato incontro alla morte.
Sa che di tutte le sue imprese la più ardita
è stata di darsi pazienza nella sventura
fino a che nelle arterie prendesse a fluire
il sangue scuro e pulsante di chi resiste.

 

*

 

La città che imprigiona ha molte porte
e ciascuna conduce a diversi ritorni.

 

*

 

“C’è stato un tempo in cui sono stato felice”
si dice l’uomo che non riesce a dormire,
ma cerca invano nella memoria confusa
anche una sola scaglia di luce;
e pure sa che gli è toccato quel bene
se ne conserva ancora il forte richiamo.

 

Di quali ragioni s’intesse il desiderio
se di continuo si mostra a dismisura!

 

*

 

Alcuni sapranno dall’ultimo telegiornale
del tifone a New York, dei morti in Libia
o in Giappone, altri entreranno nel sonno
mentre in un vecchio film l’amante respinge
l’amante bugiardo. Chi avrà a quest’ora
l’ardire di un mutamento? Chi alla finestra
guarderà la luna falcata sui terrazzi?

 

*

 

C’era una volta un giardino ai piedi di una collina,
dietro un muro di pietra. Una rete verde di ferro
lo circondava. Vi fiorivano d’estate dalie
gialle e cremisi. Ibiscus bianchi e azzurri,
un loto, un’acacia, un melo verde, un fico
spandevano sul terreno morbido la loro ombra leggera.
Il vento recava i rintocchi di campanili lontani,
abbaii, cinguettii come musiche accordate.
In quel giardino, d’estate, tornava un uomo
che da sempre, il suo sempre, cercava parole esatte
contro il rumore, e là s’illudeva di trovarle
e ne godeva come il dono inatteso di un paradiso.
Poi venivano i giorni delle piogge e delle parole vuote.

 

*

 

Portava abiti con molti bottoni, arricciature, volant.
Nominava chiffon e organze, mussoline e voile;
finanche i grembiuli da cucina guarniva con viole e gelsomini.
Ingarbugliava nella voce sonante risse di famiglia
e malattie segrete. Raccontava al bambino
di un pappagallo minacciato di morte dalla ragazzetta
innamorata del principe indeciso. Cantava di ville tristi,
di case nel bosco e di una luna vagabonda
che l’abbandonata chiamava nel suo pianto.
Lei, che passava le giornate da una casa all’altra
e di ognuno conosceva passato e presente, un giorno di luglio,
due anni prima di morire, si chiuse nella sua stanza
e ammutì. Non usò mai più l’uncinetto
per quei centri e centrini che regalava a compleanni
e onomastici e che spediva in città insieme a lettere
da districare come enigmi. Per decenni ogni suo discorso
si chiudeva con la frase: «La vita è una lotta, una lotta».

 

 

Giorgio Linguaglossa
film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

 

Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità dominante)

 

Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la nostra estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro.

 

Il nostro abitare spaesante il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del poetico, giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi.

 

L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.

Allora forse occorre abolire e abitare in un medesimo tempo la distanza che ci separa da noi stessi per adire ad un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo.

 

1] G. Deleuze, Critica e clinica (1993), tr. it. di A. Panaro, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 11
2] La riflessione e la rifrazione della luce si possono spiegare supponendo che la luce si propaghi sotto forma di raggi rettilinei (vedi gli studi dell’ottica geometrica). Quando un raggio di luce che viaggia in un mezzo materiale trasparente – ad esempio, l’aria – incontra una superficie di separazione con un altro mezzo trasparente – ad esempio, l’acqua – si divide normalmente in due raggi: uno viene riflesso dalla superficie e l’altro entra nel secondo mezzo variando la sua direzione di propagazione, cioè viene rifratto. Se la superficie incontrata è perfettamente riflettente, non si ha rifrazione e la luce viene completamente riflessa seguendo le leggi della riflessione caratteristiche delle onde. La rifrazione è la deviazione che un raggio luminoso subisce nel passare da un mezzo trasparente a un altro, per la differenza della velocità di propagazione nei due mezzi. Se facciamo passare un fascio di luce bianca (per esempio la luce solare) attraverso un prisma di vetro di forma triangolare, all’uscita del prisma la luce, raccolta su uno schermo, risulta scomposta nei colori fondamentali dello spettro luminoso. Questo fenomeno, detto dispersione della luce, è la rifrazione. Il fenomeno fu studiato per la prima volta da I. Newton nel 1666. 

3] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza Raffaello Cortina, Milano, 2007 p. 128
4] Ibidem p. 129

 

 

Giorgio Linguaglossa
Elio Pecora

 

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 (email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la  critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse,  Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

 

I suoi libri di poesia: La chiave di vetro  (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto(Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle  (Roma, Rossi & Spera 1990); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure   (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi(Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro, Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore  (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.

 

I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2007; Un cane in viaggio (Illustrato da Beppe Giacobbe), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.

 

I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia, ed. Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed. Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni con  Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed. Aragno 2012.

 

I testi per il teatro rappresentati: Alcesti, 1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani;  Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio,  RadioTre il 19 ottobre 1997.

Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume Teatro. Un ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.

 

Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.

 

Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in  francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese (Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)

 

Ha curato:  Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori, 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed. Pagine 2013.