Gino Rago Una Poesia, Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska, Lars Gustafsson (1936-2016) Una Poesia, Ibn Batutta Commenti di Alfredo de Palchi, Rossana Levati, Mario M. Gabriele, Giuseppe Gallo, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia

 

Giorgio Linguaglossa

Le scrivo dal Centro dell’Impero. Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert

 


31 marzo 2018 alle 11:59

Ecco un intreccio poetico [Lipska-Linguaglossa-Rago] a tre, con Giorgio Linguaglossa che tenta di dare scacco matto al tedio di Dio…

Gino Rago

Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
[come Roland Barthes fece con sua madre].
La sua morte l’ho appresa dalla mia amica di Vienna.
La città oggi è nella tristezza dell’autunno
[la mia amica dice che piove da tre giorni].
Entro al «Blumenstrasse» [ il Buffet caro alla Signora Schubert].
I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano.
Mi dicono il menù da lei desiderato.
La sperlunga «Octoberfest» di patate in tecia e crauti.
Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

il mio amico-poeta di Roma ha dato scacco matto al tedio di Dio.
Ha scritto in un suo verso.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Forse per questo al Buffet della Signora Schubert
l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile»
dice ancora alle mie spalle qualche verso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße»
il perché di quel nome:
«Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti.
Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle.
Gli anziani col monocolo diventavano ballerini.
Il clown macrocefalo smetteva di far ridere.
li zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude.
I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)


andrò con la mia amica di Vienna
a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero
[sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].

Laura Canciani:


La Nuova Poesia
? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro…

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa


Mario M. Gabriele
30 marzo 2018 alle 11:15

Caro Giorgio,
grazie per aver concesso altri giorni di dialogo sul tema della Critica e della Nuova Poesia. Meglio così,perché in questo modo si accede ad una dialettica di più ampia sfaccettatura. Mi fermo sul primo punto: quello della Critica, senza fare una retrospettiva storica, la qual cosa sarebbe noiosa e fuori tempo, ma chiamando in causa quella di mezzo secolo,più libera e autonoma, anche se poi via via, si sarebbe asservita al potere delle grandi case editrici. Intorno agli anni Sessanta la rivista Strumenti Critici aprì un ampio dibattito, portando in primo piano l’azione dello Strutturalismo, facendo riferimento ad alcuni Autori che meritavano tale studio. Ma poi, sia il tempo che la dispersione della critica verso altri mediocri orizzonti, portarono come scrisse Mario Lavagetto alla Eutanasia della Critica, intendendo dire con questo titolo del suo volume, la fine operativa di una disciplina. Ci fu un vero tracollo della critica militante e accademica, che sembrava non interessare a nessuno, dal momento che l’Editoria maggiore si autogestiva criticamente sulle opere prodotte. Se la critica muta le proprie direzioni si rimane come tuareg nel deserto. Va bene che spetta al lettore captare il bello di un verso, ma quanto alla sua decodificazione, credo che spetti al critico svelarne il senso. Non esiste libro che non abbia bisogno del critico. Se addiveniamo a questo concetto si recuperano valori e senso dello scrivere.

Oggi, per fortuna, si assiste ad un proliferare di riviste on line, di vendite e-book, con proposizioni linguistiche, e qui cito la «Nuova Ontologia Estetica», non per mero narcisismo, ma per effettiva documentazione estetica. Non vedo nel Gruppo 63 i killer della poesia. Anzi, fu una parentesi necessaria al pascolismo e al bertoluccianesimo imperanti in quegli anni. Ci fu tutto un susseguirsi di variazioni stilistiche e di affratellamento con gli esiti linguistici europei e degli angry ypung man, con festival di poesia e di importanti presenze di poeti di diverse nazioni. Attori leggevano poesie di Montale, di Caproni, ma soprattutto delle nuove leve come Saady Yussef, Ghassan Zaqta, Tadeus Rozewicz, accompagnati dai bassisti Deep Purple, Glen Hughes, ecc. Allora i poeti avevano molte ragioni per apparire, salire sui palchi, fare happening. Ma oggi? Era sì spettacolo, allora, ma anche performance della poesia, come a San Francisco con Ferlinghetti, e a Castelporziano con William Burroughs. Insomma, veramente la poesia degli anni 60 e 80 non fu mai così popolare e palcoscenica. Si proclamò la morte della lirica a tutto vantaggio di un grande spazio di libertà semantica.

Tutti ne parlavano e tutti ne discutevano. Poi si affermò la popolazione poetica a dir poco preistorica, che tornava al linguaggio autonomo dell’IO e della riconciliazione con la Tradizione. Un bell’oscuramento della poesia e del suo cammino. Nacquero le metanarrazioni, la cultura degli aedi, l’ascensione al cielo per istituzionalizzare la Metafisica.Caddero l’immaginario evolutivo, e ogni idea di riformismo verbale. Finì il successo plateale, ma anche la diffusione della poesia che stando ad un rapporto editoriale, su 2000 copie, se ne vendevano appena 500, rispetto ad una popolazione di 60 milioni di abitanti. Si può dire che la poesia è finita? In un certo senso si, con addio al piacere del testo e ad ogni proposito di rinnovamento.

Ci troviamo, come dice Zygmunt Bauman, in una sorta di vita liquida, e di relazione antisociale perché non trasmette agglutinazione del senso della cultura. Eppure in queste acque stagnanti qualcosa si muove. È l’antagonismo che come diceva Adorno è diventato ”conflitto inevitabile”. Su questa trincea e opposizione ad una guerra di Cent’anni, Giorgio Linguaglossa sembra veramente essere un Cavaliere Esistente, per rifondare la critica e la poesia. È una nuova lezione volta a ripristinare il giusto equilibrio tra Forma e Senso del suo esistere. La parola cultura ha diverse fascinazioni, ma non può essere insabbiata sulle rive dell’Assenteismo linguistico. Torno ancora a citare Adorno quando scrive che “la cultura risente danno, se abbandonata a se stessa rischiando di perdere non solo la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza.

Giorgio Linguaglossa



Giorgio Linguaglossa

30 marzo 2018 alle 16:36

caro Mario Gabriele,


come dice Laura Canciani, sono cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto. Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria, rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop, ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia… ma il bello è che tutti fanno finta che non sia successo niente, fingono di non avvedersene (o forse, mi chiedo, davvero sono ciechi!)… prima sul Sole 24 ore ci scriveva Franco Loi i suoi tramezzini psicopoetici, adesso ci sono dei professori, bravi senza dubbio, almeno loro hanno un aplomb più strutturato, intendo dei loro resoconti critici. Epperò nei loro articoli ben scritti ci vedo il vuoto; poi una volta c’erano i “francobolli” su La Stampa con dentro una poesiola… lo spettacolo non era edificante affatto.
E certo che i lettori normali non prestavano alcuna attenzione a quelle sciocchezze, e quindi nessuno le leggeva…

Voglio dire, e lo ripeto, che un linguaggio critico non lo si trova per strada, non lo si trova tra le dispense delle università di serie B, non lo si trova perché non c’è. Un linguaggio critico te lo devi creare con grandissimo sforzo da solo, come la poesia te la devi creare da solo, come hai fatto tu in più di trenta anni di ricerca. Del resto io ripeto sempre che non sono un «critico», e lo dico senza infingimenti né per sottrarmi alle mie responsabilità, perché quando scrivo una riflessione mi rendo conto che mi mancano le parole, le frasi, e che devo improvvisare qualcosa, qualcosa che non so, che non c’è scritta da nessuna parte.


Ma questo vuoto che io avverto nella mia scrittura critica, lo si può discernere negli scritti professionalmente ben educati delle schedine editoriali degli editori, di tutti gli editori: grandi, medi e piccoli, non bisogna prendere una lente di ingrandimento per leggere il vuoto delle schedine editoriali e delle note di lettura. Si tratta di scritti convenzionali, augurali, dei biglietti da visita il più delle volte deliziosamente risibili e superflui di vanagloria d’accatto.


Avete potuto leggere quello che ha scritto un poeta di alto livello come Petr Kral?


Giorgio Linguaglossa


Alfredo de Palchi

“una linea dantesca? Il petrarchismo come malattia congenita del corpo della Tradizione?”
Indubbiamente. È dagli anni 1950 che ripeto la stessa convinzione senza punti di domanda. Il petrarchismo rimane quello del maestro. Quello che ‘poeti’ fanno da sette secoli non è altro che bella calligrafia.I professori meritevoli devono mettersi in testa che l’epoca modioevale-moderna terminò alla fine di aprile 1945.

Contemporaneo è sempre Dante, per questo meno amato di Francesco.

 

Giorgio Linguaglossa


Giuseppe Gallo

30 marzo 2018 alle 21:29

È vero! “Ormai <> e nulla e nessuno potrà trovare una <> o un surrogato di essa che giustifichi una qualsiasi poesia! Ed è questa la condizione della poesia oggi.” Tanto da farne una poetica… Ricordo alcune affermazioni di Pasolini in Poesia in forma di rosa del 1964:

“È passato il tuo tempo di poeta…”
“Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo!”
“Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci
e tutto ciò che fu vita ti duole
come una ferita che si riapre e dà la morte!” (Garzanti, ed. pag. 82)

È questa la condizione della poesia oggi!
Linguaglossa ha “ragione” da vendere… entri nella mercificazione delle parole, potrebbe distribuirci qualche dividendo! Il problema è che non si può sopravvivere alle “ferite” di cui parla Pasolini perché esse sono così profonde da “darci la morte”, direttamente, senza nessun altro “surrogato”. D’altronde anche un poeta estraneo alla nostra tradizione letteraria Nazim Hikmet aveva esemplificato l’attuale nostra vacuità poetica:

Senza nessuna ragione qualcosa si rompe in me
e mi chiude la gola
senza una ragione sobbalzo a un tratto
lasciando a mezzo lo scritto
senza nessuna ragione…
e così via dicendo!

Giorgio Linguaglossa

 

Giuseppe Talia
30 marzo 2018 alle 21:57

Caro signor Gallo, quello che lei riporta è un necrologio della poesia. Almeno della poesia che indossava la veste nera della Coefora negli ultimi anni del Novecento. La poesia che era arrivata al suo ultimo estremo, il compianto.
Era il commiato, allora. Ma dal 1950 in poi qualcosa si è mosso. Solo che è stato per troppo tempo nascosto, celato, negato per via ideologica.
E anche oggi qualcosa di buono si muove. Tra le ceneri. E non ci si piange addosso. Si cerca di andare oltre. Con fatica, verso nuove strade, magari orfani di una sistematizzazione critica del passato Novecento che lei nel suo commento porta con un senso di fine ultima.

Giuseppe Gallo
31 marzo 2018 alle 9:05

Caro signor Talìa, forse ha ragione lei… qualcosa si è mosso dagli anni cinquanta in poi… le affermazioni di Pasolini erano coeve ai tentativi “sperimentali” del gruppo ’63, ma cosa è rimasto, di poetico, di quegli anni? Niente! Il nostro purgatorio dell’inferno continua ancora… E poi
io volevo solamente suggerire, a bassa voce, che questa nostra consapevolezza di “vacuità poetica”, di “quadro” senza “cornice” e dell’assenza di una “ragion sufficiente” corre il rischio di diventare una poetica… di scuola..

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
31 marzo 2018 alle 10:32

Caro Giuseppe Gallo,
forse è vero, bisogna accettare il rischio che anche la petizione della assenza di una «Ragione Sufficiente» diventi una poetica, anzi, le dirò di più: io spero che questa «linea minima» diventi una petizione «massima», ripartire dalla «linea ultima», prendere possesso e prendere cognizione da una «linea» dalla quale ripartire. Le nostre riflessioni attorno ad una impostazione ontologica dei problemi della poesia, mi creda, è il risultato minimo dal quale ripartire. Una riflessione va sempre incentrata sulla domanda su un ente: che cos’è questo ente? Quali sono le sue manifestazioni? Quale fenomenologia gli appartiene? –

Quando si scrive una poesia bisogna partire stabilmente da queste triplice impostazione categoriale. Il fatto è che in questi ultimi cinquanta anni si è scritta poesia in modo «irriflesso», cioè senza riflessione in re, mi sembra lampante. Il libro che più ha influito sulla filosofia del novecento e sulla impostazione del problema dell’ente, Essere e tempo di Heidegger (1927) è, in fin dei conti, una interpretazione ontologica del Dasein. Potrebbe sembrare un fatto del tutto ovvio, ma è bene ribadire che anche la «poesia» è un «ente» e che essa va inquadrata sia dal punto di vista ontologico che anche da quello fenomenologico, le due impostazioni non sono contraddittorie ma l’una è il presupposto dell’altra… Io ritengo che senza una severa impostazione ontologica della «poesia» si rischi di parlare alle farfalle e di porre problemucci insussistenti, cioè di fare del lirichese e di esternare sfoghi soggettivi…


Colgo con entusiasmo la testimonianza del decano della poesia italiana: Alfredo de Palchi il quale dall’alto della sua età anagrafica si può permettere di dire quanto dice:
«È dagli anni 1950 che ripeto la stessa convinzione senza punti di domanda. Il petrarchismo rimane quello del maestro. Quello che ‘poeti’ fanno da sette secoli non è altro che bella calligrafia. I professori meritevoli devono mettersi in testa che l’epoca modioevale-moderna terminò alla fine di aprile 1945.
Contemporaneo è sempre Dante».

Forse nessuno in Italia ha l’autorevolezza e il coraggio di Alfredo de Palchi il quale si può permettere di scrivere quello che scrive con la massima ragione sufficiente.
Il problema è: tornare a Dante. Tornare ad una lingua fatta di «cose». Un progetto da Grande Progetto. Ecco, se osserviamo il panorama della poesia italiana di questi cinquanta anni, il paesaggio che abbiamo sotto gli occhi non appare entusiasmante. Certo, ci sono stati dei tentativi coraggiosi di «bucare» la cortine di nebbia del «petrarchismo» della poesia italiana. Faccio solo tre nomi: Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1972) Helle Busacca (1915-1996) con la sua trilogia de I quanti del suicidio (1972), e Maria Rosaria Madonna (1942-2002) con un esile libretto, Stige (1992), poetesse dimenticate e sotto stimate dal consesso letterario italiano, probabilmente le tre maggiori poetesse del secondo novecento italiano. Fortunatamente, tra qualche giorno uscirà Stige (poesie 1990-2002) di Madonna con Progetto Cultura e sarà possibile leggere un’opera davvero fuori dalle righe della poesia italiana del secondo novecento.

Mario M. Gabriele
31 marzo 2018 alle 12:48

La tua ricerca linguistica, caro Gino, ti sta portando dove gli altri non osano avvicinarsi. È un testo che ha in sè tutta l’energia linguistica soprattutto se badiamo al concetto di base che deve armonizzarsi con gli esiti strutturali della Nuova Ontologia Estetica. Sono orizzonti espressivi fatti di tagli e di ricuciture del verso, così come impone la disciplina del frammento in un panorama che ci obbliga a riorganizzarci con la solitudine operativa che ciascuno di noi si porta dietro.

 

Giorgio Linguaglossa

 Si spostano con centinaia di slitte cariche di cibo, bevande e legna, perché là il suolo è coperto di ghiaccio

 

 

Giorgio Linguaglossa
31 marzo 2018 alle 12:47

caro Gino,
questa è una nuova poesia alla maniera della nuova ontologia estetica, un nuovo sotto genere dove metti in comunicazione personaggi inesistenti (la Signora Schubert) con personaggi vivi (Ewa Lipska e Giorgio Linguaglossa) e li fai interagire con un «lutto», il lutto della Signora Schubert creando un fuoco d’artificio di metabolismi verbali come solo tu sai fare; questi metabolismi sono una metapoesia che va ad interloquire con la poesia (che semplicemente non c’è, noi sappiamo che essa è scomparsa da mezzo secolo o poco più), ed entrambi: poesia e metapoesia collidono generando nuovi tratti segmentali della significazione. C’è poi la metafora dell’«Impero» e del «Centro» dell’Impero austroungarico, con la sua capitale «Vienna» dalla quale il personaggio-autore della poesia, un tale Gino Rago, spedisce missive ad interlocutori senza indirizzo (altra potente meta-metafora della assenza della poesia). Tutta questa complessa rete di metafore e di personaggi (vivi, morti e immaginari) crea una complessa rete di significazioni recondite e sotterranee che formano la vera archistruttura del testo. Ed infine, l’accenno al «Buffet caro alla Signora Schubert», con «i camerieri, il cassiere, i cuochi», è davvero esilarante, come è esilarante l’indicazione alla «Blumenstrasse», la via dei fiori, che sarebbe, antifrasticamente, con suprema ironia, il luogo, o meglio, la via della poesia (che è scomparsa). Davvero, una poesia di grande originalità.

Giorgio Linguaglossa

 

Rossana Levati
31 marzo 2018 alle 16:27

Propongo di seguito le mie riflessioni, scaturite dal testo di Rago oggi postato:
La Prima lettera da Vienna a Ewa Lipska di Gino Rago sembra partire con una domanda- sfida: alla notizia della morte dell’amica, opportunamente accompagnata da un clima di tristezza autunnale, se ne cercano i ricordi-frammenti, ma “Dove risiedono le persone?”: si può forse dire che un menù le rappresenti, che lascino traccia di se’ in un insieme di gusti, in una ricetta con aggiunte o privazioni di condimenti (cumino, gulasch)?

La domanda, considerata la natura metaletteraria del testo, non è che un modo indiretto di chiedere “dove risiede la poesia?” e qual è la ricetta che la rappresenta? Ricetta che si può raggiungere solo faticosamente, come Roland Barthes che deve mettere a fuoco l’essenza della madre e la trova infine rappresentata, condensata, in un sorriso della sua giovinezza, in quello sguardo di attesa e di innocenza faticosamente inseguito nelle pagine de La camera chiara… (trad. it. Einaudi)
Apprendere la morte dell’amica sarà allora come apprendere la morte della poesia: ma se essa muore in un luogo (il suo centro apparente), potrà anche, decentrata, ripresentarsi altrove: la partita a scacchi si è spostata, ma ancora si tratta di proseguire, fino a raggiungere la vittoria di quello scacco matto che impegna il poeta di fronte al Il tedio di Dio.

La poesia rimane scandalo del mondo, sovvertimento dell’essere: non lascia nulla come lo ha trovato, se è vero che i cacciatori dimenticano la violenza, che è anche scopo e giustificazione del loro esistere e diventano capaci di suonare i violini, e ciò che è costituzionalmente ridicolo, come il clown deforme dalla testa spropositata, perde senso e funzione, e ancora ciò che è rigido e sclerotizzato come gli anziani col monocolo, vano rimedio alla loro vista corta, può riprendere un movimento armonioso, un ballo terrestre che è parallelo a quella danza celeste delle stelle che accompagna i versi del poeta.

Non c’è nessun lirismo “vecchia maniera” in tutte queste immagini ma una sapiente provocazione al lettore, sollecitato a comprendere quale legame spinga le immagini da una strofa all’altra, quale scommessa faccia concludere ogni strofa in forma di paragrafo o tappa provvisoria di una lettera che si prolunga nel tempo e che riparte improvvisamente nella strofa successiva: per definire la sfida della nuova poesia che nasce non basta una strofa sola; così la prima parte della lettera annuncia la morte della vecchia poesia, la seconda strofa il sopravvivere di qualche verso, la terza la sua rinascita sovvertitrice di ogni certezza e la quarta, con quelle strepitose “acque di parole minerali” che sgorgano alle Terme dell’Impero, ne sembra indicare l’effetto vitale e la capacità di rinnovare continuamente il mondo: l’imperatore è finito immobile in un quadro, dopo una vita fitta di proclami ma sconfitta dalla storia che ha fatto comunque a meno di lui. Purché la poesia rinnovi se stessa e non si sclerotizzi in un ritratto con pose eroiche, e sappia fare a meno del cassiere e di tutti coloro che mercanteggiano con il nulla, uomini inconsistenti “disposti a vendere la propria ombra” (cassiere e venditori sono rimasti indietro, alla seconda strofa; e speriamo respinti per sempre).

 

Anna Ventura
31 marzo 2018 alle 16:53

Per Giuseppe Gallo: ogni poetica condivisa da un gruppo di persone diventa “di scuola”; ma non c’è niente di male, anzi. Bisogna considerarsi fortunati ,se si riesce a condividere certi indirizzi etici ed estetici con serenità e misura,fornendo il proprio apporto individuale,che può essere accettato da tutti, ma può anche essere esaminato e rivisto, se opportuno, per suggerimento degli stessi compagni di viaggio

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

Gino Rago
31 marzo 2018 alle 18:02

[cara Rossana Levati, caro Mario Gabriele, caro Giorgio Linguaglossa]


Leggendo tanta poesia degli ultimi anni mi sono sentito non di rado come il tenente Drogo pietrificato nella Fortezza Bastiani situata davanti al deserto dei Tartari. Né ho voluto fare la fine del Sottoprefetto dell’Impero austroungarico ormai sulla strada dell’annientamento.
Avvertivo la necessità di un linguaggio nuovo di poesia ed è stato dichiarato ostinatamente e con chiarezza estrema dalla e sulla nostra Rivista l’ombra delle Parole, fondata e coordinata come meglio non si può fare dal nostro Giorgio Linguaglossa, ben sostenuto in questa autentica battaglia verso il nuovo da una redazione combattiva, generosa, competente.

Anche in questa recentissima mia prova poetica Prima lettera da Vienna a Ewa Lipska mi sono guardato intorno, procedendo per sottrazioni [sarebbe più giusto e vero dire “per esclusioni” ma non mi pare di buon gusto perché il garbo non guasta] e per accoglimento: l’epistolario di prose poetiche di Ewa Lipska, certi racconti di pura magia in yiddish di Isaac B. Singer, qualche brandello di Dino Buzzati del Deserto dei tartari, tanta letteratura mitteleuropea, con Arthur Schnitzler in testa. E ho guardato con occhio puramente infantile ai ‘violinisti’ di Marc Chagall.

Ma per «quella» poesia che inseguo senza risparmio di energie ho guardato in profondità, con un’autentica operazione di scavo, quasi verso per verso, alle forme di In viaggio con Godot di Mario Gabriele e marcatamente a Il tedio di Dio, a Il Cimitero dei morti assiderati, a “Il poeta morto” di Giorgio Linguaglossa, autentiche novità sul piano della forma-poesia…
Ecco perché ancora una volta sono proprio Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, con la fedelissima Rossana Levati, a entrare per sapienza letteraria e cultura poetica nei miei versi con padronanza, pertinenza, competenza. E di ciò ringrazio Rossana, Mario e Giorgio, in maniera speciale;

e dico ‘grazie’ anche ai frequentatori e alle frequentatrici dell’ Ombra delle Parole per avere semplicemente posato lo sguardo su questa mia “Prima lettera da Vienna a Ewa Lipska” perché già questo semplice sguardo da solo per me è un privilegio.
Merci et
joyeuses Pâques

 

Giorgio Linguaglossa
31 marzo 2018 alle 21:26

propongo ai lettori questa poesia del poeta e scrittore svedese Lars Gustafsson (Västerås, 17 maggio 1936 – 3 aprile 2016)). Si tratta di una potente parabola della vicenda dell’uomo sulla terra, sul suo destino. Ci sono i quattro elementi: acqua, terra, fuoco e aria; in più c’è l’altezza smisurata: il Nord, e la profondità degli uomini che abitano quella plaga: il Paese della Tenebra, un popolo di sapienti che non vogliono commerciare con gli uomini del sud con i quali non condividono nulla se non le merci strettamente necessarie alla loro sussistenza. La poesia è stata pubblicata su questa rivista nel 2014 ma non sembra aver riscosso molto credito tra i lettori. Adesso la ripropongo perché la rivista e i suoi lettori sono più maturi e hanno percorso un lungo cammino di avvicinamento al cuore di ciò che deve essere una poesia.

Giorgio Linguaglossa

Ibn Batutta, viaggiatore arabo non giunse mai più a/ Nord di Bulgar./ Il racconto/
sulla Tenebra e i viaggi per raggiungerla lo affascinarono.

 

Lars Gustafsson

Ibn Batutta

Quando, Ibn Batutta, viaggiatore arabo, medico
e acuto osservatore del mondo,
nato nel Maghreb nel quattordicesimo secolo,
giunto alla città di Bulgar, venne a conoscenza della Tenebra.
La Tenebra era un paese a quaranta giorni di viaggio verso Nord.

Fu alla fine del mese di Ramadan,
e quand’egli ruppe il digiuno al calare del sole
ebbe appena il tempo di pronunciare la preghiera della notte
prima che il nuovo giorno albeggiasse. Le betulle s’ergevano bianche.
Ibn Batutta, viaggiatore arabo non giunse mai più a Nord
di Bulgar. Il racconto
sulla Tenebra e i viaggi per raggiungerla lo affascinarono.
Il viaggio venne intrapreso solo da ricchi mercanti.

Si spostano con centinaia di slitte
cariche di cibo, bevande e legna,
perché là il suolo è coperto di ghiaccio
e nessuno può camminarci sopra senza scivolare
tranne i cani, le cui unghie riescono a far presa
nel ghiaccio eterno. Non ci sono alberi né pietre,
e tanto meno case, per orientarsi durante il viaggio.
Le guide al Paese della Tenebra sono i vecchi cani
che già hanno fatto il viaggio molte volte.
Simili cani hanno un prezzo che può arrivare
a mille dinari o più, perché le loro conoscenze
sono insostituibili. Al momento di un pasto
si servono i cani prima degli uomini
perché altrimenti il capo della muta s’infuria
e se ne va, abbandonando il padrone al suo destino.

Nella grande tenebra. Dopo quaranta giorni di viaggio
i mercanti si fermano nella Tenebra. Dopo quaranta giorni di viaggio
i mercanti si fermano nella Tenebra. Depongono
a terra le merci e fanno ritorno al campo.
Il giorno successivo tornano e trovano
mucchi di zibellini, ermellini e scoiattoli
un po’ discosti dalle merci accatastate.
Se il mercante è soddisfatto dello scambio prende le pelli.
Altrimenti le lascia lì. Allora gli abitanti
della Tenebra aumentano la loro offerta con altre pelli
oppure si portano via tutto quello che avevano messo lì
e sdegnano le merci dello straniero.
È il loro modo di commerciare.

Ibn Batutta ritornò nel Maghreb
e morì in età avanzata. Ma quei cani
che, muti ma sapienti
privi di parola ma con cieca sicurezza
correvano sul ghiaccio levigato dal vento addentrandosi nella Tenebra.
ancora non ci danno pace.
Noi parliamo, e le parole sono più sapienti di noi.
Noi pensiamo, e il pensato ci precede
come se sapesse qualcosa
che noi ignoravamo. Messaggi corrono
attraverso la storia, un codice che si traveste da idee,
rivolgendosi ad altri e non a noi.
La storia delle idee non è una scienza della psiche.
e i cani, con passi rapidi e sicuri.
sempre più nella tenebra.

(da Pozzi artesiani sogni cartesiani, 1980
traduzione di Fulvio Ferrari)

 

Lucio Mayoor Tosi
1 aprile 2018 alle 0:13

Spero che di questa poesia di Lars Gustafsson torneremo a parlare presto. Milosz e Tranströmer insieme, il secondo velatamente nel finale. Questi i sapori. Ma quel passo lungo nella scrittura Gustafsson non ha precedenti. Non l’avevo letta o chissà, forse ero tra i lettori che non ci fecero caso. Ma no, non l’avevo letta. Narrazione agilissima, stile che autorizza anche i migliori talenti a osare. Grazie davvero.