PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE ? – La crisi della civiltà borghese occidentale– La crisi della civiltà borghese occidentale

 

Giorgio Linguaglossa
Eugenio Montale e La crisi della civiltà borghese occidentale

 

Fu all’uscita di Satura, nel 1971, nonostante ci fossero state già alcune sparse anticipazioni, che da più parti della critica si levò l’interrogativo nei confronti delle “novità” dell’ultima poesia di Eugenio Montale. E non mancarono, a caldo, le dichiarazioni di involuzione, di tramonto di una vocazione, di inconsapevole slittamento verso l’impasse delle forme prosastiche della poesia contemporanea. Non pochi tra i critici militanti si trovarono nell’impaccio di dover dare sistemazione a una produzione di cui non si aspettavano questi “altri” esiti e molti elusero il compito ripiegando sull’elogio retrodatato del poeta ormai codificato e definitivamente catalogato sotto l’etichetta delle sue precedenti tre raccolte di versi.

 

Da Ossi di seppia (1925 e 1928) a Le occasioni (1939) a La bufera e altro (1956, comprendente i testi della raccolta Finisterre del 1943) si disegna il campo poetico montaliano del “male di vivere”, dell’incomprensione del mondo e di ogni suo senso possibile, dei “fantasmi” che nonostante tutto ci salvano dal vuoto riconciliandoci sentimentalmente con la vita, e si decide definitivamente la catalogazione critica dell’esperienza di Montale nei termini di un “realismo dell’oggetto” da cui con perplessità gli addetti ai lavori hanno guardato alle prove successive del poeta. Lo stesso Contini, che meglio di tutti aveva individuato la chiave della poesia montaliana fino alla Bufera nella potenzialità infinita innescata dalla somma degli oggetti inventariati dal reale, non si era sentito di chiudere il cerchio dell’interpretazione, firmando il risvolto di copertina di Diario del ’71 e del ’72, preso nel viluppo non ancora dipanato del Montale vecchio/nuovo, primo/secondo, uno/due.

 

Altri critici, nel rispetto di quella etichetta ermetica-postermetica, avevano imboccato la strada della “diversità”, della “seconda stagione”. Ma la convinzione di un presunto rinnovamento radicale della poesia di Montale, a partire da Satura, ha inquinato la valutazione che della produzione successiva la critica ha dato, chiudendola in equivoci di salti e ribaltamenti.

 

Tra gli addetti ai lavori delle nuove generazioni, presso i quali Montale non aveva mai riscosso grandi simpatie (divisi com’erano, anche se di formazione ermetica e specificamente montaliana, tra l’impegno di un risorto canto civile e l’esperimento linguistico delle prove di avanguardia e, comunque, contro la scelta del poeta, legati più o meno direttamente alla concezione dell’intellettuale “professionale”) Satura suscitò allora più che perplessità, diffidenza e sospetto, per i territori apparentemente più avanzati nei quali l’autore sembrava avventurarsi persistendo sulla pista di un’assoluta e limpidissima tradizione.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Ricordo, per avervi partecipato polemicamente, alcuni seminari presso la facoltà di lettere dell’università di Bologna e della Statale di Milano nel 1972, dedicati alla poesia. Il Montale di Satura era uno dei bersagli ricorrenti. Da parte di molti, nella deviante prospettiva di quei momenti della “globalità” del politico, gli veniva l’accusa, in sé ingenua e addirittura assurda, di “riformismo letterario”, di “tattica dell’aggiornamento”. E del resto, a fare lo spoglio della bibliografia critica di allora, si possono rintracciare le stesse prese di posizione da parte dei recensori, giovani e meno giovani, della pubblicistica di sinistra.
Quanto poi ai fedeli lettori di Montale (tra i lettori di poesia, nel 1971, gli appassionati montaliani avevano superato tutti i quarant’anni d’età), Satura fu per loro, pur nell’adesione immediata, incertezza di valutazione complessiva e sospensione del giudizio.

 

Eppure c’era da aspettarsi che, insieme con le successive prove di Montale dal Diario del ’71 e del ’72 del 1973 a Quaderno di quattro anni del 1977, arrivasse l’aggiustamento di tiro da parte della critica: l’attenuazione delle pretese “novità” e il riconoscimento dei molti legami, anzi dell’assoluta corrispondenza con la precedente produzione. Si sarebbe dovuto chiarire, all’esame dei testi, che non si trattava di un “secondo” Montale, nella frettolosa definizione del momento, ma che Montale era sempre quello e che la sua stagione poetica non era ancora tramontata, solo aveva avuto naturale evoluzione e si era compiuta in modi e tempi più distesi. Invece la critica militante perseverò, nella maggioranza dei casi, nella contrapposizione di un “prima” e di un “dopo”, giungendo a consolidare una divaricazione di cui si mise a cercare le motivazioni profonde con le tecniche più raffinate e sofisticate.

 

La verità era un’altra. Valeva ancora una volta la constatazione che lo scrittore di qualità, varianti comprese, riscrive sempre lo stesso libro. E il “libro” di Montale si ispirava alla stessa idea di poesia, continuava ad essere il vagheggiamento di una “poesia pura”, e basterebbe leggere a questo proposito il discorso “È ancora possibile la poesia” tenuto da Montale all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel. Una “poesia pura”, perseguita per vie più traverse e indirette (a causa del complicarsi stesso, sempre più confuso, della vita) e recuperata dall’incontro, dalla lettera, dalla notizia di giornale, da ogni occasione minima e più oscura in cui riconoscere (o tentare di riconoscere) se stessi e il proprio passato.

 

Giorgio Linguaglossa
Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

 

La convinzione di Montale che a un certo punto si dichiara è che “La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli” (da “Soria 2” in Satura). Nella più impensata delle occasioni “s’incontra l’ectoplasma / d’uno scampato” perché “la storia gratta il fondo / come una rete a strascico / con qualche strappo e più di un pesce sfugge”. Ma, nella sostanza, si conferma la stessa situazione poetica montaliana del passato: tra i tanti aspetti e oggetti del reale, ce n’è sempre uno che illumina improvvisamente la scena della vita. Il taglio, la maglia rotta, l’anello che non tiene, da “malchiuse porte” sugli eldoradi, si sono ridotti a semplice “buco della serratura” sulla superficie del quotidiano. L’uomo di un tempo, disperso nell’immanenza perplessa delle cose e come abbagliato da “riflessi metafisici”, è ora “l’ectoplasma d’uno scampato” che ignora di essere fuori eppure sa di se stesso più di quanto possano conoscere di sé quelli che sono rimasti dentro la rete.

 

Tra le più recenti poesie di La bufera e altro, del 1956, e i primi tra gli Xenia, composti nel 1964, corrono otto anni, durante i quali Montale ha scritto pochi versi, tra i quali è la famosa poesia “Botta e risposta” (1961), pubblicata nel 1962 nella minima plaquette, fuori commercio, Satura, da cui sarebbe stato ripreso nove anni più tardi il titolo del quarto volume montaliano. E, anche nella ripresa dell’ispirazione poetica, Montale restava fedele alla ricerca della stessa “polpa sostanziale” (nella definizione di Debenedetti) di natura esistenziale, su cui fondare la ragione d’essere della sua poesia, e continuava a perseguire l’oggetto come minimo reale (il “minimo” che è sempre più il “reale” della nostra vita), e conservava la forza vitale o “energia intellettuale” del suo scrivere in versi.

 

Solo che i modi e i tempi più distesi erano l’effetto dell’avvenuto “indolore” passaggio dalla poesia al “discorso poetico”, per un tentativo di sfuggire al cerchio chiuso del narcisismo e del suo cifrario personale e segreto (cioè per un istinto di “sopravvivenza letteraria”), per una scelta di comunicazione che, non rinunciando agli incantamenti lirici e concentrandoli nella parola, continuasse a perseguire l’idea irrinunciabile di “poesia pura”. Il passaggio, generalmente esteso anche ai compagni di strada di Montale, come distensione delle strutture sintattiche e minore rarefazione lessicale nella direzione che dalla visione analogica va alla relazione metaforica, trova un suo itinerario di consapevolezza nella produzione stessa montaliana a partire dal 1969. Basta confrontare le poesie “Il tu”, “La poesia 1”, “La poesia 2”, “Le rime”, in Satura, le successive “A Leone Traverso”, “La mia Musa”, “Asor”, in Diario del ’71 e del ’72, quindi “L’armonia”, “Un poeta”, “La poesia”, in Quaderno di quattro anni. In particolare, la poesia “La mia Musa”, composta in ideale polemica con quanti si interrogavano perplessi a proposito dell’uscita di Satura, abbozza una sorta di giustificativo venato di sdegnosità e di dispetto:

 

La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio / di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo / chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita / di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica / e con quella dirige un suo quartetto / di cannucce. È la sola musica che sopporto”. I rilievi sono, tuttavia, solo quelli della constatazione: “Sventola come può; ha resistito a monsoni / restando ritta, solo un po’ ingobbita”.

Giorgio Linguaglossa

Montale nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

Quanto poi alla così detta “energia intellettuale”, a difesa della piena maturità di fronte all’incombente ignoto sempre più indecifrabile, la sua natura si era andata accentuando come ironia. E l’ironia, nel corso delle ultime raccolte di Montale, è andata prendendo campo vistosamente, connotandosi addirittura nei termini del “motto di spirito” che, freudianamente interpretato, si delinea come zona doppiamente marcata di emergenza del simbolico. Un “motto di spirito” trascritto in poesia è l’espressione di pulsioni rimosse in strutture formali ancora più accorte e non comunicabili del tutto. Il ritorno di un rimosso così “istituzionalizzato” cela, a mio parere, quello che resta come l’enigma della poesia montaliana: qualcosa che Montale è stato più volte sul punto di dirci di sé (o che ci ha suggerito “in codice”), soprattutto nelle ultime prove, ma che non ci ha mai detto a chiare lettere: “Chissà se un giorno butteremo le maschere / che portiamo sul volto senza saperlo” (Quaderno di quattro anni). Non per nulla, in più occasioni, Montale si è spinto ironicamente a insinuare che i critici non hanno individuato la vera chiave interpretativa della sua poesia: “Non amo / essere conficcato nella storia / per quattro versi o poco più. Non amo / chi sono, ciò che sembro. È stato tutto / un qui pro quo. E ora chi n’esce fuori?” (sempre in Quaderno di quattro anni).

 

L’ironia negli ultimissimi tempi si colora di una tinta che ha le sfumature dell’irrisione, nei confronti di quei critici a malpartito con il “qui pro quo” delle loro interpretazioni, attraverso l’operazione delle poesie lasciate in consegna ad Annalisa Cima per un’uscita post mortem e confluite nel Diario postumo, definito espressamente “una beffa ai filologi” per testimonianza diretta di Montale a Maria Corti. Era l’idea di un “gioco parodistico” in qualche modo scaramantico nei propri confronti e destinato a far sopravvivere il poeta come ectoplasma in un arco di tempo, oltre che un’operazione sarcastica nei confronti della critica. Come aveva scritto nella poesia “Secondo testamento” (del 1976): “Ed ora che s’ approssima la fine getto / la mia bottiglia che forse darà luogo / a un vero parapiglia”. E, nel finale: “Lasciate in pace i vivi per rinvivere / i morti: nell’ aldilà mi voglio divertire”.

 

Sicuramente, nella produzione montaliana, non mancano i testi “in codice” di cui finora è risultata insufficiente qualsiasi interpretazione, anche tecnicamente sofisticata. Mi limiterò a ricordare che il Quaderno di quattro anni, forse perché configuratosi più delle due precedenti raccolte come “ultimo messaggio”, è tutto costellato di enigmatici rimandi. E basta confrontare poesie come “I travestimenti”, “Soliloquio”, “Reti per uccelli”, “Domande senza risposta”, “I pressepapiers”, “Ipotesi”, “Ai tuoi piedi”, “Un sogno, uno dei tanti”, “I ripostigli”. L’impressione che se ne riporta è l’evidente sofferenza, in aria di rimorso, da parte di Montale per aver attestato pubblicamente di sé una condizione non corrispondente alla verità. E questa “falsa testimonianza” sembra avere a che fare con il rapporto che Montale aveva con le donne, con il suo atteggiamento di apparenze messo in atto nei loro confronti e destinato consapevolmente a suscitare depistaggi e inevitabilmente poi interpretazioni sbagliate ed equivoci. A partire dal Montale più giovane, che non dimostra di provare amore e meno che mai passione, nonostante gli sforzi in versi e le lettere private nei confronti di Clizia (Irma Brandeis) o della Volpe (Maria Luisa Spaziani). Non a caso e non senza rimpianto, giunto agli ottant’anni, dice di sé: “sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento. Appartengo al limbo dei poeti asessuati.”

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Tutte le presenze femminili, nell’opera e nella vita di Montale, si configurano con evidenza come “donne dello schermo”: sono comparse che vengono chiamate sulla scena della poesia a coprire vuoti che l’uomo prima ancora del poeta vuole mantenere coperti e mascherati. E questo accade, qualsiasi sia l’obiettivo di cui ciascuna donna viene a farsi strumento in ciascuna occasione o fase della vita e della carriera letteraria. E serve a coprire intanto il vuoto più grande e alla fine più esulcerante per il Montale degli ultimi anni, quello sentimentale, con il dichiarato rammarico perfino di non aver avuto figli. In questo modo Montale ha continuato a fare nel corso della sua vita, schierando via via le sue donne, nel risvolto magari sottinteso e forzato del cuore, in altri ruoli sempre molto pratici (offrendo loro, comunque, sempre qualcosa in cambio): chi gli apre una strada, chi lo agevola concretamente, chi lo aiuta nel lavoro e gli fa da segretaria, chi traduce per lui, chi gli fa compagnia quotidiana, chi organizza perfino la sua presenza dopo la morte. E a confermare questa impressione, non volendo limitarsi a decifrare le indicazioni in codice disseminate dal poeta, in una lettera a Lucia Morpurgo Rodocanachi c’è una frase indicativa, tutt’altro che in codice, che Montale riserva alla Mosca, Drusilla Tanzi, sposata nel 1962, alla quale ha dedicato alcuni versi intensi degli Xenia (ma le cose, nell’ottica di Montale, non sono in contraddizione o, comunque, è una delle conseguenze di quel rimorso che gli si innesca da un certo momento in poi), ma sulla quale pure fa una dichiarazione che non si può non valutare come cinica considerazione: “Mia moglie è stata una carta da giocare”.

 

In ogni caso, la freddezza, il cinismo, i risvolti beffardi non condizionano affatto la qualità della poesia, tutt’altro. La singolarità della vicenda di Montale, senza dubbio una delle voci più alte della poesia italiana moderna, è che si è posta come conclusione dell’esperienza letteraria di un’intera generazione. Ossi di seppia pubblicato nel 1923 da Piero Gobetti, Le occasioni uscite nel 1939, Finisterre del 1943 e primo nucleo de La bufera e altro, per le loro radiografie “negative” e per i segni di vuoto e di catastrofe, furono i testi canonici di un’intera generazione tra le due guerre. Anche di quella parte che, cercando di scavalcare le macerie del “disastro esistenziale”, prese la strada della speranza e della rigenerazione. Le raccolte di Montale, dentro questa funzione di viatico (iniziale per taluni e continuativa per altri), si disegnarono come esempio canonico e prova pilota del “fare poesia” secondo tradizione.

 

Ma il fatto certo è che l’esperienza di Montale si è posta anche come principio e fondamento del lavoro delle generazioni successive, insieme per adesione e per contrasto, sia per quanti hanno continuato sulla strada del “discorso poetico” in prove che sono state definite del neolirismo, sia per quanti hanno scelto la sperimentazione più o meno radicale delle neoavanguardie. Per tutti il confronto con Montale è stato importante. E, questo, nella consapevolezza che Montale, nel panorama della poesia italiana del Novecento, non è la cattedrale nel deserto. Anche se poi, tra lui e gli altri, il salto c’è e in molti casi è grande.

 

Giorgio Linguaglossa

 

La carica rivoluzionaria della poesia di Montale, ai due livelli del significante e del significato, neppure immaginano le dichiarazioni moderate e, tutt’altro che raramente, reazionarie dell’autore. Il fatto sorprendente è la continuazione, fine al limite di rottura, della tradizione metrico-linguistica italiana. L’allentamento dei nessi poetici, la discorsività della produzione montaliana più recente, l’intenzione più generale della comunicazione, non hanno sottratto alla parola le virtù fantastiche, evocative, magiche, tipiche della “poesia”, anzi le hanno come concentrate e mescolate potenziandole, in un tracciato verbale che è l’ultimo possibile rispetto a una certa idea di poesia.

 

La traiettoria del percorso montaliano è il punto di arrivo di un certo modo di intendere la letteratura: la concezione del letterato come del “dilettante di gran classe” e del suo lavoro come della più sublime delle inutilità, nel rifiuto dell’idea dell’intellettuale “professionale” e della sua presunta funzione nell’ambito della società. Nella poesia “Pasquetta”, in Quaderno di quattro anni, si legge l’ulteriore ripresa ironica del tema montaliano del “dilettante di gran classe”, indicato come terza scelta possibile tra impegno e disimpegno.

 

L’esperienza poetica di Montale si definisce, con tutta l’ampiezza della sua “negatività”, nei termini della crisi della civiltà borghese occidentale. Ma la prospettiva di questa crisi è a tal punto individualizzata che le cose appaiono senza possibilità di soluzione e di futuro. Non ci sono, agli occhi di Montale, altre possibili società e altre possibili culture. Il crollo dei valori borghesi è, per Montale, il crollo dei “Valori”, di tutti i valori possibili. Parlano in questo senso poesie come “La primavera hitleriana” o “Il sogno del prigioniero”, in La bufera e altro, raccolta in cui l’unica reazione possibile per l’uomo di fronte al crollo si rivela nella denuncia morale di tale condizione. E, da Satura in poi, le cose cambiano poco e solo per il fatto che il buio si rischiara un po’, con la scoperta di Montale preso tra la sorpresa e la risposta in chiave di umorismo che non si perde la carica vitale neppure nel disastro e che si riesce a soppravvivere perfino tra le macerie.

 

Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Scrive Asor Rosa in Sintesi di storia della letteratura italiana (La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 459 a proposito di un gruppo di ermetici fra cui venivano indicati anche Montale e Ungaretti:

 

«Tuttavia, questa produzione non testimonia molto di più che l’accanita fedeltà […] ad un modulo letterario garantito dall’esperienza. In casi come questi la poesia rarefà il proprio contenuto storico fino a rientrare quasi completamente nella sfera del “privato” (come le recentissime esperienze di Montale confermano). Questo, beninteso, non è un giudizio di valore […] Vogliamo soltanto dire che in casi come questi divengono sempre meno definibili la funzione e la necessità della poesia: in altri termini, il poeta ha a tal punto perduto il proprio rapporto con il mondo che per lui l’operazione di mettere delle parole secondo un ordine rappresenta sempre più un gioco o uno sfogo, comunque sempre un rischio affrontato consapevolmente nell’incertezza assoluta riguardante sia i fini sia i moventi sia i destinatari della poesia».

 

Ecco la poesia titolata “Asor”.

 

Asor, nome gentile (il suo retrogrado
è il più bel fiore),
non ama il privatismo in poesia.
Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia
producesse un quid simile o un’affine
sostanza, il che purtroppo non accade.
la poesia non è fatta per nessuno,
non per altri e nemmeno per chi la scrive.
Perché nasce? Non nasce affatto e dunque
non è mai nata. Sta come una pietra
o un granello di sabbia. Finirà
con tutto il resto. Se sia tardi o presto
lo dirà l’escatologo, il funesto
mistagogo che è nato a un solo parto
col tempo – e lo detesta.

 

La poesia di Montale è una risposta diretta ad Asor Rosa e a tutti quei critici che lo avevano accusato di essere un «retrogrado», quanto invece il carattere «retrogrado» è racchiuso, afferma ironicamente Montale, nel palindromo di «rosa» che lo vorrebbe più addentro al «proprio contenuto storico», accusa da dirimpettatio e fuorviante del critico a Montale e agli ermetici tardi. Montale dichiarerà nel discorso al Premio Nobel che «la poesia è un oggetto fatto di parole» (Montale ama, ironicamente ed istrionescamente, i paradossi tautologici) che esiste a prescindere dalla presenza degli uomini e financo dell’autore e che non ha alcun fine o finalità teologica e o filosofica che «Finirà con tutto il resto» e che «la repubblica non avrà bisogno di poeti e che un giorno l’arte finirà».

 

In queste e in innumerevoli altre affermazioni consimili Montale adopera il suo scetticismo olimpico e ultroneo per dire, in fin dei conti, nient’altro che truismi: che l’arte finirà, che la repubblica non avrà bisogno di poeti etcetera, etcetera. Giunto a questo pessimismo ultroneo Montale giunge anche alla sua fine di poeta. Quello che resta è un raffinatissimo e calibratissimo motteggiare in «sfoghi» letterariamente farciti e decorativi. Il Quaderno dei quattro anni (1977) è un continuo discorso di picche e ripicche contro tutti coloro che avevano avuto qualcosa da dire e da ridire, a torto e a ragione, sul suo conto e sul conto della sua poesia.

 

Certo, l’accusa di Asor Rosa rivolta a Montale di aver abdicato al «proprio contenuto storico», è dal punto di vista critico, inconsistente ed ingenuo; il «contenuto storico» non lo si trova al mercato né nelle aule delle università… quel «contenuto storico» era già scomparso da tempo. Il problema era ed è molto più vasto e profondo e complesso: il «contenuto storico» non è un fatto o atto o un darsi, non è un in sé, non si dà in alcuna forma bell’e fatto e bello e accudito, nel tardo Montale quello che viene a mancare (e che mancherà alla poesia italiana negli anni a seguire) è l’idea di un Progetto o un Grande Progetto dal quale ripartire… quel Progetto (con la maiuscola o la minuscola, lo scelgano i lettori) senza il quale la poesia non può che scadere in «privatismo» e nelle questioni attinenti la stanza ammobiliata del poeta con le sue scaffalature.

 

In questa sede, mi permetto di indicare la poesia di Gino Rago nella quale questo Grande Progetto è evidente, qui la poesia diventa il dialogo stesso con interlocutori esistenti e o inesistenti, dialogo che crea un ponte di parole che unisce le due sponde di quella gigantesca illusione che è il discorso poetico o poesia, come alcuni la chiamano ancora oggi, con un termine un po’ fuori moda…

 

Le vie verso la verità sono sentieri interrotti

 

(Friedrich Nietzsche)

 

C’è oggi una poesia come quella della nuova ontologia estetica che «vuole» parlare in poesia tramite un linguaggio non-poetico, «poroso», un linguaggio da carta assorbente, che annette i linguaggi stracci del mediatico, i robivecchi, i vintage, i rottami, i frantumi, ciò che resta del riciclo continuo dei materiali semantici esausti e combusti. Parlare in arte con un linguaggio artistico «rotondo» oggi è una rimembranza del mondo antico. Ma anche il linguaggio «poroso» di per sé non garantisce alcun risultato. I linguaggi artistici sono costretti a sopravvivere in un sottilissimo limen: di qua la comunicazione, di là la incomunicazione. È come se un filosofo volesse parlare in filosofia con un linguaggio non filosofico, contaminato dalle scorie e dai resti del linguaggio della comunicazione. Dobbiamo accettare l’idea che oggi il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, che in esso trovano luogo come non mai le antinomie del Dopo il Moderno.

 

Vero è che un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.

Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo, ma oggi la crisi si è stabilizzata, la crisi governa se stessa; i linguaggi artistici, e quelli poetici in particolare, sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e quindi invulnerabili in quanto marginali; questi connotati, tipici del nostro tempo non devono affatto meravigliare, sono i connotati dello Zeit-Raum che è diventato un contenitore vuoto, contenitore di altro vuoto. I linguaggi poetici contengono un linguaggio invisibile, poroso, adiposo, inseguono la comunicazione e così si scavano veramente la fossa quindi. È come se la legge di gravità che tiene insieme le parole fosse diminuita e le parole esondassero. In queste condizioni dobbiamo accettare una arte «debole», che accetti di fondarsi su una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare arte; forse dovremmo accostumarci all’idea della «debolezza ontologica dei frammenti».

 

Ed è quello che tenta di fare la ««nuova ontologia estetica» », che sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità, della propria leggerezza e gassosità; quando evaporano non per un sommovimento sociale e politico come accadde nel ’68 ma per un sommovimento epocale, dal fatto che la crisi è diventata ormai una istituzione utile a governare i processi sociali, politici e artistici. La conseguenza è la messa in liquidazione dei linguaggi poetici «rotondi» del lontano novecento. Con tutta probabilità oggi i linguaggi artistici possono sopravvivere soltanto se diventano «porosi».