Paolo Lagazzi è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano. Critico letterario, studioso di cose giapponesi e autore di fiabe; collabora con diversi quotidiani e riviste. Ha scritto numerosi saggi, e con Garzanti ha pubblicato uno studio sulla poesia di Attilio Bertolucci, Rêverie e destino (Garzanti 2008). Tra gli altri ricordiamo: Per un ritratto dello scrittore da mago (Diabasis 1994, Moretti&Vitali 2006) Vertigo. L’ansia moderna del tempo (Diabasis, 2002), Per un ritratto dello scrittore da mago (Moretti & Vitali, 2006), La casa del poeta(Garzanti 2008), Forme della leggerezza (Archinto, 2010), Otto piccoli inchini(Albatros 2011), Le lucciole nella bottiglia (Archino 2012). Ha realizzato inoltre un libro intervista con Atilio Bertolucci (Guanda 1997). Ha curato cinque antologie di poesia giapponese (fra cui Il muschio e la rugiada, Rizzoli 1996) e, per i Meridiani Mondadori, le opere di Attilio Bertolucci (1997), Pietro Citati (2005) e Maria Luisa Spaziani (2012).
Pubblichiamo il capitolo “Ciò che resta” del libro di saggi sulla poesia contemporanea di Paolo Lagazzi da La stanchezza del mondo Moretti&Vitali 2014 pp. 257 € 18
Paolo Lagazzi
«Ripensare il senso, il valore e il ruolo che la poesia può ancora avere nel mondo è un compito che va ben oltre le questioni di linguistica o di poetica, il vaglio degli strumenti retorici o le annose discussioni sul canone: è un compito che chiede a tutti noi, poeti o critici, scrittori o lettori, il coraggio di considerare con chiarezza la situazione generale dell’uomo in questo momento storico. Per quanto mi riguarda, se mi fosse chiesto di indicare il sentimento prevalente nei nostri anni, non avrei esitazioni: questa è l’età della stanchezza. Innumerevoli opere, non solo di poesia, grondano oggi stanchezza: sono voci opache, espressioni di apatia, testimonianze di una vitalità ottusa e perplessa benché spesso ammantata di colori sgargianti, di abiti alla moda e di più o meno capziosi maquillages.
Tutti, ormai, sembrano diventati narratori e poeti: nessun campo di ricerca è precluso a nessuno, i segreti e le finezze più sottili dell’arte sono a portata di chiunque… Eppure in questo dispiegarsi apparente dell’“intelligenza” e della sapienza cova un senso evidentissimo di spossatezza, come se il “tutto per tutti”, o l’eccessivo flusso delle forme, delle idee e dei segni, non fosse che l’espressione di uno svuotamento radicale del senso dei linguaggi. Presi in un intreccio inestricabile fra la stanchezza delle parole e le parole della stanchezza gli uomini appaiono sempre più rassegnati, incapaci di credere davvero che qualche grande novità possa trasformare in meglio la storia. Se qualcosa di nuovo incombe sul nostro tempo, è un sentimento di fine prossima del mondo non più vissuto col terrore degli antichi di fronte alle immagini fiammeggianti dell’Apocalisse, ma quasi accettato, o assorbito mollemente, giorno per giorno, come l’aria inquinata che respiriamo. Di recente la NASA ha reso ufficiale una notizia che aveva già cominciato a circolare (se non ricordo male) nel 2001:
fra pochi anni, precisamente il 13 aprile 2036, è possibile che un enorme asteroide, in viaggio verso la terra a folle velocità, centri in pieno il nostro pianeta: la collisione causerebbe un contraccolpo tale da distruggere in modo completo la vita degli esseri umani. Occorre aggiungere, per onestà, che a questo evento viene assegnato un indice probabilistico bassissimo, ma il fatto stesso che non lo si escluda per nulla, anzi si cerchi fin d’ora di mettere in cantiere una costosissima operazione aerospaziale (un’astronave che dovrebbe essere in grado di deviare l’asteroide), è piuttosto inquietante. Il pensiero di un’eventualità simile non dovrebbe colpire la fantasia di milioni di persone, tanto seria e drammatica è l’ipoteca che essa pone sul futuro dell’umanità? Di fronte a un allarme del genere, suffragato dai più raffinati scienziati, non dovrebbe mutare il nostro stesso senso del tempo? Da questo momento in poi non sarebbe giusto scandire il tempo, sia pure in termini possibilistici e non certi, come un conto alla rovescia?
Umberto Eco
Infinitamente remota da questo scenario, tanto da riuscire quasi patetica, appare la riflessione, sviluppata da Umberto Eco nel 1964, sulle ideologie parallele e opposte degli “apocalittici” e degli “integrati”. Anche a chi non voglia considerare la notizia della NASA, non può non riuscire evidente che da quegli anni ’60, così allegri e vitali a osservarli con gli occhi di adesso, il mondo è andato accrescendo il suo potenziale autodistruttivo, malgrado la fine della cosiddetta guerra fredda, in modo esponenziale: mille nuove paure, generate dal terrorismo fondamentalista come dai cambiamenti climatici e da inedite minacce epidemiche, sono emerse e continuano a emergere, giorno per giorno, da un abisso che non pare aver fondo. Chi non sarebbe tentato di dire, oggi, che gli “apocalittici” sono non più dei visionari ma i soli veri realisti? Eppure ho l’impressione che nei nostri anni non si viva tanto nel terrore quanto nella rassegnazione, o in un’assuefazione progressiva al terrore. Se coscienza c’è (e indubbiamente c’è) del tramonto ormai non lontano del mondo che abbiamo conosciuto, essa è come ovattata dalla stanchezza; se è chiaro che i destini generali stanno precipitando verso il disastro, questo movimento ha in sé qualcosa di tanto inesorabile quanto irreale, flaccido e vischioso, un po’ come il lento affondare d’un corpo in un magma di sabbie mobili. Si potrebbe aggiungere che una tale lentezza è, più che altro, un’impressione illusoria, una specie di suggestione ipnotica indotta dal carattere ripetitivo dei meccanismi sociali e mediatici: sul piano dei fatti, gli studi non solo della NASA ma anche degli esperti dell’inquinamento, dell’effetto serra, e di tutti gli altri fenomeni di degenerazione ambientale, sono d’accordo che c’è pochissimo tempo per tentare di fare ancora qualcosa, per cercare un’inversione di rotta e, in essa, una via di salvezza. Ma non sembra proprio che i potenti della terra si stiano dando molto da fare per cercare questa via; forse la visione pragmatica delle cose che ha sempre impregnato fino al midollo il capitalismo, e che domina tutti i fautori della globalizzazione, comporta un pessimismo misto a cinismo impossibile da contrastare? Forse loro stessi, mentre in pubblico continuano a inneggiare alle “magnifiche sorti e progressive”, sono in realtà convinti che non c’è più nulla da opporre allo sfacelo, e che tanto vale vivere alla giornata, spremendo dal pianeta tutto quello che si può spremere, in una corsa sempre più spasmodica verso il tracollo finale?
Di fronte a questo quadro, torna urgente chiedersi quale senso, quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia. Illusorio è pensare, come troppo di frequente si è fatto negli ultimi venti o trent’anni, che la poesia non possa non essere l’estremo baluardo dell’umano mentre tutto intorno va in malora. Anche la poesia è figlia della propria epoca, e il suo primo compito, la sua prima verità è pur sempre di carattere testimoniale. Non è un caso, dunque, se fra i molti poeti che ho letto in questi anni proliferano le figure della stanchezza, della “spossatezza” e della “sfinitezza”. E’ come se, in tante raccolte recenti, risuonasse una sorta di sazietà radicale, una specie di volontà di arrendersi, di rinunciare a tutto, o un bisogno di prendere atto che nessuna risposta può più essere in grado di aiutarci veramente. Espresso in versi spesso inappariscenti, fragili e sordi, o, per così dire, tra le righe, questo disgusto non è più riconducibile nemmeno al nichilismo: semplicemente è la voce di una mancanza di voce, è la forma di un nodo informe, di un viluppo insolubile.
pessoa
Tra le opere minori di Pessoa ce n’è una, L’ora del diavolo, che forse riesce, per l’ultima volta, a dare fiato a questa sazietà, a riconoscerla e a dichiararla come il solo orizzonte di senso concesso alla senilità del mondo. In essa il protagonista – il Diavolo, appunto – rivela a una donna di essere “soprattutto stanco”, stanco “di astri e di leggi, e un po’ con la voglia di restare fuori dall’universo e ricrearmi sul serio con cose di nessuna importanza”. Abbandonandosi al desiderio di confessarsi finalmente all’umanità, il Diavolo afferma che tanto lui quanto Dio dormirebbero ben volentieri un sonno che li liberasse dalle “cariche trascendenti” di cui sono stati investiti a loro insaputa; nemmeno loro due, infatti, sono in grado di fornire una risposta assoluta al perché della realtà: “tutto è molto più misterioso di quanto si creda”, e le cose non sono che “un cantuccio menzognero della verità inattingibile”. Proprio perché al di là della contrapposizione tra il Diavolo e Dio, fra il bene e il male o tra l’essere e il nulla, la stanchezza messa in scena da Pessoa nel suo racconto non può catturarsi in categorie, in princìpi morali o filosofici: è un puro, ineludibile orizzonte dell’esperienza: è un quid sfuggente a tutti i nomi che potrebbero afferrarlo e contenerlo in un’interpretazione: è un “a priori” e insieme una fine: è un dato trascendentale votato a perdersi nell’insignificanza del tempo. Proprio questo mi sembra il genere di stanchezza entro cui si dibatte la società dei nostri anni: uno svaporare di ogni forza ideale e reale, un franare dei pensieri e un indurirsi dei nervi, un calo di pathos o il montare nel sangue di una specie di anemia incurabile, mentre l’orologio della fine incombente non arresta mai il suo battito, il ticchettio freddo dei propri quadranti…
Entro questa scena, quale vitalità può avere la poesia d’oggi? La sola, non ideologica prospettiva di verità rimasta ai poeti è forse quella di farsi testimoni, come il Friedrich di un quadro famoso, del naufragio della Speranza? Forse soltanto al fondo della stanchezza e della debolezza essi potranno ancora trovare la via della loro luce? La stanchezza è l’unica, paradossale forma d’infinito concessa a coloro che si sentono ormai sull’orlo della dissoluzione di tutti i fini e i confini, di tutte le forme, le poetiche e le scelte di campo, di tutti i discorsi e i rapporti, di tutte le architetture e le distanze, di tutte le isole di bellezza e le oasi del sogno?
Malgrado la parte di stoicismo resistente in molte anime amareggiate, non credo che i poeti potranno mai adattarsi a essere il puro e semplice specchio del naufragio dell’esistenza. Già Hölderlin aveva osservato, in limine alla grande crisi del moderno: “Ciò che resta, lo fondano i poeti“. Riportato alle prospettive un po’ tremende del nostro futuro, tale pensiero potrebbe significare che solo i poeti sapranno custodire la fede, la speranza e la carità fino all’ultimo istante del mondo. Questo avverrà non perché essi si sentiranno investiti di una missione profetica o salvifica, né tantomeno perché la società li assillerà con la richiesta di farsi cavalieri dei Valori, ma perché sapranno mantenersi, nel cuore stesso della stanchezza, liberi d’immaginare un luogo di grazia, un altrove che potrebbe essere anche il più piccolo dei nostri qui, il più umile e segreto dei nostri passi.
Attilio Bertolucci
Il poeta del Novecento italiano che ho amato e continuo ad amare di più, Attilio Bertolucci, è lontanissimo da ogni pratica di profetismo, eppure nella sua voce pacata e naturale, nutrita del sentimento della quotidianità, vibra una fede irriducibile nella vita, nella luce della bellezza. Senza mai confessarlo esplicitamente, forse addirittura senza saperlo, le sue parole hanno in sé molto di cristiano e di buddhista: sanno esprimere l’incanto annidato anche nello strazio, nel sangue dei momenti; sanno mostrarci tutte le vie per fare del nostro cuore, attraverso e oltre le voragini della stanchezza e dell’ansia, la trepida cassa di risonanza del mistero gaudioso dell’universo (“Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato”; “Gli occhi stanchi colpisce di lontano / il rosso papavero in mezzo al tenero grano”)…
Idealmente fraterni a Bertolucci, altri poeti continueranno a resistere nonostante gli spettri della fine, della distruzione e del caos. Anch’essi, senza inalberare proclami apocalittici e senza pretendere alcuno speciale miracolo, continueranno a scrivere testimoniando la loro fede nel “qui e ora”, nel dono del presente. Liberi dall’enfasi e dal patetico, immuni dai timbri oracolari come da quelli pietistici, i loro versi saranno forse le ultime preghiere gettate al cielo per la salvezza di uno sguardo, di un bacio, d’un albero, d’un bicchiere di vino condiviso, d’una stretta di mano, di un momento di luce su un angolo di muro.
(Paolo Lagazzi)
Commento di Giorgio Linguaglossa
Paolo Lagazzi ama i poeti che hanno un linguaggio poetico “appropriante”, che tendono a fondersi con l’”oggetto”, in una sorta di fusione panica tra l’io e il paesaggio, tra l’io e il mondo, di qui la sua predilezione per la poesia di Attilio Bertolucci. Lagazzi ama la poesia quale «atto di fede», e la poesia può anzi forse deve considerarsi come un atto di fede; il suo impegno critico va per la poesia che non teme di denudarsi di fronte al mondo, che non teme di presentarsi ignuda o, addirittura, quasi ingenua, priva di protezione. È una predilezione auspicabile, rispettabile. Il Novecento è finito da molti anni ormai, e sembra che nessuno abbia più la forza e forse la voglia di aprire una nuova stagione della poesia; la poesia italiana sembra ristagnare, anzi, molti poeti dichiarano apertamente che ormai non c’è nulla che possa esser detto in poesia e che essa non possa che ripercorrere stancamente i luoghi da già frequentati nel Novecento.
Personalmente, io invece tendo ad apprezzare una poesia che abbia in sé una forza «dis-propriante», che guardi alla tradizione con occhi diversi; penso che non bisogna fare poesia per legittimare e giustificare un linguaggio poetico, ma per «oltrepassarlo», magari in diagonale. Di fatto, oggi la tradizione ha cessato di funzionare come «regolo», principio regolatore, non è più vista come una rassicurante terraferma ma come un luogo dal quale allontanarsi, prendere il largo, come un’isola che sia stata inghiottita dalle onde.
Ci sono però, oggi, autori che costruiscono le loro opere come un atto di responsabilità verso l’«invisibile», che fanno una poesia senza aggettivi, che tentano di fissare i segnavia che indicano la responsabilità della forma-poesia, che pensano, che elaborano, con diverse modalità, un metalinguaggio, che operano una individualizzazione e una personalizzazione del ritmo, della sintassi e del lessico, che creano un tonosimbolismo: penso alla poesia di Roberto Bertoldo, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura, che sono stati capaci di fare una sorta di énchantement musicale, lontana dalla coazione a ripetere delle linee maggioritarie della poesia che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni.
Intendimento di questi autori è saltare le artificiosità della mediazione della tradizione, considerata corresponsabile di una certa stagnazione stilistica e tematica; giungono, magari e a modo loro, ad una nuova forma di artificiosità attingendo a piene mani all’anacronismo del dettato, mettendo in gioco direttamente il lettore secondo le nuove regole del gioco, fondando un «nuovo» patto di riconoscibilità e di responsabilità che renda irricevibili gli stilemi della codificazione stilistica pregressa; questi autori hanno tentato e tentano, lontani dal frastuono delle officine maggioritarie, di rifondare l’«antico» patto di riconoscibilità del discorso poetico nel mentre che edificano un «nuovo» concetto di responsabilità della forma-poesia. E forse nelle condizioni di oggi è bene ripartire dalla «responsabilità» e dalla «onestà» della poesia bertolucciana. Anch’io penso che si debba ripartire dalla responsabilità della forma-poesia. La sofisticata elaborazione formale di questo «antico» patto di autenticità con il lettore che Bertolucci ha inaugurato deve e può diventare il minimo comune denominatore della nuova poesia. È forse la tardiva rivincita che l’artigianato dello stile si prende sulla miscellanea degli stili e delle iperscritture letterarie molto ben confezionate di oggi.