Peretz Markiš, Poesie scelte – Presentazione e traduzione a cura di Paolo Statuti
Con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 Giorgio Linguaglossa

 

Peretz Davidovič Markiš (1895-1952), poeta, romanziere e drammaturgo ebreo sovietico che scrisse prevalentemente in lingua yiddish, nacque nella cittadina di Polonne appartenente all’impero russo (oggi Ucraina) da una famiglia di ebrei sefarditi. Fino all’età di dieci anni frequentò una scuola elementare ebrea di carattere religioso (cheder) e studiò con il padre insegnante di religione. Da bambino cantò nel coro della locale sinagoga. Fu impiegato di banca e insegnante privato.

 

Studiò presso l’Università Popolare “A. L. Šaniavskij” a Mosca e come autodidatta. Nel 1912 scrisse i primi versi in russo. Nel 1916 combatté come soldato semplice dell’esercito imperiale russo e restò ferito. Un anno dopo si stabilì presso i genitori a Ekaterinoslav (oggi Dnepropetrovsk) in Ucraina, e nel 1918 a Kiev. In quel periodo esordì con poesie e racconti pubblicati dal giornale Il combattente. La sua prima raccolta poetica Le soglie, uscita a Kiev nel 1919, suggellò la sua reputazione. Il ciclo Il cumulo (1921) fu scritto in risposta ai pogrom ucraini del 1919-20.

 

Nei primi anni ’20 fu nel gruppo dei poeti yiddish di Kiev, che includeva anche David Hofstein e Leib Kvitko. Essi tendevano a una riforma rivoluzionaria della vita e della poesia. Dopo una serie di pogrom, nel 1921 partì per Varsavia. Successivamente visse in Francia e visitò la Germania, l’Inghilterra, la Francia, la Spagna e la Terra d’Israele. A Varsavia pubblicò con I. J. Singer l’antologia letteraria espressionista La banda. Un secondo numero di essa uscì a Parigi, con la copertina illustrata da Marc Chagall. Nel 1924 fu co-fondatore ed editore dei Fogli letterari a Varsavia.

 

Nel 1926 Markiš tornò nell’Unione Sovietica, dove scrisse una serie di poesie ottimistiche, inneggiando al regime comunista, quali ad esempio I fratelli (1926) e La mia generazione (1927). Il suo romanzo Generazione dopo generazione (1929), riguardante la genesi della rivoluzione in una piccola città ebrea, fu però tacciato di “sciovinismo ebreo”. Nel 1939 ricevette l’Ordine di Lenin e nel 1942 entrò nel partito comunista sovietico.

 

Giorgio Linguaglossa

Peretz Markiš

 

Nel 1942 Stalin  ordinò la formazione del Comitato Ebraico Antifascista, allo scopo di influenzare l’opinione pubblica internazionale e sostenere politicamente e materialmente la lotta sovietica contro la Germania nazista, soprattutto da parte dell’Occidente. Solomon Mikhoels, il popolare attore e direttore del Teatro Ebreo Statale di Mosca fu messo a capo del comitato. Tra i suoi membri figuravano Der Nister, Itzik Feffer, Peretz Markiš e Samuel Halkin. I loro testi erano pubblicati anche dai giornali americani. Nel 1946 Markiš ricevette il Premio Stalin e scrisse diverse poesie in suo onore. Tuttavia, il Comitato Ebreo Antifascista, guardato con diffidenza già subito dopo la fondazione, fu accusato di svolgere attività antisovietica. I reati ad esso attribuiti erano: nazionalismo borghese, creazione di una rete clandestina antisovietica, tradimento ai danni dell’URSS, spionaggio per conto degli Stati Uniti e complotto sionista ispirato da questi ultimi. Di conseguenza, Solomon Mikhoels fu ucciso dalla polizia segreta nel gennaio del 1948, per evitare un processo farsa. Altri scrittori, tra i quali Markiš, furono arrestati un anno dopo e fucilati nella cosiddetta “Notte dei Poeti Assassinati” nell’agosto del 1952.

 

Dopo la morte di Stalin la vedova del poeta, Esther, e i suoi figli Šimon e David Markiš, si impegnarono per la sua riabilitazione, che avvenne nel novembre del 1955. In seguito a ciò, molte sue poesie furono tradotte da diversi poeti, tra i quali anche Anna Achmatova, e pubblicate nel 1957.

 

Riporto qui alcuni brani tratti dal volume Schizzi e ritratti (1975) dello studioso di scienze filologiche G. Remenik, dedicato all’opera degli scrittori e poeti ebrei sovietici: “Nella creazione di Peretz Markiš tutto è notevole. Sulle sue labbra la cosa più minuta diventa grande e importante. Ma il più delle volte egli si esprime sulle cose grandiose: sul mondo delle esperienze interiori dell’uomo e della lotta sociale, sul mondo della natura, che nella sua poesia abbraccia l’intero universo… Il suo pathos non conosceva barriere. La sua anima ardente rispondeva a tutti i fenomeni circostanti. Egli è romantico e realista insieme. Parlando dell’universo resta saldamente coi piedi in terra. Il suo fervido sguardo e il pensiero erano rivolti alle stelle, l’animo e il cuore erano ricolmi di gioia di vivere.

 

Peretz Markiš ha iniziato la sua creazione come lirico e tale è rimasto fino alla fine dei suoi giorni, benché dalla sua penna siano usciti anche ampi quadri epici e romanzi… Nel tessuto metaforico del suo linguaggio poetico si manifesta il suo inimitabile modo di esprimere pensieri e impressioni, passioni e impulsi… La parola poetica degli ultimi anni è satura di meditazioni e pensieri filosofici, volti a studiare a fondo il recondito significato dell’esistenza umana…

 

I grandi poeti hanno spesso doti profetiche e prevedono il proprio  destino. Anche Markiš scrisse il suo canto del cigno nel 1949, poco prima dell’arresto, ed è la poesia Riempi il bicchiere, che figura tra quelle tradotte e qui presentate. Per le mie versioni ho usato quelle in russo effettuate da vari poeti. Questa volta ho di proposito tralasciato le rime, per evitare eventuali ulteriori modifiche dei testi originali, spesso inevitabili quando il traduttore vuole conservarle.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Poesie di Peretz Markiš

 

Io sono solo un fuscello sperso nei campi…

 

Io sono solo un fuscello sperso nei campi,
Un germoglio cullato dal respiro del mattino…
O terra! Su di te mi basta essere uno stelo,
Cullato nell’ombra azzurrina,
Per misurarmi con te in grandezza!
Sono solo un venticello, improvviso e fuggente,
Soffiato sull’erba dall’alto…
Essere venticello mi basta, o eternità,
Per essere come te senza fine!
Finché la terra non si separerà dal calore
E il sole ad essa mostrerà il suo disco,
Mi basta essere una tua particella,
E sarei grande come te, o universo!

 

1917 (Dalla versione di L. Rust)

 

 

Prima di sera

 

I rami tesi come braccia alle nubi,
Essi ardono di verde fiamma.
Le querce in melodioso silenzio,
Benedicendo il dorato tramonto.

 

Pigre nelle stalle mugghiano le mucche,
Le porte al buio si chiudono dal sonno,
I boschi lontani si tingono di lilla scuro,
E muore il vento con una foglia sulle labbra…

 

1918 (Dalla versione di D. Markiš)

 

 

Io – l’uomo…

 

Io – l’uomo!
Io – il senso dei mondi,
Io – l’essenza dell’eternità stessa.
Di pietra, di terra,
Di giorni e di notti io sono fatto.
Il viso rivolgo ai cieli:
Tutto il mondo – io stesso!

 

Di lontananze azzurre io sono fatto,
Di tessuto dell’essere,
Di tutti i tempi.
Io stesso – nel tempo,
E il tempo – sono io!..

 

1919 (Dalla versione di D. Markiš)

 

 

Roma

 

Con chi schermiscono i fioretti delle tue fontane d’argento,
E cosa esige la tua morta gloria?
Oh, cenere di secoli! Nauseanti fumi spargendo,
Le cupole della liturgia sbiadiscono e si offuscano, sfiorite…
Non si vedono colombi sulle tue austere basiliche,
Nei campanili dimorano gli orecchiuti pipistrelli…
Roma, tu ancora bruci! Non è il sole di un’alba morente
Che marcisce, esaurendosi, come memoria d’illustri secoli?
Invano il giorno accende le tiare delle sante cattedrali,
La sera spegne la loro fiamma… E le ombre in logori sai
Al triste suono zoppicano dai cimiteri lontani.
O solenne epitaffio di raggi dorati!
Le cupole, i campanili in balia di venti furiosi…
Con chi, con chi schermiscono i fioretti delle tue fontane?

 

1923 (Dalla versione di D. Brodskij)

 

 

Il pipistrello

 

Non è più notte, non è ancora giorno,
E la luce dell’alba è ancora ignota,
E il pipistrello, come ombra,
Entra in una crepa tra buio e luce.
Scivola nel sonno,
Come visione di visioni
A un tratto oltrepasserà la svolta dei tempi
Con un zigzag d’ombra fugace.
Esso si affretta a casa.
E’ ora! Ha paura del sole.
Lo tormenta la luce diretta
Della finestrella che acceca come rame.
Sollevato lo scialle di membrana
Sulla scura testa,
Vola lontano chissà dove,
Fischiato dall’azzurro.
Come sia già giorno e non sia più notte –
Il pipistrello non può capire.
C’era la luce. E di nuovo è buio.
Ora vola in basso, ora in alto.
Stanco, abbagliato,
Da un raggio obliquo non riscaldato,
In un attimo vola via
Sull’incerta svolta fra tenebra e luce.

 

1948 (Dalla versione di L. Ozerov)

 

Giorgio Linguaglossa

 

Unione

 

Non è difficile a un rametto incurvarsi, chinarsi
E mostrare ospitalità a un usignolo,
E, ubriaco di canto, assopirsi,
E, forse anche, dimenticare il suo dolore.
E sembra: cantano le verdi fessure,
E i suoni e il rametto si sono abbracciati…
E sorge il canto, dove sono inseparabili
La linfa dell’albero e il sangue del cantore.
Ciò non dispiace al rametto – gli è gradita
L’unione dei cuori che si amano.
Cosa gli resterà, quando all’improvviso
Un frutto si staccherà e il cantore volerà via?

 

1948 (Dalla versione di L. Ozerov)

 

 

Un suono giunge furtivo dai monti

 

Ascolta l’urlo cupo del vento,
Le folate di singhiozzi, portate dalla mente:
Sono i monti che singhiozzano, coperti di tenebra,
O piange l’impenetrabile tenebra stessa?
Chiedi ai monti: perché essa piange?
Non le piace, forse, il freddo tramonto?
E il vento burlone coi rami pettegola,
E i rami in risposta tristi gli ronzano.
Ma forse, là si è smarrito un viandante,
Che non poteva lottare col vento?
Dai singhiozzi la pace dei monti è turbata,
Striscia sulle cime la fredda notte.

 

1948 (Dalla versione di A. Golemba)

 

 

Autunno

 

Là le foglie non frusciano in segreta angustia,
E, arricciate, giacciono e sonnecchiano al vento,
Ma ecco una dal sonno si è mossa sulla strada,
Come un topo dorato – a cercare la sua tana.

 

E il giardino non vigila – entri pure chi vuole,
Là bufere, freddo, pioggia sghemba e sferzante,
E – nessuno. Solo la tristezza qui le lacrime sparge,
Ma ecco esitante mi giunge un ronzio.

 

Un’ape cammina in fretta sulla soffice rena.
Dal pesante cerchio il ventre è stretto,
E striscia tra un monticello e un ceppo
E con spasimo a un tratto si rizza sulla testa,

 

E le alucce a un tratto solleva di traverso,
Come ombrello rotto, esse si protendono,
E la morte già si sente nel ronzio affrettato…
Per l’autunno il silenzio passa nel giardino.

 

1948 (Dalla versione di A. Achmatova)

 

 

La musa

 

Era prima o dopo tutto ciò?
Il sogno scorre come onda.
La mamma è con me fino all’alba,
Come nell’infanzia, con me…
Ricordo che si svegliava, non sapendo
Se dormo e respiro nel silenzio notturno,
Accorreva al mio lettino scalza
E trepida, si chinava su di me…
La calde mani materne
Accarezzano il mio cuore,
E io sento i diletti suoni –
La sua ninnananna.
Non ho la forza di cogliere il canto,
La sguardo materno è celato nella nebbia,
Ma nei motivi lontani e cari
La gioia dell’infanzia, come un tempo, risuona.
La tempesta a volte ulula di notte,
Piena d’incomprensibile astio…
La mamma!.. La mamma, come un tempo con me,
Come nell’infanzia, lei è con me!

 

1948 (Dalla versione di E. Levontin)

 

 

Riempi il bicchiere!

 

Riempi il bicchiere!
Siamo saliti sul pendio
Più in alto di un uccello e di una nube,
Abbiamo raggiunto la vetta, –
Riempi il bicchiere di vino.
Alziamo i boccali,
Perché l’augurio diventi realtà!
Il canto ha condotto lontano,
Noi l’abisso abbiamo superato,
Toccando cupe profondità, –
Riempi il bicchiere di vino,
Perché i fiumi del potere popolare
Non si asciughino nei secoli!
L’estate è finita all’improvviso,
E’ giunto presto l’autunno,
Anche l’inverno deve arrivare, –
Riempi il bicchiere di vino!
Solleviamo il boccale schiumoso
Per la fioritura della nuova era.
Noi invecchiamo! Non fa niente!
Con noi il nostro secolo vivrà bene,
Dedito interamente alla patria. –
Riempi il bicchiere di vino!
Invidiando per il diritto,
Ricordino i nipoti la nostra fama!
Quanto nel vasto mondo
Fino al triste termine,
Ci è stato dato di vivere e splendere!..
Riempi il bicchiere di vino!
Volgiamo i volti alle stelle –
Che il desiderio si avveri!

 

1949 (Dalla versione di A. Revič)

 

 

 

Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Di questo poeta lirico che scrive in Yiddish non conoscevo nulla, e quindi un grazie a Paolo Statuti che me lo ha fatto conoscere con la sua rara perizia di traduttore ricreatore di poesia.
Quello che resta di un poeta sono le sue poesie, e quello che resta in un’altra lingua è quell’aura, quella tonalità dominante, quello sfondo, una nostalgia, un duende, quell’impercettibile che resta attaccato alle parole come una polvere, una polvere d’epoca che reca il contrassegno del tempo. In fin dei conti, le parole di una poesia sono dei cristalli che chiamano il tempo, che racchiudono il tempo, come in uno scrigno. E allora si dice: ecco, questo è il poeta tal dei tali, lo riconosco!

Origine (Ursprung) e patria (Heimat) sono collegate dalla memoria, la perdita della origine e la spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, subentra la spaesatezza, siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Senza patria siamo tutti nomadi, gregari della anomia, ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.
L’espressione è il volto codificato del dolore.

 

Certo, oggi è letteralmente impossibile scrivere poesie così perché sono intervenute altre ragioni, la poesia moderna ha preso congedo dal lirismo, si è sliricizzata, forse è diventata meno “bella”, meno accattivante, ma non poteva essere diversamente, la poesia di oggi non può più essere bella alla maniera di Markis o di Itzinger, la poesia moderna ha preso congedo dall’elegia la quale presuppone pur sempre un passato e una memoria.
Comprendo il punto di vista di Paolo Statuti, lui ama la poesia elegiaca, è rimasto fedele ad una idea di poesia, e forse è bene così, io invece penso che sia preferibile non restare fedele ad alcuna idea di poesia perché la poesia cambia in ordine al tempo, anche la poesia è una forma cristallografica del tempo, e oggi i tempi non sono più ospitali come un tempo, la Musa ha dovuto ricredersi e se ne è andata via, ci ha lasciati senza la sua protezione… come dice Laura Canciani, sono cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto. Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria, rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop, ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia… ma il bello è che tutti fanno finta che non sia successo niente, fingono di non avvedersene…