Adotto la parola «diafania» per indicare una procedura compositiva «nuova» propria di alcuni poeti della nuova ontologia estetica. La parola è composta dal prefisso «dia» che significava originariamente «fra», «attraverso», cioè l’azione che si stabilisce tra due attanti, tra due o più soggetti, che passa attraverso di loro, e Phanes o Fanes, (in greco antico Φανης Phanês, “luce”), chiamato anche Protogonos (“il primo nato”) e Erikepaios (“donatore di vita”), era una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita nella cosmogonia orfica.
Il termine «diafania» mi è venuto in mente leggendo le poesie di Steven Grieco Rathgeb, Mario Gabriele e di Donatella Costantina Giancaspero; ho ripescato questo termine dalla significazione teologica che ne ha dato Teilhard de Charden e l’ho riproposto in chiave secolarizzata attribuendogli una nuova significazione, nuova in quanto suggerita dalla lettura di alcune poesie dei poeti dianzi citati. Sappiamo che una nuova poesia deve essere letta e interpretata con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie cartografie euristiche non sono più adatte alla comprensione del «nuovo». Ecco quattro versi di Mario Gabriele:
Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.
Sale il fumo fino alla lampada.
Andrea rinnova aria fresca.
Se leggiamo con attenzione i versi riportati, ci accorgiamo che, apparentemente, non c’è nulla di nuovo. I versi ci dicono, in rapida successione, che alle 18 torna Milena, la quale prepara la cena (tempo presente) ma che il «tavolo ha quarant’anni» (proposizione dichiarativa senza nesso logico con le precedenti proposizioni), e che del fumo sale fino alla lampada (altra proposizione dichiarativa) mentre che «Andrea rinnova aria fresca» (altra proposizione dichiarativa e tautologica perché l’azione di rinnovare l’aria fresca è una tautologia vuota di significato). Dunque, una serie di proposizioni dichiarative auto significanti producono l’effetto di un universo in miniatura auto significato, auto significato in quanto auto giustificato, cioè fatto di proposizioni protocollari date e ricevute alla e dalla comunità per inconcusse e apodittiche. Mario Gabriele impiega nelle sue composizioni questi frasari auto giustificati che lui assembla in modo tale da farne sortire fuori dei significati nascosti, inverosimili, ultronei. Questa è, per l’appunto, una «diafania», ovvero, il darsi di Phanes, in modo immediato «attraverso» «fra», altre proposizioni che si danno in modo auto affermativo e auto apodittico. La «diafania» è in questo tipo di composizione il modo di procedere e di costruire gli «eventi» linguistici i quali sono in sé auto prodotti, auto giustificati e auto significanti. La «diafania» in Mario Gabriele sta nella procedura adottata e dal nuovo sguardo che lui posa sulle «cose» linguistiche del mondo. La «diafania» è un guardare e un produrre le «cose» linguistiche in modo da mostrare l’interna contraddittorietà e falsificabilità della propria significazione; la «diafania» è il modo scelto da Gabriele per mostrare a tutti che il re è nudo.
Se leggiamo un verso di Donatella Costantina Giancaspero, ci accorgiamo che qui siamo davanti ad una proposizione che indica una «cosa» non riconoscibile, anzi, irriconoscibile. Al contrario della procedura adottata da Mario Gabriele, nella procedura della poetessa romana abbiamo una modalità di costruzione molto differente. Leggiamo un emistichio:
un nido di vespe nel lampadario.
Il significato di questa proposizione può essere esaminato da vari punti di vista, anche dal punto di vista psicanalitico, ma, sicuramente il significato residuale ci indica una «cosa» del tutto inutilizzabile, ed anche una «cosa» di estremo pericolo, una «cosa che impende, che resta lì, sopra le nostre teste, e che ci condiziona, ci minaccia con la sua sola presenza anche in assenza di azioni o di eventi, anzi, l’evento principe è che qui non si dà alcun «evento», l’evento è nel Phanes, nel mostrarsi per quello che è quella «cosa», un qualcosa che noi non conosciamo ma che sta lì, all’erta, in attesa di qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che potrebbe scatenare una reazione, una risposta temeraria e bellicosa. Questo è un genere di «diafania» tipica della procedura compositiva della poetessa romana. È una procedura nuovissima, mai adottata dalla poesia italiana ma ben presente ad esempio in altre tradizioni letterarie, ad esempio nei poeti cechi Petr Kral e Michal Ajvaz. La «diafania» nella Giancaspero indica, in temini psicanalitici, la rimozione di una rimozione, con il che un qualcosa è pervenuto alla soglia della istanza linguistica che le ha confezionato un vestito linguistico, quel qualcosa che non può che essere una catacresi. Ecco, la poesia della Giancaspero ha questa caratteristica, che ha sempre a che fare con la catacresi, che è il modo di darsi di Phanes, il modo di venire alla luce della vestizione linguistica di un qualcosa, di un contenuto di verità che è stato travisato e composto (tradotto) in parole inesplicabili, in un Enigma.
Mario M. Gabriele
1 maggio 2018 alle 11:04
Grazie Giorgio di questa tua ennesima fioritura critica. Vorrei entrare nel merito della diafania, presentando un testo che si energizza su questo tema, senza per questo creare amputazione con il linguaggio corrente. Trattasi di una ulteriore via di agglutinazione sferica delle idee e delle sovrapposizioni sensoriali, che alla fine si armonizzano nella struttura segmentata. E’ ovvio che questo testo ha un suo valore interpretativo solo se, come dici tu, lo si analizza “con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del nuovo”.
I
inedito da: Registro di bordo
………………………………..
Berenice non ha altro da fare
che mettere blazer di vecchia data.
La stagione resiste all’epitaffio.
Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,
salvare papiri ed ebook.
con 8 posti senza turnover.
Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
della Letteratura Italiana .
Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
Al vicolo 7 di Piazza Bologna,
nessuno ha una vita privata.
Quando la poesia sfugge
diventa grazia autonoma.
In un inverno del 93 cademmo nel crinale.
Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.
Il fiume era rientrato nell’ alveo.
Carlo già pensava alla brossure della Gita domenicale.
Ada, la magnifica Ada
dai sette lumini e corde di chitarra,
si era concentrata sugli steli di gramigna.
Una piccola colazione
portò fantasmi e sentimenti abrasi.
Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.
Lo stato delle cose è nel tempo.
La Canducci ha azzerato il debito.
Siamo in bilico.
Ofelia si trastulla con l’oboe.
La notte ha rubato la luna.
Su altri versanti sostano i giorni a venire.
Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali
con Dibattito su amore e Il Dente di Wels.
Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.
El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
Un paesino di sintassi crudele
ha aperto check-in e ogni limite.
-Oggi non è venuto nessuno;
e oggi sono morto così poco questa sera!-
*
Dvora Amir
Dvora Amir
Di quante finestre ha bisogno una persona
Di quante finestre ha bisogno una persona per aprirsi,
perché non sia un Capitan Nemo, imprigionato nelle trame
delle coordinate in lungo e in largo
braccato dal suo mondo. Fra gli strumenti di navigazione, “muovendosi
entro la base movibile,”
chiuso all’interno, come se dicesse, sia il mondo a penetrare dal mio oblò,
sia lui ad abituarsi a me.
E sugli occhi mise toppe di vetro perché le lacrime
non colassero alla luce.
Anche lui ebbe bisogno di diverse finestre per salvare la propria vita.
Una sottile fessura, un cancellino attraverso cui guardare, e dall’interno verso fuori.
Come Giona nella pancia della balena, nell’oscurità crescente
vide una perla splendente,
premuta contro la pupilla del pesce come un vecchio
al buco della serratura del suo uscio.
Vide le acque ondeggiargli incontro, e seppe: il pesce, e le diverse
creature del mare
vivono come lui le loro vite in una trappola,
e sentì la sua bocca dire alle sue orecchie: sono vivo.
[ da L’Ombra delle Parole, Trad. Steven Grieco-Rathgeb]
Donatella Costantina Giancaspero
1 maggio 2018 alle 13:40
A proposito di come il concetto di «diafania» viene espresso da quel mio (ormai famoso) verso «un nido di vespe nel lampadario», Giorgio Linguaglossa nomina due poeti cechi contemporanei, Petr Král e Michal Ajvaz. Direi che averli citati qui sia, per tutti noi, della massima importanza, poiché entrambi possono insegnarci molto. Essi, infatti, derivano da una tradizione poetica di grande ricchezza espressiva. Sarebbe sufficiente leggere la breve Storia della poesia ceca contemporanea, pubblicata nel 1950 da Angelo Maria Ripellino (del quale proprio quest’anno ricorre il quarantennale della morte), per comprendere quali personalità hanno animato il panorama letterario ceco del Novecento. In un saggio intitolato Nuova poesia ceca (in Semicerchio, Rivista di poesia comparata, 2005), Annalisa Cosentino definisce quei poeti “tesori inestimabili”: si riferisce ai poeti cosiddetti “proletari, poetisti, surrealisti, religiosi e civili” e cita Wolker, Nezval, Seifert, Blatný, Halas, Holan, Orten, Zahradnicek, Kolár.
Ma, avverte la Cosentino, «Rintracciare le linee evolutive e le tendenze dominanti nella poesia ceca del Novecento è […] un’impresa ardua, complicata inoltre dalle vicende politiche e dalle loro conseguenze nel sistema culturale: le censure che si sono susseguite a partire dall’inizio dell’occupazione nazista hanno contribuito a determinare l’evoluzione dell’arte e quindi anche le dinamiche letterarie». Ecco perché la poesia ceca ci appare tanto densa, complessa per il lettore italiano. Nel suo saggio, Annalisa Cosentino ne ripercorre brevemente le tappe principali:
“Durante il fertile ventennio tra le due guerre, nella giovanissima democrazia cecoslovacca piena di speranze si affermarono dapprima il poetismo – e cioè la più gioiosa e positiva tra le avanguardie europee, una felice sintesi delle istanze avanguardistiche che voleva una poesia per tutti i sensi, in grado di cantare e ricreare «tutte le bellezze del mondo» – e poi il più vitale dei movimenti surrealisti (vitale al punto che sue propaggini si estendono tuttora). In seguito le devastazioni materiali e morali della guerra diedero impulso a un filone molto produttivo nella letteratura ceca contemporanea, tuttora presente, che risponde al problema del realismo risolvendo il rapporto di rappresentazione e realtà in una poetica della quotidianità dalle numerose varianti: in questo filone rientrano, a vario titolo, le numerose mutazioni surrealistiche coniugate alla «mitologia del quotidiano», il «realismo totale» e addirittura, per certi versi, il realismo socialista. La necessità costante di confrontarsi con un sistema politico illiberale – dapprima, durante la Seconda guerra mondiale, nazista, poi, per circa quarant’anni, totalitario comunista – diede impulso a forme clandestine di associazionismo e di editoria: se dunque l’evoluzione sul piano estetico naturalmente non si è mai arrestata, tuttavia l’interazione tra le varie componenti del sistema culturale è stata frequentemente ostacolata. Spesso la diffusione delle opere letterarie era limitata a cerchie ristrette, ad esempio all’élite che aveva accesso al circuito delle pubblicazioni samizdat o ai libri stampati all’estero; di conseguenza il contesto di un’opera risultava artificialmente compresso. L’alternarsi di fasi di relativa liberalizzazione e successiva normalizzazione ha poi creato ulteriori sfasature nella ricezione della letteratura: ad esempio, alcuni autori che nel corso degli anni Sessanta avevano potuto accedere alla pubblicazione e ottenere il successo, nel decennio seguente furono messi a tacere, e le loro opere furono eliminate non solo dai piani editoriali, ma anche dalle biblioteche pubbliche.
[…] Negli anni Novanta, con il ripristino della democrazia, case editrici e librerie sono state inondate di testi: oltre alla produzione contemporanea, vengono pubblicate le opere rimaste inedite, quelle edite prima soltanto clandestinamente, quelle edite nelle case editrici ceche dell’esilio, quelle già pubblicate ma censurate. Questa contemporanea abbondanza di materiali eterogenei ha prodotto una certa confusione, impedendo talvolta al lettore di individuare un filo conduttore; si è trattato tuttavia, allo stesso tempo, di una confusione creativa, che ha permesso interazioni particolarissime e produttive di opere e autori lontani fra loro nel tempo e per formazione”.
Leggiamo insieme questa poesia di
Michal Ajvaz (nato a Praga il 30 ottobre 1949):
Turisti
Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.
(da Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989, trad di Antonio Parente)
Gino Rago
1 maggio 2018 alle 18:23
Brava Costantina Donatella Giancaspero. E’ un pezzo il tuo di autentica bravura sul piano della critica letteraria e della stessa storia letteraria di una poesia, di un popolo, di una storia dello stesso popolo, anche attraverso il filtro psico-storico della Cosentino.
Intensi e terribili questi versi da te cara Costantina scelti e a noi proposti
“[…]Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.[…]
Un esempio di mitologia del quotidiano di un poeta, Michal Ajvaz (nato a Praga il 30 ottobre 1949), quasi mio coetaneo.
Donatella Costantina Giancaspero
1 maggio 2018 alle 19:56
Grazie, caro Gino!
Ho citato il saggio di Annalisa Cosentino (docente associato di Lingua e Letteratura ceca e slovacca e Traduzione letteraria all’Università «La Sapienza» di Roma), per la sua chiarezza e sintetica completezza. Ci invoglia ad approfondire la conoscenza della poesia ceca (e slovacca) e ad apprezzarla sempre di più…
Giorgio Linguaglossa
1 maggio 2018 alle 16:19
copio e incollo da FB, La scialuppa di Pegaso, questa poesia di
Lucio Mayoor Tosi che trovo esilarante. Con Lucio siamo davanti ad un nuovo genere di poetico: l’Antipoetismo.
Frasi d’amore.
Chi per una partita a due?
Chi per scambiarci il cane?
Chi per due tazze di yogurt con banana?
Chi per mille lire?
Chi per l’andata e due ritorni?
Chi per stonare cantando insieme?
Chi per misurarci la pressione?
Chi per alzare insieme le tapparelle?
Chi per stare fuori dalla Disco?
Chi per non andare in Indonesia?
Chi per un week-end sul lago Washoe in Nevada?
Chi per un solo gelato alla menta?
Chi per due donne che si baciano?
Chi per stare all’ombra di una torpediniera?
Dai, ditemi!
Chi per contare le baionette?
Chi per “non avere paura”?
Chi per metterci le bombe?
Chi per (non) morire abbracciati?
Lucio Mayoor Tosi
6 settembre 2917 alle 11.05
Il punto di domanda è piuttosto raro in poesia. In poesia le domande sono sempre assertive, e non vi è dubbio che si preferisca la grazia delle risposte. Ma è altrettanto vero che gran parte del mistero – e il fascino – di tante poesie sta nell’apertura che si crea con la domanda; è in quella inguaribile sospensione che si affaccia il vuoto, quindi l’attesa: per una risposta che il più delle volte è già implicita nella domanda. Questo strano dialogo, tra futuro e passato, non “cade” ma solleva il vuoto rendendo visibile la sua polverosa sostanza. Nel nulla delle pause non vi è spazio per l’angoscia, la quale deriva nel passato, vale a dire da dove giungono le risposte. Così è nella maggioranza dei casi. Pochi al mondo sanno dare risposte mettendoci il punto di domanda.
Giorgio Linguaglossa
6 settembre 2917 alle 11.42
la tua, caro Lucio, è una poesia di enunciati. La peculiarità della tua poesia è che è difficoltoso distinguere gli enunciati assertivi da quelli interrogativi. Di frequente nella tua poesia, l’assertorio si traveste da interrogatorio, è una forma interrogativa mascherata; la risposta, di frequente, è una domanda capovolta. E viceversa. Questa è una caratteristica peculiarissima della tua scrittura poetica, che pochissimi sono in grado di seguire e apprezzare, in specie chi continua a pensare e a fare una poesia unilineare. La tua poesia ricomincia sempre daccapo, gli enunciati sono aforismi con il collo spezzato, contengono una differenziazione problematologica (H. Meyer).
Gli enunciati aforistici lasciano intravvedere, tra le commessure della sintassi, il vuoto e l’angoscia che trapela e filtra tra le parole compattate e formattate…
Lucio Mayoor Tosi
1 maggio 2018 alle 17:46
Ringrazio Giorgio per avere dato attenzione a questa poesiola, che vorrebbe essere gioco dolce-amaro, offrendo spunti per 140 caratteri tweet.
In effetti la piena autonomia e la completezza dei singoli versi è per me il modo migliore per frammentare. Migliore rispetto alla semplice interruzione per punti (tutte cose che ho imparato leggendo Tranströmer). Tra verso e verso il tempo fa la sua parte: si tratta di pause reali, interruzioni consapevolmente attuate già nell’atto del concepimento, che hanno finito col diventare tecnica. Come è divenuta tecnica l’adozione di certe “pezze”, ad esempio quando scrivo “titoli” – sia a se stanti che inseriti nel discorso – ma potremmo anche usare un inglesismo e parlare di insert coint (to Continue), ove l’inserimento può essere di un qualsiasi imprevisto. Ma detto così forse può sembrare complicato. Comunque il carattere interrogativo e assertivo potrebbe derivare proprio dal senso completo che si tenta di dare a ogni verso. Non sono il solo, qui, a seguire questa procedura, forse ci sono soltanto differenze di misura e frequenza.
Alfonso Cataldi
1 maggio 2018 alle 18:21
Come dirimere la direzione delle venature (scritta a quattro mani con Giorgio Linguaglossa)
L’astronauta occasionale rovistava fra gli avanzi del pranzo
del giorno prima quando fu sorpreso da certi marziani verdi i quali
erano di stomaco forte e mangiavano delle bistecche di montone crudo
e io ne fui sorpreso perché invece della resina di pino
bevevano cognac con della Cola Cola e Ginger Fizz
e fumavano del tabacco cubano… non saprei dire altro però,
Signor commissario…
no, non erano dell’era glaciale ma di prima, direi del cenozoico, o giù di lì…
– con quella gamba messa male
erano atterrati col paracadute sulla terrazza della Tower Trump at Chelsea, New York
mentre Olga dichiarava il suo amore eterno per Billy the Bud…
tu mi chiedi che fine ha fatto Billy the Bud?, ma che importanza vuoi che abbia!
la stanza era di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
consolidarsi, senza preavviso…
nel monolite apparente del tempo che rimane in sospeso…
La signora Madeleine vende la sua ombra alla casa di riposo
e fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
abbandonate a causa della guerra.
Una giovane insegnante sbagliò ad imboccare il viale dietro il piccolo cancello
e si trovò di colpo su Titano a meno settanta gradi centigradi con il colbacco in testa
e gli autoreggenti di pizzo…
ma forse questi ricordi sono un po’ confusi però spiegano bene
la teoria evolutiva dell’azzardo cosmico quando un bel giorno iniziò il Big Bang…
Donatella Costantina Giancaspero
2 maggio 2018 alle 13:06
Davvero complimenti vivissimi ad Alfonso Cataldi, questa è una poesia degna del surrealismo di Ajvaz! Una poesia in linea con la poetica della NOE, una poesia ilare che però è anche serissima… la poesia è libertà mentale, capacità di sorprendere il lettore, di non dargli tregua, di stupirlo… e in questo hai senz’altro colto nel segno. Una poesia così se la sarebbero sognata i Novissimi (1961), da allora la poesia italiana non ha mai ripreso a correre, è ritornata nei ranghi compatti e prevedibili del minimalismo. Non posso che augurarti di continuare a stupirci con altre analoghe composizioni…