1) Domanda.
Caro Giorgio,
è appena uscito il tuo volume: Critica Della Ragione Sufficiente, (verso una nuova ontologia estetica), presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma, 2018, pagg. 512, 21 Euro, Art-director Lucio Mayoor Tosi, volevo chiederti il senso di questo tuo nuovo lavoro critico, in risposta agli editori nazionali, più intenti a storicizzare e a periodizzare le voci dei poeti generazionali, che a riportare progetti di poesia fuori dall’elegia fenomeno tipico della poesia italiana. Per fortuna non si parla più di canoni o mini canoni, questo sembra un buon segnale.
Risposta:
Il sotto titolo del libro parla chiaro: «verso una nuova ontologia estetica», con il che si vuole intendere il percorso di pensiero che bisogna fare per introdurci dentro le categorie di una nuova ontologia. Le cose non avvengono a caso, se poeti di lungo corso come te, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia e poetesse più giovani come Letizia Leone e Chiara Catapano e altri che ci seguono: Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Vincenzo Petronelli, Francesca Dono… si sono riuniti attorno ad un progetto di «rottura» del conservatorismo della poesia italiana. La «rottura» era ed è necessaria, anzi, è indispensabile e inevitabile dopo un cinquantennio di sostanziale stasi del pensiero poetico. Per i «poeti», diciamo così, istituzionali, la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Altri poeti, invece, per esempio, Lucio Mayoor Tosi, ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… E la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza. E il linguaggio poetico si è rivitalizzato.
In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco Rathgeb tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci lavora. Lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Kikuo Takano, Steven Grieco Rathgeb è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli artisti di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute ad evidenza tutte quelle chiacchiere-di-poesia o poesia-chiacchiera di cui sono pieni i romanzi e le poesie che si fanno «oggi». Chiacchiere, ciarle, battute da bar dello spot, la poesia di Zeichen, di Magrelli, per fare due nomi noti, e degli odierni epigoni della masscult.
Per tanti troppi anni è stato problematico, qui in Italia, ai poeti di un certo livello tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica. Siamo stati assediati dalla anomia delle proposte di poetica pubblicitarie e dalle battute da bar dello spot, siamo stati impossibilitati a scrivere poesia… Anna Ventura, Steven Grieco, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia leone sono poeti ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia alla moda tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca, e le parole diventano equivoche e ciarliere. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» di una sua poesia che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» rimaste impigliate nella rete, mentre la poesia che si fa oggi assume le parole rimaste impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».
La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità.
«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di «cose» dismesse che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…
Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:
Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.
(Gino Rago)
Richard Serra, The Labirint (1939) – ci troviamo all’interno di una nuova ontologia della forma-poesia
Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,
mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche risibile. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarmelo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50, io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) posso (possiamo) pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.
È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia», la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo: un nuovo modo di intendere le categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Erik Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.
Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole
Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità emotiva dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, miliardi di parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.
Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo, i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati ospiti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.
Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.
Che cos’è una patria metafisica?
2) Domanda:
Che cos’è una patria metafisica?
Risposta:
Una patria metafisica delle parole la si costruisce in piena consapevolezza, e la può costruire soltanto una civiltà, non un singolo. È soltanto quando una patria metafisica delle parole inizia a declinare che si aprono delle «falle» e si inizia ad intravvedere un’altra luce, e con essa altre «cose» che prima non vedevamo. Non si tratta soltanto di una fotologia o di una riforma ottica, ma di un vero regno delle «cose» che viene avvistato. Solo a quel punto sorgono, possono sorgere le parole nuove. E allora non resta che ricostruire ciò che è stato decostruito, raccogliere i frammenti di quelle parole morte che sono state calpestate, e indugiare, prendere una distanza, rallentare e, se del caso, fermarsi. Perché noi siamo sempre in cammino verso una nuova casa dell’essere, dobbiamo sempre istituire un rapporto amicale con il linguaggio, quel linguaggio che è stato fatto sloggiare dalla casa ed è rimasto preda delle intemperie, del gelo e del raffreddamento delle parole. Quelle parole raffreddate sono le sole parole che abbiamo, non ne disponiamo di altre, sono loro che ci possiedono… E allora bisogna scaldarle, bisogna trovare una nuova abitazione riscaldata, con una buona stufa… Forse, questo cammino altro non è che un momento del Ge-Schick dell’essere, un tratto di quella peripezia dello Spirito che occorre perseguire.
3) Domanda.
A me sembra una sfida di enorme portata questa tua Critica Della Ragione Sufficiente, che coinvolgerà dissidenti, lobby e carbonerie varie, tutti intenti a mantenere intatto e inalterato il territorio e i confini della poesia, sostenuti dagli stessi poeti, ingabbiati in un non senso etico, che ha amorfizzato i tentativi di ricambio linguistico, dopo tante stagioni di autarchia da parte della Tradizione. Stando a questa lettura prevedi un meteo poetico da les niges d’antan (avanti c’è posto) o dobbiamo aspettarci altre perturbazioni perché is this the question?
Risposta:
Uno dei punti fermi della «nuova ontologia estetica» è il principio opposto all’adagio latino: ad impossibilia nemo tenetur. Impostazione ontologica dei problemi estetici significa pensare l’impossibile, ripensare le categorie basilari della pratica poetica: la parola, il metro, il verso, il frammento, l’immagine, l’icona, la tematizzazione del tema, l’alternanza del tempo e dello spazio, la loro intercambiabilità; il ripensamento del tempo e dello spazio considerati isometrici e isomorfici; nella «nuova poesia» il tempo è spazializzato e lo spazio viene temporalizzato; il «metro» viene scardinato al suo interno: non c’è più alcun metro, sostituito dal «frammento»; i «frammenti» si moltiplicano e si dispongono in un ordine impensato e impensabile, in un ordine metonimico; gli «oggetti» vengono derubricati e vengono prese in considerazione le «cose», depositarie di vita condensata; le «cose» diventano «persone» e le «persone» ridiventano «cose»; le «cose» si scollegano le une dalle altre e si ricollegano in un nuovo ordine. L’ordine dell’inconscio nella nuova poesia è analogo all’ordine-disordine che regna nella «materia» della fisica quantistica. Nella «nuova ontologia estetica» non ha alcun senso parlare di metro unilineare e unitemporale, nella «nuova poesia» la valigia dell’inconscio viene ad essere svaligiata.
È questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della «nuova ontologia estetica»: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata della questione; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo… E qui saremmo, ovviamente, all’interno del territorio della «nuova ontologia estetica».
Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali, sulla ri-metaforizzazione del discorso poetico; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria». Ma questo è.
La verità, scriveva Nietzsche, è diventata «precaria».
La «nuova ontologia estetica» afferma in modo convinto che la questione degli «oggetti in poesia» non interessa più di tanto; che la vera questione è la presenza delle «cose» nella «nuova poesia». È chiaro che qui siamo in un demanio concettuale lontanissimo dalla impostazione anceschiana del 1952 quando diede alle stampe l’antologia Lirici nuovi. Nella «nuova poesia» non è più il poeta che va alla ricerca degli «oggetti» e tantomeno che essi debbano cadere «spontaneamente» sulla testa del poeta come una tegola del tetto, in questo campo non si dà alcuna spontaneità: sono le «cose» che interessano la nuova ontologia estetica. Le «cose» hanno una fondazione filosofica totalmente diversa dagli «oggetti», questo penso, anzi spero, sia chiaro a tutti. Una poesia fatta di «cose» è una cosa diametralmente diversa e lontanissima dalla antica «poesia degli oggetti».
4) Domanda.
A volte sembra che la radicalizzazione della Tradizione nasconda il fondo freudiano della crisi della parola e della incomunicabilità con la classe sociale, distratta dalla crisi economica di oggi. Ciò non significa rimandare ad altre stagioni ogni progetto innovativo perché esistono ostacoli per chiunque voglia fare della poesia un concetto d’arte, così come la concepivano Marina Cvetaeva e Hannah Arendt. Che ne pensi?
Risposta:
Con l’intervenuto «oscuramento» del pensiero metafisico che ha avuto luogo in Europa dalla seconda guerra mondiale, la domanda di un «progetto innovativo» come tu ti esprimi è uscita fuori del discorso poetico e della pratica della poesia; il pensiero filosofico italiano ed europeo di recente è tornato a porsi delle interrogazioni radicali, probabilmente a seguito degli eventi che hanno visto progredire lo sfaldamento dell’Occidente e dei suoi orizzonti di gloria. Quella «retorizzazione del soggetto», che era il contraltare dell’individualismo sfrenato a livello sociale, che è andata di moda nella poesia italiana ed europea a partire già dalla fine degli anni sessanta con l’annesso primato dell’io e della poesia psicologica, che psicologizzava ogni accadimento, anche il corpo visto come magazzino psicologico etc., anche quella poesia (che ha i suoi culmini nella poesia di un Mark Strand e del Montale di Satura, 1971, qui da noi), oggi è entrata nel cono d’ombra della cultura mass-mediatizzata, la poesia delle «occasioni» è diventata della poesia che si fa oggi in piena cultura mass-mediatizzata: il si impersonale nell’ambito del quale si pone anche la domanda di poesia che produce altra poesia normalizzata dal si impersonale; oggi assistiamo ad una poesia di profilo basso, culturalmente non significativa, che adotta in modo acritico la «retorizzazione del soggetto». Oggi la poesia che vuole essere significativa non può evitare di fare tre passi indietro rispetto a questa di moda invalsa in questi ultimi cinque decenni, e ripartire da lì dove tutto ha avuto inizio: dalla fine degli anni Sessanta, e tentare di riconfezionare una forma-poesia che finalmente si liberi della deleteria psicologizzazione del testo, che ritorni ad occuparsi delle questioni importanti, direi, mi si passi il termine, delle questioni «metafisiche».
Quella «retorizzazione del soggetto», che era il contraltare dell’individualismo sfrenato a livello sociale…
5) Domanda.
Secondo te, quali sono i deterrenti più efficaci in grado di disarticolare il sistema allarme della Corte Poetica Novecentesca, con tutti i suoi bodygard?
Risposta:
Contro i bodygard dovremmo ingaggiare altri bodygard. A parte gli scherzi, il nostro discorso non può essere rivolto contro i mediocri, quelli lasciamoli andare per la loro strada; noi dobbiamo rivolgerci alle intelligenze migliori.
6) Domanda.
Si è parlato di idea, di poesia activa agevolmente proposta dai poeti della «nuova ontologia estetica». Ma quanto è credibile tutto ciò, e come si sta diversificando il linguaggio? Ci sono i presupposti per agire in questa direzione? Chi sono gli artefici? E come agiscono i nuovi lettori e la vecchia generazione? Benjamin considerava l’uomo un “fabbricante di strumenti”, un “homo faber” in grado di dar vita a un nuovo mondo di cose. Per caso è decaduta questa affermazione? È Utopia fare oggi poesia?
Risposta:
I linguaggi di relazione oggi nel mondo diventato globale tendono ad entropizzarsi, così anche i linguaggi artistici tendono all’entropia, a liofilizzarsi. In poesia, la forma d’arte più povera e primordiale, anche i linguaggi poetici tendono alla liofilizzazione, al raffreddamento e alla dissipazione. In queste condizioni, paradossalmente, è molto difficile scrivere una poesia che non sia decorativa, proprio perché tutti possono scrivere una «buona» poesia confidando sull’uso di un «buon» linguaggio pseudo giornalistico. Oggi bisogna tornare a fare una poesia «difficile». Oggi i tempi sono maturi per una inversione radicale di tendenza.
Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini, completamente immaginifiche e sganciate da qualsiasi «esperienza» vissuta, sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra.
Leggiamo una poesia di Tomas Tranströmer:
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
È scomparsa la domanda fondamentale dalle pratiche artistiche… Oggi abbiamo un’arte da risultato, un’arte ricca di effetti speciali, un’arte imbonitoria. Un’arte democratica, cioè innocua
7) Domanda.
La scomparsa della metafisica e la continuazione filosofica del pensiero debole permettono sostituzioni teoretiche sul linguaggio e sull’Universo?
Risposta:
È scomparsa la domanda fondamentale dalle pratiche artistiche; oggi abbiamo una poesia di surrogati di quella domanda che è scomparsa, che è stata silenziata. Oggi abbiamo un’arte da risultato, un’arte ricca di effetti speciali, un’arte imbonitoria. Un’arte democratica, cioè innocua.
8) Domanda.
Il curatore di una Antologia è sempre salomonico? O ha un suo equivalente in fatto di giustizia selettiva su opere e autori?
Risposta:
Le «cose», gli «oggetti» di pessimo gusto
le cose e gli oggetti di pessima scelta,
Le cose, gli oggetti di pessimo gusto,
Poesia: zona keep out! Stradine e vialoni,
holzwege, se veramente mi trovi un bosco mai defoliato
lì porteremo il nostro rosario.
Caro Mario, questa tua è una straordinaria poesia di «oggetti» morti, una galleria di oggetti-ossario della nostra esistenza, e tu ne hai fatto un monumento! Se ci fosse ancora in vita Anceschi ne sarebbe rimasto ammirato e deluso nello stesso tempo, perché non capirebbe, lui non potrebbe capire che fine hanno fatto i suoi «oggetti», che oggi, a distanza di sessantacinque anni sono diventati, stracci, scarti, residui, rifiuti, fossili da «zona keep out», da cui stare alla larga, un «Carnevale» di oggetti che ci assilla e ci droga in ogni istante della nostra giornata. Quello che per Anceschi all’inizio del paleocapitalismo italiano nel 1952 era una Buona Novella, oggi è diventata una idiozia insopportabile, quegli «oggetti» che oggi il capitalismo globale produce in modo globale e intollerabile, quegli oggetti sono diventati la nostra maledizione… e mi piace quella tua ironia di considerare al pari degli oggetti da pattumiera anche quel Galateo in bosco che tanto rallegra il cuore degli accademici. Non c’è nessun «galateo» nella civiltà degli oggetti, quella di Zanzotto era una inconscia apologia dell’esistente… E quanti autori sono caduti nel tranello di credere ingenuamente nella bontà degli oggetti! Che maiuscola ingenuità… Ma noi, noi della nuova ontologia estetica, siamo stati per fortuna vaccinati contro tutti questi luoghi comuni diventati pensiero positivizzato e sedimentato, noi sappiamo bene che quegli oggetti sono portatori di una ideologia tra le più belliciste che mai il mondo abbia conosciuto… quegli oggetti, bisogna dirlo, sono il prodotto della nuova barbarie del nuovo mondo tecnologizzato dalla super borghesia globale che detiene le chiavi della comunicazione globale. E un poeta degno di questo nome deve prendere le distanze da questa futile credenza… Gli oggetti non hanno alcuna magia… Gli oggetti sono i portatori della nuova ideologia globale, quella della omologazione globale, planetaria…
Ogni curatore di una Antologia è sempre di parte, e lo deve essere, ma deve giustificare teoricamente il proprio essere di parte e non presentarsi sotto il falso sembiante di un agire, come tu dici, «salomonico».
9) Domanda:
Tu dai credito alla poesia che va di moda oggi, alla poesia del «privato»?
Risposta:
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».
(Adorno, Minima moralia)