Una poesia di Lucio Mayoor Tosi
Nautilus
Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano.
Rosetta col pensiero di morire proprio qui
nel vicolo. L’animo sulla ghiaia.
Pensieri che vanno in aria allacciati con altri;
alcuni indietreggiano, poi tornano decorati
di crisantemi.
Non per me, che ho da scrivere una storia:
di lei e suo marito, dentro il bicchiere capovolto.
Casa di vetro, con giardino. Il cane Buf
che non mi può vedere. Rosetta gli dice
Buf, smettila!
Ma è come non ci fosse nessuno.
Le cose sembrano ferme, perché chissà
quale distanza le separa. Anni e anni luce
aggrappati agli attaccapanni, tra le maniche
delle giacche. Qualche inverno da noi,
di macchie e rattoppi.
Chi scendeva e saliva le scale, già qui
prima di arrivare. E andarsene lentamente.
(Devo ricordarmi di comprare i croccantini,
solo pollo, per il gatto di Rosetta. Dicono
che non è morta. E’ al ricovero).
Fa paura il tempo quando passa.
In fotografia la vestaglia di felpa. Cento,
duecento vestaglie. Estate e inverno,
Rosetta e suo marito ancora giovani,
le stanze da pitturare.
Dipingo un segno sui muri, viola che va oltre,
dietro le spalle, nell’ombra futura. Da qui
a qui. Non ha senso, Rosetta. Niente ha senso.
La scatola dei profumi – Ride. I profumi!
– Sa, io aspettai centinaia d’anni prima di nascere.
Ho rischiato di finire in una nidiata di topolini
di campagna. Tanto mi piacevano. Ti sentono.
Anche se arrivi invisibile.
– A lei questo non può succedere, facile
che sia stato ucciso dai bolscevichi. Anzi, lo so.
Quando? Alle tre del pomeriggio. Non ricorda
le foglie, quel turbine di vento?
Si guardi. – Io sono vecchia, ho smesso di guardarmi.
Allora le scarpe. E’ comunque così che doveva andare.
C’è risentimento.
Scende dal naso una goccia di mare.
Morire è inutile. Faccio le valige. Fingo di metterci
qualcosa. Recito la vita. Entro, esco. Chiudo la porta.
Calpesto l’erba che infesta a primavera.
Il tempo fa questo e altro. Ci butto l’acqua sporca
dei pavimenti, con la candeggina. Qui è pieno
di pensieri. Nessuno li toglie.
Io per questo scrivo invisibile, una storia
silenziosa. Capovolta. Col giardino, il cane Buf.
Annessi e connessi alla rete, Metro Linea 2.
L’infinito dentale. L’Arco della Pace a Milano.
Tutto e tutti con e senza cappello, le buone idee.
Un minuto di pioggia. Una scatoletta.
La picchi sul tavolo capovolta. Dai una passata
e guardi altrove. Lo stra-ba-dan dei vagoni.
Giorgio Linguaglossa
Lucio caro,
questa è una poesia eccezionale, c’è tutto di tutto e sei riuscito a metterci anche il nulla + nulla. Incredibile: più ci metti le cose più si crea e aumenta il nulla. Allora è vera la teoria di Erik Verlinde secondo il quale non c’è mai stato alcun big bang ma la materia viene creata continuamente dal nulla, solo che noi non ce ne accorgiamo. Dice più o meno così Verlinde, che quando la concentrazione della materia si rarefà e giunge ad un estremo di rarefazione, a quel punto si produce altra materia, compaiono delle cose che si chiamano particelle elementari. Così, anche la poesia ha i suoi tempi di maturazione, solo che non sono i poeti che lo decidono, è il Signor tempo che decide come e quando i tempi sono maturi per una nuova poesia. Quando la materia della poesia si rarefa fino ad un grado elevatissimo di rarefazione, allora compare all’improvviso la poesia. Semplicemente giunge a maturazione. È solo una questione di tempo. E allora noi dobbiamo fare un elogio della lentezza alla lentezza del tempo che ci guida e amministra le nostre proprietà, o quello che crediamo sia di nostra proprietà.
Anna Ventura
La noce
Durante un concerto
si addormentarono tutti ;
anche i suonatori.
Quando si svegliarono ognuno
Guardò l’orologio e vide
Che erano passate tre ore,
ma nessuno osò confessare la cosa
e tantomeno i sogni che aveva fatti.
Solo il bambino che aveva sognato
di essere una noce
lo disse alla mamma e lei
rispose che sogno più bello
mai era stato fatto.
Il mattino seguente
la donna che puliva la sala
trovò una noce
sotto a una poltrona
e se la mise in tasca.
Lì la trovò il suo bambino, la prese,
la mangiò e la trovò buonissima.
Quella noce fu l’unico pegno
Che il tempo lasciò per tre ore
Rubate a quei nobili spiriti
Raccolti nella conchiglia sonora
Di un caldo Auditorium,
fu l’unico oggetto
sottratto al mondo dei sogni
di un bambino da un altro bambino.
*
«Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare».1]
È questa l’aporia del linguaggio. La tautologia e la contraddizione mostrano che esse si trovano, convergono, nella metafora, la quale contiene in sé sia la tautologia (il non-identico è lo stesso che l’identico) che la contraddizione (il non-identico non è l’identico). Da ciò se ne può dedurre che nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, il lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile.
Talché voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.
Il discorso poetico tende «naturalmente» alla metafora.
- Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1979 p. 33
(Giorgio Linguaglossa)
Mauro Pierno 26 maggio 2018
Il bello è che le noci nella busta
aspettano tranquillamente.
Il loro morso è duro
soltanto all’inizio
poi le due metà perfette
in miniatura assemblano
un cervello. Nella crosta gremiscono
anche i pensieri
e per i più gourmet
evidentemente assaporabili.
Il profumo di un’idea la rende eterna.
La velocità atterra nella masticazione
il vento violento di una intuizione.
Mauro Pierno
La costruzione di un verso
presuppone un racconto pur esso slegato.
Il verso è un incipit formidabile.
La partenza presupposta.
Ora per questo
in quale direzione
pare impossibile
pronosticarne il destino.
Un verso fluttua.
Realizza il senso e lo compendia.
-Scende dal naso una goccia di mare.-
La sintesi del pensiero quasi raggiunto.
La poetica della musa degli stracci:
t’avvedi dell’errore
in sovrabbondanza di macerie e di inutilità.
La storia uno sfracelo.
In viaggio, in viaggio con Godot
per dissalvarlo, dissuaderlo.
Le parole per una dieta condivisa,
dividiamo l’odore del bollito.
Giorgio Linguaglossa 26 maggio 2018
il verso:
Il profumo di un’idea la rende eterna
è apparentemente sensato ma in realtà è privo di senso. Tutta la poesia si regge sul filo di rasoio del senso e del non senso, oscilla di qua e di là senza optare per l’una o l’altra soluzione. E così la poesia si regge in bilico, sull’orlo di un discorso, questo sì davvero disfanico e disforico.
*
Affrettati lentamente – Festina lente
(Svetonio, citando una massima dell’imperatore Augusto)
Rivendicate la lentezza: nel nostro mondo a tutto vapore, è un diritto delizioso di cui siamo stati privati.
(Jean-Pierre Siméon)
Tutto ciò che è squisito matura lentamente.
(Arthur Schopenhauer)
Quella eccitantissima perversione di vita: la necessità di compiere qualcosa in un tempo minore di quanto in realtà ne occorrerebbe.
(Ernest Hemingway)
Nel godere, si vada lenti; nell’agire, in fretta.
(Baltasar Gracián y Morales)
Credo che la malinconia sia un problema musicale, una dissonanza, un ritmo alterato. Mentre fuori tutto accade con un vertiginoso ritmo da cascata, dentro c’è una lentezza esausta da goccia d’acqua che cade di tanto in tanto. Ecco perché quel fuori contemplato dal dentro melanconico risulta assurdo e irreale e costituisce la farsa che tutti dobbiamo rappresentare.
(Alejandra Pizarnik)
C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge.
Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.
(Milan Kundera)
Nella corsa della filosofia vince chi sa correre più lentamente. Oppure: chi raggiunge il traguardo per ultimo.
(Ludwig Wittgenstein)
La velocità del web porterà a nuove forme di lentezza. Il sistema di comunicazione asincrono è più congeniale proprio a coloro che cercano un tempo nuovo per pensare le cose. E stiamo assistendo al paradosso dell’estrema velocità che ci sta portando a questa nuova forma di lentezza, a questa nuova forma di pensiero, a una organizzazione mentale diversa. Cambierà il modo di decidere ma cambieranno soprattutto le ragioni delle decisioni. Dunque anche l’etica e la politica. E sarà un’altra rivoluzione.
(Roberto Cotroneo)
Apparve allora il Crimiso e si videro i nemici che lo stavano attraversando: in testa le quadrighe con le loro terribili armi e già pronte alla battaglia, dietro diecimila opliti armati di scudi bianchi e che, a giudicare dallo splendido armamento, dalla lentezza e dall’ordine con cui marciavano, si suppose che fossero Cartaginesi. (Timoleonte, 27)
(Plutarco)
*
Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo.
Con la metafora si riscalda e si rallenta la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda e diventa più veloce.
Il pensiero procede lentamente, è simile al nuotatore, più si spinge al largo più aumenta il rischio che possa annegare; però, se non si spingesse tanto lontano esso si convertirebbe in tautologia. Il pensiero che non divora se stesso è un non-pensiero. Il pensiero è antico, affonda la sua storia nel pre-spirituale, nella vita animalesca del genere.
(Giorgio Linguaglossa)
*
Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
ll loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…
E queste schegge arrivavano ad altissima velocità, come urli, come
shrapnel, a percuotere il foglio bianco di un mio quaderno, aperto, dove
poi si incollavano, e perduravano.
(Steven Grieco Rathgeb)
Scrive Milan Kundera nel romanzo Elogio della lentezza:
«Mi torna in mente l’americana che una trentina di anni fa, con piglio insieme severo ed entusiastico, da vera militante dell’erotismo, mi diede una lezione (gelidamente teorica) sulla liberazione sessuale; la parola chiave che ricorreva più frequentemente nel suo discorso era “orgasmo”; tenni il conto: la pronunciò quarantatre volte. Il culto dell’orgasmo: l’utilitarismo puritano applicato alla vita sessuale; l’efficienza contrapposta all’ozio; la riduzione del coito a un ostacolo che va superato il più velocemente possibile per giungere a un’esplosione estatica, unico vero fine dell’amore e dell’universo. Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca».
*
Provate a leggere contemporaneamente due libri usciti nello stesso anno, il 1957: Le ceneri di Gramsci di Pasolini e Laborintus di Sanguineti, vi accorgerete che il primo è scritto per una lettura lenta e il secondo per una lettura veloce, anzi velocissima. Che cosa significa? Che i due libri erano incompatibili, erano agli antipodi. In verità, ogni buon libro di poesia richiede (ed impone) al lettore una diversa velocità di lettura o una diversa lentezza.
(Giorgio Linguaglossa)
Intorno al 1919 Osip Mandel’stam scrive un saggio Sull’Interlocutore e punta la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.
Oggi mi sembra che questo sia il problema centrale per la poesia italiana: Con chi parla la poesia di Bacchini? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto, richiede una grande lentezza. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede invece una grande velocità. Come mai questo fenomeno? Che cosa è cambiato nella poesia italiana? Con chi parla la poesia post-montaliana (post Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?
Ecco, in proposito, un brano cruciale di Osip Mandel’stam nella traduzione di Donata De Bartolomeo. La poesia di Mandel’stam rispetto a quella dei simbolisti richiede una grande lentezza, va in senso contrario a quello dei simbolisti.
Osip Mandel’štam
Allora, con chi parla il poeta?
Allora, con chi parla il poeta? La questione è scabrosa e molto attuale, poiché sino ad oggi i simbolisti eludono la sua pungente impostazione. Il simbolismo, mettendo del tutto da parte la correlazione, per così dire, giuridica da cui è accompagnata l’azione del dire (dico, cioè, che mi ascoltano e che mi ascoltano non gratuitamente, né per curiosità ma perché obbligati), ha rivolto la sua attenzione esclusivamente all’acustica. Getta il suono nell’architettura dell’animo e, con il narcisismo che gli è proprio, segue le sue peregrinazioni sotto le leggi dell’altrui psiche. Esso prende in considerazione l’aderenza sonora, che deriva da una buona acustica, e chiama questo calcolo, magia. In questo atteggiamento, il simbolismo ricorda «Prestre Martin», il proverbio medievale francese, il quale nel tempo stesso dice la messa e la ascolta. Il poeta simbolista non è soltanto un musicista, egli è anche uno Stradivarius, il grande artista creatore di violini, preoccupato di calcolare le proporzioni della «scatola» della psiche dell’ascoltatore. Nella dipendenza da queste proporzioni, il colpo dell’archetto o riceve una regale pienezza o suona miseramente e con insicurezza. Ma, signori, la musica esiste anche indipendentemente dal fatto che qualcuno la suoni, in una certa sala e su un certo violino! Perché, allora, il poeta deve essere così previdente e sollecito? Dov’è, infine, questo fornitore di violini viventi per le esigenze del poeta, degli ascoltatori, la cui psiche è equipollente alla conchiglia del lavoro di Stradivarius? Non sappiamo, non lo sapremo mai dove sono questi ascoltatori… François Villon ha scritto per la marmaglia della metà del XV secolo, eppure noi troviamo nei suoi versi una viva bellezza.
Ogni persona ha degli amici. Perché mai il poeta non dovrebbe rivolgersi agli amici, alle persone che gli sono veramente vicine? Il naufrago, nel momento critico, getta nelle acque dell’oceano una bottiglia sigillata con il suo nome e la descrizione del suo destino. Dopo lunghi anni, passeggiando tra le dune, la trovo nella sabbia, leggo la lettera, vengo a sapere la data del fatto, l’ultimo desiderio del morente. La lettera, sigillata nella bottiglia, è indirizzata a chi la troverà. L’ho trovata io. Significa che sono io il misterioso destinatario.
Il mio dono è misero e la mia voce non è alta,
ma io sono vivo e sulla terra il mio
essere a qualcuno è caro:
un mio lontano discendente lo troverà
nei miei versi, chi lo sa? La mia anima
stringerà con la sua un rapporto
e come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.
Leggendo i versi di Baratynskij, provo la medesima sensazione come se nelle mie mani fosse caduta quella bottiglia. L’oceano di tutta la sua enorme produzione poetica le è venuto in aiuto, l’ha aiutata a colmare la sua predestinazione e l’emozione si impossessa del provvidenziale trovatore. Nel gettare la bottiglia nelle onde da parte del naufrago e nell’invio dei versi da parte di Baratynskij, ci sono due momenti che appaiono assolutamente identici. La lettera, così come i versi, non sono indirizzati a nessuno in particolare. Ciò nondimeno, entrambi hanno un destinatario: la lettera, colui che si accorge per caso della bottiglia nella sabbia, i versi il lettore «nella posterità». Io vorrei sapere che tra quelli cui capiteranno sotto gli occhi i citati versi di Baratynskij, non sentirà il brivido felice e sinistro che viene quando all’improvviso ti chiamano per nome.
Bal’mont dichiara:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri,
soltanto la fugacità metto nei versi.
In ogni fugacità io vedo mondi,
pieni di volubile, iridescente fuoco.
Non maledite, saggi, che vi importa di me?
Io sono soltanto una nuvoletta piena di fuoco,
io sono soltanto una nuvoletta – vedete, veleggio
e chiamo i sognatori – voi, non vi chiamo.
Quale contrasto rappresenta il tono sgradevole, insinuante di questi versi con il profondo e modesto valore dei versi di Baratynskij. Bal’mont si difende, come se si scusasse. È inammissibile per un poeta! L’unica cosa di cui non si deve scusare! Eppure, la poesia è consapevolezza della propria ragione. In Bal’mont, in questo caso, non c’è questa consapevolezza. Il primo verso uccide tutta la poesia. Il poeta dice subito chiaramente che non lo interessiamo:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri.
Inaspettatamente per lui, lo ripaghiamo con la stessa moneta: se noi non ti interessiamo, anche tu non ci interessi. Che me ne importa di una nuvoletta, ne veleggiano molte… Le vere nuvole hanno questo vantaggio, che non si fanno beffe della gente. Il rifiuto dell’interlocutore attraversa come una riga rossa tutta la poesia di Bal’mont e la sbiadisce fortemente. Bal’mont nei suoi versi tratta continuamente con disprezzo qualcuno, gli si rivolge senza rispetto, con negligenza, con alterigia. Eppure, questo «nessuno» è il misterioso interlocutore. Non compreso, disconosciuto da Bal’mont, egli brutalmente si vendica di lui. Quando parliamo, cerchiamo nel volto dell’interlocutore l’approvazione, la conferma che abbiamo ragione. Tanto più il poeta. La preziosa consapevolezza della ragione poetica spesso manca a Bal’mont, poiché egli non ha mai un interlocutore. Donde i due spiacevoli estremi della poesia di Bal’mont: la piaggeria e l’insolenza. L’insolenza di Bal’mont non è autentica, non è originale. Il bisogno di auto-affermazione in lui è francamente morboso. Egli non può dire «io» sottovoce. Egli grida «io»: «Io – improvvisa frattura, io – tuono che gioca». Sulla bilancia della poesia di Bal’mont il piatto «io» squilibrava decisamente ed ingiustamente il piatto «non-io», che sembrava troppo leggero. Lo stridulo individualismo di Bal’mont non è gradevole. Non è il tranquillo solipsismo di Sologub, che non insulta nessuno, ma un individualismo a spese di un altro «io». Sentite come Bal’mont ami sbalordire con diretti e penetranti usi del «tu»: in questi casi egli assomiglia ad un cattivo ipnotizzatore. Il «tu» di Bal’mont non trova mai un destinatario, ma gli passa rapidamente vicino, come una freccia scoccata da un arco troppo teso.
E come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.»