Nota di Gino Rago
Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:
«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».
I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.
1- Silvana Baroni
Persa e ritrovata
Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.
2 – Gino Rago
il Vuoto, lo specchio
Cara Signora Jolanda W. ,
[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.
Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,
Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,
sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.
Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,
lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,
hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.
Una risata da dietro i gerani.
*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]
3 -Ghiannis Ritsos
Quarta dimesione [da Crisotemi ]
” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.
C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]
4- Guido Galdini
Specchio
è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?
Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
5 – Giuseppe Talia
Speculum
Morirò su questa cyclette
lo sento dal battito del cuore
e da questa gronda di sudore
che mi cola dalla fronte
come il sangue del Cristo.
Il mio specchio è un retrovisore.
Una Venere lotta con il tapis roulant.
Le conto le costole.
Ne mancano due all’appello,
quelle fluttuanti sul decorso
obliquo del Summa Theologiae.
Mi riempie gli occhi
ma non posso fermarmi –
sarebbe una sconfitta –
nonostante avverta una fitta.
Imposto il programma a barre intermittenti.
Zompo come una marionetta.
Respiro attraverso la cuffietta.
Arriva, arriva il vento!
Si specchia nello specchio:
Anemosssss
Kathorossss
Una lunga fila nella sala attrezzi
del purgatorio.
Gli abbonati alla tortura
sferrano attacchi ai pesi,
ai manubri, ai dischi contesi.
I corpi si bilanciano,
entrano in trazione;
alzano e abbassano maniglie
in un rumore di ferraglie.
Lo specchio a cui tutti si specchiano:
l’inferno-out, il paradiso-in.
E’ una via crucis lo spin
asciugamano e bottiglietta- biberon.
Morirò su questo vogatore, lo sento
quando l’istruttore- Caronte- moggio
mi incita a non cedere il passo
a superare l’orlo del collasso.
L’esercizio terminerà tra qualche minuto.
Premere un tasto qualsiasi per continuare.
Secondo voi che faccio?
6 – Mario Gabriele
Non ho scritto nulla sul tema dello specchio
I
Non ho scritto nulla sul tema dello specchio. Ritengo che sia la parte più segreta e abissale del nostro inconscio. In questo senso mi rifaccio ai dipinti di Magritte con il personaggio visto di spalle e che non rivela nulla di se stesso, rispetto a chi voglia rispecchiarsi di lato, di fianco e di fronte.
Lo specchio resta un oggetto a sé. Ha la stessa funzione di un disco a 33 giri.
Se non ci mettiamo la puntina. il disco non parte e non rivela il sound (fuori metafora siamo noi i rivelatori di ciò che vogliamo). Se siamo tristi o allegri, lo specchio riproduce sempre la nostra fisiognomica. La poesia è lo specchio di noi stessi, Lo specchio invece, è il nostro alter Ego nell’epoca della riproducibilità.
7 – Zbigniew Herbert
Lo specchietto
Cosa riflette lo specchietto sul bordo del tavolo:
lo specchietto riflette il soffitto
il prato bianco dei desideri
e anche
l’angolo della stanza
lo sparviero rinsecchito
la biblioteca la farmacia
con le fiale per la tristezza
metà di una vecchia riproduzione
piena di rossi frastuoni
sotto un cielo molto sottile
cosa riflette lo specchietto
un pettine
e una ciocca di capelli
un pennino schiacciato
e una penna picchiettata
se lo specchietto fosse una stella
rifletterebbe il vigile sonno dei pianeti
rifletterebbe la faccia chiara del sole
l’irradiamento dello spazio
l’etere e l’argento
il conto di una saggezza distante
se lo specchietto fosse una stella
rifletterebbe
la splendida terra rotonda
con le chiome canute delle eclittiche
ma non c’è di che disperarsi
non c’è niente da rimpiangere
8 –Donatella Costantina Giancaspero
Kane allo specchio
I
E come non ricordare Citizen Kane, Quarto potere, il capolavoro di Orson Welles (1941). Qui il tema dello specchio è interpretato in modo magistrale già dalla prima scena.
Una finestra in primo piano introduce a un tratto lo spettatore da un esterno fosco e inquietante a un interno altrettanto cupo, fortemente enigmatico. Si tratta di un suggestivo esempio di raccordo ingannevole in una catena di sequenze che sfidano la nostra percezione della realtà. Una incomprensibile nevicata cede il posto a una sfera con la neve, stretta nella mano di un uomo; il primissimo piano di una bocca coincide con la prima parola del film, Rosebud; di nuovo l’inquadratura della mano, con la sfera che si rompe sul pavimento. E qui viene il bello: il regista, dopo aver scomposto la realtà in frammenti, la deforma davanti ai nostri occhi: l’immagine di una infermiera che entra nella camera è mostrata attraverso i frantumi di vetro, in un gioco di distorsioni e di rifrazioni tipico del cinema di Welles. Un cadavere viene ricoperto da un lenzuolo. Quarto potere si apre con la morte del suo protagonista per poi ripercorrerne a ritroso la travagliata esistenza in una narrazione a flashback senza continuità temporale.
II
E, per concludere, citerò l’ultima scena di Quarto potere, dove ritorna la sfera con la neve vista all’inizio, e poi restiamo senza fiato sulla straordinaria sequenza degli specchi.
Charles Kane, in preda alla collera, fa a pezzi la camera di Susan, la seconda moglie dalla quale è stato abbandonato.
In quel piccolo regno dell’horror vacui, distrugge tutto, tranne una cosa: la sfera con la neve della sequenza iniziale. Poi, rigido, con lo sguardo vitreo, Kane esce lentamente dalla stanza, sotto gli sguardi atterriti della servitù.
L’uomo si ritrova solo ad attraversare un corridoio arredato da specchi
che riflettono e moltiplicano la sua immagine all’infinito,
in un superbo esempio di mise en abîme.
9 – Jorge Luis Borges
Gli specchi
Io, che sentii l’orrore degli specchi
non solo in faccia al vetro impenetrabile
dove finisce e inizia, inabitabile,
l’impossibile spazio dei riflessi
ma in faccia all’acqua specchiante che copia
l’altro azzurro nel suo profondo cielo
che a volte riga l’illusorio volo
d’uccello inverso o agita un tremore
e avanti alla distesa silenziosa
del sottile ebano la cui tersura
ripete come un sogno la bianchezza
d’un vago marmo o d’una vaga rosa,
oggi al termine di tanti e perplessi
anni d’errare sotto varia luna,
mi chiedo quale caso di fortuna
volle che io paventassi gli specchi.
Gli specchi di metallo, il mascherato
specchio di mogano che nella bruma
del suo rossastro crepuscolo sfuma
il volto che mirando è rimirato,
infiniti li vedo, elementari
esecutori d’un antico patto,
moltiplicare il mondo come l’atto
generativo, veglianti e fatali.
10 Mauro Pierno
Avvenne per acclamazione.
Ricevettero tutti quanti palette riflettenti.
Le uniformi regolari anche.
Ai polsini led intermittenti.
Tutti avrebbero fermato tutti.
Si posizionararono.
Fu convenuto un unico fischio,
un richiamo morbido.
Un fruscio incontrollato di uccelli.
E avvenne.
11 – Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
E non sapremo mai fino dove
noi due fummo in fine sospinti
quali occhi adesso ci separano
e se giacciono il resto delle ombre
alla resa alta della pietra muraria
dove Marte ci pose in campo
un gioco a scambio traguardato
o la nostra porta tutt’ora persa
aperta nel mattino o nello specchio
del presente che oramai ci divide
12 Francesca Dono
di Lalie Lescorgot
Davanti allo specchio qualcosa si
Muove Più di un baleno La strana
Velatura di una figura gettata in
Avanti Non c’è molto sul vetro
Gli angoli ruotano sugli angoli
Il piano attraverso gli sfoghi del paesaggio
Dopo l’erba un treno di alluminio
Certi profughi espulsi da ogni traversata
Di acqua fredda
Com’è possibile che tutto sia
Distante e sconosciuto?
Un grande lavandino esplode con
Gli abitanti dei volti senza vita
A sorpresa un estraneo si fisserà
“On demand “ al tuo esile corpo
In un solo sorso di polvere Dall’ultimo
suono diabetico che si ripete infinito.
Foto di Lorenzo Pompeo, Cappelli con specchio a Parigi
13 Giuseppe Gallo
Come non essere d’accordo con chi afferma che ? In questo dire vogliamo metterci anche noi stessi?
Sullo sfondo il palazzo di ferro e cemento
ha una parete di vetro con la polvere addosso
rivolta ad oriente per riscaldarsi al sole.
E su e giù e a destra e a sinistra altre lastre a specchio
anch’esse annerite.
Ogni tanto un riflesso
un luccichio maturo di tramonto.
Puntando gli occhi a volte
ci incontriamo in quel balenio,
raro come una chiara pupilla,
e ci sembra in quell’istante il mondo,
con le cose e la materia,
un lampo.
Il crollo del nel nostro destino.
Lidia Are Caverni
Lo specchio
Si diluiva il tempo, una velocità opaca che divorava manufatti, uno smontaggio che dava tristezza come quando si parte.
La fiaccola non ardeva più, un deposito anonimo per i fantasmi dei sogni ambiziosi di Mattei che faceva dell’Italia la raffineria d’Europa e Venezia con essa.
Eppure la laguna stabiliva una continuità troppo a lungo stabilita: un affiorare di gabbiani stravolti e di nasse per un giorno qualunque, perso in un’atrocità di un futuro non più imprevedibile.
Le tre donne le stavano di fronte nella posizione che negli autobus obbliga i viaggiatori a guardarsi. Stare dirimpetto non le piaceva, se possibile preferiva sedere di fianco, per poter guardare a proprio agio fuori del finestrino o seguire i propri pensieri.
Ma alla fermata a cui era salita non c’era stata altra scelta, d’altra parte le seccava stare in piedi per tutto il percorso fino a Venezia.
Delle tre , due si trovavano già in autobus sedute vicine, una era salita con lei ed era andata a disporsi all’altro lato della figura centrale. La persona seduta proprio di fronte a lei era giovanissima, una ragazzina ancora, forse dei primi anni di qualche liceo. Costituiva nell’insieme un qualcosa di singolare. Portava un cappello di feltro marrone di foggia maschile, non eccessivamente grande, le arrotondava la testa e di taglio maschile era anche il cappotto di colore scuro e il doppio petto.
I capelli erano scuri, non troppo lunghi, sollevati indietro sopra l’orecchia sinistra e il lato destro invece un poco sceso sul viso.
I tratti erano delicati, con le guance tonde e morbide dell’infanzia e la bocca che si serrava seguendo i caratteri di un libro che teneva sulle ginocchia. Leggeva e con una matita segnava veloce le frasi o le parole che voleva mettere in evidenza.
Che fosse abituata a leggere si percepiva per il gioco degli occhi e il girare rapido delle pagine.
Di quando in quando guardava davanti a sé con tranquillità oltrepassando con le sguardo verso lo sfondo della laguna che ora si delineava precisa: un’acqua trasparente di cui s’indovinava il rigore. Gli occhi avevano il colore del cappello, un poco più chiari e lucidi.
Le due donne ai lati parevano creare un’alternanza come certe tavole dipinte attorno a un altare. Eppure neppure il loro aspetto era trascurabile, quella salita assieme a lei era una ragazza giovane, con i capelli scuri e lunghi leggermente ondulati, le labbra dipinte col rossetto, l’insieme attraente e pulito. Trasse poi di tasca un paio di guanti di lana dai colori vivaci. Li infilò e rimase con le mani sovrapposte e quiete. Guardava dritto, gli occhi persi nella laguna.
L’altra donna non era più giovane, per quanto non potesse essere definita anziana, il viso scarno che forse era stato bello. Un berretto le copriva i capelli. Appariva cordiale, più delle compagne affrontava il suo sguardo con una serena compiacenza.
Era talmente presa dalla vista delle tre donne che il resto dei viaggiatori scompariva, non solo quelli che erano seduti uno dietro l’altro che poteva vedere solo di spalle, ma anche quelli che aveva a fianco. Avrebbe, per vederli, dovuto voltarsi intenzionalmente e le risultava indifferente.
Oltrepassarono il cannone, un treno scorse lento lungo la ferrovia, coprì la laguna.
Provò a leggere la destinazione, lo faceva sempre quando vedeva passare un treno, le pareva di iniziare il viaggio e l’incrocio fra il mezzo su cui si trovava che fosse automobile o autobus le provocava una sensazione di gioia infantile. Si aspettava quasi di vedere persone affacciate ai finestrini e sbirciava dentro, malgrado il movimento veloce, per cogliere l’intimità degli scompartimenti Soprattutto di sera, una serie ininterrotta di luci accese costellate di teste.
Anche andare a Venezia era per lei ogni volta un viaggio, una scoperta preannunciata di scorci mai visti o ritrovati sui canali e le calli, misteriose come alcove.
La ragazzina continuava a leggere, annotando leggera sollevando il capo col gesto di chi riflette su quanto sta apprendendo. L’autobus andava veloce, forse doveva recuperare un ritardo, eppure il movimento non pareva infastidirla.
Le due donne stavano quiete. Erano ormai al Tronchetto, tra poco sarebbero arrivati.
D’un tratto le tre donne girarono il capo contemporaneamente verso di lei e con stupore si accorse che avevano tutte gli occhi del medesimo colore, il miele dolce della ragazzina, il dorato più consapevole della ragazza, il maturo tostato della donna e non solo, anche la forma era simile.
Provò la sensazione di essere guardata da un’unica persona, come se le sue compagne di viaggio non fossero altro che la rappresentazione di tre momenti di una medesima vita.
Per un attimo i loro sguardi si incrociarono col suo, poi si distolsero, ma restava sospesa un’unione che legava.
Considerò che anche il colore dei capelli era uguale e che il nucleo fondamentale di tutta l’assurda vicenda era la figura di centro: l’ignara fanciulla che non cessava di tenere sulle ginocchia il suo libro e di leggere.
A Piazzale Roma l’autobus rallentò, compì la rotazione che lo poneva nuovamente in posizione di partenza.
La donna urtò leggermente il braccio della ragazzina, piegandosi poi sorridendo verso di lei, quasi a volergliela presentare o offrire.
Allora capì: le tre donne non erano altro che se stessa e che lei costituiva l’anello mancante della sequenza. Provò una vertigine, una sospensione indicibile di tempo.
Poi la ragazzina ripose il libro nella borsa sportiva che teneva fra i piedi, lasciò cadere la matita nel suo interno e con gesti rapidi e sicuri trasse un pacchetto di crackers.
Ad autobus fermo, i viaggiatori scesero e anche lei scese, senza riuscire ad afferrare nella mente quando anche le tre donne si fossero alzate.
Si allontanò in fretta e a un certo momento si accorse di correre con la fuga che voleva infrangere lo specchio.
Nell’angoscia che la stringeva sentiva che lei, protagonista, era in realtà l’esclusa.
Foto di Lorenzo Pompeo
Lorenzo Pompeo
“Specchio, specchio delle mie brame restituisci il contorno a questa pletora di fantasmi, questo sciame di profilattici, questo almanacco di sembianze aggrappate a una molletta, questa vita sciupata, neoplastici arabeschi che si moltiplicano all’ombra di sillabe stanche. Specchio delle mie brame raccogli i riflessi di quel muro annerito su cui sono venuto su, rampicante docile e tenace, per celebrare ancora le menzogne del volto.“ |
Commento di Giorgio Linguaglossa
Sullo specchio
Che cos’è lo specchio, per la filosofia è ancora un mistero. Che cos’è? Un nulla? Un qualcosa?. O l’uno o l’altro.
Mi si dice che non è né l’uno né l’altro, che non è né un nulla né un qualcosa. Bene, e allora cos’è? E perché ci inquieta così tanto?. Il mito di Narciso ci dice qualcosa, ma qualcosa che narra dell’io, del sorgere della consapevolezza dell’io, il primo bagliore dell’autocoscienza; con il che diventiamo duali: io e l’altro, io e il mio riflesso.
Ma, ci chiediamo, c’è dell’altro? Se rivolgo lo specchio verso il cielo, vedo il cielo, se lo rivolgo verso il mare, vedo il mare. E allora? Allora, direi che lo specchio ci rivela qualcosa, qualcosa di essenziale, che io, il cielo, il mare, le nuvole e tutte le cose che stanno nel mondo sono, siamo un effetto di specchio… anche i nostri occhi sono uno specchio, nell’occhio si riflettono tutte le cose del mondo, così quando io guardo uno specchio è come se uno specchio fosse posto davanti ad un altro specchio: lo specchio dei miei occhi specchia il nulla che è in me e che è nello specchio, il nulla fatto di pieno, di cose piene. E allora non possiamo non giungere alla conclusione che lo specchio è un nulla che riflette un altro nulla.
Direte voi, e allora lo specchio è uno zero? No, perché lo zero è un numero e, posto lo zero, implicitamente pongo tutti i numeri. E allora non resta che riconoscere che lo specchio è un nulla che ci rivela il nulla di tutte le cose. La vertiginosa abissalità dello specchio ci conduce vicino all’esperienza del nulla che è qualcosa, qualcosa fatto di nulla…
Che cos’è lo specchio? E perché ci riguarda da vicino?
Che cos’è l’ombra? Che cos’è l’ombra riflessa nello specchio?
Davvero inquietante.
Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».1]
1] T.W. Adorno, Dialettica negativa Einaudi, 1970, p. 68
da sx G. Linguaglossa e G. Rago, Ostia, 2017
Gino Rago è nato in Calabria, a Montegiordano (CS), il 2 febbraio 1950. Da anni vive e opera fra la Sibaritide e Roma, dove si è laureato in Chimica Industriale, presso l’Università La Sapienza. Nella capitale, per più di 30 anni è stato docente di Chimica.
Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005).
Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa 28 Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016) e nel saggio psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Progetto Cultura, Roma, 2018).
È membro della Redazione dell’Ombra delle Parole e collabora con la Rivista Trimestrale «Il Mangiaparole» [Roma, Progetto Cultura].