Nazario Pardini – Sette poesie inedite, I dintorni della solitudine, con una Nota esplicativa di Giorgio Linguaglossa – Pardini fa un canto della «terra», esprime una ideologia stilistica antica  ed estranea al modernismo. Fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung

 

Giorgio Linguaglossa
rinegoziazione, riabilitazione attiva della «fantasmagoria» delle merci (dizione di Adorno)

 

Nota esplicativa di Giorgio Linguaglossa

 

Per la poesia di Nazario Pardini è come se la civiltà tecnologica e lo sviluppo capitalistico non ci fossero mai stati, sono semplicemente ignorati. Si badi, non negati ma ignorati. Pardini allestisce uno scenario bucolico arcaico, che è come dire che la materia del mondo tecnologico non lo riguarda affatto e che l’evento storico destinale della comunità storica non è mutato granché dalla civiltà pretecnologica a quella tecnologica. Questa impostazione è ovviamente del tutto legittima, anche altri autori di oggi come Umberto Piersanti adottano questo punto di vista, la poesia è considerata da questi autori in modo non critico, come immediatezza del dato, come un darsi della «natura», come continuità con il mondo agricolo della civiltà pre-tecnologica. Da questa impostazione equivoca e di infingimento occorre guardarsi, da essa deriva che la memoria viene impiegata come il principiale per l’indagine di un mondo remoto e l’elegia ne sarebbe il correlativo stilistico.

 

Negli ultimi due post abbiamo passato in rassegna due poeti diversissimi: Franco Fortini (nato nel 1917) con Composita solvantur (1994), opera con cui si chiude il novecento, e Mario Gabriele (nato nel 1940) con Registro di bordo, opera ancora inedita che si muove nell’ambito della nuova ontologia estetica e di un esistenzialismo stilisticamente in posizione molto avanzata. Adesso, presentiamo Nazario Pardini (autore certo molto lontano dagli esiti della «nuova ontologia estetica», anche se della stessa generazione di Mario Gabriele), con queste poesie inedite che si muovono in un orizzonte di restituzione di senso destinale ad un mondo pre-tecnologico fantasticato e fantasmato con uno stile che ripropone l’asse della tradizione primo novecentesca, de L’Alcyone (1903) per intenderci, depurato del pathos enfatico e della ideologia neopagana dannunziane.

 

Se D’Annunzio intendeva restituire alla «natura» la verginità, la ferinità e la vitalità che il primo paleo capitalismo italiano di Giolitti è impegnato a dissolvere, Pardini, estraneo ad ogni ideologema paleo capitalistico, che opera nella Unione europea della moneta unica, si rivolge alla «natura» come a un rimedio del «male» naturale. Ha una considerazione della «natura» come farmaco, ciò che funziona come un antidoto, che può curare. In tale accezione, Pardini  inserisce il lessico moderno entro un metro endecasillabico di aulica ascendenza senza concedere nulla al modernismo e alle ideologie novecentesche del «nuovo». Ma questo, mi chiedo, non rischia di porre il problema della categoria del «nuovo» nel complesso delle dinamiche di quel «sortilegio» delle merci e delle parole del nuovo capitalismo globale?

 

Giorgio Linguaglossa
Se c’è la memoria c’è il tempo. Se c’è la memoria non si dà l’oblio della memoria

 

Ciò che chiamiamo poesia sono gli eventi inaugurali

 

 «Ciò che chiamiamo poesia sono gli eventi inaugurali in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole comunità storiche».1]

 

La poesia di Nazario Pardini prende l’avvio dall’evento storico individuale sociale della situazione rammemorante per rintracciare il filo conduttore di una civiltà scomparsa, si comporta un po’ come un archeologo o uno speleologo che dall’esame di alcuni reperti fossili risalgono alla compagine comunitaria di una civiltà remota. Pardini racconta del «Serchio», di «una giovine ragazza [che annaffia] i vasi dei gerani», di piccioni in volo «sopra il tetto», di un «altoparlante che annuncia» che «la merenda è lesta»… brandelli della memoria che la memoria riattacca come francobolli di un’età perduta.

 

Pardini è un poeta della memoria e della civiltà agraria sepolta. Prendere o lasciare. Se c’è la memoria c’è il tempo. Se c’è la memoria non si dà l’oblio della memoria, e quindi non si dà frantumazione, frammento, residui, frammentazione, distassia, ma soltanto fossili d’un tempo irrimediabilmente perduto. E la memoria si esprime per eccellenza nella forma della lirica. Il suo è il canto elegiaco che si svolge in endecasillabi decantati e sillabati con un lessico moderno appena, qua e là, antichizzato. Pardini fa un canto della «natura», esprime una ideologia stilistica antica  ed estranea al modernismo, vuole significare una netta estraneità alla ideologia del «nuovo», sa che questa ideologia è stata un motore potentissimo della volontà di potenza del capitalismo sviluppato e non vuole più condividerne le alterne fortune e disfortune.

Pardini ritorna così al canto di ciò che Heidegger chiama Erde, (terra), ma lo fa ancora nel quadro di una impostazione elegiaca e rammemorante. Se affermiamo che la poesia è quel linguaggio in cui insieme ad un mondo di significati dispiegati risuona anche la nostra terrestrità come mortalità, allora possiamo dire che l’endecasillabo di Pardini lascia risuonare e trasparire la mortalità e l’infrangersi della parola sulla nuda durezza dell’epoca presente, come effetto di spegnimento, lontana da ogni contaminazione con il mondo della Tecnica e del mediatico, a costo di apparire imbalsamata e infarinata nella propria purezza apollinea e adamitica. Sconta sulla propria pelle la fioritura esantematica di un male oscuro sotto stante: la volgarità della nostra epoca mediatico-tecnologica.

 

La risposta da dare alla categoria della Verwindung

 

È una tipica poesia che narra un «mondo» di significati, a suo modo e con i suoi mezzi stilistici; la fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung (un termine da prendere con le molle non nel senso di una accettazione remissiva della laicizzazione di ogni forma di vita e di esistenza sotto il regno del capitalismo globale ma come un rimettersi alla rinegoziazione della produzione di un mondo, produzione di rimemorazione, di mondità e di possibilità, produzione di Faktizität). Il problema è il pensare un’arte di oggi e del prossimo futuro in termini di rimemorazione, An-denken, e quindi di rapporto con la tradizione. Che cosa significa e implica un’arte e una poesia della rinegoziazione della rimemorazione con la tradizione? C’è ragione di ritenere che il problema del rapporto con la tradizione sarà la chiave dell’arte e della poesia del prossimo venturo futuro. Allora bisogna attrezzarsi per un lungo viaggio, calzare degli scarponi adatti alla traversata del campo minato della tradizione e dei suoi significati non più stabili, anzi divenuti equivoci e ambigui, accettare il fatto che l’arte non ci pone più in contatto con un orizzonte di significati stabili, che ad ogni tappa e ad ogni sosta dobbiamo riconoscerci e ricostruire un orizzonte di significati stabili. E questa è una condizione di debolezza ontologica.

 

È molto probabile che l’arte del prossimo futuro si giocherà la sua partita doppia proprio su questo punto: sulla risposta da dare alla categoria della Verwindung, non più accettazione remissiva di un Gestellt ma rinegoziazione, riabilitazione attiva della «fantasmagoria» delle merci (dizione di Adorno), riabilitazione rinegoziazione del «sortilegio» delle merci (sempre Adorno), nel quale siamo da sempre immersi, rinegoziazione del post-moderno nella nuova epoca del Dopo il Moderno con al centro la problematica della dissoluzione del valore del «nuovo» e l’avvento della innovazione continua come espressione normale della soppressione del «nuovo» e del «ritorno del sempre eguale» delle merci. Problematiche tutte che pongono e porranno l’arte del presente e del prossimo futuro dinanzi a questioni scottanti, non eludibili: in particolare, come coniugare il decesso del «nuovo» con la necessità di apportare di continuo una riabilitazione e ri-strumentazione dei procedimenti che conducono alla produzione del «sempre uguale» sub specie della ideologia della soppressione del «nuovo»? Non si nasconde qui una antinomia nel cerchio magico della «totalità ermeneutica» nella quale la questione dell’esserci e dell’arte si gioca e si giocherà le sue scarne possibilità di sopravvivenza nel prossimo futuro venturo?

 

1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985 p. 74

 

Giorgio Linguaglossa

la fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung

 

 

Nazario Pardini

 

I dintorni della solitudine

Piccioni

 

Bianchi, bigi, rossi, sopra il tetto
si assiepano, la testa fra le piume,
a tu per tu col vento. Sono liberi.
Appena il sole sbuca da levante
scuotono il manto e volano decisi 
sui campi a becchicchiare qualche seme.
Svolano sulle foglie delle viti,
sugli stecchi crocifissi delle piante,
su tutto ciò che è avanzo dell’autunno. 
Hanno solo l’istinto. Il loro volo
rompe i raggi lucenti e stampa in basso
ombre vaganti; e con gli schiocchi 
batte dell’ali il tempo della vita.
Se getti le granaglie sul cortile
accorrono in picchiata; e via nell’aria
o sul suolo a tubare calorosi
in cerca dell’amore. Libertà,
spazi aperti, profumo di granturco,
rapina di micragne; anche la pioggia
per loro è acquasanta; li battezza,
scivolando sul dosso come l’aria.
Sono lì, li vedi di pedina,
vivi, trepidanti, nell’attesa
di nuove corse da donare al cielo.

 

E poi la morte. Dove andranno a morire 
quando la sorte tocca?
Non ce n’è traccia. Sarà forse il destino
a riservare loro un angolino?

 

(13/10/2017)

La piena del Serchio

 

Piove a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia il suo letto; è già nelle golene,
tra gli alberi che invocano l’aiuto
frusciando melanconici richiami
col loro ciuffo sopra la corrente;
niente risparmia l’acqua inferocita,
tutto porta con sé, alla deriva.
Qui dall’argine l’occhio si spaventa
a mirare la potenza che sprigiona:
le barche sradicate dai pontili 
corrono in grembo al grosso defluire,
e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie
si rincorrono in gara verso il mare.
Mi sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla furia spaventosa della foce.
Tira tramontana, se Dio vuole,
fosse libeccio chissà che inondazione.
Qui le melme del fiume si accavallano
con l’onde spaventate
che sembrano opporsi a tanta furia.
Odori di salmastro e d’acqua smossa,
di erbe trascinate contro voglia,
mi invadono narici. E mi confondo
con tutto quel fracasso naturale:
divento un ramoscello in mezzo al mare.

 

(20/11/2017)

La solitudine del mare

 

Sono solo e l’inverno mi percuote
coi suoi venti freddi e burrascosi.
Innalzo le onde fino al sommo cielo
e le porto alla strada per sbirciare
gli addobbi di Natale. Ogni tanto
mi vengono a trovare dei ragazzi
innamorati: seduti sul pattino,
allungano lo sguardo, incatenati,
tra un bacio e l’altro, fino all’orizzonte.
Mi fanno compagnia. La solitudine
mi fa pensare al mondo, al mio vagare,
mi fa pensare ai giorni dell’estate,
ai tanti corpi immersi dentro me,
alle grazie di giovani fanciulle
che mi lisciavano il corpo. Ora ricordo; 
vivo nel rievocare quei momenti,
mi sento triste se mi torna in mente
il pianto di una madre e il suo inveire
contro la risacca, e la corrente,
che portarono via un figlio in fiore,
sperso nei miei fondali. Ma a pensarci 
sono tanti i mortali sprofondati
nelle mie cavità. Ora son solo;
alzo le braccia al cielo e mi imburrasco
per la forza di un vento che d’inverno
mi assale con frustate. Se m’incontri
di questi tempi ombrosi e nuvolosi,
quando il respiro mio si fa più denso,
mi vedi in piena angoscia. Tiro fuori
tronchi, detriti, ciocchi e tavoloni,
spurgo ogni cosa che mi porta il fiume,
e riempio la spiaggia di vestigia;
si fanno le mie acque intorbidite;
trovo la pace solo se la luna
frantuma le sue chiome in tante scaglie. 
Allora mi riposo. Puoi vedermi
quando arancio le guance e tingo il cielo
degli amplessi fecondi che dal dentro
fuoriescono per visualizzare
l’inquieto stare chiuso dagli scogli
senza poter sfuggire oltre le sponde.
Senza poter capire, e mi tormento,
quello che fuori esiste; e che mi è ignoto.

 

(12/12/2017)

 

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Lo stradone

 

Ora è solo. Davanti al cimitero.
Ci crescono gramigna ed abbandono.
Guarda oltre la strada principale
con gli occhi di un morente. È lo stradone.
Ci passavano carri ed asinelli,
con ceste di raccolti;
era un viavai. Riflette su se stesso,
sulla sua solitudine. 
Si sente abbandonato. Guarda i campi
senz’anima vivente. Aspetta solo
che qualcuno lo ricordi, ripercorra,
magari anche a piedi, il suo tragitto:
“Mi aspetto che ritorni sopra i solchi
delle ruote dei carri
il vecchio paesano, la sua gente,
con la falce a tracolla ed il corbello
appeso alle spalle. Quando il sole 
pittura i miei capelli, la tristezza
mi assale e mi fa suo. Vorrei solo
la compagnia di un tempo, e che qualcuno
ricordasse quei giorni in cui le bestie
lasciavano le impronte sul mio manto”.
Lo stradone è laggiù che solitario 
guarda persone correre di fretta
sulla strada maestra. E non capisce
perché con tanta briga, se una volta
restavano a gioire del tramonto
e tornavano al canto di civetta.

 

(31/12/2017)

 

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Scoprimmo

 

Scoprimmo il cielo, il mare ed il sorriso.
Dicemmo al vento: “Corri a perdifiato,
non ti arrestare, corri a spettinare 
le chiome delle giovani fanciulle
che giocano col tempo. Portati addosso
messaggi di speranza per coloro
che vivono la notte; che non hanno
l’estate della vita. Corri, corri,
vento selvaggio, corri a perdifiato
fino a incontrare il volto di colei
che chiese al tempo di volgersi in camelia.
Sii leggero, portale il colore
del sangue dei papaveri confuso
fra l’oro delle spighe; le impronte
dei suoi candidi piedi
sul guado dei rubini.
Portale il tatto di una stanca mano,
portale il fiore che hai strappato al ciglio
in quella primavera. Vorrei tanto
essere a te daccanto per sfiorarle 
le gote col respiro; vorrei tanto
sulla tua groppa correre lontano,
alla fine del mondo e stringere la mano
a quello che mi è ignoto;
a colei che diffuse
banchi di solitudine
su questo stretto piano.

 

(10/02/2018)

 

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Fra quelle mio fratello

 

In alto i fiori dell’acacia, 
fra l’erba un gatto in agguato, 
Giuliana e sua sorella nel cortile, 
e i passeri a rincorrersi per strada. 
I cigli si rivestono di fiori,
il grano un manto verde
al cielo che si mischia fra le case.
Transitano da là persone morte,
con volti evanescenti,
fra quelle mio fratello
che mi chiede se oggi è primavera.
“Sì, è proprio primavera oggi, 
se passi dal viottolo daccanto
lo vedi dal giallo delle rape,
dalle viole che sbucano pazienti,
dal dente del tarassaco,
dall’inquieto vagare degli uccelli.
Ma perché mi torni sempre accanto?
perché mi passi sempre da vicino
su questa stradetta di campagna?
Lo sai che soffro, lo sai che io sto male,
nel rivederti lì, senza poterti amare,
caro fratello mio”. 
Sul tetto le colombe, le tortore che tubano,
all’orizzonte un fumo 
non so se nebbia o fuoco di fascine.
Palmiro pota i tralci,
una donna stende i panni,
e dormono i papaveri nel seme. 
Sopra il vettino
riposa un merlo canterino.

 

(27/03/2018)

 

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Voci di campane

 

Gli equiseti, il vilucchio e la gramigna
affollano la piana.
Sono in rigoglio anche perché stamani
ha fatto un acquazzone. Quel bimbetto,
a piedi nudi sopra il verde prato,
bagna la sua innocenza con le gocce
aggrappate alle foglie. Non ascolta
il grido della madre e allunga gli occhi
a un gatto nero appostato nell’erba
a dar la caccia a un passero che ghiotto
becchicchia un frutto spappolato a terra.
Al guizzo del felino l’uccellino
apre le ali e si concede al cielo.
Vicino una massaia stende al vento
i panni della sera. Un arrotino
con il carretto logoro dagli anni
poggia alla ruota lame da affilare,
mentre che l’aria densa 
porta con sé le voci di campane
che chiamano i credenti alla preghiera
per qualcuno che è andato oltre la terra.

 

(22/05/2018)

 

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Il manifesto funebre

 

Ho visto stamattina un manifesto
funebre, che, logorato dal cielo,
non mi faceva leggere il finale.
Il tempo non si accontenta solamente
di annullarti, sperdendoti per terra,
ma intende anche distruggere ogni resto
della venuta tua; della breve vicenda
che ti è toccata in sorte per la morte.

 

(29/05/2018)

 

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Il giudizio universale

 

Sul davanzale 
una giovine ragazza ad annaffiare
i vasi dei gerani. Nella strada 
un gruppo di paesani nell’attesa
che arrivi la corriera. Ed è già sera
in questo povero paese rammendato:
una donna con in testa le premure
(ha i capelli ben mossi e pettinati,
non vuole compromettere la piega)
preda il bucato all’umido del buio,
lo pone nella cesta e rientra in casa.
Si accendono i lampioni. Dei ragazzi
tornano dalle loro scorribande.
Un uomo solitario inconsciamente
fa ombra nella strada. Poi più niente
su queste vie lasciate all’abbandono.
Tutti rinchiusi in mezzo a quattro mura
ad ascoltare il telegiornale
con la speranza che non vada male. 
E magari, che cambi un poco in meglio.
Il matto del paese
continua a urlare. “Presto lo vedrete!
C’è alla porta il giudizio universale. 
Vedrete chi è il matto del paese”.

 

 

(17/06/2018)

 

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Sulla spiaggia

 

La sabbia scotta i piedi e di gran lena
ci infiliamo nell’onda. Il mare è fresco,
invitante, fluente; le belle forme
ci sguazzano festose offrendo agli occhi
movimenti invitanti e curve bronzee
di glutei cotti al sole. Un motoscafo
taglia veloce i flutti ed i pattìni
fanno colore e abbondano di guizzi
che appaiono e dispaiono fra scaglie
che giocano col cielo. Un aquilone
dona a una bimba un filo per l’azzurro,
una fuga nel cielo e dei ragazzi
raccolgono i colori delle arselle 
che la battigia
porta lenta alla spiaggia. Un vu cumprà
propone cianfrusaglie ai villeggianti
che guardano distratti l’orizzonte.
Di fronte a me una giovane fanciulla
si toglie la sottana per mostrare
un costume vivace ed il bagnino
fischia ai bagnanti 
che allungano le braccia oltre le boe.
L’altoparlante annuncia a viva voce
che la merenda è lesta: “I bombolini…”

 

(24/06/2018)

 

 

Giorgio Linguaglossa
Nazario Pardini

Nazario Pardiniè nato ad Arena Metato di Pisa. Dopo la maturità ha conseguito la laurea in Letterature Comparate alla facoltà di Lettere di Pisa e successivamente quella in Storia e Filosofia allo stesso Ateneo. E’ inserito in antologie scolastiche e in storie della letteratura… Hanno scritto di lui fra i numerosi critici: Sirio Guerrieri, Giorgio Linguaglossa, Ninnj Di Stefano Busà, Filippo Accrocca,  Floriano Romboli, Enzo Wiler, Antonio Piromalli, Elio Andriuoli, Carlo Giuseppe Lapusata, Carmelo Consoli, Dino Carlesi, Vittorio Vettori, Aristide La Rocca, Giuseppe Giacalone, Giorgio Luti, Mario Luzi, Luigi Blasucci, Pasquale Martiniello, Sandro Angelucci, Pasquale Balestriere, Carla Baroni, Giorgio Barbèri Squarotti, Umberto Vicaretti, Italo Bonassi, Neuro Bonifazi, Lucia Bruno, M. L. Daniele Toffanin, Carlo Duma, Pierangiolo Fabrini, Rita Gambini, Renato Pancini, Silvio Ramat, Paolo Ruffilli, Stefano Sodi, Lucia Tagle, Bonifacio Vincenzi, Guido Zavanone… E’ apparso su molti giornali e numerose riviste specialistiche. Ha pubblicato trentadue libri fra poesia, saggistica, e narrativa, fra cui Lettura di testi di autori contemporanei, Milano, 2014, pp. 776, utilizzato in ambito universitario. È fondatore, curatore, e animatore di “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com), importante blog culturale, punto d’incontro della comunità letteraria nazionale e non solo. Innumerevoli i riconoscimenti alla carriera. Dal giornale dell’Università Pontificia Salesiana Link: http://www.unisal.it/index.php/notizie/vita-allups/814-la-fsc-ospita-l-edizione-2013-della-laurea-apollinaris-poetica“Il 9 maggio 2013 presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università pontificia salesiana è stata assegnata la Laurea Apollinari Poetica 2013 a Nazario Pardini dal Rettore Magnifico dell’UPS, Carlo Nanni. Oggi detta Laurea rappresenta il massimo livello conferito a Poeti italiani di alto merito. Pertanto si propone per un auspicabile Premio Nobel per la Letteratura.”