Una Intervista inedita a Montale a cura di Gino Rago – Giorgio Linguaglossa: Confronto tra la poesia di Eugenio Montale, Le occasioni (1926) e quella di Mario Gabriele, In viaggio con Godot(2017), Commento di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

 

Intervista immaginaria di Martis Forum a Eugenio Montale a cura diGino Rago

 

17 agosto 2018 alle 19:14

 

(su Ossi di seppia (1925) e Le Occasioni (1936)

 

Domanda:

 

Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale hai dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me ma per i tutti i lettori di poesia vorrei sentirti parlare…

 

Risposta:

 

Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché : Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.

 

Domanda:

 

Quale idea allora di poesia…

 

Risposta:

 

Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto… Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.

 

Domanda:

 

Già nel tuo primo libro poetico Ossi di seppia mostravi insofferenza verso un modo italico di fare poesia.

 

Risposta:

 

Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza.

 

Domanda:

 

In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…

 

Risposta:

 

Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia… Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.

 

Domanda:

 

E su Le Occasioni

 

Risposta:

 

Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.

 

Domanda:

 

Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta…

 

Risposta:

 

Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.

 

Domanda:

 

A quale frutto hai pensato per Le Occasioni…

 

Risposta:

 

Le “Occasioni” erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello… della musica profonda e della contemplazione.

 

Domanda:

 

Che ruolo attribuisci nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre

 

Risposta:

 

Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (chiamala come vuoi) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42, forse le più libere che io abbia mai scritte….

 

Giorgio Linguaglossa
Mario M. Gabriele

 

Giorgio Linguaglossa: Confronto tra la poesia di Eugenio Montale, Le occasioni (1926) e quella di Mario M. Gabriele, In viaggio con Godot(2017)

 

 caro Lucio Mayoor Tosi,

 

è agosto e con questo caldo non sono poi tanto lucido. Sono appena reduce da una campagna requisitoria condotta da parte di alcuni «poeti ingenui» i quali hanno postato, con i corpi dei morti di Genova ancora caldi, le loro pseudo-poesie su facebook. Io mi sono permesso di rimarcare loro il gusto non prelibato di redigere e pubblicare le loro poesiole non appena caduto il ponte e la strage che ne è seguita. Loro si sono difesi dicendo che avevano preso ispirazione dai morti sotto le macerie. Si è scatenata una bagarre da parte degli pseudo-poeti, con a capo Mariagrazia Calandrone, la quale mi ha accusato di farmi «pubblicità» (pensa un po’ sarei stato io il reprobo che si voleva fare «pubblicità», non lei e gli altri suoi adepti).

 

Penso che forse sono io il pre-moderno, io ho ancora il senso del pudore verso i morti, non mi sarebbe mai saltato per la testa di pubblicare qualche mia poesiola dedicata ai morti il giorno stesso della caduta del ponte di Genova. O forse mi sbaglio, sono io ad essere completamente fuori della contemporaneità, della realtà… E sono loro i veri contemporanei…

 

Il tuo accostamento tra una poesia di Montale de Le occasioni (1936) e una poesia di Mario Gabriele di In viaggio con Godot (2017), non penso che sia campata in aria, c’è qualcosa che le accomuna, c’è un filo conduttore tra le due poesie. Complimenti per l’acutezza del tuo sguardo.

 

Penso che la differenza fondamentale tra l’ontologia estetica del Montale de Le occasioni e la nuova ontologia estetica di Gabriele sia da rinvenire nella questione dell’essere. Montale quando scrive Le occasioni pensa ancora alla identità di essere e fondamento, pensa che nel fondamento, cioè nell’essere si possa scorgere un barlume dell’essere. Penso che Montale al tempo della stesura delle sue poesie non avesse letto né avuto sentore di Essere e tempo (1927) di Heidegger che all’epoca non era stato ancora tradotto in italiano. E per fortuna, così Montale può ancora illudersi che tra essere e fondamento vi sia un collegamento, una isoipsa. Di qui la sua grande poesia, che è in sostanza una grande elegia, una elegia sulla dissoluzione del fondamento, ma sempre ancora percepito come fondamento. Non sfiora la mente di Montale che la questione è stata rivoluzionata dal pensiero di Heidegger, che cioè tra essere e fondamento non c’è nulla in comune, che non è più possibile identificare l’essere con il fondamento.

 

Mario Gabriele pensa a fare una poesia modernista, ma lo pensa dopo ottanta anni dalla poesia di Montale, Gabriele sa che ogni rapporto di fondazione si dà sempre all’interno di singole epoche dell’essere, e che le epoche dell’essere sono «aperte» in quanto non fondate dall’essere. E l’«apertura» per Gabriele significa che le epoche dell’essere non sono più leggibili con la grammatica e la sintassi della antica e nobile elegia della tradizione europea, con l’elegia di Montale, ma con una sorta di, direi, nuova elegia fondata su una nuova ontologia estetica. A dirlo, così in due parole, sembra facile, un concetto di facile accesso, ma la distanza tra la due posizioni (quella di Montale e quella di Gabriele) era enorme, bisognava tirare le somme e le sottrazioni di ottanta anni di stagnazione stilistica e di pensiero poetico italiani. Mario Gabriele ha compiuto questo passo decisivo. Ma ci sono voluti ottanta anni, non c’erano disponibili scorciatoie. Le vie dello spirito non conoscono le scorciatoie.

 

Giorgio Linguaglossa
Libeccio sferza da anni le vecchie mura/ e il suono del tuo riso non è più lieto

 

Commento di Lucio Mayoor Tosi

 

Ho l’impressione – di questa solo si tratta, purtroppo per me, in quanto sono solito creare e penso poco – che le cose di Magrelli siano di comunicazione istituzionale; cose dello Stato che ufficializza se stesso. Il poco divertente minimo comune denominatore che, stando a quanto leggo in questo articolo, potrebbe rappresentare la fine della “poesia della comunicazione”; la quale avrebbe inizio da una presa d’atto, scelta o constatazione, operata dal genio Montale, a iniziare dal libro Satura.
Rileggendo la poesia 43 di Mario M. Gabriele (un giorno si scoprirà cosa si nasconde dietro quella sua M. nel nome?), ho avvertito una qualche vicinanza col Montale de “La casa dei doganieri”. Capisco da me l’assurdità, eppure in questa luce ho ho provato a confrontare: laddove Giorgio parla di “un contenuto di verità purchessia” ancora presente nella vecchia ontologia estetica, sta il punto e la grande differenza. Ma già poesia, in quel Montale – come d’altra parte anche in “Genova”, postata ieri, di Dino Campana, seppure sia tanto diversa – sembrava volgere al disgelo, tanto da far pensare a un oltre orizzonte, che a quel tempo era però inimmaginabile.

Mario M. Gabriele, quel salto oltre lo fa (di un salto si tratta, non c’è altra via); ma sembra a me che poesia 43 come per mitosi da quel Montale sia pervenuta:

 

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

 

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

 

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

 

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

 

Mi piace anche osservare che la prospettiva retroattiva che si apre, dal momento in cui si comincia a intendere la poesia coi criteri della nuova ontologia, rivela aspetti che la critica, pur che li abbia già ampiamente valutati, ha però mancato di separare… un po’ come si fa per mondare la frutta, o il riso, per renderli meglio commestibili. D’altronde forse non rientra nelle sue competenze.
Riletta oggi, La casa dei doganieri smette di sembrarmi tanto lontana.
Anche se l’In viaggio con Godot resta ormai definitivo, irrinunciabile.

 

Giorgio Linguaglossa

Il tempo mise in allarme le allodole./ Caddero èmbrici e foglie

 

Una poesia di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017)

 

43

 

Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.

Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.

 

Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.

– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,

concluse il dicitore alla fine del processo.

 

Matius oltrepassò il fiume Joaquin

mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna

a guardare la tempesta.

 

Un concertista si fece avanti

suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.

 

Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera

sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile

tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,

calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.

 

Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.

Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno

portò via l’anima imperfetta.

 

Nostra fu la sera discesa dal monte

a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.

 

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani

dagli ulivi impauriti.

 

Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,

e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Mario M. Gabriele

17 agosto 2018 alle 19:44

 

L’accostamento non mi dispiace. Sì, porto sulle ali poetiche il tragitto di un viaggio esistenziale, che ha in Meriggiare pallido e assorto e tutte le migliori poesie di Ossi di seppia, e delle Occasioni, la traccia ontologica di un segreto viadotto per esternare l’Essere nel Tempo. Ciò che Lucio ha notato, con grande profondità estetica, insieme a Giorgio, è la sotterranea rifrazione di un sentimento poetico che finisce con l’avere centrato la misura dei nostri passi su un terreno accidioso. Montale in un modo, io in un altro, ma entrambi con linguaggio diverso, ci siamo lasciati andare su una zattera senza remi “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia-. Grazie a voi di queste utilissime interpretazioni che aprono ad una nuova visione la lettura dei testi poetici come non si era mai fatto prima.