Petr Král con Alessandro De Vito allo Slavia caffè, Praga, 2016
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Quello che colpisce in questi mini racconti di Petr Král è il modo con il quale l’autore tratta gli «oggetti». Innanzitutto, non c’è nessuna «epifania» degli «oggetti», gli «oggetti» di Král sono quelli che tutti usiamo tutti i giorni, quindi non sono «cose» quanto oggetti che restano oggetti sia prima che durante e dopo che ne abbiamo usato. È il nostro modo di percorrere le contingenze degli oggetti, le disfanie degli oggetti; quelle «disfanie» sono le nostre esperienze, le micro esperienze, quelle impercettibili e invisibili esperienze-contingenze che ripetiamo in ogni attimità di ogni giorno senza pensarci su. L’idea di Král è che in quelle «disfanie» o «contingenze» si riveli un segreto che non sapevamo, o meglio, che forse sapevamo in modo inconsapevole ma che dimenticavamo subito dopo aver esperito la contingenza. In secondo luogo, le «disfanie» degli «oggetti» accadono all’improvviso quando si verifica una condizione esistenziale di allentamento dell’ordine razionale.
È chiaro che in queste «disfanie» králiane non si dà alcuna «verità» (nel senso tradizionalmente inteso dalla tradizione filosofica come emersione del nascondimento alla piena luce della visione), si danno soltanto dei contenuti veritativi, cioè quei contenuti che afferiscono alla «verità» in quanto esponenti della «non-verità». Tutti i nostri atti della vita quotidiana sono intessuti di queste attimità e di questi contenuti ideativi, solo che non ci facciamo caso e passiamo oltre, passiamo ad occuparci di altre cose, le cose che l’io auto organizzatorio ritiene serie.
Per esempio, nella poesia di un Mario Gabriele si verifica qualcosa che è l’esatto contrario di ciò che si ritrova nella poesia degli autori che presuppongono un contenuto di verità epifanico ritenuto fisso e stabile nelle dimore degli «oggetti». È chiaro che qui siamo nella antica ontologia del novecento italiano. In Král come in Mario Gabriele o nella scrittura poetica di Steven Grieco Rathgeb, ci troviamo in un altro universo esperienziale e ideativo: qui non si dà alcun contenuto di verità purchessia, in questa «nuova fenomenologia psichica», che non è una cosa solo italiana, non si dà alcun contenuto imperituro di verità ma soltanto un contenuto energetico e ideativo; la traccia psichica che lasciano gli enunciati della poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera dei quanti di energia linguistica e psichica, elementi linguistici de-simbolizzati.
Nella poesia di Petr Král, di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb ma anche in quella di Giuseppe Talia, che a una prima lettura potrebbe apparire «normale», non si rinviene nessun «focus» delle composizioni, non si dà mai alcun centro simbolico, la loro poesia è sempre scentrata, eccentrica, ultronea, abnormale, abnormata, ci troviamo dinanzi ad una nuova fenomenologia estetica.
Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero
Nei testi poetici di Petr Král, come nelle sue prose di Nozioni di base, sarebbe errato cercare un «centro» unico della composizione, perché il «centro» appare ovunque: è dislocato e si dis-loca continuamente. Gli «oggetti», anch’essi, si dis-locano, seguendo le linearità sghembe del «presente»; un «presente» che si configura, non come vasta pianura, estesa dal «prima» al «dopo», ma come reticolato fitto di attimi e di attimità, che si dis-locano casualisticamente, allo stesso modo di una materia instabile, o di un pulviscolo.
Noi, poeti della Nuova Ontologia Estetica, ci sentiamo molto vicini alla poetica di Petr Král. Per fare un esempio, potrei citare il nostro Steven Grieco Rathgeb, le cui poesie sfuggono proprio al concetto di «centro» unico. In esse, i più svariati «centri» si dis-locano seguendo il solco delle micro fratture del reale, là dove si situano le cosiddette «disfanie».
In definitiva, le «esperienze» di questa «nuova ontologia estetica» o «nuova fenomenologia estetica», peculiari nella poetica di Král, si danno negli interstizi delle e tra le «epifanie». Il «presente» di queste «disfanie» non coincide più con ciò che risulta nelle «esperienze» delle tradizionali «epifanie». Le «esperienze» che si fanno in questa nuova ontologia o nuova fenomenologia sono assai diverse dalle antiche «esperienze», quelle dettate dalla ontologia novecentesca, la quale, considerando unicamente l’esperienza dell’«epifania», non è in grado di distinguere elementi valoriali «altri», e, di conseguenza, non potrebbe mai offrirci gli strumenti necessari per comprendere le poesie e le prose di Petr Král.
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935) Martin Heidegger riprende la concezione dell’opera come strumento-per, come mezzo, ma con una differenza rispetto a Essere e tempo: che l’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato, non a far luogo dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di un’opera d’arte, e prende per esempio un quadro di Van Gogh, che raffigura un paio di scarpe da contadino. In questa famosa opera, l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, abita in qualcosa di più profondo della semplice «utilizzabilità» di cui il filosofo aveva parlato in Essere e tempo: essa abita nella sua «fidatezza» (Verlassigkeit); «In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo (…) la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra, la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza». 1
Ora, nei racconti di Petr Král, i personaggi si accorgono dell’esistenza degli «oggetti» quando si interrompe la «fidatezza» di cui ci parla Heidegger: è allora che i personaggi fanno esperienza dello stupore e gli «oggetti», improvvisamente, diventano «cose», diventano altro, fanno esperienza del divario che si apre tra gli «oggetti» e le «cose», del mutismo degli oggetti-strumento e del linguaggio misterioso delle «cose». Le epifanie degli «oggetti» accadono in quei momenti in cui siamo distratti, quando pensiamo ad altro; è allora che ci accorgiamo con stupore che gli «oggetti» sono in realtà delle «cose»: quelle «cose» che noi non vedevamo e non sapevamo riconoscere.
1 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti Editore, 2000 p. 97
Ecco cosa scrive Milan Kundera di queste prose di Petr Král:
È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela. Pur sapendo che cosa vuol dire la parola “fumare”, non eravamo in grado di vedere quel che “fumare” significa in concreto, in che modo gesti banali e automatici ci legano al mondo o ci permettono di allontanarcene, come testimonia la storia del non fumatore Lenin che chiede una sigaretta a Trockij allo scopo di dimenticare per un minuto la rivoluzione. Pur sapendo che cosa vuol dire “solitudine”, la cecità esistenziale ci impediva di renderci conto che soltanto una porta sottile separa la nostra “stanza della solitudine” dal salone dove rumorosamente la festa continua.
Quante volte, alla fine di una serata, abbiamo visto una donna andarsene, ma tutto ciò che riempiva l’ultimo sguardo che gettavamo su di lei lo dimenticavamo un secondo dopo. È sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. È una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo.
Appunto di Massimo Rizzante
«Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del portacenere, dei bicchieri e della caraffa, che immobili disegnano la pianura del tavolo». Questa “nozione di base” di Petr Král è tra le più brevi composte dal poeta. Per questo rivela l’essenza di tutte le altre, anche di quelle più lunghe.
Che si parli di una camicia che «ha fatto il suo tempo» e che ci ispira un «addio così commosso» quale quello che daremmo a «un’amante», o di una porta che durante una visita ad alcuni amici ci introduce in una stanza «attrezzata ma vacante» che «estende il nostro soggiorno» su questa terra di uno «spazio supplementare», o ancora di una vasca da bagno che improvvisamente da letto d’amore si trasforma «nella nostra tomba», tutto ciò che Petr Král tocca diventa spettacolo, spectaculum, ovvero, apparenza. È grazie al suo stupore davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo. La regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove ci abbraccia come un’amante dimenticata. Ma da dove viene lo stupore del poeta che libera le cose dalla loro funzione e che gli permette di camminare senza quel pesante fardello per le strade della prosa? Da dove viene questa grazia? Non si è mai tanto vicini alla grazia come durante quei mattini quando si assiste «stupiti allo spettacolo» di ciò che si conosce a memoria. È durante quei risvegli che tutti gli oggetti e tutte le situazioni della vita quotidiana mostrano quel che potrebbero essere, che il presente ama contemplarsi davanti allo specchio delle sue possibilità. Così Petr Král, indossando ogni giorno una camicia bianca fresca di bucato, saluta il volto mattutino di quell’amante che ogni notte dimentichiamo: l’esistenza.
Appunto di Yves Hersant
Tutto quel che dice, è di sfuggita. Senza indugio, senza mai lanciare sulle cose uno sguardo totalizzante. Ma scrutandone i dettagli, o lasciando che vengano a lui le fugaci apparizioni; lasciando che l’acutezza dell’occhiata subentri a ogni teoria; lasciando risuonare nella memoria – la sua e la nostra, che vengono quasi a confondersi – il discreto rumore dei passi, o il tintinnio del bicchiere sopra al bancone. La sua motricità pedonale, per riprendere la bizzarra espressione di Michel de Certeau, può condurlo nei più reconditi luoghi del nostro mondo mondializzato; però è tra gli arabeschi delle nostre città, dove le sue erranze evocano a volte il grand Flâneur del xix secolo, che realizza di preferenza i suoi fecondi micro viaggi. Né geografico, né geometrico, né panottico, il suo spazio è da subito quello della poesia e del mito. Eppure si rivela perfino romanzesco, perché popolato da virtualità concrete. Sgombra d’ogni lirismo e soprattutto alleata di una prosa che etichettare come “poetica” sarebbe quanto di più prosaico si possa dire, la poesia di Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: «La missione del poeta non è affatto quella del fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?». In un’opera precedente (Testimone dei crepuscoli, 1989) Petr Král offriva in parallelo una serie di poesie e il racconto degli aneddoti che li avevano generati. Al contrario, nelle pagine che state per leggere, le due correnti sono confuse: La camicia come Il vecchio saggio, La vasca come La folla, sono minuscoli ma intensi racconti-poemi incoativi, in cui si manifesta l’antica potenza delle forme brevi. Dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano che decisamente non ha nulla di banale; analista minuzioso delle condotte più surrettizie, ci riconcilia con il mondo lacerando ogni nostra certezza. Questo amante del burlesque diventa così un grande educatore dello sguardo: d’un colpo solo, ci insegna che la nostra realtà ne nasconde ben altre. Dietro ad ogni porta può aprirsi una vita nuova.
[Petr Král, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]
da Petr Král, Nozioni di base, Miraggi, 2017
Il caffè
Il sabato, dopo aver dormito a lungo, usciamo e scivoliamo indietro nel tempo con la morbida indeterminatezza che solo la mattina meno impegnata della settimana consente; ci uniamo ai vivi, un po’ di sbieco, solo quando, appoggiati al bancone del bar, ordiniamo un caffè che berremo osservando incuranti la strada e il suo sfocato viavai dietro il vetro. Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento.
La camicia
a Milan Schulz
Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle: i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda, insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia, sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto, nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani quanto la stazione, non va certo meglio.
Lo spettacolo
Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.
Radersi
Prima di raderci spalmiamo la schiuma bianca sul viso, come clown prima di entrare in scena, sotto di essa ci è più facile trovare la nostra pelle nuda; come in una parentesi di breve eternità ci attardiamo soli con noi stessi ai margini del tempo, nella cui corrente stiamo per immergerci. Proprio come accade al momento del risveglio è in quell’attimo che ci sovvengono i pensieri più profondi e originali della giornata e ancora meglio: mentre ci radiamo e misuriamo senza fretta l’estensione della nostra nudità, sappiamo tutto.
Mentre il corpo è occupato nella cura di sé, concentrato su ogni suo minimo aneddoto, l’anima, come un’ape libera, sorvola il mondo intero, e osserva i suoi nascondigli sconosciuti.
Un impercettibile tremito nell’aria o in noi stessi, un semplice niente, deciderà della riuscita della rasatura – e allo stesso modo dell’atto d’amore che in fondo ora, con il rasoio, offriamo a noi stessi. Niente è anche la brezza che sfiora la guancia con una goccia di colonia, come l’ultimo fremito dell’abisso che, grazie alla rasatura, abbiamo felicemente oltrepassato.
Gli orologi
Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità; il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita, estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci rammenta semplicemente che siamo al mondo.
Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali – si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione – senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato per anni a mantenere ostinatamente le lancette fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include tutte le altre.
L’attaccapanni
Essere solidali con l’attaccapanni e con la sua nudità, che mantiene intatta sotto il peso provvisorio dei nostri vestiti da clown.
Il cappello
Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile, un provinciale cappello tirolese e subito accanto un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili, si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto assassino, ma quale?
Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra la testa e il cappello.
Il treno
a Alain Roussel
Non c’è mezzo di trasporto che come il treno abbia ampliato la nostra conoscenza del mondo. Ancor prima di metterci in viaggio col nostro, già stiamo partendo con quello che si è mosso sul binario accanto, ci dà l’impressione di essere noi in movimento, ci toglie il fiato a tradimento lasciandoci solo la massa del nostro corpo, sorda e immobile, come se fossimo già tornati indietro. E quando ormai siamo in viaggio, tra le carrozze del treno che viene dalla direzione opposta ci viene incontro il cielo, inaspettatamente vicino e turbolento, scoppiettante e pulsante tra gli spazi come un cordone di vivo acciaio. Da quando i treni esistono sappiamo che quelli su cui viaggiamo non sono mai quelli in cui siamo seduti.
Petr Král nel suo studio
Treni
I nostri treni non vanno più a vapore, ma il loro respiro è comunque più ampio dei binari che percorrono e dell’itinerario stabilito.
La porta
La porta è uno sbarramento che alziamo contro gli intrusi e contro il mondo esterno, eppure non facciamo che guardarla nell’attesa che qualcuno la oltrepassi: la portinaia che ci infila una lettera sotto la soglia, qualcuno che inaspettatamente viene a bussare in tarda notte. La fermezza o l’esitazione con cui apriremo la porta contribuirà a definire il carattere del messaggio che il visitatore ci porta, e la gravità o l’eccitazione dei momenti che passeremo con lui.
Ancor più importante è il modo in cui apriamo la porta quando ci apprestiamo ad uscire; la determinazione con cui afferriamo la maniglia e oltrepassiamo la soglia – molto più di quella con cui ci alziamo dal letto – anticipa l’esito e l’importanza di quel che fuori ci aspetta, ci facilita o ci ostacola nel raggiungere il luogo di un appuntamento importante, oppure inutile, e nel trovare un buon ristorante. Abbiamo la chiave della porta, ma non del giorno che incontreremo al di là di essa, quella la troviamo proprio grazie al modo in cui la oltrepassiamo. A volte esitiamo davanti a un negozio o un’officina sconosciuta chiedendoci se spingere la porta ed entrare; i segreti che le porte nascondono suscitano in noi desiderioe dubbio, temiamo di venir trascinati in un ingranaggio oscuro o al contrario di rimanere delusi, ci diciamo che, comunque, non ci saranno rivelati. E abbiamo i nostri motivi, non sarebbe la prima volta: il vecchio bottegaio che ci vendeva i precliky coi vermi dentro, il tenebroso studio del fotografo mai rischiarato da un flash, ma intriso di puzza di piscio, oppure quei negozianti che col loro corpo ci impedivano la vista del retro del negozio, l’espressione di chi vuol far credere che dietro di loro non ci sia niente. Eppure
è comunque necessario spingere la porta ed entrare, anche solo per il gesto di farlo; anche se potrebbe sembrare che non stiamo comunque entrando da nessuna parte, vivere significa
forse soprattutto questo, spingere una porta ed entrare dentro l’altro, o semplicemente in un’altra stanza. Anche quando si tratta di casa nostra è così che a volte trascorriamo
la giornata, semplicemente entrando nella cucina vuota, o nella camera da letto; forse la barzelletta sul precursore russo della televisione, che non faceva altro che portare un quadro da una stanza all’altra (cornice compresa), ha un significato più profondo di quanto sembra e cela una lezione fondamentale dell’arte di vivere. Anche quando d’estate facciamo visita agli amici e apriamo all’improvviso la porta della stanza degli ospiti – arredata ma disabitata – sentiamo aleggiare nel suo silenzio la memoria sconosciuta, dei nostri ospiti e nostra, una memoria che estende il nostro soggiorno in quel luogo di un nuovo spazio.
Le stanze, di cui apriamo la porta, sembrano opporre resistenza, mantengono la loro peculiarità difendendola a volte così strenuamente da apparire ancora più diverse di come ci aspettiamo; nella camera accanto un corpo si alza dal letto con la minacciosità di un’anima defunta, e anche una donna che conosciamo intimamente ci respinge confusa nel buio mormorando che non è sola. A volte bussiamo alla porta di qualcuno senza ricevere risposta, anche se sappiamo di essere attesi; ci hanno tradito, si sono chiusi a chiave e stanno festeggiando senza di noi, riuniti al solo scopo di esserci sleali. Anche quando la porta che abbiamo davanti è la nostra non sempre sappiamo cosa ci aspetta al di là, magari non abbiamo nemmeno le chiavi e la nostra umiliazione è ancora maggiore perché siamo causa della nostra stessa vergogna. E mentre ci chiediamo mortificati cosa abbiamo fatto per meritarci questo, con chi siamo sleali lì dentro, la casa che ci è così familiare, ora inaccessibile, in cui vaghiamo malinconicamente con la nostra immaginazione, diventa estranea e distante, come una stanza per gli ospiti.
Il cestino
a Jan Vladislav
Versione più nobile del secchio della spazzatura, in cui facciamo sparire la parte più indecorosa, triviale e puzzolente dei nostri delicati manicaretti, il cestino per la carta è quasi un caro amico, ancor più del piccolo cestino del bagno che a volte, al mattino, cerchiamo di centrare con un piccolo oggetto, come un bersaglio lontano, nello sforzo di verificare quanto siamo pronti al nuovo giorno. Il cestino della carta lo trascorre con noi, prosaicamente resta con pazienza al nostro fianco, sempre pronto a inghiottire nuove reliquie o documenti che non ci appartengono più: buste vuote, inutili stampe, messaggi e promemoria scaduti, abbozzi di lettere, scatole di sigari fumati. Li abbiamo disconosciuti ancor prima di gettarli via definitivamente, solo sul punto di addormentarci, talvolta, guardiamo mentalmente nel cestino, dall’alto, come durante un volo sprezzante in aereo. (Ma cosa ha spinto, nel bel mezzo del pomeriggio, la nostra matitina a tuffarcisi dentro con tanta testardaggine?) Se poi per caso dobbiamo immergerci nel cestino per ripescare umilmente un foglietto finito lì per sbaglio, viviamo la cosa con sdegnosa umiliazione, tanto più se il cestino ci mette di fronte a una verità inconfessata: la realtà della nostra esistenza non è forse tutta lì, riflessa in ciò che con tanta determinazione abbiamo eliminato – la semplice materia avvizzita delle scatole vuote, delle buste strappate, delle matite consumate e delle pagine piene di cancellature, senza ulteriori messaggi? E, come se non bastasse, appena ci apprestiamo a schiacciare di nuovo tutto nel cestino ci accorgiamo che non c’entra più, tanto ingegnosa e precisa era la struttura che quei resti avevano creato, semplicemente stratificandosi, passivi e indolenti, nel corso dei giorni. È come se quella scultura di rifiuti, ricostruita ora in una forma sinistramente precisa e compatta, fosse il nostro primo vero monumento. A volte, di sera, sullo sfondo della finestra oscurata, sembra quasi bella…
La camicia
a Milan Schulz
Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle: i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda, insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia, sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto, nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani quanto la stazione, non va certo meglio.
Lo spettacolo
Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.
Gli orologi
Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità; il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita, estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci rammenta semplicemente che siamo al mondo. Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali – si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione – senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato per anni a mantenere ostinatamente le lancette fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include tutte le altre.
Il cappello
Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile, un provinciale cappello tirolese e subito accanto un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili, si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto assassino, ma quale? Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra la testa e il cappello.
Il cestino
a Jan Vladislav
Versione più nobile del secchio della spazzatura, in cui facciamo sparire la parte più indecorosa, triviale e puzzolente dei nostri delicati manicaretti, il cestino per la carta è quasi un caro amico, ancor più del piccolo cestino del bagno che a volte, al mattino, cerchiamo di centrare con un piccolo oggetto, come un bersaglio lontano, nello sforzo di verificare quanto siamo pronti al nuovo giorno. Il cestino della carta lo trascorre con noi, prosaicamente resta con pazienza al nostro fianco, sempre pronto a inghiottire nuove reliquie o documenti che non ci appartengono più: buste vuote, inutili stampe, messaggi e promemoria scaduti, abbozzi di lettere, scatole di sigari fumati. Li abbiamo disconosciuti ancor prima di gettarli via definitivamente, solo sul punto di addormentarci, talvolta, guardiamo mentalmente nel cestino, dall’alto, come durante un volo sprezzante in aereo. (Ma cosa ha spinto, nel bel mezzo del pomeriggio, la nostra matitina a tuffarcisi dentro con tanta testardaggine?) Se poi per caso dobbiamo immergerci nel cestino per ripescare umilmente un foglietto finito lì per sbaglio, viviamo la cosa con sdegnosa umiliazione, tanto più se il cestino ci mette di fronte a una verità inconfessata: la realtà della nostra esistenza non è forse tutta lì, riflessa in ciò che con tanta determinazione abbiamo eliminato – la semplice materia avvizzita delle scatole vuote, delle buste strappate, delle matite consumate e delle pagine piene di cancellature, senza ulteriori messaggi? E, come se non bastasse, appena ci apprestiamo a schiacciare di nuovo tutto nel cestino ci accorgiamo che non c’entra più, tanto ingegnosa e precisa era la struttura che quei resti avevano creato, semplicemente stratificandosi, passivi e indolenti, nel corso dei giorni. È come se quella scultura di rifiuti, ricostruita ora in una forma sinistramente precisa e compatta, fosse il nostro primo vero monumento. A volte, di sera, sullo sfondo della finestra oscurata, sembra quasi bella…
Il balcone
(a Prokop)
La casa alle nostre spalle, travolta dalla festa, è piena di luci e frastuono, il balcone su cui ci siamo rifugiati è però immerso nel buio, anche le grida arrivano smorzate. Non siamo sempre soli, qui accanto due sconosciuti si strusciano l’uno con l’altro mugolando piano. Ma se in casa vagavamo stancamente nella ressa come in una sala d’aspetto gremita, qui sul balcone sentiamo come non mai di essere parte del romanzo del mondo, anche se solo nel ruolo di muti testimoni. Le confidenze che riusciamo a scambiare coi nostri amici più cari assumono qui, sul balcone, una suprema importanza; anche se non le porteremo via con noi, rimarranno sempre nel buio in cui il balcone annega e nella notte verso cui ci sporgiamo – forse proprio perché sono importanti. La conversazione notturna che sentiamo svolgersi tra due signori, sul balcone del Comitato Centrale, risuona con un’eco confusa nella piazza silenziosa della città di cui siamo temporanei ospiti. Pur trattandosi probabilmente solo dei banali pettegolezzi di due guardie notturne, questi, per il solo fatto che i due sono usciti a chiacchierare sul balcone, diventano significativi e irreparabili.
Hotel
a Michal Ajvaz
Una stanza d’hotel non è che l’illusione di una casa, un palcoscenico dove recitiamo l’abitare; offre però insperate possibilità, libera le azioni e i gesti quotidiani dalla rete dei bisogni conferendo loro un maggiore slancio. Una notte trascorsa in albergo, anche se con la compagna di sempre, prende un significato nuovo, quasi proibito. Ancor più toccante, ed eccitante, è trovare su quel palcoscenico che è l’albergo le tracce di una vera casa e i dettagli di un’autentica vita domestica, fossero anche solo i pannelli di vetro colorato della porta della cucina, dove il proprietario si ritira come in un pensionato accogliente, oppure un quadro dipinto a metà abbandonato su un cavalletto, proprio accanto al nostro letto. Gli albergatori italiani, ben consapevoli del nostro debole per questo genere di ritrovamenti, integrano discretamente l’arredamento delle stanze con i loro mobili, un armadio di campagna o un antico candeliere. Anche se viaggiamo da soli, già dalla soglia la stanza d’albergo ci lascia intravedere un’esistenza del tutto sconosciuta – o un aspetto insospettato della nostra – di cui possiamo vivere almeno un breve frammento. Se inaspettatamente ci assegnano una suite abbiamo accesso addirittura a più vite insieme: il letto della buia camera in fondo sembra concepito per permetterci di sfogliare, la notte, le ali di un angelo misterioso, mentre il divano della piccola anticamera, illuminata da un ripido lucernario, farà risplendere il pallore dei nostri pomeriggi come mai prima. Al ritorno dal viaggio poi a volte la nostra casa ci sorprende, lo sguardo si immerge all’improvviso in profondità inusuali, si intrufola fino all’ignoto fondo dei noti spazi tra i volumi della libreria, o negli angoli dietro il letto o dietro la vasca, dove trova nuovi abissi e scopre dei retroscena mai intuiti. Se ci scopriamo incapaci di abitarla da soli, ecco spuntare alle nostre spalle una folla di oscuri sarti, pallidi bagnini, leoni apatici – forse anche docili sonnambuli – venuta a tenerci compagnia col suo discreto, cordiale respiro.
La familiarità
a Jiří Fiala
La pioggia che ci sorprende davanti a un vecchio bar, costringendoci ad entrare, ci permette di abitarci per un po’, forse anche di sopravvivere all’apocalisse. Ma il bar che ci diventa davvero familiare è quello dove ci ritroviamo al mattino a sorseggiare un vino bianco accanto al guardiano che, diretto al lavoro, si è fermato qui a riprendere il berretto dimenticato.
Altrove
a Martin Pluháček
Durante una serata in birreria, anche se riuscitissima, di colpo il gruppo di amici viene colto dall’impellente urgenza di trasferirsi altrove, a volte nemmeno facciamo in tempo a sederci che già cominciamo a chiederci dove andremo dopo. Vogliamo davvero stare insieme agli altri, non preferiremmo andare a casa a dormire, inabissarci in noi stessi e nel buio, nelle profondità delle intemperie dell’inverno, immusonirci da soli, struggendoci di nostalgia per la birreria e per gli amici? Forse temiamo che staremo di nuovo lì a guardarci perplessi, come quella volta nel solaio? O forse vorremmo aprire un localino solo per noi, una cantina, o magari portarli a casa nostra e fare in modo di poterci riunire sempre lì. E comunque, sicuramente, poi ci verrebbe voglia di trascinarli, inconcludenti, ancora altrove, oltre casa nostra, fino alle profondità che abbiamo dentro, fino ai lontani anni in cui gli amici non erano che ombre attese sui muri spogli della nostra caverna. Come se i cerchi, nell’oscurità del locale giusto, potessero allo stesso tempo restringersi e allargarsi…
Il bagno altrui
Prima di entrare in un bagno sconosciuto prendiamo in prestito dagli ospiti un asciugamano, non chiediamo però cosa ci aspetta, vogliamo scoprire da soli l’ordine segreto del piccolo locale: la posizione degli stendibiancheria e degli interruttori, il funzionamento della doccia. La nostra esplorazione però va per le lunghe, cerchiamo invano la limetta e il cestino della spazzatura, il modo in cui gli oggetti sono disposti ci sfugge e vaghiamo confusi. Vorremmo quasi chiamare i padroni di casa in aiuto e chiedere loro come hanno organizzato le cose e perché, dove hanno preso l’idea di sistemarle proprio in quel modo? Saprebbero forse anche dirci perché continuare a vivere, e come?
Il muro e il recinto
(a Honza)
Un vecchio muro non ci nasconde niente e non ci è d’ostacolo; è solo la fine di un viaggio che ora ci resta da scoprire dietro il film della pioggia che, da lontano, abbiamo visto cadere davanti al muro, come fosse uno schermo. Quando siamo di fronte a un muro, cominciamo subito un nuovo viaggio, una paziente e attenta esplorazione della sua massa irregolare, di tutti i suoi infiniti dettagli, le ombre dei solchi, le fessure, le macchie d’umido, penetrando nel fondo della sua memoria stratificata. Un logoro recinto di legno è invece un paravento intrigante, che ci spinge a guardare al di là e indovinare cosa nasconde e promette, quale stupefacente dirigibile o balena si gonfia segretamente lì dietro, apprestandosi ad arcuare il suo dorso scuro sopra la palizzata; quali tronchi vi sono ammassati e quali assi impilate per la costruzione di nuovi, straordinari recinti. Man mano che lo esaminiamo intuiamo oltre il recinto la presenza di sempre più cose, forse vi è celata un’intera città sconosciuta. Affiora del resto anche dai resti dei vecchi manifesti pubblicitari ancora incollati sulle assi, e nei nodi e negli anelli del legno è disegnata la sua mappa.
La porta girevole
Attraversando l’atrio spazioso di una banca, o di un hotel, insieme a degli sconosciuti o con i nostri cari, a volte ci allontaniamo dagli altri e da noi stessi, i nostri sguardi si incrociano appena mentre continuano a vagare da una parte all’altra nella vellutata penombra sotto l’alto soffitto, dove del frastuono del mondo arriva giusto un’eco; l’instancabile risacca di tutti i mari e delle suole sui marciapiedi delle città di colpo attutiti in questo quieto mormorio, quasi solo un respiro. Un’unica palpebra ci fa l’occhiolino dal fondo della sala, la porta girevole attraverso cui tutti quelli che entrano o escono scompaiono pigramente nella tremula luce del giorno. La stessa sala perde in quel tremolio i suoi contorni, risuonando dell’eco di tutte le altre hall, degli atri, delle sale d’aspetto di porti e stazioni e del continuo afflusso delle folle che vi transitano, e insieme ad esse veleggia fuori dal tempo e unisce la sua memoria alla loro in un’unica immemorabile onda. Intessuta di luci e ombre, è ora solo un luogo di attesa e di libero passaggio, dal buio al giorno e ritorno, un’immateriale sala d’attesa oltre la cui soglia gli intrecci di ogni rappresentazione hanno inizio e contemporaneamente fine.
Mentre usciamo, sulla schiena già il respiro pressante della folla sterminata, la porta girevole davanti a noi scava il vuoto. Ci permette però un piccolo ballo, trasformando la nostra uscita in un istante di vertigine senza peso, che ci fa smarrire ogni riferimento al punto che il mondo, ovunque guardiamo, ci offre motivo di meraviglia. Non sappiamo nemmeno dove la porta ci scaraventerà, avanti, indietro, a nord o a sud, nemmeno se galleggeremo sulla superficie o ci inabisseremo verso il fondo. Riappariremo sulla scena come un semplice starnuto, o una risata, guizzati fuori all’improvviso da dietro le quinte.
Lo stuzzicadenti
a Michal Novotný
Lo zoticone che parlando con noi si infila lo stuzzicadenti tra i denti e lo succhia, ce lo punta contro come fosse un’arma. Colui che, finita la cena, lo maneggia coprendosi discretamente col palmo della mano ci collega, noi e il tavolo a cui sediamo, allo spazio circostante e la sala da pranzo finisce per includere lo spazio della stazione notturna che sta scoprendo, con sua grande meraviglia, all’interno della sua bocca. Quando l’autore di Ubu re usò lo stuzzicadenti per l’ultima volta, sul letto di morte, dietro il palmo della sua mano lo girò segretamente verso il futuro e verso di noi, suoi posteri.
La valigia
Seguiamo con lo sguardo la nostra valigia che si allontana, sul nastro trasportatore dell’aeroporto o in mano al facchino dell’albergo, come se si portasse dietro anche una parte di noi. Quando ci viene restituita dalle profondità di un deposito o di un’altra sala aeroportuale la riconosciamo subito e la salutiamo, ma con sentimenti ambivalenti. Sembra la stessa, ma non lo è, il viaggio che ha affrontato, diverso dal nostro, è ancora più inquietante proprio perché non ha lasciato tracce evidenti. A volte, mentre più tardi la svuotiamo, spunta tra gli effetti personali una forcina mai vista, e sentiamo quasi risuonare l’eco di una risata lontana. La valigia viaggia anche per noi, è la nostra casa itinerante, lo scrigno segreto che ci permette di entrare in spazi altrimenti inaccessibili. Sfortunatamente possiamo solo fare congetture sulle mani che l’hanno frugata e hanno tenuto impunemente tra le dita – magari anche per lunghi minuti – il nostro pettine, il sigaro, la matita –, o sugli amori, sugli assalti di orribili custodi all’oscena allacciatura di qualche biondina, di cui è stata testimone la valigia nel buio di un deposito. Invano la esaminiamo da lontano, sola nell’androne deserto in una città straniera, ancora una volta non avremo modo di riconoscere l’alter ego sconosciuto a cui abbiamo offerto la valigia come fosse un’esca, quasi pronti a cedergliela. Dunque non ci resta che prelevarla e, trascinandola, tornare ad essere i servi di noi stessi.
Il verde e il blu
(a Standa)
Il verde e il blu sono a prima vista incompatibili, come recita il detto ceco: «Verde e blu insieme, per i pazzi van bene». Il problema però è come distinguerli, visto che agli estremi delle loro gamme tendono a confondersi: l’erba verde ombrata di blu, il blu tendente al verde del cielo serale, il mare verdazzurro. I due colori si osservano gelosamente a vicenda, si tengono d’occhio e perseverano nella loro unicità. Il blu si moltiplica a vista d’occhio, ogni pittore ha il suo, come se ogni singolo sguardo rispondesse a una sfumatura diversa. Il verde invece si restringe in se stesso e in pochi toni di base: il verde bottiglia, il verde di un tavolo da biliardo, il verde profondo delle vecchie capote e delle serre, il verde muschio della tappezzeria dei bar. E di verde luccicano anche le trappole nascoste, i fuochi fatui, i ceppi fosforescenti, lo smeraldo degli anelli velenosi. È il colore stesso del mistero e la sua immediata cifra poetica, mentre nel blu, dall’indaco notturno all’azzurro mattutino, il mistero non è che una presenza lontana, semplificata in un simbolo metafisico. Del verde ci fidiamo, e ci immergiamo in esso come in uno stagno, il blu invece dobbiamo andare a cercarlo per poterlo raggiungere.
nota su Petr Král
Se in Internet cerchiamo Petr Král, ovvero uno dei maggiori esponenti della letteratura ceca contemporanea, verifichiamo un dato che ci rattrista e ci rallegra al tempo stesso: solo la nostra rivista telematica, L’Ombra delle Parole, gli ha dedicato ampio spazio. Pochi altri blog si sono limitati a pubblicarne due o tre poesie, al massimo, insieme a qualche breve cenno biografico, senza altro commento.
Però, l’altro giorno, cercando appunto in Internet Petr Král, mi sono imbattuta in una bella notizia: a Torino, nell’ambito della III edizione dello “Slavika Festival” (dal 18 al 25 marzo), è stata presentata l’edizione italiana di Nozioni di base (Miraggi Edizioni, 2017), un centinaio di brevi prose dello scrittore ceco, tradotte da Laura Angeloni. Precedente a questa pubblicazione, è l’eccellente antologia Tutto sul crepuscolo, che raccoglie la produzione poetica più rappresentativa di Král, realizzata con grande cura da Antonio Parente, per Mimesis (2014): lo stesso editore che, già nel 2005, aveva riunito, nel volume Sembra che qui la chiamassero neve, una pregevole selezione della poesia ceca contemporanea. Tra gli autori, il nostro Petr Král.
Nonostante questo, è sempre troppo poco per conoscere un poeta, prosatore, traduttore, saggista, autore di opere sulla storia del cinema; un grande intellettuale, insomma, che guarda la realtà con occhi “spesso piuttosto perfidamente obliqui”, come Král dichiara ironicamente nella nota introduttiva alla sua antologia Tutto sul crepuscolo.
Donatella Costantina Giancaspero e Giorgio Linguaglossa tra gli oggetti di un pranzo, 2018
Eurolines
Oltre il confine guardo dall’autobus, nella pioggia mattutina
cammina per strada un uomo nudo,
nient’altro, non ha nemmeno il telefonino,
nell’incerto territorio della frontiera può davvero accadere di tutto
(penso),
un uomo nudo, forse si è ubriacato e forse lo hanno derubato,
quotidiana apocalisse di fine epoca,
forse basta dirsi che anche ciò fa parte del mondo, un uomo nudo
sotto la pioggia del mattino
al confine come un baluardo avanzato del nuovo giorno, un uomo
intensamente nudo
e dietro di lui il vago tremore di un caso sconosciuto,
il suo breve o lungo cammino fin qui,
verso il baluardo avanzato del giorno e dell’epoca,
la donna del chiosco dispone già con prudenza da qualche parte il
pacco di giornali, altrove c’è una stanga, piove,
un uomo nudo, anch’egli ha una madre da qualche parte, una
palazzina distante o un mucchietto rinsecchito, qualcuno ride e
indica col dito
nella nebbia, nudo e solo come da qualche parte in Russia (solo
che lì sarebbe più strano, più sigillato
in se stesso, la pioggia più fitta e il caso più intricato), qui e ora
soltanto un uomo
come un fatto crudo, un Marziano quotidiano e uno scampanellio
che si trascina intensamente per la mattina nuda
da nessuna parte –
(Hm ovvero Le misure dell’errore, 2002)
Petr Král, Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni, 2014)
Traduzione di Antonio Parente
Ma chi è Petr Král?
Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico, anche come insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ’90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.
Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).
Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Autore anche di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte. Ha collaborato con la famosa rivista Positif e pubblicato due volumi sulle comiche mute.
La creazione poetica di Petr Král è segnata, come abbiamo detto, dall’incontro con il surrealismo. Il tema centrale è il rapporto tra realtà e immaginario. Un rapporto che, durante gli anni Settanta, diventa via via più articolato e conduce il poeta ceco verso esiti espressivi e formali di particolare interesse: la sua poesia si configura quasi come una sorta di commento della realtà, che mescola le esperienze quotidiane più banali, gli oggetti di uso comune, con l’istantanea psicologica dei personaggi, avvolti da un alone di vuoto. I luoghi descrivono gli interni domestici, dove va in scena la vita quotidiana, oppure appartengono al paesaggio urbano: strade, piazze, autobus, lampioni, treni, stazioni avanzano sulla pagina, e, spesso, un interlocutore muto condivide il colpo d‟occhio e le riflessioni che ne scaturiscono, gli interrogativi sul significato dei gesti, sul senso di un’affannosa, quanto frustrante, esistenza. Il tutto reso in modo tale da evitare il pur minimo ristagno nel cliché del patetico. In questo contesto, l’angolo visuale dal quale si osservano le cose risulta, per così dire, “spostato” rispetto alla prospettiva consueta, quella frontale, da cui ci affaccia da decenni la nostra poesia tradizionale. Viceversa, la prospettiva di Petr Král è resa di scorcio. Per questo motivo, il discorso che ne deriva non è diretto, esplicativo, ma rimane nel non-detto, è sottinteso, mascherato, indirizzato su percorsi periferici, inconsueti. Un certo ispessimento, o indurimento di espressione, e, ancora di più, il suo contrario, ovvero quel senso di ironia e auto-ironia, peculiare di talune poesie, possono essere interpretati come una reazione difensiva contro la transitorietà del mondo, contro il nulla. E l’effetto di mascheramento che l’ironia produce, quell’apparente alleggerimento della parola, rende, al contrario, più manifesta la sofferenza esistenziale e la malinconia che l’accompagna, il dramma che la suggella.
(Donatella Costantina Giancaspero)