Karel Šebek (1941-1995), 3 X Nulla, Cura e introduzione di Petr Král, Traduzione di Antonio Parente, Mimesis-Hebenon, Milano 2015, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio

                                  

 Giorgio Linguaglossa
Karel Teige, collage

Commento di Petr Král

 

Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.

 

Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková.

 

Giorgio Linguaglossa
petr kral

 

L’opera di Šebek fu influenzata da una serie di artisti surrealisti, da quelli – cechi o stranieri – che aveva conosciuto grazie alla sua opera di instancabile copista dei loro testi, a quelli che prese a frequentare di persona. Dai poeti che lo colpivano in modo particolare non esitava a prendere in prestito temporaneamente sia il tono sia l’intero stile figurativo, sviluppandolo, però, in  modo proprio e portandolo a nuove conclusioni e a scoperte di paesaggi sconosciuti. Nella sua poesia possiamo distinguere varie fasi; dopo i primi testi di inizio anni Sessanta, dove prevale soprattutto l’influenza di Zbyňek Havlíček e Vratislav Effenberger –  e dove il lirismo del primo si fonde con “l’immaginazione critica” dell’altro  –  nel 1963 rimane ammaliato dall’opera di Stanislav Dvorský (grazie alla lettura di Binari e poi anche dei testi che faranno parte di Gioco al recinto)sviluppandone gli impulsi in sistemi erratici personali, in monologhi “assurdi” e in statici microdrammi tra le quattro mura (Conversazione3 volte Jilemnice); verso la fine degli anni Sessanta riecheggiano nei testi di Šebek anche le poesie dell’estensore di questa nota, con il quale è in sistematica corrispondenza epistolare. Agli inizi degli anni Settanta, successivamente alla morte di Zbyňek Havlíček, nei testi di Šebek ricompare parzialmente il lirismo iniziale di Havlíček (soprattutto nel ciclo istigato dalla sua relazione con Hana K., conosciuta durante il suo soggiorno a Kosmonosy) e, contemporaneamente, aumenta anche il numero di immagini autodistruttive; per fortuna, però, l’umorismo rimane un tratto permanente di questi testi. Dopo diversi cicli di poesie scritti individualmente per vari amici, ai quali li invia come ripetute grida d’aiuto, scrive anche delle interpretazioni poetiche dei disegni di alcuni di essi, in particolare di Martin Stejskal (che Šebek stesso portò da Jilemnice introducendolo tra i surrealisti di Praga) e di Pavel Turnovský. Purtroppo crescono anche i suoi tentativi di suicidio e i soggiorni negli istituti, durante uno dei quali porta a termine, nel 1990 – prima di tale anno, a quanto pare, vi fu una lunga pausa nel suo lavoro, un silenzio durato vari anni – un testo esteso e, come lui stesso affermò, riscritto più volte, 3 x nulla, dove a suo modo fa i conti con Dio o con la propria “figura paterna”.

 

Il punto di vista delle poesie di Šebek muta nel corso degli anni, la fantastica obiettività delle immagini dei primi testi acquista successivamente un senso maggiormente psicologico, e alla fine i suoi scritti scadono in una confessione personale; František Dryje è l’unico critico ad evidenziare, a tal proposito, i limiti di un tale sviluppo, altri – come Jan Nejedlý – sottolineano invece in maniera abbastanza banale questa psicologizzazione. Ad ogni modo, le beffarde diagnosi del mondo nei testi di Šebek lasciano il campo ai resoconti sulle difficoltà che all’autore procura il vivere nel mondo; i testi vanno concentrandosi sempre più su poche permutazioni di motivi ossessivi,  mentre assistiamo ad una nuova ripresa lirica in quei testi scritti per la dottoressa Válková (o insieme a lei) che il poeta compone negli anni di poco precedenti la sua scomparsa. L’esperienza poetica delle prime composizioni e «corse», il cui sarcasmo e apertura al mondo per fortuna non scompaiono completamente nemmeno nelle confessioni successive, continuando così ad aprire anche alle scoperte poetiche impersonali e agli sguardi innovativi sulla realtà.

 

Giorgio Linguaglossafotofilm realizzato da Cristina Boldrin e Disan Danilov Дисан Данилов per il Ponte del Sale

 

Contrariamente alle affermazioni di alcuni commentatori, anche gli scritti creativi iniziali di Šebek possono essere considerati poesia, ma quei testi improvvisamente crescono in ampiezza ed entrano in una particolare tensione con la prosa, alla quale a tratti si avvicinano; nei testi più lunghi di Šebek, inoltre, i brani di prosa sono intervallati da versi, mentre alcuni sono scritti completamente in prosa. Nel percorso dal delirio surrealista all’ossessione  “involta su se stessa” alla maniera di Dvorský, Karel crea anche un particolare stile ostinatamente descrittivo, con il quale gioca con i più piccoli dettagli di scenari e scene della vita quotidiana (Il giorno di scuola muratoDiscussione) e al cui impatto coinvolgentemente mostruoso partecipa anche la costruzione della frase, anormalmente estesa (catene illimitate di complementi aggettivali e avverbiali) sommariamente dichiarata dai critici come mera goffaggine. Nei testi più tardi, all’oscillazione tra versi e prosa va aggiungendosi anche lo snodamento dei diversi significati oggettivi e simbolici delle espressioni usate, dove anche i più urgenti degli ultimi continuano a serbare la possibilità di un ritorno e la capacità di ritrasformarsi dalle immagini dell’ansietà di Šebek in un coltello o in una vespa veri e propri. Il verso del poeta, è vero, perde, con la sua tendenza alla confessione, l’estensione prosastica e si accorcia sensibilmente, ma anche in questo senso non chiude la via del ritorno: nelle interpretazioni delle opere di pittori suoi amici, nel testo dove alle visioni in libertà si alterna il loro commento autoriale “auto-critico” (Poche parole aggiuntive) o nella meditazione notturna 3 x nulla, il verso riacquista ampiezza e anche una struttura dettagliata, il monitoraggio dello sviluppo del pensiero poetico supera la sua sintesi figurativa.

 

I periodi più ispirati della sua opera sembrano essere gli anni 1962-1963, 1973-1974 e quelli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. La seguente selezione dei suoi scritti è tratta dagli archivi personali di Stanislav Dvorský, Jan Gabriel e mio personale. Le uniche correzioni che ho apportato riguardano evidenti refusi ed errori grammaticali.

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa in ascensore, Praga, hotel Bila Labut, 21 agosto 2018

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio – Una poesia composta interamente di «stracci»

 

«Come un pescatore che cattura se stesso con l’amo»

 

Nella poesia di Karel Šebek ci troviamo il «chiacchiericcio», una grandissima quantità di chiacchiericcio, discorsi strampalati, scombiccherati, casuali, variegati. Poesia magistrale nel suo sottrarsi a qualsiasi intentio comunicativa o comunicazionale, a qualsiasi intenzione suasoria, assertoria, assolutoria, consolatoria, ma anche rigorosamente severa nel suo ritrarsi dinanzi a qualsiasi reintroduzione del «senso» (parente del suasorio e del sensorio e quindi morfologicamente concetto conformistico). Karel Šebek è forse tra i poeti cechi che ho letto nelle traduzioni di Antonio Parente, l’autore più nichilistico il più drastico nel suo progetto di disimpegno nel disegno di una poesia priva di funzione poetica, di utilizzabilità. Una poesia infungibile e inutilizzabile che avrebbe mandato in visibilio Pasolini e avrebbe fatto infuriare Montale. Leggiamo qui:

 

«…in cortile crescono i surrealisti e fanno smorfie agli esistenzialisti mentre m metto in piedi davanti alla mia porta come se facessi la fila per la carne.

 

In realtà ho cominciato a trasformarmi in cane giù all’inizio del testo quando mi sono addormentato alla macchina da scrivere col metro in mano. Ma il mio abbaiare si sentirà solo tra un istante. Finora luccica al buio soltanto il collare, tempestato di mirtilli. le orme portano dalla porta al tavolo e poi continuano nelle singole pagine. Ce ne sono esattamente tante quante i residenti di questa casa. Per il momento non ci diamo fastidio l’un l’altro quando scriviamo anche se abbiamo tutti la stessa pelliccia.

 

(Le righe successive devono essere lette solo con gli occhi chiusi. Allo stesso modo sono anche state scritte. Chi non lo farà sia pronto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni:)».

 

Noi sappiamo che nella poesia italiana che si fa oggi, ad esempio quella  che corre in certa editoria maggioritaria, si utilizza un «chiacchiericcio», un descrittivismo tipico dei chierici, un descrittivismo senza costrutto, senza teleologia, senza metafisica, a vanvera, una fraseologia-pretesto, senza contesto, che è la contraffazione della «chiacchiera» eliotiana, quella sì, di nobile ascendenza!. In Eliot c’è sì la chiacchiera, ma dietro di essa c’è una metafisica, è questa la differenza tra i poeti di rango e i versificatori di oggidì. Nella poesia neorealista che si fa oggi in Italia non c’è davvero niente da scoprire, non c’è nessun accadimento, non c’è evento. L’aspetto grottesco del neorealismo fraseologico nostrano è che i letterati domenicali vogliono apparire intelligenti, e invece la poesia tira loro un tiro mancino, li sgambetta, gettandoli sul lastrico della banalità.

 

In Šebek, dicevo, c’è un progetto poetico agguerrito, micidiale, perseguito con grande severità: quello di voler sottrarsi a qualsiasi utilizzazione del suasorio e/o dell’anti suasorio. La sua poesia è esteticamente inaccettabile, e tale vuole essere; vuole essere qualcosa di infungibile. Un progetto poetico serissimo che non concede nulla a nessuno, che chiude tutti i rubinetti all’ermeneutica su ciò che è del poetico e dell’anti poetico, o dell’anipoetico, su ciò che è sensato e su ciò che non lo è. Qui siamo veramente dinanzi ad una scrittura ridotta allo zero della significazione in sibemolle, neutralizzata in quanto consapevole del proprio effimero non-progetto.

 

Ora, dicevo, questo non-progetto, questo grottesco-non-grottesco, che è un progetto perseguito con grande determinazione, portato alle sue estreme conseguenze, ha qualcosa di grandioso e di serissimo. Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio. Una poesia composta interamente di «stracci», come noi della nuova ontologia estetica stiamo  propugnando da tempo. Come scrive Petr Král, Šebek «con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre».

 

Giorgio Linguaglossa

Karel Šebek (1941?)

 

Poesie di Karel Šebek

 

Questa città è una purea pepata di tanto in tanto dai poliziotti 

   in libreria

la carta si rivolta

insieme allo stomaco

la carta è la coccinella dai sette punti lo stomaco perfettamente 

   vomitevole

da qualche parte sopra la ringhiera dell’alba

perché non voglio sottrarmi alla malattia mortale della notte

la sola a produrre i batteri fantastici della poesia

contagiosa come l’idea di se stessi in un film

visto attraverso lo spioncino nella camera da letto del lupo

è stato tanto tempo fa

sento ancora il colpo di martello

nel bel mezzo della mia nascita

quando al mio posto è giunta la peste e lo scorbuto

la peste è giunta come si è allontanata

sono la peste nelle arterie della salamandra

bombardata da tempo immemorabile da un sacco di bombi

sopra di me il boccale come la bandiera sul defunto

la cicoria della morte fiorisce lentamente

come si va sformando il tendone da circo sul mondo

e come forse una volta scomparirà per sempre il terribile spettro 

   dell’essere umano

il rumore infernale della macchina che mi fa la terza guerra 

   mondiale nella testa

alla quale romperei volentieri il muso che le manca così 

   dannatamente

come a me i trampoli alti centinaia di metri

in modo che conosca la delizia oltrenube della solitudine

in modo che possa finalmente liberarmi dalla catena maledetta 

   delle parole

e il mio amore non marcisca sul foglio

le frasi si intrecciano si annodano perciò invidio anche il gomitolo 

   di serpenti

sono veri compagni con i testicoli come se mandati dal cielo

ed è una frase la cui arguzia riempie la pancia fino a quando 

   non scoppia

nel pollaio del mio sistema nervoso

e una ragazza facile che mi rende difficile il cervello

mi canta sulla strada per l’incesto

fino al punto in cui arriva l’agognato lusso della guerra

 

                                      (1978)

 

Giorgio Linguaglossa

 

* * *

 

Lì dove sbocciano i fiori dei naufraghi

su una nave che è porto per se stessa

infido come una scure con la quale ho colpito il bagno 

   a mezzanotte

poiché conosco le lune e suoi pazienti

che contemplano la luna ad ogni luna

come fosse lo stipendio mensile

dopo questi roditori davvero non rimarrà più nulla

nemmeno il piatto in mano al cameriere

questo giocoliere con la sete e la fame

diverse da quello che ho in mente

è la somma delle bolle al naso

così come il latte è proprietà delle mucche

genero il testo come un idiota

nella cassa bucata della vita

come in un cappello in cui tuona

il fulmine tradisce la sorte

e io

omaggiato di ortica al posto del rasoio

osservo il feretro della città marciare in un unico luogo

lo sgambettio da zero all’infinito

i sorrisi impastati di fango

osservo l’essenza della realtà come di un cinghiale

e il manicomio è la mia seconda casa

non sono versi da recitare sul podio

ma chiodi per la vostra bara

nella bara c’è buio

e il buio è quello che mi è rimasto dall’infanzia

è malinconico e spezzerebbe anche il cuore di un orso

che un bel giorno ha demolito la classe scolastica e mi ha mangiato 

   la merenda

come mille diavoli appena rilasciati dal carcere

come un libro con migliaia di orecchie d’asino reale

che mi porta ad esplorare l’interno del mio occhio

finalmente vedo davvero dentro di me

vedo l’amo che lancia un messaggio di avviso alle carpe

l’infinita solitudine del pescatore la solitudine che possiede 

   quest’amo

e la nostra terra lebbrosa di idiozia

l’idiozia di cui sono formato

la scacchiera sparpagliata della verginità del comunismo

poiché è notte e la notte è solitudine bellezza e sangue

poiché è notte e io noto la notte

la notte sparviero

 

                            (1978)

* * *

 

I denti delle unghie nel cervello

di bambino con la tenerezza di leone

davanti alla gabbia come in gabbia

il bambino con la criniera di leone

quando la pioggia recita una poesia

sul vento che lo porta

dalla scuola costruita da scheletri di insegnanti

davvero dei crani nudi

la lama prende vita nelle mie mani

nell’isola di voce o in cima alla torre

appuntita e tagliente come la solitudine di una matita inutilizzata

e le sue labbra al di là di tutti i poeti e delle loro opere

mi trasformo in un cannibale baciando le labbra

e il compasso un tempo da qualche parte traccia la copia di 

   un’antica foresta

vado per funghi

e i funghi raccolti come la raccolta di opere del comunismo

richiedono tatto noto solo al carnefice

ultimo nel fiacchere della speranza

il carnefice muore nell’ultimo giustiziato

e lo stupendo volto del piatto

inghiotte la fame si rimpinza di fame

la torre della fame del pranzo

quando le rose cadono dal cielo

e il giardino si solleva nell’aria

e così ci incontriamo

anche se fosse col muso rotto

e la mia insonnia

adesca gli uccelli notturni

come i maccheroni di lombrichi

al centro della città c’è la città

nella casa la casa

il mio letto con tante porte e finestre

che non ho la risolutezza di andarmene

perché esiste una sola

isola nel mio occhio

dietro le sbarre delle palpebre

quando la mostruosità di cui sono composto dorme

e dall’abbandono sguscia la poesia come un uovo che cova 

   la gallina

 

                             (1978)   

 

* * *

 

Giorgio Linguaglossa
Vítězslav Nezval e Karel Teige in teatro

 

Quando l’ultima fiammella del sole morente si trasferirà nella mia 

   sigaretta

fumo come se si trattasse del padrenostro

ci sono diversi sport che possono essere praticati nell’armadio

un bel giorno sentirò il telefono nella foresta notturna

e constaterò che esiste l’amore

come esiste la lama o la margherita

la margherita come una lama

e le ombre della sera allungano ogni mestizia

quando non si riesce a rinchiudersi davanti alla vita

nella conigliera dove una volta vorrei proprio accomodarmi

quando sto finendo con la descrizione del cappello

il cappello

l’unica poesia che si può portare in testa

 

                        (1978)

 

A conclusione della poesia

 

Il testo inizia e finisce con una verticale sul letto in sogno

non ho mai voluto torturare le ore caricando la cremagliera

le assonnate recinzioni degli occhi si trascinano per le vie notturne

guardo me stesso dalla finestra nella stanza dove già mi staglio 

   stupidamente da anni interi

dove remigano le nuvole del letto e le nuvole del tavolo i nembi 

   della sedia

così mi ritrovo metà fuori metà dentro come se non sapessi dove 

   ficcarmi con la tempesta che si avvicina

ma è solo il lampo del tuo corpo quando ti spogli insieme alla notte

è solo il mio vecchio lanciamine della bocca per la cartapesta 

   della scatola di immagini da tempo infrante

allora quando per l’ossessione ti ho spogliata anche 

   della biancheria da letto

è la storia in realtà la storia delle posate del nostro amore

è la storia del nostro banchetto nuziale della nostra ostia nuziale 

   della nostra bestia nuziale

ma dal buco del soffitto già arriva il maestro di ogni ideologia

si tratta di un cruciverba senza soluzione di una soluzione senza 

   cruciverba come la vuotezza della piazza dei lebbrosi dove 

   nemmeno il cane rognoso mette piede

ma col dito non puoi fare un buco nel muro

anche se so bene che per un buco nella vita basta il portafoglio 

   della bocca spalancata

un buco nella vita la falla del pensiero e una puttana al posto 

   del cuore

non sono mai uscito dalla porta fuori di me

 

                                        (1981)

 

I rumori del silenzio

 

Infilare le porte chiuse cento volte

è un cadere nell’ignoto della miseria della ricchezza

gli occhi portano altrove che i cammini

ma ogni cammino viene assegnato dagli occhi

e i ricordi sono solo un boomerang

getto la macchina da scrivere nella rete con i ragni

per liberare la mosca in segno della mia vita

e con lei questo intero mondo imputridito

l’orologio non mostra le ore ma il luogo e il tempo per l’amore

e l’ultimo a chiudere gli occhi

vedrà una donna bella come un bastone da passeggio

perdonami i versi precedenti

la risata dell’abisso della nudità del cuore le frecce di rabbia

non riesco a centrarti nemmeno la millesima volta

in alto sulla torre dove gli uccelli non arrivano

la povertà è un filo spinato

sfido questo inverno a duello

in modo che sia di nuovo la palla di un bambino nel parco e 

   le donne come fontane

fino a quando l’essere umano non alzerà l’ultima mano su una

   delle ultime persone

l’opposto del paradiso l’opposto della beatitudine il fuoco di morte

hai giocato troppo a lungo seduto di fronte c’è un fiore

che non si svolge come questo romanzo

che non finisco di scrivere perché amo la notte

e oltre l’ultima palizzata

il treno trasporta lontano le mie idee le valigie il carbone 

   e le persone

 

                                       (1982)

 

La sigaretta del testo

 

Cala il cappuccio della sera

posseduta dalla poesia di questa casa nefanda

in cui vivo per la morte

cala la notte sul cappuccio del prato

cala la sera e il mondo nella notte

in cui soggiornare in una signora è luce inestinguibile

quando la luna cala nella cuccia del cane

sarà di nuovo la stessa

notte sulla sedia sotto la supervisione di stelle in uniforme

con l’ondina che si sveste sul foglio

si tratta di uno striptease e non di poesia

lo striptease nello stagno della macchina da scrivere

guarda le labbra hanno occhi

e le orecchie parlano

mentre vi ripongo le parole

come un revolver per dormire se avessi un revolver

sarebbe un’altra poesia

un altro esplosivo di testo

e l’unico spiraglio che resta in questa impermeabilità

vi si vede la signora del bosco e le bambinaie dei campi

vi si vede la vaccheria dello stato

circondato dal filo spinato quando la respirazione è un privilegio

si vede l’occhio del fucile

puntato sul mio occhio

le automobili fino alla perdita d’occhio dell’idiota

e le persone competono tra di loro col lanciamine delle loro mani

i moschetti nascosti nei calzini

come argomento della giornata odierna e di questo testo

le mani posano i martelli delle mani sulle mani

con la mano sul vostro posteriore dove avvampa il vostro cuore

la mano come poesia come un tatuaggio sulle mani

scrivo

coperto dalle cicatrici del ghigno delle metafore

perché dietro le quinte c’è sempre il diavolo

in modo che la poesia sia perfetta

maledetta dal cielo

nell’ultima riga come nell’ultimo fossato

 

                                (1982, 1983)

 

* * *

 

La macchina da scrivere al ritmo del treno

rimanda la mia stanchezza e immobilità

sotto il cappello è la notte

il profondo lago della notte

quando mi ritrovo vittima del comandante dei pompieri

verso di me vola il tomahawk della mosca

Mirek Drozd legge tra sé il suo Proust

leggo negli occhi del diavolo i miei versi

verso significa la confusione della mezzanotte

verso significa una caduta dalle rocce

sul fondo del cucchiaino di miele

nelle grotte di lampioni

sulla via della cascata

una signora volante

siede alla testa di un signore volante

che vola su una bici volante verso l’inferno

ed è il momento in cui non ti vedo

mentre siedi pensierosa con le palpebre cucite da Lautréamont

mi disegno un bastone in mano

mi disegno una camicia sul petto nudo

i miei passi disegnano il cammino

lungo il quale incedo tra i detenuti della libertà

sulla via del caso e della giornata odierna

 

                            (1983)

 

* * *

 

                       ad Hanka Jüptnerová

 

Ho chiesto alla macchina da scrivere se sa ridere

e il bambino nascosto in lei

mi ha risposto qualcosa sull’inviolabilità della città e della poesia

della città che non è poesia e della poesia che non è una città

un giorno vivremo tutti lì

sotto lo stesso tetto sotto il sole delle parole

il gelo tatua il paesaggio

e vento e neve giocano a pallavolo

se solo avessi almeno un cappello

non solo per salutare

le mie quattro mani stanno per bruciare quello che ho scritto in due 

   giorni

e tra poco sto per andare dalla signora Hanka come se fosse una

   liberazione

il gioco a scacchi delle figure per strada non mi interessa

ho perso tutte le uscite dal mio labirinto

e non è solo il gelo a portare freddo

anche la mano della parete di fronte a me

che si allunga verso di me quando dormo

da quando credo che tutto quello che scrivo è stilizzazione 

   quand’anche negativa

oramai scrivo solo quando non posso stare senza parole

cosa mai ho fatto per meritarmi il ventesimo secolo

cosa mai ho fatto per meritarmi questa città

cosa mai ho fatto per meritarmi la poesia

e se così non fosse indosserei una maschera rossa e deruberei 

   non solo immagini e parole

rubare a voi bella signora un po’ di felicità

tutti i giorni stirato e lavato e riscaldato vicino alla vostra cassa 

   di risparmio

i migliori sono già morti non più in vita

le loro tombe che non visito

nemmeno Zbyňek per lasciarlo in pace mi costerebbe un sacco

Vrchlabí non è città per il poeta

la fetida iena della città

ridacchia di me sono alla sua mercé

mentre mio padre nella stanza accanto

cucina il pranzo il giorno ride e nessuno sa della mia poesia

perché continueremo a scrivere nel cassetto e anche altrimenti 

   e nulla cambierà

ma per rassegnarmi non ho l’armatura metallica

                                     

(1984)