L'acmeismo, Osip Mandel'štam, Gorodeckij, Gumilëv, Achmatova, la prima avanguardia postuma di Giorgio Linguaglossa

 

È utile, terminato il Novecento, concentrare l'attenzione sulle cause della dissoluzione del simbolismo in Russia, là dove l'eredità del simbolismo era stata più pesante e profonda, assunse toni e dimensioni più vistose che altrove. Basti pensare alla cospicua schiera dei simbolisti che vantava, tra i suoi adepti, valori assoluti come A. Blok, Bal’mont, Merezkovskij, Annenskij, Viaceslav Ivanov, A. Belyj, Brjusov ed altri minori.

Il moto di reazione dei nuovi poeti aderenti a quella scuola, che fu definita acmeismo o adamismo, assunse i connotati di una controffensiva su tutta la linea: vennero smantellati i presupposti teorici della poetica del simbolismo e si profilarono nitidamente, con tutta evidenza, i nuovi lineamenti di poetica, spesso assai confusi e contraddittori nelle dichiarazioni dei singoli poeti, ma tutti decisamente estranei (nelle atmosfere, nei toni e negli assunti teorici) alla sensiblerie della precedente generazione. Il ricambio generazionale portò con sé il ricambio organico della concezione del mondo e del fare poesia. Al centro del simbolismo v'era la convinzione di uno sdoppiamento del mondo tra il regno ctonio, notturno, dionisiaco e quello diurno e apollineo: l’allusione e il simbolo costituivano gli strumenti con i quali il poeta simbolista tentava la conciliazione, per suggestione magica, che in poesia si traduceva in suggestione eufonica, in allusione semantica e simbolica. Il mondo delle «corrispondenze» era il vero mondo. L'essenza sensibile si volatilizzava nell'essenza soprasensibile. Vjaceslav Ivanov fu il precursore degli acmeisti, il primo poeta che prese coscienza di questo svuotamento del sensibile nell'essenza, di questo affievolimento del regno dei fenomeni in quello del noumeno. Rimarrà celebre la sua formula della poetica del simbolismo: «a realibus ad realiora».

 

Nel 1910 Vjaceslav Ivanov tiene una conferenza che fu seguita da un numeroso pubblico; tra i presenti c’è anche Blok, che annota sul suo taccuino: «Sta iniziando un periodo di crisi e di Giudizio Universale. O la parola diventerà bella e senz'anima (...) o diventerà viva e pratica. Il quesito fondamentale è se il simbolismo come scuola poetica esiste ancora oppure no. Il punto di vista di Vjaceslav Ivanov è che può e deve esistere sotto forma di un nuovo simbolismo sintetico». La disgregazione del simbolismo è ormai manifesta.

I giovani poeti si riunirono a casa di Sergej Gorodeckij il 20 ottobre 1911, nasceva così la Gilda. La riappropriazione del termine usato nel Medioevo dalle associazioni degli artigiani, doveva intenzionalmente mettere in risalto l'aspetto artigianale della tecnica artistica. Gorodeckij e Gumilëv furono eletti capi, con l'antico titolo di «sindaci» e l'Achmatova segretaria. Erano presenti Georgij Adamovic, Vasilij Gippius, Michail Zenkevic, Georgij Ivanov, Vasilij Komarovskij, Elizaveta Kuz'mina-Karavaeva, Michail Lozinskij, Osip Mandel'štam, Vladimir Narbut e pochi altri. Una riunione goliardica si rivelò essere qualcosa di estremamente serio e foriero di straordinari sviluppi. Anna Achmatova più tardi scriverà: «Il simbolismo era indubbiamente un fenomeno del XIX secolo. La nostra rivolta contro il simbolismo era assolutamente legittima, perché noi ci sentivamo uomini del XX secolo e non volevamo restare nel passato». Ejchenbaum si dichiara subito scettico, e scrive: «Risulta evidente che è sbagliato considerare l'acmeismo come l'inizio di una nuova corrente poetica, come una scuola che avrebbe superato il simbolismo. Gli acmeisti non solo un gruppo militante: essi ritengono che la loro missione fondamentale sia riconquistare l'equilibrio, smussare le contraddizioni, apportare delle correzioni. L'idea stessa di equilibrio, di solidità, di maturità, che sta alla base del termine "acmeismo" è caratteristica non degli iniziatori di un movimento ma di coloro che lo concludono». Secondo Ejchenbaum gli acmeisti avevano concluso il modernismo, mentre il merito «di aver superato il simbolismo appartiene ai futuristi». Anche Sklovskij è dello stesso parere: «La poetica dei simbolisti... ha sempre tentato di trasformarsi da poetica in corso di iniziazione alla misteriosofia. Gli acmeisti non hanno creato una loro poetica».

 

Ma un altro critico di scuola formalista, Zirmunskij, intitola un suo celebre articolo del 1916 «Coloro che hanno superato il simbolismo». L'articolo coglie nel segno. La poetica dell'acmeismo che si poneva l'ambizioso traguardo del superamento del simbolismo a partire da una posizione di apparente retroguardia, era più consapevole e matura di quella dei futuristi. Nel nuovo scacchiere delle politiche culturali, veramente rivoluzionaria risulta essere la poetica del raccordo con le eredità culturali del XIX secolo. Sul primo numero di «Apollon» (1913), apparvero due manifesti. Il primo, di Gorodeckij proclamava: «La lotta tra l'acmeismo e il simbolismo, se è una lotta e non l'occupazione di una fortezza abbandonata è prima di tutto la lotta per questo mondo, pieno di suoni, di colori, dotato di forme, peso e tempo, è la lotta per il nostro pianeta Terra. Il simbolismo, dopo aver riempito il mondo di 'corrispondenze', ha finito per trasformarlo in un fantasma, importante solo in quanto lascia intravvedere e trasparire altri mondi, e ha sminuito il suo grande valore intrinseco». Se i simbolisti cercavano nell'arte approssimazioni infinite, gli acmeisti ambivano alla precisione e all'equilibrio; se i primi ambivano alla fluidità della parola fino ad attingere l'ineffabile, gli acmeisti cercavano la solidità («l'arte è solidità») e la chiarezza. Gorodeckij finiva in crescendo: «se i simbolisti (...) cercano in ogni istante uno squarcio nell'eternità (...) gli acmeisti (...) colgono nell'arte istanti che possono essere eterni».

Gumilëv, nel secondo manifesto, si richiamava ai principi di «una saggia fisiologicità e di una aperta accettazione della vita», additando quali modelli Shakespeare, Rabelais, Villon e Théophile Gautier. Il simbolismo, scriveva Gumilëv: «ha terminato il proprio ciclo di sviluppo ed è in declino», è incapace di percepire «il valore intrinseco di ogni fenomeno», è «impudico», «freddo e astratto». La nuova scuola poetica, invece, si ricollegava agli scrittori francesi e al principio di «concretezza». «Per noi - scriveva Gumilëv - nel mondo dei fenomeni, l'unico principio gerarchico è il peso specifico di ciascuno di essi, e inoltre il peso del più insignificante dei fenomeni è comunque incomparabilmente più grande del'assenza di peso, del non essere, e perciò di fronte al non essere tutti i fenomeni sono fratelli». Al di là delle differenze di accento e di impostazione, così come delle predisposizioni artistiche dei due poeti, al di là dell'adamismo di Gorodeckij e dell'esotismo di Gumilëv, la nuova poetica veniva saldamente piantata sui concetti base della concretezza e della specifica storicità di tutti gli essenti in contrapposizione alla metafisica astoricità del simbolismo.

 

Gli acmeisti ripiantavano il mondo sulle salde basi della sua fisiologia; ritornavano al senso, al peso specifico delle cose, alla loro salda configurazione tridimensionale. In proposito Mandel'štam ripeteva spesso una frase perspicua: «Se questa vita non ha senso, non ha senso parlare della vita». Gli acmeisti lavoravano per un nuovo lettore di là da venire,sapevano di essere «postumi» in quanto giunti al termine di una lunga tradizione, avevano più chiaramente di altri movimenti di avanguardia il presentimento che il nuovo secolo si sarebbe allontanato dall'arte, che la pazzesca accelerazione del tempo storico li avrebbe relegati al silenzio di un'arte precocemente invecchiata. Ma non sbagliavano i calcoli: la loro arte sarebbe sopravvissuta al tramonto del loro tempo, sarebbe durata più di tutte le utopie e di tutti gli avanguardismi alla moda.

V'è una poesia di Gumilëv che rende manifesta la distanza che separava l'acmeismo dal simbolismo; le «parole morte» dei simbolisti sono paragonate ad un «alveare spopolato», di contro a «i modesti confini dell'essenza» della nuova poesia tutta piantata su una concretezza «terrestre»:

 

Ma noi dimenticammo che è illuminata

soltanto la parola tra le ansie terrestri

e nel Vangelo di Giovanni

è detto che la parola è Dio.

Noi le ponemmo come limite

i modesti confini dell'essenza

e come api nell'alveare spopolato

puzzano le parole morte.

 

Il problema dell'interlocutore 

 

Il naturale svolgimento teorico dei primi due manifesti fu l'articolo di Mandel'štam Sull'interlocutore, apparso su «Apollon» un mese dopo la pubblicazione dei manifesti. Mandel'štam, con esemplare abilità tattica, spostava su un altro asse la critica al simbolismo: 

 

«Di solito una persona, quando ha qualcosa da dire, va dagli altri, cerca degli interlocutori; tutto al contrario, il poeta corre 'sulla riva delle onde deserte, nei rumorodi boschi'. E' evidente la non normalità... Il sospetto di pazzia cade sul poeta. Ed ha ragione la gente quando marchia come folle colui i cui discorsi sono rivolti ad oggetti folli, alla natura e non ai fratelli viventi (...) Allora con chi parla il poeta? La questione è scabrosa e molto attuale, poiché fino ad oggi i simbolisti eludono la sua pungente impostazione - e qui Mandel'štam infligge la stoccata decisiva - il simbolismo, mettendo del tutto da parte la correlazione per così dire giuridica da cui è accompagnata l'azione del dire... ha rivolto la sua attenzione esclusivamente all'acustica. Getta il suono nell'architettura dell'anima e, con il narcisismo che gli è proprio, segue le sue peregrinazioni sotto le leggi dell'altrui psiche. Esso prende in considerazione l'aderenza sonora, che deriva da una buona acustica e chiama questo calcolo, magia». L'esempio negativo è Bal’mont, del quale viene citato un verso significativo: «disconosco la saggezza utile agli altri». Mandel'štam stigmatizza nei simbolisti l'assenza, anzi il rifiuto dell'interlocutore, o, come oggi si direbbe, la dotazione autoreferenziale della poesia; la scarsa stima e lo scarso apprezzamento tributato al lettore, considerato un «intruso» nella turris eburnea del testo poetico. Con questa polemica Mandel'štam ingaggia una critica distruttiva contro lo schieramento di destra (i simbolisti) e di sinistra (i futuristi), colpevoli di aver sottovalutato «l'ascoltatore concreto, il vivo rappresentante dell'epoca». La grande poesia (è questo il concetto portante di Mandel'štam) costruisce lentamente il proprio lettore ideale, non lo trova mai bell'e pronto. La tarda poesia simbolista e futurista, come ogni genere di epigonismo, aveva come interlocutori privilegiati il pubblico dell'epoca. Per Mandel'štam, la «poesia da camera» e la «poesia dell'agorà» si equivalevano, erano l'una il corrispettivo speculare dell'altra, erano legate da un comune rapporto sinallagmatico. Per l'acmeista «il poeta è legato soltanto ad un interlocutore provvidenziale»; il poeta acmeista sa di aver smarrito per sempre il legame saldo e duraturo che lo univa al pubblico, intuisce di essere parte di quel gigantesco, epocale moto di deriva che conferisce all'arte un ruolo di supplenza, di marginalità; avverte con chiaroveggenza che il punto della crisi è esterno all'arte. Ma il punto è anche interno all'arte, si riflette nella forma-poesia. Mandel'štam ha chiaroveggenza assoluta, forse per primo in Europa, delle minacce che incombono sulla poesia: per un verso la poesia elitaria (il simbolismo), e per l'altro, la poesia "impegnata" (il futurismo), sono entrambe proiezioni di un modo errato di impostare il problema. "L'aspetto ripugnante di una mano, tesa per l'elemosina, e di un orecchio, teso all'ascolto, può accattivare l'ispirazione di qualsiasi poeta, di un oratore, di un tribuno, di un letterato ma non di un poeta.. Le persone concrete, 'filistei della poesia', che compongono la plebe, permettono di 'dar loro coraggiosi compiti' e sono completamente pronte ad ascoltare ciò che vogliono, purché sul pacco del poeta sia indicato un indirizzo preciso: a questa plebe». (Sull'interlocutore).

 

È la drastica liquidazione di ogni impostazione elitaria o ideologica del problema poesia-pubblico che attraverserà tutto il Novecento fino ai giorni nostri. «Non c'è lirica senza dialogo», scrive Mandel'štam nel medesimo articolo, ma, avverte il poeta russo: 

 

«Se io conosco la persona con la quale parlo, so in anticipo come reagirà a ciò che dirò». Il problema va posto esattamente alla rovescia: «Sì, quando parlo con qualcuno, io non conosco la persona con la quale parlo e non desidero, non posso desiderare di conoscerla (...) il gusto della comunicazione è inversamente proporzionale alla nostra reale conoscenza dell'interlocutore e direttamente proporzionale al desiderio di destare il suo interesse nei nostri confronti. - E qui c'è l'ultima stoccata contro il simbolismo - Non bisogna darsi pensiero dell'acustica: verrà da sola (...) È noioso bisbigliare col vicino. È infinitamente fastidioso scandagliare la propria anima (Nadson). Ma scambiare segnali con Marte - naturalmente senza fantasticare - è compito degno di un poeta lirico». La chiusa dell'articolo è la chiave di volta di tutta l'impostazione teorica: «La poesia, nel suo insieme, si rivolge sempre ad un interlocutore più o meno lontano, sconosciuto, di cui il poeta non può mettere in dubbio l'esistenza senza con ciò dubitare di se stesso».

 

Efim Etkind nel suo saggio sull'acmeismo russo annota: «Una concezione tanto seria, addirittura solenne, delle relazioni tra il poeta e il lettore rientra nel sistema della poetica acmeista, e lo si può verificare analizzando il riferimento ad un destinatario nelle poesie dello stesso Osip Mandel'štam e dei poeti che condividevano le sue idee».3

 

Nel 1919 viene pubblicato il terzo manifesto dell'acmeismo di Osip Mandel'štam, intitolato Il mattino dell'acmeismo, che tenta di raccogliere le file delle posizioni che si erano profilate e di cementarle in uno zoccolo unitario. Ne riassumo i punti fondamentali:

a) in primo luogo il problema della parola poetica, che si contraddistingue per una straordinaria «densità» e non mero segno, rappresentante di qualcos'altro estraneo, il denotatum; un complesso di molti elementi che non costituisce un «valore» in sé ma che ha senso soltanto nella «architettura» verbale come materiale da costruzione. b) Il poeta è l'architetto che costruisce un edificio di parole. c) Come nella cattedrale gotica una pietra, pur conservando la sua specificità, non ha valore se non nell'insieme della totalità architettonica. La parola è la pietra della costruzione architettonica, che entra «in gioiosa interazione con i propri simili». d) Si costruisce soltanto nel mondo tridimensionale, il quale costituisce «la condizione di qualsiasi architettura». Non è possibile creare un'opera poetica se non nel mondo reale, secondo le regole del tempo e dello spazio. «Costruire significa lottare contro il vuoto... Non c'è uguaglianza, non c'è rivalità, c'è una partecipazione di tutti gli enti alla congiura contro il vuoto e il non essere». L'acmeismo ritorna al concetto di «fisiologia». e) La formula «a realibus ad realiora» deve essere sostituita con l'equazione A=A; tutti i fenomeni fisici sono equiparabili nella loro comune opposizione al non essere.

 

La chiave di volta di tutto il dispiegamento teorico del manifesto la si trova nella conclusione. La categoria estetica centrale si trova ubicata nell'extraestetico, nell'esistenza: «Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e il vostro esere più di voi stessi: ecco il più grande precetto dell'acmeismo». Questa che è l'intuizione più geniale del manifesto, rappresenta, a mio avviso, anche il momento di massima consapevolezza cui è giunto un poeta europeo negli anni '20 in ordine al problema della crisi della poesia: la verità della poesia si trova fuori della poesia stessa; la sua verità riposa nell'atteggiamento che un poeta deve avere verso il mondo. La verità della poesia è nello sguardo che essa rivolge al mondo, non inteso come morta costellazione di enti che non possono parlare all'intelletto, né come molteplicità di noumeni inafferrabili e incomprensibili. La poesia è dentro l'esistenza o non è affatto. Trattasi di un precetto intellettuale, di un precetto interamente mondano. Mandel'štam costruisce un umanesimo integrale interamente mondano. Nulla è la poesia se non diventa interamente mondana.

 

«L'acmeismo - scrive Mandel'štam nel saggio Sulla natura della parola - è un fenomeno non solo letterario ma anche sociale nella storia russa. Con esso nella storia russa si è rigenerata la forza morale. “Voglio che dovunque navighi una libera barca; e Dio e il diavolo allo stesso modo celebrerò io” - diceva Blok. Questo misero nullaonorare non si ripeterà più nella poesia russa. Il pathos sociale della poesia russa si è finora sollevato soltanto fino al “cittadino” ma c'è un punto di partenza più alto del “cittadino” - la comprensione dell'”uomo”. La polemica con Blok cessa di essere una mera confutazione della poetica del simbolismo per assumere la ben più vasta dimensione di una confutazione della visione del mondo del simbolismo. Mandel'štam ha una lucida visione strategica dello scontro intellettuale in atto; egli non si limita a polemizzare con gli avversari simbolisti (in primo luogo, con Blok, il più intelligente e dotato) come faceva Gumilev. «I simbolisti - diceva quest'ultimo - sono semplicemente degli affaristi. Prendono un peso, ci scrivono sopra dieci pud, ma ne hanno svuotato tutto l'interno; agitano il peso in tutti i modi, ma è vuoto».4

 

E Blok replicava con sarcasmo: «Ma questo è ciò che fanno tutti gli epigoni e gli imitatori, in qualsiasi movimento. Il simbolismo qui non c'entra. E poi, quello che voi dite, per me non è russo. Si può dire benissimo in francese. Voi avete un che di troppo letterario... Siete francese?».

Mandel'štam punta l'arma della critica contro il concetto centrale del simbolismo, il concetto di «corrispondenze», sottoponendolo ad una critica distruttiva. Egli parte dalla nozione della parola come «forma chiusa»: 

 

«La parola è già forma chiusa; non la si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana, così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L'uomo ama il divieto e persino il selvaggio pone una interdizione magica, un 'tabù' negli oggetti noti. Ma, d'altra parte, la forma chiusa, sottratta all'uso, è ostile all'uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri. - Poi passa alla critica del concetto di "corrispondenze" - Prendiamo ad esempio la rosa e il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolismo nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista un laboratorio di impagliatura. Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di corrispondenze che si ammiccano l'un l'altra. Un eterno strizzarsi d'occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso (...) I simbolisti russi... chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso liturgico. Ne derivò qualcosa di assai scomodo: né andare avanti, né alzarsi, né sedersi. Non si può pranzare a tavola, perché questo semplicemente non è un tavolo... L'uomo non è più padrone in casa sua. Deve vivere ora in una chiesa, ora in un sacro boschetto di Druidi... Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire... Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi».4 

 

E qui Mandel'štam, dopo queste impennate metaforiche, affonda la stoccata decisiva del suo ragionamento, passa al problema del significato, del segno e del simbolo. La poesia dovrà seguire il suono o andare a rimorchio del significato? Il poeta russo opta decisamente per la seconda soluzione: 

«ma come fare con l'adesione della parola al suo significato? Ma la parola non è una cosa. Il suo significato non è affatto una traduzione di se stessa. Infatti, non è mai accaduto che qualcuno abbia battezzato un oggetto e l'abbia chiamato con un nome inventato. La cosa più conveniente... è guardare alla parola come ad una immagine, cioè una rappresentazione verbale. In tal modo si elimina la questione della forma e del contenuto, se mai la fonetica è la forma, tutto il resto è contenuto... La rappresentazione verbale è un complesso sistema di avvenimenti, un legame, un sistema».4 

 

Il poeta russo va dritto al nocciolo del problema: la parola è una «rappresentazione verbale», ovvero, una rete di stratificazioni storiche, di «avvenimenti» e, quindi, un precipitato storico di tutto ciò che la storia ha depositato sulla parola. In una poesia della giovinezza, Mandel'štam parla di «polvere dei secoli». Non v'è dubbio che in questa concezione, tutta terrestre e mondana della parola e della civiltà, si riveli la profonda avversione di Mandel'štam per la teosofia del simbolismo per via della predilezione di quest'ultimo per il gioco dei suoni edificanti, per la misteriosofia dei fonemi. La critica distruttiva di Mandel'štam colpisce, a ritroso, tutto lo sperimentalismo europeo, che nasce, per metastasi, da un ramo secco del simbolismo. Mandel'štam intuisce, con grande anticipo sui suoi contemporanei, che la dissoluzione del simbolismo non può che condurre ad un simbolismo fonematico, ad una segnaletica fonetica mediante smottamenti di suoni e di fonemi che condurrà alla produzione di una reflessologia semantica, di un nuovo «laboratorio di impagliatura» (dizione di Mandel'štam), parente strettto di quel «simbolismo professionale» tanto appassionatamente criticato.

È questo il grande risultato teorico conseguito dall'acmeismo; da solo sarebbe già sufficiente a farne la scuola poetica centrale del Novecento russo. Tuttavia, quella grande palestra di gusti e di idee fu aspramente criticata dalle opposte fazioni che si contendevano l'egemonia culturale sulla poesia russa. Durante l'epoca del comunismo staliniano l'acmeismo è stato passato sotto silenzio e soltanto da pochi anni, anche sulle orme di Brodskij, la critica russa ha riconosciuto in Mandel'štam la statura del più grande poeta russo del Novecento.

 

Il superamento del simbolismo

 

L'importanza storica dell'acmeismo, al di là dei pur grandissimi risultati estetici conseguiti, sta nell'aver gettato le fondamenta di una poetica non normativa ma fisiologica, materiata di essere in contrapposizine al non essere. L'intuizione di fondo risiede nella straordinaria chiarezza con la quale Mandel'štam condanna ogni posizione di poetica normativa. Egli vede con chiarezza la contraddizione che cela in sé l'avanguardia futurista, ultima incarnazione del simbolismo: la sua normatività sarebbe, in qualche misura, il riflesso dell’«architettura sociale» complessiva. Il pensiero che la nuova «architettura sociale» (leggi il comunismo) potesse soffocare la cultura, lo atterriva. Nella poesia «Il secolo», affida al poeta il compito di unire «le colonne vertebrali di due secoli». Era vivo in Mandel'štam il sospetto che «il torpore di due o tre generazioni avrebbe potuto condurre la Russia alla morte storica. Lo scisma della lingua è... equivalente allo scisma dalla storia.». Quando Mandel'štam parla dell'antico Egitto o dell'Assiria come «esempio di architettura sociale ostile all’uomo», è ovvio che alluda al presente. Queste epoche «affermano che l'uomo non le interessa, che ci si deve servire DI LUI per costruire e non costruire PER LUI... I prigionieri assiri brulicano come pulcini ai piedi del gigantesco imperatore; i guerrieri, che personificano il potere statale ostile all'uomo, uccidono con le loro lunghe lance i pigmei incatenati; e gli egiziani e i costruttori egiziani trattano la massa umana come un materiale che deve bastare all'epoca e che deve essere fornito nella misura necessaria, qualunque essa sia». (L'umanesimo e il nostro tempo). Il poeta russo parla della «non-architettura del pensiero scientifico europeo del XIX secolo»; della falsa architettura dell'organizzazione del partito bolscevico: «Il partito è la Chiesa alla rovescia».

Negli acmeisti è vivissima la percezione di essere giunti alla fine di un lunghissimo XIX secolo e di essere un anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo; di essere arrivati troppo tardi per celebrare il passato e troppo presto per magnificare il nuovo. Nell'atteggiamento e nella poesia di Gumilëv, risalta evidente una completa estraneità tra il suo essere-nel-mondo e la tradizione russa (la cosa mandava su tutte le furie Blok, il quale lo accusò di essere un nemico della cultura e della tradizione russa); in Mandel'štam - il più lucido tra gli acmeisti - era invece chiara la percezione di essere  giunti troppo tardi, postumi già alla data natale dell'acmeismo: 

 

«Il secolo è finito, la cultura si è assopita, il popolo si è rinnovato, dopo aver dato le sue forze migliori alla nuova classe sociale, e tutto questo flusso si trascinerà dietro la fragile barca della parola umana nel mare aperto del futuro... Come è possibile equipaggiare questa barca per il lungo cammino, senza provvederla di tutto il necessario per il così estraneo e caro lettore? (...) La pura biologia non serve alla costruzione di una poetica (...) Al posto del romantico, dell'idealista, del sognatore aristocratico sul puro simbolo, sull'estetica astratta della parola, al posto del simbolismo, del futurismo e dell'imagismo, è arrivata la nuova poesia della parola-oggetto ed il suo creatore non è l'idealista-sognatore Mozart ma l'austero artigiano-maestro Salieri, che porge la mano al maestro delle cose e dei valori materiali, costruttore e creatore del mondo materiale».5 

 

 «L'acmeismo è nato da un rifiuto: “via dal simbolismo, salve rosa vivente!” - tale era lo slogan iniziale». L'ottimistico grido di rivolta degli acmeisti celava in sé la preoccupazione che nel nuovo secolo il «mare aperto del futuro... si trascinerà dietro la fragile barca della parola umana». Albeggia nitidamente il presentimento che il nuovo mondo sarà ostile all'arte e alla fragile parola umana. In una certa misura, e con l’occhio del poi, l’acmeismo è la prima avanguardia postuma del Novecento, quella che ha meditato e scontato, sulla pelle dei suoi protagonisti, tutta la durezza della propria condizione postuma: la fucilazione di Gumilëv, la deportazione nei lager di Mandel'štam e di Narbut, la persecuzione dell'Achmatova, l'esecrazione degli emigrati G. Ivanov, I. Odoevceva e G. Adamovic. Quel «mondo pieno di suoni e di colori, che ha forme peso e tempo», si rivelò davvero un mondo ostile e tetro. Ma l’acmeismo ha seminato ed i germogli sono nati, sono entrati nel grande circolo della cultura europea e mondiale.

 

3 E. Etkind in Storia della letteratura russa I p. 565, Einaudi, 1989 

4 Osip. Mandelstam «Sulla natura della parola» in "Poiesis" n. 3, 1994

5 Osip Mandel'štam «Sulla natura della parola» in "Poiesis" n. 3, 1994