15 e 16 novembre 2018, Dialogo a distanza – Poesie di Giuseppe Gallo e Gino Rago con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole… Abitiamo tutti una «frontiera», anche linguistica


Giorgio Linguaglossa
la «poetica degli stracci»… ormai per fare poesia ci dobbiamo rivolgere al
rigattiere, al robivecchi, alle discariche abusive…

 

Giorgio Linguaglossa

 

cari amici,

 

Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate. Questo principio lo vorrei scolpito nel marmo.

Chiedo aiuto a Gino Rago per avere un suo pensiero circa la sua «poetica degli stracci»… ormai per fare poesia ci dobbiamo rivolgere al rigattiere, al robivecchi e, possibilmente, alle discariche abusive che spuntano come funghi dal territorio disastrato di questo paese. Penso che dobbiamo falcidiare tutti i cippi, funerari o meno, tutti i podi, tutte le stele e le colonne di marmo, la poesia la dobbiamo fare con gli stracci sporchi, togliere tutte le superfetazioni, tutte le lucidature, tutti i detersivi… «ciò che rimane lo fondano i poeti» diceva Hölderlin, appunto, prendiamolo in parola: ciò che rimane dalle discariche delle parole è poesia…

La poesia la trovi nelle discariche delle parole, nelle parole abbandonate perché non più utili, che non servono più a niente… tutto il resto, quello che si legge oggidì, sono superfetazioni letterarie… la Musa la trovi tra il rancido delle discariche piuttosto che nei salotti del dolore manifesto…
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole appiccati dai piromani e dagli imbroglioni di parole, dagli imbonitori di parole…

 

Ad esempio, ecco una poesia fatta con gli «stracci»:

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Gino Rago

 

Prima Lettera a Ewa Lipska

 

[Il liquido reagente]

 

Cara Signora Ewa Lipska,
( p.c. caro Signor Giorgio Linguaglossa )

 

[non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.

 

La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
Non più di cinque persone al suo funerale,

 

senza pianti né fiori.]

 

[…]
[La mia amica di Vienna mi ha consolato.
Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert,

 

ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori.
Nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.

 

La Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
Scrive poesie come impronte digitali e sintetiche

 

come fuochi d’artificio.

Con poche amiche passeggia intorno al lago artificiale.

 

Parla della vita, del caso, del destino]

 

Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi,
ululano alla poesia come i lupi alla luna.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

 

Lei dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente?

 

E il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità

 

del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno

 

e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe

 

che si toccano sotto il tavolo.
Lei sa meglio d’altri

 

che il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
nello stesso istante del mondo

[questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande]

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

Caro Gino Rago,

 

la tua è una «poesia-polittico», hai inventato di sana pianta un nuovo genere della poesia del Dopo il Moderno. La tua «poesia-polittico» è simile ad un affresco rinascimentale dove ci sono molte e disparate cose qua e là: nelle bandelle ci sono i committenti (i poeti interlocutori), delle dame che accompagnano il trionfo di Venere e Adone, in un’altra bandella c’è una tomba nella neve con su scritto un nome: Herr Cogito, c’è del «Liquido reagente» che non si sa a cosa debba reagire; c’è un personaggio inventato da Ewa Lipska: la Signora Schubert, c’è una misteriosa «amica di Vienna», ci sono delle missive non giunte a destinazione, c’è uno scambio di vedute tra interlocutori distanti migliaia di chilometri in un mondo ad una unica dimensione (sovranista, mediatica e populista), etc. In questo mondo globale ad unica dimensione, tu riadotti il genere della missiva per fare un monologo globale a 360 gradi, la tua poesia riprende a fare dei grandi affreschi con del ready-made, con stralci-stracci di lettere immaginarie, mai inviate e di poesie nostre e altrui, con gli stracci del nostro mondo…

 

«portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato».

 

In un certo senso sei andato molto oltre la grande elegia del passato recente che ha in Brodskij il suo grande poeta irripetibile, ma con lui e dopo di lui l’elegia è diventata impercorribile perché una elegia per fiorire ha bisogno di una «casa», di una Heimat, di un «esilio», di una nostalgia… noi oggi non abbiamo più una «casa» dove sostare e non possiamo avere neanche la nobiltà di un «esilio», e allora non rimane che la «poesia cartografia», la «poesia-polittico», la poesia che sfonda e sfocia nel futuro e nel passato ma senza alcun rammarico, come su una slitta, senza nostalgia, senza elegia, e, direi, anche senza un presente… Nella tua poesia c’è tutto: il passato, il futuro, ma, incredibile, non c’è il presente, sintomo evidente di una anomalia del nostro mondo… E se non c’è un presente non ci può essere neanche una casa del presente… non possiamo neanche uscire da una casa perché non abbiamo più una casa, una Heimat, non possiamo neanche intraprendere un viaggio, perché dove potremmo andare se siamo rimasti senza una casa alla quale ritornare? Appunto: in nessun luogo. E qui sembrerebbe che la vicenda metafisica dell’homo sapiens e della metafisica occidentale sia arrivata a compimento…

 

Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», le parole si sono raffreddate e indebolite… ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design (vedi il design di Lucio Mayoor Tosi) sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che inoltrarsi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.

 

Oggi sarebbe impossibile scrivere una poesia come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini o come La Beltà (1968) di Zanzotto perché entrambe quelle opere presupponevano una «casa», una Heimat… oggi noi non abbiamo altro linguaggio che questo della tua lingua di ruggine di ferro, quello di Mario Gabriele fatto di frantumi di specchi di altri linguaggi, oggi abbiamo un linguaggio fatto di frantumi di specchi… ed è con questo linguaggio che dobbiamo fare i conti, chi non l’ha capito continua a fare la poesia del post-minimalismo, della retorizzazione del corpo, del privatismo… l’aveva capito bene Helle Busacca quando dà alle stampe I quanti del suicidio (1972) con quel suo linguaggio da spazzatura, vile e sordido, volutamente a-poetico o Maria Rosaria Madonna quando scrive in quel suo linguaggio di frantumi di specchi che è il neolatino di Stige (1992) libro ripubblicato con le poesie inedite: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura (2018) che raccomando a tutti di leggere, uno dei capolavori della poesia del novecento italiano.

 

Adesso, finalmente, la poesia italiana ha ripreso a pensare in grande, a tracciare il cardo e il decumano di una «poesia polittico» che abbraccia il pensato e l’impensato, il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile.

Per altezza di impegno edittale la tua poesia mi fa pensare a libri come Lettere alla Signora Schubert di Ewa Lipska e al ciclo di poesie de Il Signor Cogito di Zbigniew Herbert, tu ritorni al punto della vexata quaestio: il problema del nome e della cosa e se la poesia debba nominare la cosa o no, se il discorso nominante ha ancora senso o no, se il discorso nominante sia parola del destino o no: «E questo nome ora è il mio destino». La lingua diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell’espressione con il denotato, solo se la lingua accetta l’assunto secondo il quale nell’espressione nome e cosa si diversificano, tendono ad allontanarsi.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Gino Rago

 

Lettera mai spedita a Giorgio Linguaglossa e a Rossella Farnese

 

Caro Giorgio Linguaglossa, cara Rossella Farnese,

 

sono Fiorenza M., ho ereditato le carte
della mistica della perfezione, della donna filocalica,

come in certi ambienti si diceva di Cristina Campo.
Le carte di Cristina-Vittoria sono tanti rubini.

Eccone uno per voi due.

 

(la lettera datata 25 giugno 1956)

 

“ Cara Mita,
mi scusi se ho tardato a risponderle.

Ho voluto vedere quasi ogni giorno la Signora Alvaro.

 

[…] Di Alvaro mi è sempre più difficile dire.
Tento appena di decifrare questa storia,

 

che mi ha travolta in 2 mesi fino al limite di una vita.
Ero là l’ultima notte, per molte ore sola con lui.

 

La signora, quella notte, non era in grado di assisterlo.
Ebbe il grande eroismo (per una donna della sua tempra)

 

di rimanere quasi sempre distesa, nella sua stanza, pregando.
Fu una notte molto lunga.

 

Ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro,
fino alle 4,50. Non so dirle se se n’è andato sereno.

 

Dalle 8,30 non era più cosciente
(non almeno alla nostra presenza).

 

Se n’è andato ad occhi chiusi,
dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione.

 

Certo l’agonia non è che il simbolo di ben altro e non sapremo,
finché viviamo, in quali zone si svolga.

 

Aveva, quando è spirato, la febbre a 41,7.
Lo tenevo tra le mie braccia, già esanime,

 

mentre la donna che ci aiutava gli infilava il pigiama azzurro,
e ancora bruciava,

 

bruciava tutto – come i bambini che dormono con la febbre…
All’alba era tutto in ordine.

 

La signora ha potuto vederlo nella sua bellezza,
giovane come ai tempi del loro matrimonio.

 

Lo ricopriva una coperta bianca,
il sole giocava fra le rose sul comodino.

 

I ragazzini già si rincorrevano, sui gradini della Trinità dei Monti.
Qualcuno ha preso la maschera del suo viso.

 

Ma lei lo troverà in un suo racconto, come l’ho visto io,
Come un luogo sacro ed amato,

 

qualcosa di terribile e di maestoso,
che ci ha fatto soffrire …

 

La signora lo baciava sulle labbra, gli diceva con un sorriso.
Arrivederci caro.

 

Alvaro è morto stamattina, alle 4,45.
Aveva 41,7 di temperatura,

 

eravamo soli, lui, l’infermiera e io.
Pioveva forte…”

 

Caro Giorgio Linguaglossa, cara Rossella Farnese,
stiamo apprendendo insieme

 

l’arte di guardare l’erba dalla parte delle radici.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giuseppe Gallo

 

Il confronto tra la scrittura di Cristina Campo e quella di Edoardo Sanguineti è denso di significati, espliciti ed impliciti. Nei fatidici anni ’50 convivevano le istanze più disparate. La tradizione accademica, l’esperienza ermetica nelle sue varie declinazioni, il contingentismo montaliano e poi, improvvisamente, germina lo sperimentalismo del giovanissimo Sanguineti. Un sacrilegio. Il plurilinguismo. Il caos mentale che stravolge la struttura della forma poesia. E via di seguito…

 

Il maquillage

 

Si sta ancora truccando. È dal ’56.
Ad ogni nuovo maquillage appare sempre diversa.

 

Il rimmel esalta l’allarme degli occhi.
Per questo vorrebbe trascinarsi fuori dalla ghigliottina del tempo.

 

Le parole si muovevano da una parte all’altra
con occhi allarmati, scodinzolando le pelurie.

 

Una birra locale o uno scotch d’importazione?
Evadere. Evadere da ogni prigionia..

 

Aria. Aria. Da ogni cancello.
Il destino è tra una sbarra e l’altra.

 

“È una festa?” “Ma no! È solo un drinck!”
“Devo vestirmi con eleganza?”

 

“Non è necessario!” “ Non sono formalisti?”
“Ma no! È solo un di bazar da dopoguerra!”

 

Mio dio, i suoi occhi erano diventati parole
e le parole occhi. Mille occhi su tutto il corpo.

 

“Conosco l’intera vicenda. E non è favola da bambini.”
“Dal suo discorso si evince che lei nasconda qualcosa.”

 

È comprensibile!
I pensieri fanno parte del mondo delle parole?

 

Centinaia di selfie: ma rimane sempre invisibile.
Una cornice patetica intorno alla palude.

 

In fondo ogni poesia assomiglia a chiunque
fuorché a chi la scrive.

 

Giorgio Linguaglossa

 

caro Giuseppe Gallo,

 

…quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

cari Paola Renzetti e Giuseppe Gallo,

 

Abitiamo tutti una «frontiera», anche linguistica, poiché non abbiamo più una «patria».

 

«L’impostura più grande, la folle illusione, la follia estrema è che il nome e la cosa coincidano.» Scrive Pier Aldo Rovatti:1]

 

«L’illusione che si ripresenta ad ogni frase è che il nome e la cosa coincidano e che il soggetto parlante sparisca: sparisca non come enunciante della frase ma perché vi ha preso completamente dimora. L’unico modo di maneggiare questa illusione non è di farla sparire, ma al contrario di riconoscerla, di farla pesare sulla frase: attraverso il margine, la paradossalità che resta praticabile, in un gioco inevitabilmente in perdita e che deve sapere di esserlo».1]

 

Un poeta o uno scrittore del nostro tempo non può non assumere in pieno la condizione di perdita, di finitezza e di pragmatica finitudine dell’uomo contemporaneo che abita una zona di frontiera, l’unica soglia abitabile, anzi l’unica dimora possibile che è data all’uomo di oggi. Le condizioni di inabitabilità del luogo e della lingua coincidono, ed è questo, propriamente, il «luogo della poesia moderna». Non sono più condivisibili le priorità linguistiche che puntavano tutto sul significante (la lezione di Sanguineti è stata utilissima, non lo nego affatto caro Giuseppe, ma dopo Laborintus, Sanguineti come poeta è letteralmente finito, il suo miglior lavoro rimane quello d’esordio), dicevo che oggi non è più prioritario l’esigenza dello stile né il tema del linguaggio, oggi il poeta è rimasto orfano di entrambi: dello stile e del linguaggio condiviso o non condiviso con una tradizione, e questa duplice condizione estraneità e di orfanità è propria della poesia più esigente e avveduta dei giorni nostri. La tradizione, come un grande veliero che ha preso il largo, se ne è andata a farsi benedire, una intera cultura si è inabissata nel chiacchiericcio e nel banalismo… a me dispiace dover essere così caustico, ma ho il vantaggio di vivere a Roma, la città più disossata e più torpidinosa d’Italia, qui davvero si tocca con mano il degrado, una mediocrità inaffondabile, la signora Raggi con i suoi accoliti, e prima ancora Marino che se ne andava, beato lui alle Maldive a fare i bagni mentre i Casamonica facevano un funerale in aperto rito mafioso con tanto di musica del Padrino, e prima ancora il fascista Alemanno (parente forse degli Alemanni che nel 180 d.c. attentarono all’Impero romano?, e prima ancora Rutelli e Veltroni, mediocri entrambi amministratori di una decadenza abissale!). Ecco, io ho questo vantaggio, di essere testimone di una decadenza che soltanto chi vive a Roma e ha un po’ di corti circuiti mentali se ne può accorgere…

 

Giorgio Linguaglossa
Jason Langer, Death mask

In una Danimarca travolta dalla peste e sprofondata nella disperazione torna dalle crociate il nobile cavaliere Antonius Block. Al suo arrivo sulla spiaggia trova ad attenderlo la Morte, che ha scelto proprio quel momento per portarlo con sé. Il cavaliere decide di sfidarla a scacchi: inizia una partita che sarà giocata nel corso di vari incontri, mentre Antonius e lo scudiero Jöns attraversano la Danimarca e incontrano molte persone, pronte a espiare con dure punizioni i propri peccati o a godere senza freni degli ultimi istanti. Il cavaliere s’imbatte anche in una famiglia di saltimbanchi, che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda, uniti dall’amore e dal rispetto reciproco… [sinossi]

 

Quando l’agnello aprì il settimo sigillo,
nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora
e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio
e furono loro date sette trombe.

[Apocalisse, 8, I]

 

Mi chiedo spesso, quando leggo una poesia o un romanzo italiani, a quale film della odierna filmografia italiana possa ragguagliarli e non trovo, ahimè, nulla, nulla cui possa ragguagliare quelle storie che ho letto. E allora, penso che qualche domanda dovremmo porcela, dovremmo chiederci perché l’odierna filmografia italiana è ricchissima di barzellette e di storie stereotipate raccontate con un linguaggio filmico stereotipato. Quando invece leggo una poesia di Kjell Espmark vedo in filigrana il grande cinema di Bergman. Non a caso. Forse, mi chiedo, la poesia italiana degli ultimi decenni non presenta nulla di importante? Di importante da poter interessare un regista? – Ricordo una frase di Milosz il quale commentando le poesie di Eliot dice che non si potrebbero comprendere i Film di Antonioni se non tenessimo conto di certe atmosfere de La terra desolata (1922) di Eliot. L’affermazione di Milosz mi colpì molto e cominciai a chiedermi se la poesia italiana che stiamo facendo, la nuova ontologia estetica, un giorno possa ispirare la regia di un regista del futuro. Io penso di sì, la nuova ontologia estetica richiede fortemente una nuova fenomenologia filmica per essere compresa. Ecco dunque che siamo arrivati al punto: una nuova estetica poetica richiede sempre l’accompagnamento delle arti sorelle: la filmografia, l’arte figurativa, la scultura, la musica di ricerca, la danza… Se leggiamo queste poesie di Kjell Espmark, autore svedese ormai novantaduenne non possiamo non pensare a certe atmosfere dei film di Bergman.

 

Mi ha colpito molto il titolo di uno dei libri di poesia di Espmark: «Lo spazio interiore». Ecco, qui siamo all’interno di una concettualità che vorrei fosse la nostra casa comune, nostra dico della nuova ontologia estetica: creare spazi, creare tempi, moltiplicare gli spazi e i tempi, demoltiplicare le immagini, de-fondamentalizzare la costruzione sintattica, de-fondamentalizzare la colonna sonora della forma-poesia: eliminare il più possibile i verbi (che il più delle volte sono dei sostituti del nome), eliminare le soggettività (vuote e inutili) dell’io, raccontare sì ma senza l’ausilio scontato della ipostasi dell’io come collante e centro di tutte le cose. Dobbiamo porre in primo piano quando scriviamo una poesia, lo «spazio interno» e il «tempo interno», tutto il resto è secondario…

 

1] P.A. Rovatti, Abitare la distanza, 2001 p. 32