L’Uscita dallo stato di minorità della poesia italiana, Dibattito, Gruppo ’63, NOE, Avanguardia,Viaggio dell’io intorno alle «parole morte», Poesie di Eugenio Montale, Raymond Carver, Mario M. Gabriele, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Mauro Pierno, Paola Renzetti – Dialoghi tra vari interlocutori 

Giorgio Linguaglossa

 

Lucio Mayoor Tosi

 

di Raymond Carver:

 

Stava cercando di scrivere una poesia mentre fuori era ancora buio
quando provò la netta sensazione di essere osservato.
Mise giù la penna e si guardò attorno. Dopo un attimo
si alzò e fece il giro delle stanze della casa.
Controllò dentro gli armadi. Naturalmente, niente.
Comunque, non voleva correre rischi.
Spense tutte le luci e rimase seduto al buio.
Fumò la pipa finché la sensazione non fu svanita
e fuori si fece giorno. Abbassò lo sguardo
sul foglio bianco davanti a sé. Poi si rialzò
e fece ancora una volta il giro della casa.
Accompagnato dal suono del suo respiro.
Altrimenti, niente. Ovviamente.
Niente.

 

Giorgio Linguaglossa

 

 Viaggio dell’io intorno alle «parole morte». La fine di un Impero

 

caro Giuseppe Gallo, amici tutti e interlocutori vari,

 

tu, Giuseppe, scrivi: «Diceva Zanzotto che la parola poetica è la “figura che rimane sui muri dopo la deflagrazione atomica”».

 

Ecco, sai, mi sento un po’ in imbarazzo a commentare questa sciocchezza di Zanzotto… penso che dopo la bomba atomica non rimarrà nulla e non me ne importa granché di alcune parole graffiate sui muri quando tutto il pianeta sarà morto, distrutto. Mi sembra una dichiarazione demagogica, falsa, intrisa di narcisismo, esternata in piena falsa coscienza. Una dichiarazione imbarazzante. Mi sembra una dichiarazione di un ubriaco di narcisismo.

 

La mia personale distanza da Zanzotto e da Sanguineti è abissale, la potrei misurare in miliardi di chilometri. Oggi parlare dell’avanguardia di Sanguineti e dello sperimentalismo di Zanzotto è come parlare delle monete d’oro romane trovate sotto un albero nei pressi di Grosseto. Venti anni fa furono trovate 490 monete d’oro nascoste in un vaso e seppellite sotto un albero, appena sotto la superficie del terriccio, a Sovana, nel luogo dove sorgeva una villa romana. Siamo intorno al 450 d.c. – Probabilmente, hanno scritto gli storici, una incursione di barbari nella villa romana. Il Dominus nella fretta nasconde o fa nascondere da un servo fidato le monete sotto un albero. Non sappiamo nulla di cosa sia accaduto, ma possiamo immaginarlo. Uomini e donne uccisi, il Dominus e la sua bella moglie assassinati, i soldati di guardia uccisi, i servi uccisi, la villa depredata… È la fine di un Impero, qualcuno oggi dirà.

 

Ecco, qualcosa di simile è accaduto in questi ultimi decenni in Italia. Era la fine di un Impero, un giorno dirà qualcuno leggendo magari le poesie di Gino Rago o di Mario Gabriele nascoste magari in un’anfora sotto un albero. I romani dell’epoca avevano la netta percezione della fine di un Impero, di una civiltà, i barbari uccidevano, depredavano, arrivavano ovunque… non c’era alcuna sicurezza personale e anche la vita di ognuno era in pericolo… Oggi tutti scrivono miliardi di poesie che nessuno leggerà, si confezionano letture pubbliche, si danno premi, si celebrano riti apotropaici, si scrivono il giorno dopo la caduta del ponte Morandi a Genova delle poesiuole sul ponte caduto… tutto in completa e totale falsa coscienza e millantato auto credito…

 

Noi, dico noi tutti, me compreso, invece non abbiamo ancora capito quanto la crisi in Italia e in Occidente sia stata e sia tuttora profonda, pensiamo che due giovinotti con pochi studi e tanta demagogia possa salvare il Paese. Io mi permetto di riderne.

 

Oggi parlare di «avanguardia» mi sembra del tutto fuori luogo, uno specchio per le allodole, cioè per gli stupidi e per gli imbroglioni.

 

Su queste colonne pochi giorni fa Tiziano Scarpa ha detto una cosa profonda, che lui nelle sue poesie adotta «le parole morte». Ecco, questo mi sembra un pensiero profondo: le parole che usiamo sono «morte». È da qui che bisogna ripartire. Ma, attenzione, se sono «parole morte» quelle che troviamo in giro, sono morto anch’io che le pronuncio, non vi pare? Siamo morti tutti noi che le pronunciamo! E quando noi della nuova ontologia estetica diciamo che impieghiamo in piena consapevolezza le parole delle discariche abusive, dei rifiuti, della “Terra dei Fuochi”, le parole delle ecoballe, imbalsamate e sigillate, che cosa facciamo? Facciamo, produciamo altre parole morte, siamo morti noi stessi che le adottiamo. La nostra è una poesia che puzza di morte, di cadavere! Noi abbiamo preso in parola le parole di Tiziano Scarpa!

 

Quando io ho fatto gentilmente presente a Tiziano Scarpa che, se le parole erano «morte», anche l’«io» che le pronunciava era «morto», che bisognava avere il coraggio di arrivare alle ultime conseguenze di quella affermazione che io ritenevo (e ritengo) fondata, e che questo aspetto delle cose non lo rinvenivo nella sua poesia la quale continuava invece a ruotare intorno al catafalco dell’«io» come se esso fosse ancora in vita e in salute, quando invece si trattava di un «morto», è accaduto che Tiziano si è ritirato sulla difensiva proponendo delle argomentazioni che avevano l’odore di giustificazioni. Penso che anche in arte, anzi specialmente in arte, un artista di valore deve essere conseguente e andare alla ragione ultima del suo discorso, senza compromessi.

 

Ed è quello che noi stiamo tentando di fare. Certo, lo capisco, è un discorso scomodo, forse, pensa la generalità, è meglio rimuoverlo, nasconderlo, parlare di altro, non è buona educazione mettere il dito nella piaga…

 

Dimenticavo di dirti, caro Giuseppe Gallo, dulcis in fundo, che la tua poesia fatta con gli stracci e gli scampoli e messa in distici mi sembra notevole. Non posso che augurarti di raccattare stracci e scampoli e rifiuti di qua e di là e poi di fare la somma degli addendi, vediamo che ne viene fuori.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Gino Rago

 

Seconda Lettera di Fiorenza M. (mai spedita)

 

Cara Rossella Farnese, caro Giorgio Linguaglossa,
sono ancora io, Fiorenza M.,

 

dal tesoro di carte di Vittoria-Cristina
ora ecco uno smeraldo.

 

Ma questo, vi prego, non parlatene per ora.
Ho portato tre rose, un vaso di confettura,

 

un libro che il Dr. Schlemmer mi ha mandato per lui.
È curioso. A poche persone ho pensato tanto negli ultimi mesi

 

come a questo bruttissimo ometto,
che potrebbe essere mio padre

 

e non fa nulla,
proprio nulla, per rendersi indimenticabile.

 

Per fortuna ieri l’altro la primavera è esplosa.
In poche ore Roma s’è avvolta nei colori,

 

mille verdi, e soprattutto mille gradazioni di rosso,
lilla, rosa pallido, viola.

 

Alberi di Giuda, siepi di rododendro, pergole di glicine, lillà.
Il fioraio dove ho comprato le rose per Alvaro

 

ha voluto farmi un « complimento»:
un mazzetto di ciclamini e myosotis.

 

È così bello intriso ancora di pioggia.
[…]
Due preti all’alba sui gradini di Trinità de’ Monti.
Dicono che a quell’ora vanno a dire Messa per i poveri.

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

gentile Signor Gino Rago, Le accludo la mia replica in forma di missiva alla Sua.

 

uno sconosciuto con la redingote nera, lisa

 

«ah, la rosa, no!, né il giglio, né il lillà
solo consonanti e vocali nei miei versi

 

tutto quello che c’è, c’era già». disse proprio così
quel manigoldo che entrò dalla finestra. era infilato

 

in una redingote nera, lisa, con delle vistose toppe
ai gomiti, una camicia di bucato, agitò la farfalla à pois gialla

 

che pendeva dal collo e mi disse:
«nel Butan, caro poeta, ci abitano i watussi,

 

quelli alti due metri», poi si fermò pensieroso,
si alzò e fece il giro delle stanze della casa,

 

controllò dentro gli armadi, l’interno del frigorifero,
la gabbia dei canarini…

 

uno scricchiolio proveniente dall’armadio all’ingresso.
lo aprì di colpo, ma c’era il vuoto lì, non altro…

 

e, con passi felpati, si diresse verso la finestra aperta
che dava sul ballatoio condominiale…

 

e di lì sparì nel nulla, o meglio, dietro il nulla…

 

Giorgio Linguaglossa  Giorgio Linguaglossa

 

 

Mario M. Gabriele

 

Giorgio, ti chiedo se le grandi case Editrici sono a conoscenza del Progetto NOE? Si è aperto, non dico uno spiraglio, ma una caverna nel sottosuolo della parola, per portarla in superficie dopo tanti carotaggi. I punti di vista sono enormi. Schizzano forme linguistiche in una dialettica sempre più serrata e dichiarativa, all’interno di una nuova lessicologia.La lingua è morta, è vero, ma abbiamo il compito di scoprire le carte e curare l’afonia. Le giustificazioni, i report critici, il contraddittorio, ecc., sono le uniche armi di combattimento per chiudere un Impero e aprirne un altro. Il nostro Progetto non è che una interposizione della lingua poetica all’interno di un ricambio estetico, così come è sempre stato nella storia della poesia italiana.

 

A seguito di quanto sopra citato, riporto una mia poesia a sostegno di quanto da me affermato.

 

*

 

La tua storia è passata come la Pop Art.
Mutazioni colorate esprimono il tuo volto.

 

Le collezioni autunnali nelle passerelle di Milano,
mi riportano alla Ragazza Carla

- di anni diciassette, primo impiego stenodattilo -.

 

Ritrovo la retrospettiva del 65
in via Gattamelata, per un asset-based economy.

 

Oggi, a fare da transfert è il Sedatol,
come sonno pseudobiologico.

 

I nostri nomi li ha ridotti il tempo
per economia di lessemi.

 

Il granturco si è messo da parte
e le Melinde tardano a riempire gli scaffali di MD.

 

Un penny e un nichelino
sono il tributo che vuole questa vita.

 

-L’unica risposta
alla tomba di un bimbo è
stendersi lì accanto e giocare al morto-,
scrive Saint Giraud, come fosse Matsuo Basho
o Wang Wei.

 

Mi rischiara l’autunno i pensieri fossili
come foglie di frassino ai bordi delle ciminiere.

 

Sotto il cancello Arbeit macht frei passano i turisti.

 

-Il bacio è la tomba di Dio- dice il Signor Kappa.
Così riempio le giornate, vuote di canestri e prime rose.

 

L’universo riparte dalle stringhe.
Tace il Big Ben.

 

Una generazione dietro l’altra
trova posto nel giardino di Spoon River.

 

Un certo modo di sentire le parole
passa per Evergreen e le Guerre Stellari.

 

Abitudine di July è rifare il viso di Marilyn
come nella serie colorata di Warhol.

 

Mi distruggo se penso a te sul far della sera.
Ricomincia il giorno da zero.

 

Ci vuole solo un distico per scrivere un epitaffio.

 

Giorgio Linguaglossa  Giorgio Linguaglossa

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

 Circa una Antologia della poesia italiana del secondo novecento che sarebbe dovuta uscire nel 2008 e non è mai stata pubblicata

 

caro Mario,

 

penso che gli «impiegati culturali» che presiedono le collane di poesia dei maggiori editori italiani siano molto infastiditi di quello che stiamo tentando di fare e facciamo, e lo capisco bene, per loro accettare che nella poesia italiana qualcosa si muova significa implicitamente riconoscere che la loro poesia è rimasta ferma nel passato e che la «nuova poesia» ha messo implicitamente la loro produzione nell’archivio del passato.

 

Mi conforta in questo pensiero il fatto che non una parola sia stata spesa dai rappresentanti dell’arco costituzionale della poesia italiana su un libro di 512 pagine come Critica della Ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), edito nel 2018 da Progetto Cultura di Roma. Loro hanno considerato il libro come indigesto perché (dal Loro punto di vista) non portava acqua al loro mulino bianco del passatismo. Addirittura, un autore che ha pubblicato tutti i suoi libri ne Lo Specchio mi ha scritto in una email una parola significativa: «non mi interessa», facendo trapelare chiaramente il suo disappunto e il suo menefreghismo verso tutto quello che stiamo facendo.

 

Una persona di cui non posso fare il nome mi ha confidato (in via strettamente personale) che è passata, nelle alte sfere degli impiegati addetti al settore poesia, una parola d’ordine: non fare il minimo accenno alla «cosa» che stiamo facendo, di non citarci mai, di non fare la benché minima azione che possa essere interpretata anche come un riconoscimento implicito del fatto che esistiamo e che stiamo lavorando per la nuova poesia. Silenzio assoluto su tutto il fronte. Ma noi sappiamo che il silenzio è molto più assordante delle parole, noi portiamo avanti idee, non dei carciofi, che mettiamo a disposizione di tutti coloro che vogliono capire; le idee sono gratuite e, prima o poi, dilagheranno… Anche perché dal versante opposto non pubblicano nulla di interessante da almeno trenta anni. Sono trenta quaranta anni che non leggo, da parte di questi impiegati addetti al settore cultura, neanche una riga di riflessione sulla poesia mondiale che possa essere qualificata come lavoro di ricerca e di critica. La Loro produzione poetica è relegabile nella categoria dell’epigonismo di maniera, produzione di opere soporifere… soap poetry.

 

È ormai notizia diffusa che dieci-dodici anni fa doveva uscire per Feltrinelli una Antologia della poesia italiana del secondo Novecento(in due volumi) curata da un noto poeta milanese. Bene, il lavoro fu fatto e il poeta venne ricompensato con un assegno succoso, ma l’antologia non venne mai alla luce perché nell’intertempo era intervenuto un ordine dall’alto, un ordine interdittivo di cancellare dalla antologia 10 nomi (tra i quali c’era anche il mio). Il curatore ovviamente si rifiutò di ottemperare all’invito, e l’antologia non vide mai la luce. Inutile dire che l’ordine interdittivo era partito dall’alto, da molto in alto. Dal punto più «alto» della poesia italiana.

 

Lucio Mayoor Tosi

 

Dove sta il problema? Alle prossima fiera del libro basterà darsi una chiara identità… selezionare un prodotto, decidere una strategia di comunicazione, ecc. Puntare su Cristiano Ronaldo, o fare gruppo.
Non piace questo modo di ragionare? Eppure va così, che il mercato è composto da numeri, non da persone. È principalmente commercio…

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa  Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

L’ispirazione del poeta: «la musa spaventacchio» di Eugenio Montale (la versione in distici è, ovviamente, mia)

 

Eugenio Montale

 

La mia Musa (da Diario del ’71 e del’72)

 

La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più ) che mai sia esistita.

 

Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.

 

Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.

 

Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,

 

finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio

 

di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita

 

di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto

 

di cannucce. È la sola musica che sopporto.

 

*

 

Eugenio Montale

 

La lingua di Dio (da Diario del ’71 e del ’72)

 

Se dio è il linguaggio,
l’Uno che ne creò tanti altri per poi confonderli
come faremo a interpellarlo e come
credere che ha parlato e parlerà
per sempre indecifrabile e questo è
meglio che nulla. Certo
meglio che nulla siamo
noi fermi alla balbuzie. E guai se un giorno
le voci si sciogliessero. Il linguaggio,
sia il nulla o non lo sia,
ha le sue astuzie.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Commento di Eleonora Anselmo, (classe V B(Asti, Liceo Classico ‘V. Alfieri’, 2018,


Prof.ssa Rossana Levati, coordinatrice, del Progetto)

 

 Il linguaggio di Montale

 

Il poeta del Novecento spesso si interroga su quali parole usare ed ecco Montale orientarsi, da Satura (1971) in poi, verso un linguaggio sempre più prosastico, che ben si distanzia tuttavia dal “pauperismo evangelico” rinfacciato a Pasolini nella “Lettera a Malvolio”, orientandosi verso tecnicismi e immagini di storia.

 

A partire dagli anni Settanta sempre più spesso Montale allude a una “balbuzie” che segna il linguaggio umano in generale, e anche quello poetico. Una balbuzie che porta il linguaggio umano, ormai lontano dal linguaggio di Dio, l’unico assoluto, alla imperfezione, a un “mezzo parlare” che lo allontana dalle certezze e dalla verità: al poeta resta la dimensione dello scetticismo, della distanza ironica dal lettore e interlocutore, della interruzione o deformazione di ogni comunicazione, a cui spesso allude per esempio nelle poesie in cui descrive le telefonate “distorte” o errate ricevute da persone conosciute o sconosciute, che magari parlano “un’altra lingua” (come Celia la filippina in “Xenia” o le voci inattese di “A tarda notte”). E’ quindi, la sua, una posizione di ripiegamento e di sfiducia nel valore della parola poetica, quasi sopraffatta dalle troppe parole dell’oggi.

 

Strettamente connesso al tema delle parole è quello dell’ispirazione: la Musa, per Montale, non si trova sul Parnaso, come in ogni autore della classicità, bensì è lontana, si direbbe che mai sia esistita. È collocata in un ripostiglio teatrale, indossa i panni dello spaventacchio, ma il poeta la invita a resistere in un mondo che vorrebbe cacciarla via. Si può notare che il termine “cannucce” contrapposto alle canne dell’organo auliche caratterizza la materia di Montale che parte dal basso, dal piccolo e da ciò ne consegue il linguaggio.

 

Il discorso di Montale è sempre un discorso di tono e timbro familiare, potremmo dire borghese. Sono scene individualizzate, episodi, parentesi: ogni cosa è valida solo se si ferma in un ritmo come un “umore” che si modula e trasforma. Trasmette l’esperienza di un uomo che sente intimamente il dramma dell’inconciliabilità tra la vita e la parola, tra una sensibilità capace di cogliere gli aspetti più nascosti dell’esistenza e l’impossibilità di tradurre le sensazioni in parole, il ‘muro’ che impedisce di attingere alla vita.

 

Dice infatti Montale in “Domande senza risposta”: “se il nome fosse una conseguenza delle cose, di queste non potrei dirne una sola”, ma è evidente, da come viene posta questa ipotesi, che tra nomi e cose rimane una separazione che rende le cose impenetrabili, intangibili dalle parole.
La poesia “La mia Musa” appartiene al Diario del ’71 e del ’72, raccolta priva di un baricentro tematico, ma avente struttura ideologica centrifuga, frammentata, diversificata, venendo trattata in modo esplicito, ragionativo, discorsivo e colloquiale la materia che prima era presentata sotto il velo allegorico e simbolico.

 

La Musa ora è trasfigurata, ma non viene ipostatizzata, al contrario è abbassata, parte dal suolo e non dal cielo. Questo spiega il nesso che Sanguineti intende: dall’ideologia segue il linguaggio. Ad un ‘abbassamento’ della Musa che scende dal Parnaso non può non seguire anche una diminuzione del livello del linguaggio. La poesia appartiene alla raccolta Diario del ’71 e del ’72, la quinta nella sua produzione: la parola stessa , vuota e neutra, vuole probabilmente indicare, oltre che la registrazione dei fatti quotidiani, anche la maggior vicinanza alla prosa e la natura quasi di “appunti” delle poesie proposte. La matrice prosaica risale già a Satura: un ‘pasticcio’ che intride la poesia con la prosa.
Nella sua dichiarazione di poetica, Sulla poesia, Montale analizza “lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere”, in cui la poesia non può sopravvivere, inghiottita dall’universo delle comunicazioni di massa: evoca quasi, nella terza strofa, la selva oscura dantesca, nel “quasi a dirmi cammina non temere, finché potrò vederti ti darò vita” e Montale è il Virgilio che vuole portare in salvo Dante, la poesia.

 

E’ una musa che si rifà a Blake e Baudelaire: testo non invocativo, ma narrativo e di constatazione che cela dietro lo “spaventacchio” una figura mista, di coincidentia oppositorum: anche sul piano del significante si intrecciano due dorsali timbriche, la vita (esistita-vita-resistito-ritta-riempita) e lo spaventacchio che riporta alla morte oscura.

Ma è importante sottolineare infine che essa non conduce all’impossibilità di fare poesia: la Musa si è solo ingobbita, ma “solo un po’” e anche se scarnificata, ridotta a “cannucce” rispetto all’alta Musa della classicità, è la sola musica” che l’autore sopporta, cui non può, per questa ragione, rinunciare.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Il Signor Nulla ha preso stabile dimora nella forma-poesia

 

Ho suddiviso in distici la poesia di Montale per sottolineare come il poeta ligure, pur con delle simiglianze notevoli con i poeti della nuova ontologia estetica, tuttavia è un poeta pre-NOE. Lui poeta dal punto di vista di un «soggetto» ancora ben stabilizzato nel mondo che si concede l’arma appuntita dell’ironia. Quindi è un «io ironico» che prende la parola, un «io» che sta ancora al centro del suo universo di parole, al centro del suo discorso poetico. È ancora un «io» centrato.

 

Al contrario, nei poeti NOE (Giuseppe Gallo, Gino Rago, Mario Gabriele e il sottoscritto e gli altri), l’«io» si è decentrato, assottigliato, il «centro» locutorio se l’è preso qualcun altro, l’«io» è diventato eccentrico, ex-centrato, si è de-centrato. E questo è senz’altro dovuto al processo storico che è intercorso dal 1971-72, data di inizio della stesura dell’ultima poesia montaliana e il 2018, data di composizione delle nostre poesie in distici. È la storia che fa la differenza, o, se si vuole, il Fattore T (il tempo).

 

Durante questo interregno del Fattore T (il tempo), la crisi globale ha colpito in modo perentorio e aspro il nostro Paese ed ha investito anche la poesia, determinando le mutazioni interne della forma-poesia. In particolare, vorrei osservare che la condizione del nichilismo in Italia si è nel frattempo aggravata, il Signor Nulla è entrato con prepotenza nella forma-poesia decentrando il soggetto e confinandolo in luoghi periferici, eccentrici, non concedendogli alcuna funzione all’interno della forma-poesia. Ecco la ragione che ha condotto alla «debolezza della ragione poetica» della «nuova ontologia estetica», la «debolezza», come un cancro maligno, si è stabilita nei polmoni della forma-poesia determinando la dissoluzione e il de-centramento del soggetto. Non a caso la tematica centrale della nuova poesia è il «nulla», ormai i mocassini di questo «ospite ingombrante» (dizione di Heidegger) scricchiano sul parquet della nostra abitazione un po’ ovunque, e noi «non possiamo fare altro che guardarlo bene in faccia», come dice Heidegger, al quale lascio la parola:

 

«Esser-ci vuol dire: essere tenuto immerso nel niente (Da-sein heisst Hineingehaltenheit in das Nichts). Tenendosi immerso nel niente l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. Questo essere oltre noi lo chiamiamo trascendenza (Transzendenz). Se l’esserci, nel fondo della sua essenza, non trascendesse, ossia, come ora possiamo dire, non si tenesse immerso fin dall’inizio nel niente, non potrebbe mai riferirsi all’ente, e quindi neanche a se stesso. Senza un’originaria rivelazione del niente non c’è un esser-se-stesso, né una libertà. Si è così ottenuta la risposta alla questione sul niente.. Il niente non è un oggetto, né in generale un ente. Il niente non si presenta per sé, né accanto all’ente a cui pure inerisce. Il niente è la condizione che rende possibile la rivelazione dell’ente come tale per l’esserci dell’uomo. Il niente non esprime solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essenza dell’essere stesso. Nell’essere dell’ente avviene il nientificare del niente (das Nichten des Nichts)».1

 

1] M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987 pp. 70-71

 

Giorgio Linguaglossa  Giorgio Linguaglossa

 

Giuseppe Gallo

 

Caro Giorgio Linguaglossa,

 

posso capire la tua “personale distanza da Zanzotto e Sanguineti”. Le loro poetiche sono state due esperienze della nostra storia letteraria. E va bene. Lasciamole alla storia. Nel momento in cui hai postato alcune poesie di Laborintus, io non ho pensato che tu volessi farti fautore del suo spirito avanguardistico, infatti precisavo che “Il confronto tra la scrittura di Cristina Campo e quella di Edoardo Sanguineti è denso di significati, espliciti ed impliciti. Nei fatidici anni ’50 convivevano le istanze più disparate…”. Era la mia una pura e semplice presa d’atto del contributo di Sanguineti allo svecchiamento della paludata tradizione accademica nostrana. E tutto mi lascia ritenere che tu sia d’accordo con ciò. E veniamo allo spunto polemico su Zanzotto. Riporto integralmente quanto ho scritto: «Diceva Zanzotto che la parola poetica è la “figura che rimane sui muri dopo la deflagrazione atomica”». Sono d’accordo, e quindi sono anche d’accordo con ciò che affermate contemporaneamente sia tu che Gino Rago rispetto alla poetica della Noe e in duplice direzione;… “,- ecc.

 

A differenza di Tiziano Scarpa, come tu riporti, non vorrei anch’io ritirarmi sulla difensiva, ma l’immagine di Zanzotto riguardante “la parola poetica” come “figura che rimane sui muri dopo la deflagrazione atomica” l’avevo presa in considerazione perché ancora più radicale delle “parole morte” di Scarpa e degli “stracci” della Noe. Se muoiono le parole che dobbiamo dire degli uomini? D’altronde lo riaffermi anche tu. “Facciamo, produciamo altre parole morte, siamo morti noi stessi che le adottiamo”. Logica vorrebbe che le ecoballe “imbalsamate e sigillate” siano meno pestifere di una deflagrazione atomica… o no?

Colgo l’occasione per ringraziare Gino Rago sia per quanto dice su Arringheide sia per quanto riguarda il mio tentativo di immettermi “nella fitta boscaglia della poesia in lingua”.

 

Mauro Pierno

 

La Musa Perpetua

 

Di questo ti nutri di scarti di luce, di altro,
pigmenti di vita, di colori?

 

Colori sbiaditi, odi incomprese, parole?
Stai comodo, l’obesa virtù

 

anch’essa sublime, t’osserva sospesa,
a scatti ti segue la Musa Perpetua,

 

registra ogni istante, registra ogni cosa.
Miserere del tempo, miserere degli uomini. T’osservo guardarmi!

 

Di questo dunque tu soffri, poeta? Registrati allora, declina i tuoi dati
che ella sappia, che usi, che elabori i tuoi casi.

 

Paola Renzetti

 

Il prato dei conigli

 

Ancora per poco resta il giorno
e quel brucare
che i piccoli, da soli
hanno imparato.

 

Una donna in veste nera
cammina con il figlio.

 

Le gazze volano giù
una alla volta.

 

Dallo steccato
al cellulare

 

una lingua dell’Est
sul prato dei conigli.

 

Più lontano

 

Una danza di ragni tessitori
lungo le paglie del riso
mozzate. Viene l’Inverno.

 

Arazzo invisibile, il sole
ne rivela la trama
l’ordito di fili
fregiati di luce.

 

Giorgio Linguaglossa  Giorgio Linguaglossa

 

 

Giuseppe Gallo

Caro Giorgio Linguaglossa, generalmente non sono solito dilungarmi in questi interventi. Questa volta sarò meno laconico.

La notte del 28 giugno 1938 Walter Benjamin fece un sogno che in seguito così descrisse:

 

«Mi trovavo in un labirinto di scale. Questo labirinto non era coperto dappertutto. Salivo; altre scale conducevano giù nella profondità. Su un pianerottolo mi accorsi che ero arrivato su una vetta. Mi si aprì un’ampia vista su tutto il paesaggio. Vidi altri ritti su altre vette. Uno di loro fu preso improvvisamente dalla vertigine e precipitò. Questa vertigine di estese; altri precipitarono da altre vette nell’abisso. Quando fui afferrato anch’io da questa sensazione, mi svegliai».

 

( W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione; Einaudi, To. 1973, pg.227 )

 

Un’altra volta scrisse che “Il labirinto è la via giusta per chi arriverà, in ogni caso, sempre troppo presto alla meta.”

E Sanguineti parlando dell’avanguardia, in un saggio del 1963, affermava: “per tutto l’arco romantico e borghese, tutta la verità occulta dell’arte sta nell’avanguardia, che ne confessa indiscretamente il meccanismo nascosto, e in cui, finalmente, tutto il movimento della cultura romantica e borghese precipita come forma logica”.

 

Tra il sogno di Benjamin e questo giudizio di Sanguineti sull’avanguardia c’è più di un legame. Tra questi due elementi vedo una relazione profonda e implicazioni ragguardevoli.
Le caratteristiche oniriche assumono in Sanguineti un carattere logico-operativo che supera le forme espressive, ma lascia inalterata la “struttura mitica” di riferimento. L’avanguardia di Sanguineti altro non è che quel “labirinto di scale” presente nel sogno di Benjamin; la “verità occulta” di cui è portavoce ogni avanguardia non è altro che la “vetta” da cui si precipita nella voragine.

 

Oggi, a distanza di anni, dici bene Caro Giorgio, ” …io ho questo vantaggio, di essere testimone di una decadenza che soltanto chi vive a Roma e ha un po’ di corti circuiti mentali se ne può accorgere…”. E in questa decadenza mettiamoci tante altre cose: la letteratura, l’arte, la civiltà dei costumi, la civiltà politica, il ruolo degli intellettuali, e via di seguito. Che dobbiamo fare? Dobbiamo tentare di svegliarci e liberarci dall’enigma del labirinto? Lo fanno tutti. Lo fanno in tanti. Si risvegliano, si programmano, si ristrutturano e l’esistenza continua. Il nostro destino è, invece un altro! Noi non possiamo far altro che precipitare, cadere dalle vette e spiaccicarci nel nulla e nell’insignificanza. Ma questo nulladeve considerarsi anche autodistruzione? No! Io, personalmente, di fronte al labirinto ho sempre brividi di paura, sono portato all’esitazione, a un moto spirituale che mi crea tensione, ma so anche che il labirinto è un luogo in cui si giunge per perdersi, per denudarsi e per svelare se stessi. Quando Sanguineti incontrò il Laborintus era appena ventunenne. Eppure l’affrontò con il disegno di semplificare i percorsi tortuosi, di ridurre ed estirparne la “complicazione”, di risolvere l’inganno e il mistero in un “chiaro globo”, in una “estensione chiara”, in “chiaro odore di funghi”. I vuoti e i pieni, le vette e le voragini, con la loro presenza-assenza, materializzata da un linguaggio “sperimentale” mai sperimentato prima, intrecciano intorno al suo giovanissimo fantasma poetico un altro universo di tensioni e tranelli, di ambiguità e ambivalenze. Così a nuove domande si affiancano nuove risposte:
“…: o tutti ( a mia moglie) non preparano ( dissi) i BUONI CITTADINI? ( e noi prepariamo, noi, i rivoluzionari…).

 

Ecco l’ingenuità… storica! Il mondo cambiava radicalmente. Giorno per giorno. Dalla sera alla mattina. Tutto precipitava. Tutto tracimava. Non c’era più distinzione fra il “piangere” e il “ridere”, tra la morte e la vita, tra la delusione e l’illusione, tra la speranza e la disperazione:

 

“piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero
Bosch in miniatura, un salvadanaio di terra cotta, un quaderno
con tredici righe, un’azione della Montecatini:
piangi piangi, che ti compero
una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente,
un robot…”

 

È poco tutto questo per un poeta al suo primo impatto con il sistema? A me non sembra. Dopo Laborintus  Sanguineti è finito come poeta? Potrebbe anche darsi.

Ma se oggi noi possiamo citare tranquillamente Barthes, Foucault, De Saussure, Lacan, Derrida, Lévi-Strauss e così via, lo dobbiamo all’impatto che lo sperimentalismo avanguardistico di Sanguineti ha provocato nel piattissimo panorama culturale italiano del periodo. Ma come ogni operazione culturale, borghese, perché non c’è altra cultura se non quella cosiddetta borghese, ha svecchiato… il mondo non si fa trasformare dai rivoluzionari di professione, figurarsi dagli intellettuali!

 

Diceva Zanzotto che la parola poetica è la “figura che rimane sui muri dopo la deflagrazione atomica”. Sono d’accordo, e quindi sono anche d’accordo con ciò che affermate contemporaneamente sia tu che Gino Rago rispetto alla poetica della Noe e in duplice direzione; sia rispetto al fatto che
“La poesia la trovi nelle discariche delle parole, nelle parole abbandonate perché non più utili, che non servono più a niente… tutto il resto, quello che si legge oggidì, sono superfetazioni letterarie… la Musa la trovi tra il rancido delle discariche piuttosto che nei salotti del dolore manifesto…
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole appiccati dai piromani e dagli imbroglioni di parole, dagli imbonitori di parole…”

 

sia sul fatto che (riassumo) l’io, la coscienza, la pura e semplice soggettività non abbiano più alcuna possibilità di ordinare la realtà e di sovraintendere alla legislazione del mondo.
Allora? C’è un problema? E quale sarebbe? Credo che sia sempre lo stesso.

Ogni Avanguardia è un tentativo. È un’esperienza. E quella della Noe ha la sua ragion d’essere, come la possedeva il Gruppo ’63, tanto per rimanere nello stesso paesaggio. Tanto più oggi, quando la poesia è determinata dal mercato delle maggiori case editoriali. Ogni istanza innovativa obbedisce all’esigenza di “rintracciare un modello” per sviluppare percorsi alternativi, per rintracciare autori esemplari che ci sorreggano durante il viaggio. E questo è un bene. A ciò ci spinge quella vis poetica che vive dentro ognuno di noi. La forma poesia persiste sempre e comunque. E non in termini fideistici. Piuttosto porrei un’altra domanda. Come mai si comincia a produrre poesia con le caratteristiche della Noe, mentre la forma romanzo non germina ancora?