Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale da sempre vive. Ha pubblicato l'unico libro Il Normale Astratto (1986) per Le Edizioni del Leone. Poesie sono apparse su antologie e premi letterari, ultimo dei quali a Spoleto nel 2014 nell'ambito del Festival di Spoleto.
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Ho posto tempo fa ai poeti tre domande terribili, da far tremare i polsi.
1) quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione?
2) la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno e avranno sul presente e sull’avvenire della poesia?
3) è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?
Cupo e colmo d'angoscia risuona il lamento di Hölderlin:
«Wozu Dicther in dürftiger Zeit?»
A che scopo? A che pro? Perché i poeti nel tempo della miseria? Che cosa hanno da dirci i poeti nel tempo della povertà?
«L’espressione tedesca [in dürftiger Zeit] - scrive Blanchot - esprime la durezza con cui l’ultimo Hölderlin si difende contro l’aspirazione degli dei che si sono ritirati, mantiene la distinzione tra le due sfere, la sfera superna e quella di quaggiù, mantiene pura, con questa distinzione, la regione del sacro che la doppia infedeltà degli uomini e degli dei lascia vuota, poiché il sacro è questo stesso vuoto che bisogna mantenere puro».
Poco prima dei versi citati, l’elegia recita:
"Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch.
Traum von ihnen ist drauf das Leben. Aber das Irrsal
Hilft, wie Schlummer und stark machet die Not und die Nacht".
“Solo per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina. / Dopo, la vita non è che sogno di loro. Ma l’errore / aiuta, come sonno, la necessità rende forti come la notte”.
L’errore, l’erranza, la penuria, l’indigenza... aiutano, rafforzano. Perché? Perché in questo tempo di durezza, la parola del poeta non dice più della dipartita degli dei, dell’abbandono, dell’assenza - la pienezza non è più udibile, essa ci dice che la dipartita degli dèi apre uno scenario di povertà nel tempo della durezza dell'essere; che la poesia significa il lutto, parola che oscilla tra memoria ed oblio, tra durezza e povertà dell'essere.
«Entrambi - uomo e dio - sono infedeli», scrive Hölderlin.
Di cosa parla, infatti, il poeta? Qual è la sua materia? Se ad ogni tentativo di dire qualcosa intorno al proprio oggetto, consegna questo stesso oggetto all’oblio, lo affida alla dimenticanza?
Vocazione del poeta è l'esercizio di una perpetua conservazione in perdita. Che ne è allora della parola del poeta, di quella parola che testimonia il sacro, e lo mantiene puro e vuoto?
La poesia della Petrillo alza gli scudi quando la tendenza ad ammutolire diventa insormontabile e soverchiante.
Nel tempo della estrema povertà (in dürftiger Zeit?), ha risposto Marina Petrillo con delle poesie che sembrano provenire dal tempo della mezza luce, della Lichtung, con delle parole sospese nel viale del tramonto, nella «radura» presso la quale l'ospite della terra giunge dopo un lungo silenzioso tragitto. Allora, ho capito il segreto di quella frase hölderliniana: «Ciò che resta lo fondano i poeti», non tanto la parola in forza di «ciò che dura», ma anzitutto, la parola per la debolezza di «ciò che resta», perché in esso i poeti fondano il loro regno illusorio fatto di stuzzicadenti e di zolfanelli bagnati di pioggia come l'infrangersi della parola poetica che non è nulla di monumentale, di statuario, di memorabile, non è una struttura metafisica stabile ma evento fragile e debole che si iscrive nell'epoca della debolezza e dell'infrangersi della parola poetica sugli scogli dell'essere un tempo stabile ed ora non più.
La parola poetica diventa esperienza della fragilità e della terrestrità, un indebolimento di ciò che un tempo lontano era la pienezza del tempio greco o della basilica cristiana ed adesso è un luogo infirmato dal sole e dalla pioggia, dal vento e dagli uomini che abitano la terra e che ad essa ritornano, come erranti, dopo il viaggio transeunte sulla terra sulla cui superficie non splende più il sole dell'avvenire. Il linguaggio della Petrillo si dà come ciò che zerbricht, che si infrange sugli scogli dell'evidenza della terrestrità.
C'è un filo conduttore dall'epoca di Antonia Pozzi, di Cristina Campo, di Anna Ventura e di Maria Rosaria Madonna che lega le voci femminili fino a Marina Petrillo alla testimonianza della scomparsa del «sacro»; tale nitida monumentalità non appariva all'orizzonte della poesia italiana da tempo immemore; una voce nella quale si percepiscono distintamente le scalfitture, e le incisioni del tempo e della terra, le ferite e le abrasioni dell'attrito svoltosi tra essenza e presenza, tra la figura del nulla e la figura del presente, dove la poesia è soltanto quel sottilissimo velo di parole che fonda la presenza figurale del nostro essere nel mondo, dove la parola è scontro tra mondo e terra nella forma della terrestrità vissuta.
È là dove la Petrillo foscoleggia che ottiene l'apice della monumentalità per quell'empito della voce da basso continuo, classicista nutrita di anticlassicismo per quella fedeltà alle regole formali della poesia a partire dal ritmo franto ai raffinati tecnicismi dell'a capo, attraverso cui la poesia modernista del novecento riaffiora in modo anacronistico e inattuale in un mondo che non sa più che farsene di quella metafisica dell'apparire e del disvelarsi, del venire alla presenza di ciò che non è più presente.
Le parole della Petrillo si presentano omologhe alle parole del corredo funebre con cui si adorna il cadavere di una giovinetta passata anzitempo tra i più...
«Nella tarda modernità l’essere sempre in viaggio, non avere una casa o un porto d’arrivo e non sentire, di conseguenza, la nostalgia per un preciso luogo cui ritornare, può persino trasformarsi in un privilegio. A cosa aspira l’anima moderna, definita da Baudelaire un veliero in cerca della sua terra utopica, un trois-mats cherchant son Icarie? E dove si dirige? Verso l’allontanamento dal noto, Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau (Le Voyage, VIII, 8), per uscire comunque dal mondo, non importa dove (Anywhere out of the world!, in Spleen de Paris, XLVIII).
Se ormai il mondo non ha né centro né periferia, non si possono più desiderare rientri nelle calme acque di un porto, ma soltanto senza meta».1]
1] Remo Bodei, Limite, Il Mulino, 2016, p. 49
gunnar smoliansky-1976
Marina Petrillo
da Materia redenta
Dell’insidiosa tela che il sovrano Tempo
ha posto a sigillo del Mondo
più non altro che cenere si solleva.
Non scuote il capo
l’ultimo amante insoddisfatto
se i fianchi si invaghiscono dello Spirito.
Solo implora la pietà di un bacio
Involve alfine lo Spazio in azzurrità
e di sua Beltà soave l’oro
rivela in pudico segreto.
Siamo qui a scrutare cieli
di infinito capovolti
conchiglie a sciame di nube.
Nulla rivela il mondo
Antigone pietosa la terra
del sospiroso gravido Ribelle
Madre, a sponda di tenerezza.
Ancora le Parche cuciono destini
ma del Canto antico è spenta la memoria
e ognuno in sé tace l’Amore perduto.
(Cosa rivela Poesia al Sacerdote del Sublime Tempio…)
*
Dei miei perduti passi
non trae memoria
la bambina che toccò
del primo fiore
la corolla.
Chi fui
nell'assente dormiveglia
mentre oltre il sogno
vagava la piccola anima
ridesta.
nel giorno di scuola
agli altri affine
sconosciuta
sillabavo il nome.
Portata a braccia
nella gloria del quotidiano
svogliata
traevo a stento pena.
Poiché l'eterno
mi pervadeva
ad eco di sé
e per errore inciampava la pronunzia
nell'amore di mia madre
come fossi molecola di luce
mai venuta al mondo.
*
Di sole visse e trafitto
risorse a velo squarciato
tra nubi indaco a schiera poste.
Croce splendente
in anima di fuoco
zolla di terra umida di brina.
Inviolato calice
dal dubbio posto in umana forma.
Dell’attesa il rovinoso tempo
sembra ora spezzato.
Caos si adagia di pioggia gravido.
Sconosce il Suo volto di stella
l’amato costato in sé redento
come mai fosse esistito
e Sogno cullasse un infinito silenzio.
*
Giungesti a me di povertà vestita.
Eppur splendente
nell'umile apparenza
rapisti ogni gemma al mondo.
Il Re, del fascino perse memoria.
A te devoto
compose una preghiera.
Il Sacro ci abita
e non riconosce del profano vessillo
l'invadenza.
Pronte a dichiarazione di Sé
nutre al seno i suoi bambini.
Tutti vengono a Lui recando doni
poiché non v'è alcuno che non ne abbia
e nel profondo nutra dell'inviolato Amore
desiderio.
*
Sappiamo della nostra presenza
ma non ci coglie
impreparati
il vuoto trafelare dei giorni
quando per ignoto sentimento
il ciglio della strada
ammette il suo travaglio
e slarga l'orizzonte.
Siamo qui
in un perduto gesto
mentre l'Altro da noi
trasmigra in atto parallelo o, tenue,
diluisce in liquido amniotico
di altra vita specchio.
Partoriti siamo dunque
ma dal Sogno
cercando di vita in vita
la Madre.
*
Si è mai visto del segno la fine...
L'interrotta acquiescenza di una verde collina
nel limite estremo del tratto
diluente a pendice...
Asservito all'ignoto compagno
l'astratto si imbeve di forma
e in frattale delinea l'alchemico sogno.
Se il Creato tutto astenesse dal gesto
l'impatto rimarrebbe sospeso ad inizio
tributo non dato alla geometria
ma all'invisibile assenso.
In spazio molteplice
eppur presago di ingegno
che il senziente non può immaginare
insoluto.
*
Arriva improvvisa la fine
come battito di stella
in universo di pietre lunari.
Adagio assottiglia il ricordo.
Dall’alto si getta
a sogno di guarigione
Vita in sé nuova
affinché più nulla si sveli
dell’antico seme malato.
Conoscevo parole dimentiche di cielo .
In bilico
tramortita
perdermi vorrei su spiagge di smemoria
Al tempo spezzato sorridere
e farti nascere di nuovo.
Tu che sei figlia
Noce di perfezione
Incanto.
*
Se non fosse così silenzioso
lo Spirito squarciato a festa
tra profani Custodi di storia
e congiunte memorie
instabili come torri…
Babeli indolenti
tra sillabari di idiota genia.
Amo l’antica Madre del mondo
sigillo di ignota armonia
posto nel ciclo profano
a rigore divino.
In manti cobalto e sfondi dorati
Incedi
mai supplice all’odiato compagno
ponendo Tua ombra in suono.
A te, creatura creante
appartiene l’abisso del cuore.
Sei il respiro di ogni natura
e lo stellato tuo volto
indaga immoto l’ umano Destino.
****
Prima della fine
giungerà inesplorato il volto della notte
Del mondo si avrà ferita
tra partorite ombre d'oltre confine.
Il doppio sarà rivelato a sconfitta di sé
in argine di ignoto pensiero
poiché adagio il conforto
porrà il pianto
tra ciglia di ingannevole memoria
Dal ventre di ogni madre
cresce del bambino il silenzioso battito.
*
*
Perché si fa sentire così lento
il gonfiore di una lacrima
posta a non tradire delle avide guance
la immota fonte…
Scampato ogni suicidio
ora vivo e cambio penitenza.
Solo di paura non temo
l’amore poiché in tremore
si rivela ogni parvenza.
Alla mia grande debolezza
consento vittoria: vanità
vanità al magro intendere
da sempre atteso.
Come spiegare la solitudine
ingombrante per il mondo
se le solitudini inventate
sono fatte per amare.
Il mio pianto da tempo si crepa
nel cercare le figure dei perché.
Ridicola ogni umanità
se l’Essere antepone alla pallida sembianza
il Vero.
A Mario Sandro Panico
*
Ascesa
Dall’alto pone richiamo
il vento della sera.
Le ciglia filtrano
della luce il canto notturno.
Il limite a noi richiesto
viene svelato in modesta stella
ma, se rapiti in estasi,
scoprissimo della Natura
il sovrumano ingegno
più nulla resterebbe
del grigio
attonito sentore.
Come foglia che precipita
Icaro ribelle
in solare ascesa
violeremmo il sacro patto
e, di gravità perduti,
in orma celeste
porremmo il solco.
Così, nell’attraversare il cielo,
della terra avremmo memoria
dolce
di un filo d’erba
tramutato
in sacro scrigno.
*
Dei miei perduti passi
non trae memoria
la bambina che toccò
del primo fiore la corolla.
Chi fui
nell’assente dormiveglia
mentre oltre il sogno
vagava la piccola Anima
ridesta.
Al giorno di scuola
sconosciuta
portata a braccia
nella gloria del quotidiano
svogliata
sillabavo il nome
già eterno
ad eco di sé.
La dolce madre mia
ignara all’infanzia
inciampava per mero errore
nella primavera dell’essere
come fossi
molecola di luce
mai venuta al mondo.
*
Un piccolo segno dal cielo. Creatura dal volo incerto adagiata in spicchio di infinito.
Titubante, hai sonnecchiato in remota apparenza; forse misterioso attendevi del confine l’ultimo tratto. Brevi, le ali hanno attraversato la stanza, come fosse orizzonte.
Giunta sul davanzale, da vertigine colta, hai esitato. L’azzurro capo, incerto ha osservato: se fosse solo abisso in cielo aperto o propria dimora..
In te l’apparenza compie il suo transito: in respiro di vento della mia casa straccio l’ultimo velo e, chinando il capo, saluto in tremito l’audace tempo a soglia posto.
*
All’apice di un diadema
spoglio
un’unica gemma permane
a riflesso di luce.
In opaca sembianza
non allevia dello smarrito gesto
il senso.
Ferisce in sua bellezza
la promessa del vero
se, inquieto il sentire
balugina come fuoco fatuo.
Al Sé divelto
narra leggenda di sfavillii nella notte
e dondolio in smeraldine acque.
Ma chi essere se non più siamo
e le linee di uno sguardo opaco
sussultano in amena prigione…
Tace il sopito respiro
in soave apnea
mentre un rancoroso gemito
travaglia la silenziosa
immota
lacrima.
*
In manto di erbosa memoria
torna il respiro della primavera.
Tace il silenzioso cielo
nell’ultima stella o pianeta
apparsi in candido mistero.
Del tenero fiore
sazio di sua bellezza
recita il vento soave armonia.
Satura di ignoto
una linea d’ombra si snoda
in diagonale
raggio di obliqua luce
in ceruleo moto.
Ho del sogno
Il madido profilo
e, senza arrecar offesa
muovo del passo danza.
Attendo in battito flessuoso
l’eterno labirinto delle ore.
*
Hai mai visto del segno la fine.
L’interrotta acquiescenza di una verde collina
nel limite estremo di un tratto
diluente a pendice…
Asservito all’ignoto compagno
l’astratto si imbeve di forma
e in frattale delinea l’alchemico sogno.
Se il Creato tutto astenesse dal gesto
l’impatto rimarrebbe sospeso ad inizio
tributo non dato alla geometria
ma all’invisibile assenso.
In spazio molteplice
eppur presago di ingegno
che il senziente non può immaginare
insoluto.
*
All’ombra di un filo d’erba sono cresciuta
Come fiocco di neve caduto
Il cuore è il mio cielo e nel sempre ad esso ritorno.
Ho trascorso in parole il tempo
ed ora, povera, ad esso rivolgo il mio canto.
Sei il mio Signore nell’aurora
non parlo che di Te.
Non vivo che nell’attesa del Verbo
su me calato a sciame di stelle.
Nel Giardino dell’Eden non regnava solo il silenzio.
Nulla accadeva all’ignaro spirito dell’uomo
se, come creatura, muoveva il passo.
Un giaciglio lo accoglieva in grembo di madre.
La compassione nutre l’essenza di ogni cosa
…un piccolo bruco muove i suoi passi
una tenera chiocciola in umida ombra si allontana.
Noi, dell’eterno giuoco complici,
nell’esistere nasciamo a conoscenza divina.
Ma, in questo istante, sento di non essere
( che una striatura velata di amore
persa tra nubi rosee
preludio al cielo della sera.
*
Giardino d’aria
Ebbi visione
di un giardino d’aria.
Non v’era alcun richiamo alla vita
solo spazio
in pulviscolo di cielo.
Una preghiera posta in verticale
sradicata dal cosmo delle Anime
implosa nell’azzurrità preziosa.
Una traccia della visione prima
del Creato
quando il Verbo nominava Cose
e l’aria ebbe da Colui che E’
il respiro.
Ora torna a noi
nella brezza della sera
quando nulla più
può essere detto
perché del solitario mondo
siam seguaci
eletti
ma non amanti.
*
Di passo in passo
l’orma conduce al sentiero.
Lieve eco ne ebbe il giardino della pre-eternità.
Inquieta fu l’ombra sospesa
sino a trarre dal segno realtà.
Scese in polisemia
ponendo divario tra me e l’assoluto.
Incontro fece del Vate
lì dove si svela grande il progetto
a parola riflesso.
Saprò di me
senza dismettere alcuna cosa.
Un buco mi attraversa il torace
in respiro di vento.
Non sono mai esistita abbastanza.
*
Ecco del sospiro
l’acerbo angelo
cielo di provvida memoria.
Non giunge suono
né desolato battito del mondo.
Solo avanza regale un tempo
mai sazio
viscera incompiuta
ciclo mutevole
incarnato in tragica forma.
Nel tacito sogno apparve
Il solitario Custode
ad indicare la via
ma del clamore tramutato in pianto
nessuno ebbe conforto.
Un piccolo ramo
si staglia a profilo di vento:
in tenera forma
continua ad amare l’incauto giorno.
La vita in sé compiuta.
*
Se a tratti scompare
ad enfasi di sogno
quell’io squarciato a nebbia..
Circoncisione astratta
scavata tra turbinii
di spietati gesti
Improvvisa
nel pallore di un tratto
trova in sé rifugio
Armonia
respiro tepido
inalato a fruscio di silenzio
fiotto carminio
esasperato in plumbea notte.
Muti appaiono
ad antichi destini avvinti
i segni
a chiodo infissi.
Coglie la visione
l’animo desto
in diurno sogno
se dell’identità sia
smarrita memoria
il ciclo dell’eterna rinascita.
In lampi oltre materia
appare salvifica la fine
che ama se stessa
e al vuoto dell’alba tace
ogni inizio.
*
Ecco del sospiro
l’acerbo angelo
cielo di provvida memoria.
Non giunge suono
né desolato battito del mondo.
Solo avanza regale un tempo
mai sazio
viscera incompiuta
ciclo mutevole
incarnato in tragica forma.
Nel tacito sogno apparve
Il solitario Custode
ad indicare la via
ma del clamore tramutato in pianto
nessuno ebbe conforto.
Un piccolo ramo
si staglia a profilo di vento:
in tenera forma
continua ad amare l’incauto giorno.
La vita in sé compiuta.
*
Di quanta anima vivo
se povera di Te
resto nella terra, muta…
Un angelo conosce del cielo
il lamento e ad infinità precorre
galassie ma solo nel corpo
vive il brulichio della vita.
Lo splendore
in forma e levità trasumana
se ardente nel gesto
ne oblia l’infranto manto
in caduca stella.
*
Perché si fa sentire così lento
il gonfiore di una lacrima
posta a non tradire delle avide guance
la immota fonte…
Scampato ogni suicidio
ora vivo e cambio penitenza.
Solo di paura non temo
l’amore poiché in tremore
si rivela ogni parvenza.
Alla mia grande debolezza
consento vittoria: vanità
vanità al magro intendere
da sempre atteso.
Come spiegare la solitudine
ingombrante per il mondo
se le solitudini inventate
sono fatte per amare.
Il mio pianto da tempo si crepa
nel cercare le figure dei perché.
Ridicola ogni umanità
se l’Essere antepone alla pallida sembianza
il Vero.
A Mario Sandro Panico
*
Sebbene a tratti
la neve si sciolga
trafitta al sole
il suo chiarore permane
riflesso in forma di cristallo.
Si specchia Narciso alla fonte antica.
Il tragico volto
in Angelo trasmuta.
Ogni cosa
è colta nel suo cambiamento.
In sorriso
muove l’universo
se, nella magica danza
giunge il Bambino
ad impartire esempio.
Una foglia
offre il suo profilo al bosco.
Non nasce creatura
che non sia nel regale aspetto
divina.
Così Io Sono
e del silenzio
conosco il respiro
se, in attimo di eterno,
il cuore sussurra alfine
del Supremo il Nome.
*
Se a tratti scompare
ad enfasi di sogno
quell’io squarciato a nebbia..
Circoncisione astratta
scavata tra turbinii
di spietati gesti
Improvvisa
nel pallore di un tratto
trova in sé rifugio
Armonia
respiro tepido
inalato a fruscio di silenzio
fiotto carminio
esasperato in plumbea notte.
Muti appaiono
ad antichi destini avvinti
i segni
a chiodo infissi.
Coglie la visione
l’animo desto
in diurno sogno
se dell’identità sia
smarrita memoria
il ciclo dell’eterna rinascita.
In lampi oltre materia
appare salvifica la fine
che ama se stessa
e al vuoto dell’alba tace
ogni inizio.
*
Di quanta anima vivo
se povera di Te
resto nella terra, muta…
Un angelo conosce del cielo
il lamento e ad infinità precorre
galassie ma solo nel corpo
vive il brulichio della vita.
Lo splendore
in forma e levità trasumana
se ardente nel gesto
ne oblia l’infranto manto
in caduca stella.
*
Tace in livida parola
tra monsonici spazi
scoprendo l’inumana ferita.
Torna il ricordo di lei bambina
innocente al disprezzo
docile allo stranito canto dell’infanzia.
Un precoce inverno
gelo pose tra noi.
Non le giunse il pianto
né l’accanito strappo
sogno ebbe del memore passato.
Duole ogni orma
libera dal peso inerte dell’amore.
Ma se di eterno vivo
tra le braccia continua il cullio dell’infanzia
di sola tregua appassito.
*
Dei miei perduti passi
non trae memoria
la bambina che toccò
del primo fiore
la corolla.
Chi fui
nell’assente dormiveglia
mentre oltre il sogno
vagava la piccola anima
ridesta.
Nel giorno di scuola
agli altri affine
sconosciuta
sillabavo il nome.
.
Portata a braccia
nella gloria del quotidiano
svogliata
traevo a stento pena.
Poiché l’Eterno
mi pervadeva
ad eco di sé
e per errore
inciampava la pronunzia
nell’amore di mia madre
come fossi molecola di luce
mai venuta al mondo.
*
Ci chiamano
le Anime del perduto amore.
In linea di luce inversa
afone di sguardi
confondono la terra in cielo.
Non si ode alcuna voce
se non nel sommesso fluire degli aridi flutti.
L’ultimo pallido sospiro
copre della preghiera il suono
né mai altro spazio troverà
nel migrante assolo.
Non eri fratello
né sorella
eppure in sogno
desta vi ho incontrati
senza avere parole o sguardi.
Solo guscio vuoto di conchiglia.
*
Disco solare
riflesso in zaffiro divino.
Ad ombra e simbolo
appare il volto
a definire il potente
increato spazio.
Tremulo si cela
ad inquieta forma
il violetto raggio
di altra dimensione
Tra le acque del ruscello
scorsi dell’amato gli occhi.
Li cercai tra le nevi del Tibet
puro scroscio
trasmutato in stilla di cristallo.
Silenziosa orma vi fu
e profondo respiro inalato dal bosco.
Così scorsi
nel lieve baluginio della sera
la segreta forma in sé dipinta .
Nel riflesso del bosco
*
Appena desta
gli occhi avvinti in celeste sonno
pronunciai del tuo nome
l’avverso fato.
Un piccolo segno
tra le mani giunse
a sospirare nell’ancora
l’indiviso vanto alla vita.
Ma se dall’Anima tradita
non giunse assenso,
fu per lo Spirito nobile che ti avvolse
una sera di dicembre
in doglia di neve.
Così tacque la notte
e il giorno si aprì in gioco inverso.
Sfuggisti alle libellule gioiose
alle lucciole donasti il tocco gentile
mentre in me, muta ad ogni respiro
giunse la ferita
immacolata
del silenzio.
*
Giunse notizia del mio dolore
mentre gioivo.
Lieve
un pettirosso accoglieva del pane
una briciola
ed io ero sospesa
nel vento di una bicicletta
all’imbrunire.
In spirale
nello sguardo a lui rivolto
percepii della vita il suo disincanto.
Ma del respiro fui lieta
come transfuga fossi
da altra civiltà.
Del tuo nome
ebbi in nube memoria.
A gran voce chiamai
muta di me
di noi
il silenzio.
*
DIARIO- PAESAGGIO OCRA- M.Iotti
Ad onde di trascendenza
giunge il mistero della sera.
Non v’è sufficiente morte
nel dilagare di una impronta lignea.
A suffragio nasce un simbolo
in rudimentale scoscesa china.
Trasale ciò che inesprimibile
non è mai detto abbastanza.
Soggiace quindi l’interrogativo
in terra sconsacrata.
Siam forse vivi
o la soglia impressa ha in sé altro rifugio…
*
Preziosi pensieri volgono
ad inizio di tempo breve
smemori della bellezza
posta al limite di un tenue asfalto.
Lì trovano esilio
carmini papaveri riviventi
a traccia di stelo
dal sogno adagiati
quali anemoni
in flessuoso indugio raccolti.
Lo sguardo commuove
il purpureo parto
germinando spazi
al cui richiamo risponde
il segreto giardino.
Non torna a cogliere dell’oscurità
il soleggiato sospiro:
trama un fiore
mai nato del tutto
o forse intuito nel tramontato sole
di un avverso Occidente .
*
Non vi è dell’Anima scelta
alcuna memoria.
Gettai un sasso nel torrente
in sogno apparso
ove gentili creature
-i pesci-
sorrisero agli infranti cerchi
naufraghi di sole.
Volli bagnare le mani
il viso e, nel profumo dell’Assenza
perdermi.
Così nacqui alla sera.
Del giorno forse cullai
una piccola stilla di luce.
*
Pioggia di vanto
sui giovani anni implora.
Figlio
sottratto al ventre di Madre
nelle quinta ora del giorno.
Volti sono gli occhi
alla luce meridiana
mentre in assenza di vita
declama nel nulla i suoi gesti.
Non si spiega il dolore
se non nell’amara piega del cuore
che, di battito in battito, traduce
il gemito in pura forma.
L’umanità ha già i suoi figli
ma del mio In piccola ombra
sconosce il passo.
*
Sebbene a tratti
la neve si sciolga
trafitta al sole
il suo chiarore
permane
riflesso in forma di cristallo.
Si specchia
Narciso alla fonte antica.
Il tragico volto
in Angelo trasmuta.
Ogni cosa
è colta nel suo cambiamento.
In sorriso
muove l'universo
se, nella magica danza,
giunge il Bambino
ad impartire esempio.
Una foglia offre
il suo profilo al bosco.
Non nasce creatura
che non sia nel regale aspetto
divina.
Così Io Sono
e del silenzio
conosco il respiro
se, in attimo di eterno,
il cuore
sussurra alfine
del Supremo
il Nome.
*