[Occorre risalire al di là dell’ispirazione verso quell’evento di parola,
la cui soglia è custodita e sbarrata dalla Musa]
Scrive Mario Gabriele (3 novembre 2018)
Seguiamo per un attimo questa prospettiva linguistica, fuori da ogni arretramento conservativo, e soffermiamoci sulla variabilità della materia poetica, che sembra essere la più attendibile in fatto di documentazione estetica. Si nota subito che la parola è entrata in una nuova ontologia espressiva, vista come un nuovo Essere all’interno di una modernità linguistica che diventa Progetto Culturale Emancipativo per il quale è necessario approfondire e razionalizzarsi su ciò che la modernità richiede. Occorre accertarsi che il segno della libertà linguistica sia sempre il risultato capitalistico proveniente da una start-up della forma rispetto al commercio obsoleto che ancora oggi si usa nel commercio della parola. Si tratta, come diceva Habermas di attualizzare un programma di intenti comuni, relativi ad una modernità culturale nella speranza che essa disegni la strada per una visione più allargata e profonda della realtà,che oggi è universalmente tecnica e scientifica, dove il Soggetto Metafisico è depotenziato dalla sua funzione estetica. Sembrerà quello che scrivo un radicalismo estetico contro ciò che ha santificato la Tradizione, ma non lo è se consideriamo la voce della poesia nei secoli come il lievito che ha fatto maturare e crescere la parola con le forme e i passaggi di staffetta linguistica da una corsa all’altra, da una corrente letteraria ad un’altra perché questo è il vero senso di fare poesia purché ci sia veramente l’accoglienza del lettore.
Scrive Giorgio Agamben:
«Occorre risalire al di là dell’ispirazione verso quell’evento di parola, la cui soglia è custodita e sbarrata dalla Musa. Mentre i poeti, i rapsodi e, più in generale, ogni uomo virtuoso agisce per una Teia moira, un destino divino di cui non è in grado di dar conto, si tratta di fondare i discorsi e le azioni in un luogo più originario dell’ispirazione musaica e della sua mania… In questione è qui il luogo proprio della filosofia: esso coincide con quello della Musa, cioè con l’origine della parola – è, in questo senso, necessariamente proemiale. Situandosi in questo modo nell’evento originario del linguaggio, il filosofo riconduce l’uomo nel luogo del suo divenire umano, a partire dal quale soltanto egli può ricordarsi del tempo in cui non era ancora uomo. La filosofia scavalca il principio musaico in direzione della memoria, di Mnemosine come madre delle Muse e in questo modo libera l’uomo dalla Teia moira e rende possibile il pensiero».1]
Scrive Giorgio Linguaglossa:
Abbiamo qui esemplificate alcune modalità, modi, stili per, come lo definisce Agamben, quel situare il linguaggio nel suo «luogo originario», là dove il linguaggio affiora al primo apparire, affiora come garanzia di se medesimo e nient’altro.
Penso che quanto dice il filosofo sia importantissimo per la «nuova poesia», se soltanto i «poeti» avessero l’umiltà e l’intelligenza di comprendere la profonda vastità di quel concetto di istituire la poesia nel «luogo originario del linguaggio»… concetto pregno e denso di significato.
Rileggiamo la parola del filosofo:
«In questione è qui il luogo proprio della filosofia: esso coincide con quello della Musa, cioè con l’origine della parola – è, in questo senso, necessariamente proemiale. Situandosi in questo modo nell’evento originario del linguaggio, il filosofo riconduce l’uomo nel luogo del suo divenire umano, a partire dal quale soltanto egli può ricordarsi del tempo in cui non era ancora uomo. La filosofia scavalca il principio musaico in direzione della memoria, di Mnemosine come madre delle Muse e in questo modo libera l’uomo dalla Teia moira e rende possibile il pensiero.»
Ecco, io penso che il «luogo proprio» della poesia coincida anch’esso «con quello della Musa, cioè con l’origine della parola… Situandosi in questo modo nell’evento originario del linguaggio», ma mentre la filosofia «scavalca il principio musaico in direzione della memoria, di Mnemosine», la poesia invece dimora nel «principio musaico in direzione della memoria, di Mnemosine». La differenza tra la filosofia e la poesia, sta tutta qui. Da allora, dal tempo mitico di non più coincidenza tra l’evento musaico del linguaggio e il linguaggio poetico, scocca la «poesia» come tentativo di ripristinare quell’accordo musaico tra il linguaggio e il linguaggio poetico.
Ad esempio, nella poesia della Giancaspero è evidente che il «luogo» di cui si parla nella composizione sia il «luogo originario» nel quale ha origine la parola, nel quale è intervenuto un «evento» irripetibile che ha determinato, proprio per la sua irripetibilità, la ripetizione nel tempo eterno nel quale si «mantiene sospeso l’oggi», quel «punto» nel quale tutto si ripete e ritorna «sul medesimo punto interrogativo». La poesia giancasperiana è la ricerca di quel mitico «luogo originario» nel quale situare l’evento di parola, il «luogo» dell’heideggeriano «sage», il «dire originario». E la poesia diventa mito, luogo mitico, luogo irripetibile entro il quale avviene, paradossalmente, la ripetizione dell’irripetibile, quel luogo impossibile dove «La lancetta spezzata» ritorna integra.
1] G. Agamben, Creazione e anarchia, Neri Pozza, 2017 p. 50
Letizia Leone da Viola norimberga (Progetto Cultura, 2018)
Donatella Costantina Giancaspero
Una febbre lieve
Una febbre lieve mantiene sospeso l’oggi.
I minuti oscillano sul medesimo punto interrogativo.
Di scorcio, una parete a quadri spalanca la finestra,
che dà ormai sul giorno fatto. Il punto cade giù, nel vuoto.
Tutto è rimandato, compresa la perturbazione da Nord-Ovest
e chi ascolta da un’altra direzione. Ma non sa la stanza
come si trascina fino alla porta, se la mano traccia il segno della resa.
Alle spalle, una campitura di rosso pompeiano
vigila il corpo contratto dentro un quadrante senza numeri.
La lancetta spezzata.
Un ritmo cieco batte a tentoni negli angoli.
Carlo Livia
La prigione celeste
Dalla finestra di Mozart vedo la donna nuda che beve lacrime divine in un cielo di astri divelti
e un vecchio bambino pazzo che trascina ridendo l’anima del Grande Assente.
A forza di dormire sull’orlo del precipizio, la mia anima si è mutata in sette serafini ciechi
che baciano in sogno l’infelice sposa dell’Ultradio.
Ho attraversato tutto l’universo, cercando quella fessura del tempo da cui affiora la morte
ma ho trovato solo lo splendore delle madonne silenziose votate al blu.
Tutti i tabernacoli sospesi in alto mare s’inclinano lottando contro un vento di frasi fatte
e versano in cielo una musica di carezze e desidèri di fanciulla,
tristi come la voce che mi sfiora in sogno
per dirmi che non è più qui.
Lucio Mayoor Tosi
Anche i lettori con mentalità distorta avrebbero diritto a una poesia
a loro familiare. Moderna, coi mobili a soffitto,
la ruota gravitazionale, i robot che fanno colazione a letto.
L’Arma dei Carabinieri.
Figurativamente, l’interno di un televisore. Tieni fermo il cane.
Si abbracciano le cose intorno. Il lento affermarsi della gratuità.
Un gruppo di pennelli dentro il loro vaso di vetro aspetta
l’arrivo del pascià. Il quale con lo sguardo giallo di un gatto nero
sta fissando la punta sopra di una mezza luna.
Ancora un graffio, un’unghia…
(May- nov 2018)
*
“Uno” è la goccia di luna licantropa che si nasconde
nel perfetto buio della notte di Halloween.
La notte che ti guarda dai vetri.
Uno sta piangendo forte.
Va capito. Aspettiamo che finisca; anche se,
in quanto vivi in una bolla gelatinosa d’aria,
abbiamo poteri limitati. Uscire da noi stessi
per dare soccorso, ad esempio.
Uno si lascia toccare le spalle dagli esseri onnipresenti
che abitano tutte le dimensioni dell’universo;
esseri che farebbero di tutto pur di darsi nelle forme
desiderate da chiunque. Due mani di vento, il soffio
di lunghe carezze; quelli che tornano a cercarti
travestiti da ricordi – segno che ti sono ormai vicini.
Tu sei fatto di ricordi. Non sei umano,
sei una scultura. Per questo dicevo prima di un palazzo.
E ci sono al mondo palazzi vuoti, disabitati. Alcuni
vere galere. E non hanno porte. Ma tanti altri sono abitati.
Dalle mie parti siamo folletti. E ora
che ci siamo divertiti. E ora che ci siamo divertiti.
(May ott. 2018)
Guido Galdini
Un contributo ciclistico cultural politico:
era uscito dal gruppo nel 63
per tirare la volata al capitano
ma quando si è girato alle sue spalle
non era rimasto più nessuno
così è stato costretto
a vincere la tappa il tour il premio Nobel
la presidenza del consiglio si è
congratulata (a quei tempi ce n’era una).
*
da Il disordine delle stanze (1979-2011)
Francesco Guardi, che da vecchio dipingeva fiori, nell’antiquato
stile rocaille, da tempo fuori moda, ai più sconosciuto, fastidioso
a chi ne ricordava le pesanti leggerezze
lo sfaldarsi dei petali sotto il pennello, l’innominabile azzurro, memoria e allucinazione, i boccioli passiti, i pappagalli il vuoto:
cos’altro gli rimaneva da inventare e nascondersi come poteva altrimenti resistere,
se non acconsentire alla quiete dello sfacelo,
chiudersi al tempo, iridescente e cupo, scendere ai luoghi della stremata grazia, cogliendo il brivido, prima che sia tremore.
Giuseppe Gallo
Ai tempi di Internet
COLESTtab 10. Avvertimenti medici.
Nessun io, nemmeno un dio.
È inutile che cerchi divagando
dentro il garage. È partita per Marrakech.
Nel bagagliaio cianfrusaglie e riviste.
La linguaccia di Einstein. Uragani di aguglie.
Gli scarti dei lamenti e delle emicranie
nelle scatole rosse e bianche degli scaffali.
Gli effetti collaterali. I soffocamenti,
la dispersione dei fonemi tra i rossori e i formicolii sulla pelle.
Lilli ha nuovi fantasmi, nuovi inferni nella testa.
Agiografie di martiri, le croci inginocchiate.
Camule sul dorso di draghi
pelurie sradicate sulla guancia di destra e di sinistra.
Ai tempi di Internet
la lastra a raggi x per l’enfisema già antiquata.
LEGALON E
Non escono all’aperto neanche i gatti dei cani
Sui litorali i delfini, gli africani berberi insabbiati.
Deficienza dell’orientamento.
II robot nella sala d’attesa dello psicologo.
Gli schemi, gli ologrammi. Gli angeli spiumati.
Qui non si fanno favori né sconti alle emozioni.
Siamo entrati in questa sala per vedere il niente.
Era solo un precipizio di sentieri ininterrotti!
Autostrade che procedono all’infinito contorcendosi su se stesse.
In spirali anaformiche in dirottamenti periferici
craking e dissonanze, convergenze casuali.
Ai tempi di internet
i sorrisi della giostra defunta.
Lo specchio, una plastica, un fiore da incartare e poi scartare
Eutirox ® 50 microgrammi.
Delirare per una tazza d’azzurro.
Desiderio di ombre senza polvere addosso.
Ed il pensiero germina? Agonizza?
O c’è qualcosa antecedente che lo costringe ad essere?
“Brutta storia!”
“Non brutta, bruttissima!”
Ai tempi di internet obsolescenza programmata.
Lapidi per chi inarca cavalli e insegue automobili.
Forse resiste il gufo invisibile e oscuro
e l’illusione del fuoco per continuare a bruciare…
Edith Dzieduszycka
Alle porte del tempo sta bussando fremente
un altro inverno
un altro inverno o
l’Inverno?
di grisaglia lamé ingobbito sull’uscio avanza
prepotente
ha smembrato le foglie
fuggite qua e là intasando i tombini
ossa nere branditi i rami denudati
terrazzati gli alberi mikado gigantesco
tra roghi divoranti se la ride
Nerone, noi blaterando certi che il folle sia lui
perdiamo i capelli ci divora la fretta
l’oro nero scarseggia compensiamo con armi
sprofondiamo nel buio delle contraddizioni in cui
uno uguale uno non canta ma nitrisce
sull’uscio della mente sta bussando
l’Inverno ma nessuno che sembri essersene accorto
persa parola chiave
la Consapevolezza dentro cunicoli dove fischia il vento
smarrita nullificata a lei connessa
l’altra parola – Assurdo – incisa sulla cornice.
novembre 2018
Marina Petrillo
La luce in obliquo spegne l’ansimato giorno.
Vettore di assenza tra parole
infisse al filo spinato dell’intelletto.
Vacuo il ragionare su altra sponda
ove, solo a tratti, si intercetta
il nesso causale.
Canone inverso dell’apologo
sottratto al rumoroso tedio
dell’esatta misura.
Un cenno
e, ancora resta sospesa in arco
la comprensione, cubico assenso
evocato a schema logico.
Apostrofo, il suo doppio,
in raggio sovramentale.
Ad inciampo rovina
il peregrinante concetto.
Si dissipa in lampo l’ovvia
intuizione che, china,
scorge il calco di ciò che è stato
in smarrita poesia.
(Non sono mai esistita abbastanza)
Sabino Caronia
La bona nova
Se sa, l’amico se la lega ar dito
ma mo, dice, se so pacificati;
che casino, ma mo tutto è finito,
mille scuse e se so pure abbracciati!
Tra tante delusioni e fallimenti
sta bona nova proprio me consola;
me dispiaceva che, tra pene e stenti,
sta pora fija me restasse sola.
C’è chi dice che, prima de fa pace,
l’amico nostro j’ha fatto l’esame
pe’ vede’ se sta donna era verace.
Dice che ne lo scritto è annata male
però, va mormoranno quell’ infame,
che s’è sarvata co la prova orale.
Gino Rago
L’eco di Eeva-Liisa Manner
[la cicatrice del tempo nello specchio]
Cara Signora Manner,
Se non a Lei a chi altri confidare
che la flanella dell’infanzia era morbida
quando il Tempo di Newton non ci disturbava.
Dalla Finlandia un sibilo nel mio dormiveglia:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».
E’ Lei ogni notte quell’eco.
[…]
Il mio amico di Istanbul in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore»
La cicatrice del dolore,
è quella di Ewa, la stessa cicatrice che vede nel suo specchio?
[…]
«Quale specchio?» Lei giustamente chiede,
«Lo specchio dove il tempo si incrina
e Greta Garbo assomiglia a Socrate…»
Non mi dà la risposta, che importa,
importante è che io ponga domande
Giuseppe Cornacchia
Ho smesso da tempo ma ci provo, riorganizzando in distici una mia passata che forse sta a tono. Saluti e di nuovo buon lavoro con la NOE.
L’ardore risuscita i morti, galvanizza,
trasfigura merdine in condottieri,
piante rigogliose di floride radici;
l’argilla nella betoniera, il silicio,
il pietrisco inconsistente, il legamento,
l’acqua piovana in taniche assai coraggiose.
L’amore sventra, osservò Delacroix,
bisogna cogliere il suicida mentre cade
per rubargli la vita sulla tela.
Delacroix sventra, rimarcò Baudelaire.
“È la maitresse più esigente che conosca”
-l’arte- ammetteva, non voleva amanti.
Povero Warhol che se ne riempiva,
povero Bohr nel suo modulo astratto
e povero Einstein, veloce, troppo,
dovendo fare l’occhio a tante cose
mentre Cassano intossica pazienti
con intrugli da stregone (meccanicista!).
— da “Cinquanta Poesie”, 2015, Lampi di Stampa —
Mauro Pierno
Si incantano incompetenti.
Le ore sovrapposte a ridosso delle porte
intessono coperte patchwork. Nei ghirigori
della costruzione onirica ti sei addormentato
anche tu! Dopo aver saltellato un canguro si ripose nell’astuccio dei colori. Rideva.
Tutti ridevamo nel sonno profondo del letargo.
La storia era allora un fossile disperso.
*
Nelle sorprese minime dei fiori malcelati
addosso, solo adesso, mi si sfilano i calzari.
E nell’odor dell’ombra a Pascoli somiglia
il lieto mio rider sordo, questo soffrire, a piedi anche scalzi.