Alcune ragioni per una nuova ontologia estetica, Poesie di Donatella Costantina Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago e Lidia Popa nella traduzione in romeno di Lidia Popa

 

Giorgio Linguaglossa
Forse il mondo ha cessato di essere significativo…

 

Giorgio Linguaglossa

 

Alcune ragioni per una nuova ontologia estetica

 

L’opera d’arte del Dopo il Moderno è l’unico tipo di produzione che testimonia l’invecchiamento e la deperibilità come fattori positivi che consentono sempre nuove aperture di senso.

 

L’opera d’arte è l’unica forma di produzione che si presenta in termini ostili alla organizzazione del consenso e del senso cui invece soggiacciono tutte le altre forme di produzione.

 

Forse il mondo ha cessato di essere significativo, e forse al poeta di oggi non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ma è emblematico che alla poesia di oggi tocchi in sorte di dover stendere in versi l’epicedio esistenziale forse più lucido e disincantato della poesia di matrice novecentesca.

 

Oggi noi parliamo dell’indebolimento della soggettività con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante.

 

Il fatto è che non si può uscire dal sortilegio, o dall’immaginario direbbe Lacan; non possiamo sortire né entrare in un luogo «sconosciuto» se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, perché la città del senso la puoi prendere soltanto con un trucco, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta è ragguagliabile ad un illusionista che illude con le parole ed elude con le parole. «Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».1

E forse in questo bivio soltanto può abitare il senso, il senso residuo dopo la combustione, se davvero v’è un senso nella parola poetica, costretta a sopravvivere in questo «indebolimento della soggettività»2 e «raffreddamento delle parole» che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo perfino dimenticato la scaturigine.

 

Il linguaggio paradossale per eccellenza è il linguaggio mitico. Nel mito, infatti, le categorie del pensiero non-contraddittorio e del principio di non-contraddizione vengono meno, sono inutilizzabili. L’«esperienza» e l’«esistenza» sono per eccellenza il terreno della massima contraddittorietà. Non abbiamo la minima idea di che cosa sia una «esperienza» e come la si faccia. Anche la forma-poesia, dunque, deve farsi carico del contraddittorio e del paradosso quali proprietà di ciò che è e di ciò che non è. Di qui la necessità di costruirsi una procedura altamente conflittuale e contraddittoria, direi «belligerante» che coniughi ciò che è contraddittorio come elemento ineliminabile della «contraddittorietà incontraddittoria».  Di qui la necessità di munirsi di uno strumento sofisticatissimo, di un linguaggio poetico che comprenda la «massima contraddittorietà incontraddittoria». Ecco spiegata la necessità improrogabile di una «nuova ontologia estetica».

 

Scopriamo che la poesia ha a che fare con l’illusione e l’abbaglio, piuttosto che con la certezza e la verità, categorie che già filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare in ambito estetico, poiché avrebbero messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo del nomos e del logos, parole altisonanti ma false all’orecchio della Musa. L’illusione è lo specchio della verità: anzi, è la verità che si guarda allo specchio.

 

L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio, il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso.

 

La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivola inevitabilmente nell’ombelico autoreferenziale. Il linguaggio poetico è diventato un linguaggio che si ciba di altro linguaggio, che abita una dimensione auto-fagocitatoria. Che lo si voglia o no, la poesia del novecento e del Post-novecento è stata colpita a morte dal virus del panlogismo. Dobbiamo prenderne atto. C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile ad esso, che resiste alla sua irreggimentazione. Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale: quel qualcosa, la «Cosa», di cui nulla sappiamo se non che c’è, che esiste e resiste. E, con essa, esiste  il «vuoto», che incombe sulla «Cosa», risucchiandola nel non essere dell’essere. Forse è proprio questa la ragione fondamentale che ci impedisce di poetare alla maniera del glorioso passato e ci spinge verso una «nuova ontologia», con annesso e connesso il «vuoto», che incombe sinistro su noi tutti e tutto divora.

 

la riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una intensa problematizzazione intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto (e dell’oggetto). L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante. Avrei qualche dubbio sulla scelta di porre una poesia intorno al «soggetto», perché dovremmo chiederci: quale «soggetto»?, quello che non esiste più da tempo?

 

Ritengo che la poesia non possa essere esentata dalla investigazione della crisi del «soggetto», e che una «nuova ontologia estetica» non può non prendere a parametro della propria pratica questa problematica.

 

Però, però… c’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico.

 

In questa forma di pensiero noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, credo, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente nella persona di Vincenzo Vitiello nelle due domande postate tempo fa e in accordo con il pensiero di Massimo Donà secondo il quale la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).

 

«Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»1]«L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’insegna del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».2]

 

Giorgio Linguaglossa

 

La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.
L’oggetto dell’estetica è qualcosa che non sta né qua né là. E l’arte non ha modo di acciuffarlo, se non con l’accalappiacani, o l’acchiappafarfalle. In ciò, il concetto di arte è affine a quello delle nuvole. È un concetto rarefatto. È un concetto meteorologico.

 

L’arte che vuole essere fondazionale, si ritrova ad essere funzionale, perché l’arte non fonda più alcunché tranne la propria metessi con lo spirito fatto di immondizia. Così, l’arte scopre la propria natura meteorologica e merceologica. L’arte suprema è la forma suprema di merceologia dello spirito.

 

L’arte suprema di Baudelaire ha mostrato che quella «promesse du bonheur» che essa promette è, in realtà, una truffa, in quanto essa è sempre meno sicura della propria esistenza e della propria sopravvivenza nella società delle merci. L’arte però risponde alla propria insussistenza con il ritorno del rimosso, ripresentando ogni volta quella promessa fedifraga sapendo della menzogna ma tacendo. Ed ecco come il silenzio si insinua nella sua struttura con il ritorno del rimosso. Baudelaire ci ha mostrato in maniera indiscutibile quanto quella promessa di felicità sia una truffa dello spirito servile e quanto la pacchianeria sia vicina all’arte nella sua più alta forma di espressione.

 

«L’oggetto dell’estetica si determina come indeterminabile, negativo. Perciò l’arte ha bisogno della filosofia, che la interpreta, per dire ciò che essa non può dire e che però può esser detto solo dall’arte, che lo dice tacendolo. I paradossi dell’estetica le sono dettati dall’oggetto: “Il bello richiede forse l’imitazione schiavistica di ciò che nelle cose è indeterminabile” (P. Valéry).

 

Il momento ripetitivo del gioco è copia del lavoro non libero, così come la forma di gioco che domina al di fuori dell’estetica, lo sport, ricorda obblighi pratici ed adempie incessantemente la funzione di abituare incessantemente gli uomini alle esigenze della prassi…».3

 

In una parola, il Bello, concetto arcaico e ingenuo, presuppone sempre la borsa della spesa, la sporta piena di delizie dolciarie da supermarket. Dà l’illusione del piacere dell’immediatezza. E invece è il piacere dell’immondizia. Il momento del piacere nella fruizione di un’opera d’arte, non può essere intuitivo né immediato se non nella forma rozza del realismo ingenuo, che ingenuo non è perché sottoposto alla mimica e alla mimesi del «reale». Quindi, il problema si ripresenta sempre allo stesso modo. E risponde alla medesima domanda: Quest’arte è realistica? È rispondente ai criteri di ciò che intendiamo per realismo?

 

Il fatto è che nell’epoca del crescente impoverimento dello spirito soggettivo, di fronte al factum brutum dell’obiettività sociale, l’arte è costretta a dichiarare bancarotta e a recedere a ironizzazione dello stile floreale, a parodia dello stile.

 

Quindi, stabilire che cos’è il «reale» e che cosa intendiamo per reale è sempre prioritario per l’arte che non voglia apparire in funzione decorativa o utilitaristica. Però, l’arte che va a letto con il «reale» recita la parte della concubina fedifraga, e non è neanche tanto seria quanto vorrebbe apparire. Epperò, la poca serietà dell’arte è sorella della sua natura fedifraga.

 

«Mediante la moda l’arte va a letto con ciò cui è costretta a rinunciare e ne trae forze che si atrofizzano sotto la rinuncia; senza di questa, tuttavia, l’arte non ci sarebbe. L’arte, come apparenza, è il vestito di un corpo invisibile. La moda è il vestito come assolutezza. In questo la moda e l’arte si capiscono». 4

 

Direi che la moda è il vestito del corpo visibile, e l’arte di quello invisibile.

 

«Il concetto di corrente alla moda – moda e arte moderna sono termini linguisticamente affini – è un caso disperato».5

 

 Nell’ambito della comunicazione globale, arte e nettezza urbana vanno a braccetto. Quel tanto di spirito soggettivo che trasuda dai suoi belletti, richiama alla mente l’abito della Signora Sosostris.

 

1 Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007 p. 87
2 Ibidem p. 79
3 T.W. Adorno, Teoria estetica Einaudi, 1970 p. 445
4 Ibidem p. 447
5 Ibidem p. 449

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Due poesie inedite di Donatella Costantina Giancaspero 

 

Canto

Dove si scrosta l’asfalto
e il dissesto degrada certezze già erose
di strade.

Dove una stenta sterpaglia umilia la terra
e dirada speranze già vane
di case.

Dove il cielo trascina
una gonfia materia di ombra,
che sosta al mattino dubbiosa,
si agita, a un tratto,
se offesa da un soffio di gelo.

E, percossa dal tuo crudo pensiero,
nella notte s’incrina.

*

Cântec

de Donatella Costantina Giancaspero
traducere de Lidia Popa

Unde asfaltul stă să crape
iar perturbarea degradează certitudini deja erodate
de drumuri.

Unde o așa zisă desertăciune a umilit pământul
și rărește speranțe deja zadarnice
de case.

Unde cerul trage după sine
o materie umflată de umbră,
ce oprire de dimineaţă îndoielnică,
se agită, dintr-o dată,
este ofensată de o respirație de gheaţă.

Iar, parcursă de gândul tău crud,
în noaptea în care cedează.

*

Non potevamo mancare

Non potevamo mancare
all’appuntamento con il tramonto,
in questo giardino severo
di alberi soli,
tesi, come accuse al cielo.

Non potevamo non esserci
dopo molti giri a vuoto,
fuggendo i veleni, le trappole urbane,
tentando una falla, il filo sfilato,
nella trama del tempo, che ci contiene.

È un sollievo questa tregua di terra e rami
e l’ora che chiude il giorno.
Lento il respiro, se è per cedere
anche l’ultimo chiaro, a ovest,

e la sera ci salva.

*


N-am putut rata

N-am putut rata
întâlnirea cu apusul de soare,
în această grădină severă
de copaci singuri,
încremeniți, precum acuzațiile adresate cerului.

N-am putut să nu fim acolo
după multe ture goale,
scăpând de otrăvuri, capcanele urbane,
încercând un defect, un fir deșirat,
în complotul timpului care ne conţine.

Este o uşurare acest armistiţiu al pământului şi al ramurilor.
și ora care închide ziua.
Respiraţie lentă, dacă e să renunţi
chiar şi ultimul lucru clar, la vest,

și seara ne salvează.

(traduzione in rumeno di Lidia Popa)

Giorgio Linguaglossa

Due poesie inedite di Giorgio Linguaglossa


da “Risposta del Signor Cogito”

La polizia segreta interroga il Signor Cogito

I

Si annuncia con il tinnire di monete false,
un flash al magnesio, un sentore di uova marce: il Signor K.

La redingote del Signor Cogito
si siede di fronte alla finestra. Attende.

Il Signor K. si siede sulla sedia rossa,
emana un profumo di cipria la sua parrucca

impolverata, parla nella lingua dei corvi:
eptaedri, triedri, dodecaedri.

La polizia segreta interroga il Signor Cogito.
Chiedono notizie intorno al «suo occhio sincipitale».

Un riflettore illumina il volto del Signor Cogito.
Un trisma percorre a ritroso il volto del Signor Cogito.

Cogito osserva attraverso la finestra.
La finestra è aperta su un paesaggio

di colline verdi, ondulate e di tigli in fiore.

Il Signor K. indugia.
Il Signor Cogito attende.

Cogito sceglie con cura le parole,
sa che possono essere rivolte contro di lui,

attende che il buio entri dalla finestra.

II

Il Signor Cogito dice:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».

La tigre sorride.
«Nomina sunt consequentia rerum».

La tigre sorride.
«Dunque seguono, non possono precedere le cose».

La tigre continua a sorridere.
«Le cose le avete fabbricate ma le parole…».
.
La lampada al neon illumina la faccia dell’imputato.
«No, quelle non potete fabbricarle».

*


Răspunsul Domnului Cogito

Poliția secretă interoghează Domnul Cogito.

I

Se anunță cu zumzet de monede false,
Un flash de magneziu, un indiciu de ouă stricate: Domnul K.

Redingota Domnului K.
Stă în faţa ferestrei. Aşteaptă.

Domnul K stă pe scaunul roşu,
Radiază un miros de pudră peruca sa.

Prăfuită, vorbeşte în limba ciorilor:
Eptaedri, triedri, dodecaedri.

Poliția secretă interoghează, Domnul Cogito.
Ei vor să știe despre “ochiul lui sincipital”.

Un reflector luminează faţa Domnului Cogito.
O trismus traversează faţa Domnului Cogito.

Cogito observă prin fereastră.
Fereastra este deschisă spre un peisaj

de dealuri verzi, ondulate şi tei în floare.

Domnul K. persistă.
Domnul Cogito aşteaptă.

Cogito alege cu grijă cuvintele,
știe că pot fi împotriva lui, el aşteaptă

ca întunericul să intre pe fereastră.

II

Domnul Cogito spune:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».

Tigrul zâmbeşte.
«Nomina sunt consequentia rerum».

Tigrul zâmbeşte.
“Aşa încât vor urma, nu pot să preced lucrurile”.

Tigrul continuă să zâmbească.
“Lucrurile pe care le-ați făcut, dar cuvintele…”.

Lampa de neon luminează faţa acuzatului.
“Nu, pe acelea nu le puteți fabrica”.

(tradotte in romeno da Lidia Popa)

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Una poesia inedita di Gino Rago

La poesia, la caccia, la parola-preda

 

Caro Signor G. R.
sono Jolanda W., di nuovo irrompo nella Sua vita

senza preavviso.
La Signora Lipska è sempre in giro

ma ha lasciato un biglietto.
Mi prendo la libertà di spedirlo

all’indirizzo riservato che è qui, sulla sua scrivania.
Forse la Signora desidera dare a Lei

il suo manifesto poetico.
Lo conosco da tempo, glielo anticipo.

Per la Signora
la poesia è andare a caccia,

un’orma dopo l’altra
con i battitori dietro i latrati delle parole.
[…]
So che Lei e il Suo amico di Istanbul
seguite nei versi

la rapace fonetica del bosco,
ma con il colpo in canna.
[…]
Tenete nel mirino del fucile la parola-preda,
inseguite la lingua

ma mai nel sottobosco romano o milanese.
Riconosciuta la parola prendete la mira,

sparate, la preda mirata è là,
ridotta in polvere

(le parole non tenute sotto mira si disperdono)

(Traduzione in rumeno di Lidia Popa)

Poezia, vânătoarea, cuvântul-pradă
de Gino Rago
(traducere in limba română de Lidia Popa)

Stimate domn G. R.
Sunt Jolanda W., mă năpustesc din nou în viața Dumneavoastră

fără notificare.
Doamna Lipska este mereu în preajmă

dar a lăsat o notă.
Îmi iau libertatea să o trimit

la adresa rezervată care este aici, pe biroul său.
Poate că Doamna vrea să vă dea Dumneavoastră

manifestul său poetic.
Am cunoscut-o de ceva timp, o vă confesez în avans.

Pentru Doamna
poezia este vânătoare,

o urmă după alta
cu baterea în spate a latrăturilor de cuvinte.
[…]
Știu că Dumneavoastră și prietenul Domniei sale de la Istanbul
urmăriși în versete

fonetica prădătoare a pădurii,
dar cu cartușul pe țeavă.
[…]
Păstrați cuvântul „pradă” în vizorul puștii,
urmăriți limba

dar niciodată în subpătrunderea romană sau milaniană.
Recunoscut cuvântul vă fixați ținta,

trageți, prada țintă este acolo,
redusă în pulbere

(cuvintele care nu sunt ținute sub țintă se rătăcesc)


*

Giorgio Linguaglossa

Una poesia in rumeno di Lidia Popa

Umbra clapelor vertebrelor cu silabe reci
testo originale in rumeno de Lidia Popa

În liniștea serii, cântecul pustiului, mireasma ploii pe umerii goi,
pândesc cu spaimă peste umbre, dorul și amiezile celor ca noi.
M-am întors pe călcâie către orizont, un salut,
cu silabe reci îmbrățișez primăvara ce tămăduie sufletul.

Am rămas singură într-o lume străină, amintirile mă dor,
amprentele pe suflet, o redingotă roșie uitată, joacă șotron
cu liniștea, ce îmi făcea semn cu mâna adăpostindu-se în cotlon,
surâzând cuvintelor zgomotoase ce vorbeau neîncetat de amor.

Doar ei palmierii, frunzele lor verzi, pe cerul cenușiu și departe,
trăiesc și speră, pânzele albe ale corăbiilor neștiute,
doi cormorani roșii cântă cu slove aurii dintr-o carte.

Ai rămas pe clapele vertebrelor ca o mângâiere de degete
anatomică umbră a carcasei fragile a ochiului sferic,
luminează putregaiul tâmplelor fosforescente în întuneric.

(traduzione in italiano a cura di Lidia Popa)

 

L’ombra dei tasti delle vertebre con sillabe fredde

Nella quiete della sera, la canzone del deserto, il profumo della pioggia sulle spalle nude,
con paura si aggirano oltre le ombre, nostalgia e i pomeriggi di quelli come noi.
Sui tacchi mi sono girata verso l’orizzonte, un saluto,
con le sillabe fredde abbraccio la primavera che guarisce l’anima.

Sono rimasta sola in un mondo straniero, i ricordi mi hanno ferita
le impronte sull’anima, una tonaca rossa dimenticata, giocano a campana
con il silenzio, che mi faceva cenno con la mano nascondendosi nell’antro,
sorridono alle parole rumorose che parlano continuamente dell’amore.

Solo loro le palme, le loro foglie verdi, sul cielo grigio e lontano,
vivono e sperano, le tele bianche delle navi sconosciute,
due cormorani rossi cantano con le parole dorate da un libro.

Rimasti sui tasti delle vertebre come una carezza delle dita,
anatomica ombra della carcassa fragile dell’occhio sferico,
illuminano il marciume delle tempie fosforescenti nell’oscurità.