Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio? Poesie di Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Commenti di Michel Meyer, Lucio Mayoor Tosi, Nunzia Binetti

 Giorgio Linguaglossa

 

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio

 

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

Non vedo l’ora di avere al governo una miss

in gabardine, che sappia il fatto suo. Una che pare uscita
dal fon ma decisiva sull’orientamento dei social. Come farsi
venire il cancro e quali rimedi.

Scrive Alfonso Cataldi:

Una cuspide infantile conficcata nel polpaccio
chiede ancora
«Tamburi, giochiamo a guardia e ladri?».

Scrive Carlo Livia:

La madre obliqua tiene al guinzaglio due amanti vegetali, oscillanti.

Scrive Mauro Pierno:

È tornata una psoriasi in cammino. Un corteo instabile con andamento lento.

Francesco Paolo Intini nel suo brillante commento nel post di oggi, scrive:

«Si comunica per interferenze. Il pensare è costituito da figure d’interferenza.»

Prendo lo spunto da quest’ultima osservazione di Francesco Intini per osservare che per il 95% del nostro essere nel mondo noi siamo esposti continuamente alle «figure di interferenza». Quando guardiamo il televisore, ascoltiamo la radio, guardiamo lo smartphone in metropolitana, quando siamo in un autobus a Roma o a Torino o a Canicattì, quando ci troviamo in un bar affollato, quando stiamo dal barbiere a farci tagliare i capelli, quando siamo in una sala d’aspetto di uno specialista in cardio chirurgia, o nelle sale d’aspetto di un aeroporto o di una stazione ferroviaria, quando andiamo ad ascoltare un terrificante slam poetry, quando andiamo a fare la spesa al mercato, e via di questo passo, noi siamo esposti di continuo alle «figure di interferenza»; innumerevoli interferenze avvengono anche quando siamo rinserrati nella nostra solitudine negli anonimi palazzi romani a dodici piani, attraverso i muri, come ben rappresentato nelle poesie di Donatella Giancaspero. In realtà, nella nostra vita quotidiana siamo esposti a innumerevoli «figure di interferenza» e continuare a pensare la forma-poesia come un monologo di un Robinson Crusoe in un’isola deserta (come avviene nella poesia di Cucchi), è una finzione e una falsificazione del mondo reale nel quale viviamo. La poesia di uomini solitari che monologano intorno alla propria solitudine ad interrogare le stelle, è una finzione, anzi, peggio, è kitsch. La nuova poesia non può continuare ad avallare questa ridicola insulsaggine, la nuova poesia non può non accettare le condizioni poste dalla nuova civiltà telematica e globale ed assume le «figure di interferenza» come una categoria ineliminabile dalla nuova poesia e come un dato di cui non ci si può sbarazzare con un atto di bacchetta magica. Il mondo è cambiato, e, di conseguenza, anche la forma-poesia è cambiata, e la NOE non può che rappresentare, con mezzi poetici, questi cambiamenti storici ed epocali.

Scrive Michel Meyer:

«nei manuali sul linguaggio e la semantica, si studiano le proposizioni come entità logicamente autonome, e ciò è evidente. L’autonomia, tutta relativa come si è visto precedentemente, è anch’essa un prodotto, il frutto di una dinamica. Di conseguenza, non si può affrontare la questione del senso al di fuori dell’idea di discorso, e anche, per completezza, del discorso detto di finzione, Quale test migliore della letteratura, per verificare una teoria del linguaggio che vuol essere totalizzante? Allora troveremo forse nei teorici della letteratura la concezione del senso generalizzato che cerchiamo? La risposta è sfortunatamente negativa, e questo per un’eccellente ragione. Molto spesso coloro che si occupano di letteratura procedono – in nome della scienza, e dunque del rispetto dell’empirico, beninteso – analiticamente, come i nostri linguisti del capitolo precedente. Studiano delle opere isolatamente,. o degli autori. Non c’è affatto bisogno di una visione filosofica del linguaggio per operare in questo modo, no? E sempre in questo ambito, si presupporrà una metodologia della lettura che non si dovrà esplicitare, e ancor meno giustificare. Le opere non parlano forse da sé? Le cose sono senza dubbio un po’ cambiate, appunto con l’autoreferenzializzazione della letteratura di cui abbiamo già parlato prima. La letteratura si è presa sempre più come proprio oggetto e ha messo il proprio linguaggio alla ribalta della critica letteraria. E qui, è sorto un altro scoglio: quello di una teoria del linguaggio modellato sul linguaggio della finzione. Come Frege aveva in mente l’univocità e l’oggettività del linguaggio matematico-sperimentale quando parlava di logos, Derrida, a esempio, ha una concezione letteraria del logos, fondato sulla non-referenzialità del linguaggio, sulla sua natura non univoca, retorica, tropologica; figurativa, in una parola. Ma si tratta di una retorica argomentativa: i segni si rimandano indefinitamente gli uni agli altri…».1]

1] M. Meyer, De la problématologie. Philosophie, science et langage, Bruxelles, 1989, trad it. Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 199i p. 317

Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi

17 maggio 2019 alle 12:12 Modifica

Di fatto, nella poesia NOE, e forse particolarmente nel polittico, il discorso poetico che si compie – tramite reportage, missiva, telefonata, o quant’altro – costituisce un artificio. L’intero discorso è un artificio, la cui funzione consiste nell’unire tra loro elementi casuali, distanti e discontinui. Le «interferenze».

Resta una parvenza, traccia od ombra dell’idea di discorso.

Giorgio Linguaglossa

17 maggio 2019 alle 12:15 

 

Stanza n. 27

 

Sulla borchia di ottone c’è scritto:

 

«Girone dei morti assiderati». Entro.

Ombre bianche sono alle prese con dei simulacri.

 

Altissimi soffitti, corridoi ciechi, corridoi curvi,

tante lampadine appese ai fili della luce.

 

Un travestito cammina su alti trampoli

in giarrettiere e calze velate in compagnia di un trampoliere.

 

Sonnambuli camminano e si vedono camminare.

Ridono. E tornano in sé.

 

[…]

 

Simulacri prendono congedo dagli abiti.

Un Re senza testa è seduto sul trono.

 

Un dio raccoglie la testa del Re.

 

Una Regina cavalca con il cavaliere di coppe.

Un fante raccoglie la testa del Re.

 

Uomini entrano dentro gli specchi,

e ne escono bambini.

[…]

Gli oggetti della mia infanzia.

Lo sgabello che pensavo fosse un trono.

 

L’ombrello che pensavo fosse uno scettro.

L’esercito dei bottoni di madreperla.

 

La stanza dei giochi infantili. La finestra aperta.

La finestra chiusa.

 

Dalla finestra della stanza n. 27

qualcuno spara un proiettile,

 

il quale attraversa il muro, esce dalla porta

e colpisce alle spalle mia madre che raccoglie la cicoria.

 

Nunzia Binetti

17 maggio 2019 alle 17:14 

Una NOE realizzata in modo lodevole. La lateralità del sé, in stanza n.27, ha prodotto versi importanti e addirittura coinvolgenti , in cui si affacciano frammenti di memoria, che definirei, sussultori. Ciò che mi domando, Giorgio, è se una forma- poesia così nuova, come la NOE, possa incontrare un gruppo di lettori in grado di comprenderne l’efficacia e la filosofia che ha contribuito a fondarne il metodo, metodo per il quale ci battiamo contro un esercito di infedeli , per non definirli ancor peggio,disseminati ovunque si volga lo sguardo. Complimenti per questi tuoi versi.


Gino Rago

17 maggio 2019 alle 18.51 

La Regina-dei-cartoni a Via Marsala dialoga con Giorgio Linguaglossa

[…]
Samuel Beckett: «Giunge una voce dal buio a qualcuno.
Immagini»

Una voce. Un ascoltatore. Il buio.
Il rito perduto nella caverna.

Beckett:«Evoco la mancanza del rito.
Fuoco. Musica. Danze. Parole rituali.

Dei. Cavalli o bisonti sulla roccia nella caverna.
Tutto il villaggio che danza pregando.

Totalità simbolica. Immobilità nello spazio.
La gravità. Uomini non morti

Perché uomini mai vissuti.
La voce al buio resiste,

Ritornerà l’era dei poeti,
Godot… Metà God, metà Charlot… »
[…]
Linguaglossa scambia lo sgabello per un trono:
“E’ un trono vero, non è uno sgabello…

E’ mio. E’ il trono della Regina-dei-cartoni
a Via Marsala-Stazione Termini…

Ma qui non c’è un come.
Non ci sono né un dove né un quando.

Il significante qui non ha significato.
Le parole non sono più in nessun contesto.”

Linguaglossa: “Mia Regina-dei-cartoni-a-Via-Marsala,
quale per te il senso della vita…?”

“Passare il tempo…En attandant Godot.
Ma ieri non è arrivato, oggi non arriva…”
[…]
Una foglia nuova su un albero,
Vladimiro a Estragone:

«Avresti dovuto essere un poeta».

Estragone: «Lo sono stato. Si vede, no?
Non vedi gli stracci?

Le mie parole sono state stracci».
[…]
Picasso nelle grotte:
«Dopo Altamira la pittura è solo decadenza.

Religione-Arte-Poesia. Registri entanglati.
Mescolamento di pause e silenzi.

Citazioni di teologia. Turpiloqui.
Fili metafisici. Incomunicabilità….»
[…]
Morandi fa la corte alla Regina-dei-cartoni.
A Via Marsala allinea brocche-bottiglie-tazze.

Linguaglossa di nascosto prega per un’ombra.
La Regina-dei-cartoni-a-Via Marsala:

“La vita…Passer le temp
En attendant Godot”.

 

Carlo Livia

 

16 maggio 2019 alle 13.10

” Ciò che è stato compreso, non esiste più.”
Paul Eluard

” Dice verità chi dice ombra.”
Paul Celan

” La poesia è l’amore realizzato
del desiderio rimasto desiderio. ”
Renè Char

Estendendo a tutto l’essere le osservazioni del principio di indeterminazione di Eisenberg sulle particelle subatomiche, tutto ciò che viene subordinato al pensiero concettuale, alla dimensione logocentrica del linguaggio-pensiero formalizzato dai codici tradizionali, viene snaturato, alterato, la sua risultanza epistemologica annientata. La poesia è una reazione, un tentativo di liberazione da questa illusione e mistificazione.

Sette Rassegnazioni

Il figliastro insolubile torna dall’Enigma, eterno, senza vita. In uranio arricchito, inossidabile.

La madre obliqua tiene al guinzaglio due amanti vegetali, oscillanti.

La musica celeste, completamente nuda, gira l’angolo, il padre sventola sui fili, l’attimo indurito lotta sull’argine, acceca, ordina l’arresto.

L’erba triste sorregge il panico, io precipito dall’anestesia clericale, fasciato da minuscole domeniche sorridenti.

Dopo il diluvio la notte dei camaleonti. La parola rigonfia muore senza vergogna: non ha mai goduto.

Sguardi stranieri escono dal groviglio, avanzano le donne folli, senza corpo, spargendo feritoie, sotterranei, cieli falsi.

Col sogno avanzato dalla sposa, circondano la fine.

Giorgio Linguaglossa

«Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»1]


«L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’insegna del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».2]

 

Gli oggetti sono in sé una produzione di significati.

Penso che la poesia del prossimo sviluppo della nuova ontologia estetica dovrà ritornare alla memoria degli oggetti, alla capacità che gli oggetti materiali hanno per noi di fissare i significati nel tempo, di restituirli al tempo in quanto tempo condensato e solidificato, con una sorta di risarcimento postumo: restituirci il loro significato intimo di cui non ci eravamo accorti. Che però è stato anche il nostro, a nostra insaputa, nolenti e noenti, durante la nostra assenza, dove non eravamo, dove eravamo. Un individuo e un gruppo riescono a fissare il senso della loro esistenza grazie a una costellazione di oggetti che in qualche modo li hanno caratterizzati in un dato tempo. Per il tramite degli oggetti nel frattempo diventati cose noi possiamo comprendere ciò che li rendeva specifici, individuali, nostri, quando noi non eravamo, e così comprendere ciò che eravamo, e ciò che siamo diventati. Sono la spada e lo scudo di Achille che ce lo hanno consegnato nel nome del mito, gli oggetti parlano sempre nel nome e per conto di un altro, di quell’altro che eravamo senza saperlo, senza volerlo. Per questo penso che la poesia debba fondare una oggettoalgia.

 

Possiamo vedere realmente gli oggetti soltanto là dove non ci siamo più. Noi vediamo realmente gli oggetti solo rivedendoli. Rivedere è già capire.

 

Umberto Galimberti scrive che:

 

«la poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati, che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose ma ciò che l’uomo impone alle cose, la violenza poetica sul contenuto quale si dà».3]

 

La scrittura poetica nel senso del comune sentire della maggioranza è «una produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose, quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.

 

Il problema è molto complesso e non è riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.

La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più «accreditati» dagli uffici stampa degli editori, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, che va con un linguaggio imperativo, giustificato e giustificatorio.

 

Qualcuno mi chiederà: «che cosa intendi per linguaggio giustificatorio»? Risponderei così: con linguaggio giustificatorio intendo la posizione del «poeta» che si pone in un angolino del «creato» e di lì si interroga e interroga il «creato» alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria esistenza. Ebbene, questa è una finzione e un falso, è una posizione imbonitoria, assolutoria, in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di narcisismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di cotali «poeti» che oggi sono di moda e vengono celebrati. Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.

Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate.

 

Qualche giorno fa un poeta mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, penso, e ho tentato di argomentare questo mio pensiero in varie mie pubblicazioni, che la poesia di questi ultimi decenni sia stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni di status symbol, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale e consapevolezza storico culturale della poesia del novecento. La mia impressione, spero di sbagliarmi, è che la poesia italiana che è stata scritta in questi ultimi decadi e che si continua a fare oggi è una forma di scrittura privata priva di valore culturale, un genere di scrittura che non contiene alcuna regola, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Il punto di vista di Umberto Galimberti

 

«Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni della nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.»*

 

* U. Galimberti Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, 1990 p.93

 

«Per staccarsi dal pensiero rappresentativo occorre, a parere di Heidegger, un salto. Saltando ci lasciamo cadere. Dove? Là dove già siamo: nell’appartenenza all’essere. Dal salto nasce “già” in cui si era. Il rilassamento (Gelassenheit) che sorge dal “ritrovarsi” nel “già” in cui si era. Il rilassamento vive la serenità (Gelassenheit) del “ritorno” nel luogo in cui “da sempre” si era, e col ritorno il piacere del ricordo e del recupero.

[…]
Se salvezza, come dice Heidegger, è “ricondurre qualcosa alla sua essenza”, in modo che il qualcosa non vada perduto, la tecnica potrà salvare se, invece di appropriarsi dell’ente, si dispone all’essere che, nel suo appropriarsi originario (Er-eignis), ospita l’accadimento di ogni ente.

Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen) e “apertura al mistero (die Offenheit fur das Geheimnis)”.

Il mistero è l’incalcolabilità dell’essere, di ciò che ci fa pensare, del “proprio pensiero”, in cui si custodisce il destino (Geschick) che fa dell’uomo un pensante, un appropriato (zugeeignet) all’essere. Rispetto a questo mistero, la 

Gelassenheit, come pensiero meditante in cerca del senso (besinnliche Denken), pur superando il pensiero calcolante delle rappresentazioni tecniche (das rechnende Denken) non approda a una trasparenza assoluta.

 

Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso. L’alternativa richiama l’ambiguità della provocazione e lascia le possibilità dell’epoca nella sospensione del “salto (Sprung)”, nell’attesa che aspetta il dischiudersi dell’ambito di ciò che ci viene incontro (das Gegnen). 

 

L’abbandono e il rilassamento che ne consegue sono atteggiamenti che nascono quando il pensare tecnico non si costituisce come unico pensare, ma si lascia comprendere in quel più ampio orizzonte dischiuso dal pensare meditante (besinnliche Denken) che non ha nulla di tecnico, perché la sua attenzione non è rivolta all’impiego delle cose, ma alla ricerca del loro senso, ivi compreso il senso sotteso allo stesso impiego tecnico delle cose. L’estinguersi del pensiero meditante “ci sottrae il terreno su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” e allora, scrive Heidegger:

 

“La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ed essere effettivamente esercitato”.

 

In questa eventualità, secondo Heidegger, si nasconde per l’umanità il pericolo “più grande di una terza guerra mondiale”, perché in gioco è l’essenza dell’uomo, la sua possibilità di essere apertura e dischiusura al mistero dell’essere».4]

 

«Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (Die Galassenheit zu den Dingen)” e “apertura al mistero delle cose (die Offenheit fur das Geheimnis)”.

[…]

Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso…

 

Scrive Heidegger:

 

Il tratto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa (…)

Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventerà incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (Die Gelassenheit zu den Dingen)» ».5

 

 

1] J. Lacan tr. it. L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 vol. I p.512
2] Id., Il seminario, vol. I Gli scritti tecnici di Freud, Torino, 1978, p. 20
3] U. Galimberti Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, pp. 407 e segg.
4] Ibidem p. 408
5] Ibidem p. 409