Dialoghi e Poesie a proposito della storicità debole dell’Epoca del presentismo mediatico, Octavio Paz, Giorgio Linguaglossa, Milaure Colasson, Nunzia Binetti, Guido Galdini, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

11 giugno 2019 alle 12:33

 

Leggiamo la poesia di Milaure Colasson

 

Vert de l’eucalyptus

Rose pale de la rose

Dans la transparence

D‘ un petit verre d‘eau de vie

Sous l‘éclairage d‘une lampe de chevet

Sérénité

 

Oiseaux noirs des campagnes

Leurs cris étranglés

Les corbeaux

 

La mélancolie sonore

D‘ Erik Satie

Te vide de toute pensée

………………écoute

 

Une bande de rats

Vêtus de jeans troués

Fumaient des havanes

………pas des prolétaires

 

Perdre la vue

Michel Onfray

Comment dormir

Comment……………

Comment…………………..

 

Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.

 

A suo modo Milaure Colasson scrive secondo i parametri della nuova ontologia estetica senza peraltro averla mai incontrata prima in quanto la poetessa francofona che abita a Roma frequenta la rivista soltanto da pochi giorni. Ciò vuol dire, come non mi stanco di ripetere, che le cose sono nell’aria, che un poeta che abbia sensibilità linguistica non può non accorgersi che l’atmosfera delle parole è cambiata, che è cambiata la sensibilità per le parole, e sono cambiate anche le parole.

 

Quelle parole di un tempo, che abitavano la sintassi di un Cesare Pavese o quella di un Sanguineti, adesso sono state messe in mora, sono state fatte sloggiare da quegli indirizzi, sono state evacuate dalla forza pubblica, il ministro della mala vita, Salvini, ha chiamato i bulldozer e ha fatto tabula rasa delle loro residenze, di quelle bidonville che erano l’accampamento delle parole di uno Zanzotto o degli apologisti epigonici di oggi. Quelle parole non esistono più, sono state bandite e rese obsolete. Ma non da noi dell’Ombra, ma dalla storia.

 

Non so se sia stato il «dolore» delle parole come pensa Nunzia Binetti, io sto ai fatti: le parole si sono raffreddate, non sopportano più i massaggi cardiaci degli innamorati della parola poetica e degli esquimesi posiziocentrici del vuoto a perdere, le parole della Musa fuggono da chi vuole accalappiarle con l’accalappiacani o con lo scolapasta. Il fatto è che le parole della poesia non sanno più dove rifugiarsi, fuggono, scantonano, preferiscono dimorare negli immondezzai di Roma (Grazie sindaca Virginia Raggi!), nelle risciacquature dei lavabo, nelle pozzanghere dove ci sono cinghiali e gabbiani ad abbeverarsi…

 

Il Signor Avenarius, un personaggio delle mie poesie, dice: «Le parole hanno dimenticato le parole», sono state attecchite dall’oblio delle parole, un virus pericolosissimo che ci sta decimando senza accorcergene. Siamo lentamente invasi dalle parole piene, le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giuseppe Gallo

11 giugno 2019 alle 13:52 

 

Carissimo Giorgio, una veloce precisazione per segnalare che m’ero accorto di quanto avevi suggerito sulla ontologia negativa di Heidegger, infatti ti scrivevo in data:

25 maggio 2019 alle 9.19

 

Caro Giorgio, trovo molto interessante l’appunto che esplichi sulla ontologia negativa di Heidegger: «l’Essere è ciò che non si dice» che oggi si rovescerebbe nel suo opposto “l’Essere è ciò che si dice.” e la sua estensione alle poesie di Marina Petrillo e di Donatella Giancaspero. Noto però, che i due assiomi hanno come radice sempre la parola e il linguaggio. Anche il “non si dice” ha bisogno di essere espresso alla stessa stregua di ciò “che si dice”. È sempre il linguaggio che deve parlare…

 

Poi non abbiamo avuto modo di discuterne. Oggi hai ripreso l’argomento e hai anche richiamato il testo di Massimo Donà, Aporia del fondamento (2009). Penso che la questione sia di capitale importanza… ne è testimonianza la tua più che trentennale esperienza… dobbiamo finirla di indossare gli oscuri “pepli” di quelle poetiche che perpetuano pianti e lagni intorno a ciò che non si sa e non si può sapere… altrimenti l’unica soluzione è un silenzio immane. E non possiamo nemmeno ruotare a vuoto intorno all’indicibile perché rischieremmo di fare la fine della mosca imbottigliata di Wittgenstein per mancanza di collusione con l’esterno… dobbiamo tornare alla complessità della parola e del linguaggio: è solo in questa dimensione che bisogna sperimentare i sentieri e i percorsi… ho la vacua speranza che non siano stati tutti interrotti… In fondo già nel suo severo “Poema” Parmenide poneva a confronto la “via della notte” e la “via del giorno”…

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

11 giugno 2019 alle 15:47 

 

caro Giuseppe Gallo,

 

Ecco l’incipit di L’arco e la lira di Octavio Paz, poeta e saggista tra i più significativi del nostro tempo:

 

“Scrivere, forse, non ha altra giustificazione che tentare di rispondere alla domanda che ci siamo fatti un giorno e che, fino a quando non ci saremo dati una risposta, non ci darà tregua.“

 

Una volta, anni fa, uno scrittore di chiacchiere poetiche mi ha fatto questa domanda: “tu che la sai, perché non ci riveli qual è la domanda fondamentale che dobbiamo porci?” – Tu comprendi bene che dinanzi alla albagia e alla truculenza ignorante di una tale domanda io sia rimasto in silenzio, cosa potevo rispondergli?

 

Sempre Paz scrive:

 

«La storia dell’uomo si potrebbe ridurre a quella delle relazioni tra le parole e il pensiero. Ogni periodo di crisi inizia o coincide con una critica del linguaggio. Subito viene a mancare la fede nell’efficacia del vocabolo… Persino il silenzio dice qualcosa, poiché è saturo di segni. Non possiamo sfuggire dal linguaggio… Per catturare il linguaggio non abbiamo altro modo che usarlo. Le reti da pesca per le parole sono fatte di parole… Il linguaggio, nella sua realtà ultima, ci sfugge. Questa realtà consiste nell’essere qualcosa di indivisibile e inseparabile dall’uomo. Il linguaggio è una condizione dell’esistenza dell’uomo e non un oggetto, un organismo o un sistema convenzionale di segni che possiamo accettare o disfare».1

 

Ecco, caro Giuseppe, però adesso sappiamo che le famose «corrispondenze» tra le parole, ci hanno portato fuori strada, perché è proprio del linguaggio dei segni portarci fuori strada. Andare fuori strada è quella la strada. Nel linguaggio non dimora la verità, esso è la verità, la sola e unica verità di cui possiamo fare conoscenza, ma, appena preso possesso di queste verità, ecco che il linguaggio ci mostra l’altro lato della medaglia, ci indica qualcosa d’altro che la verità richiama. Senza fine. Un richiamo rimanda ad un altro richiamo. La verità è allora questo portarci fuori. La verità è ciò che si dice, non ciò che non si dice. È questa la tremenda verità della ontologia positiva. Con il che, per chi capisce la portata delle conseguenze che derivano da questo apoftegma, cambia il modo di considerare il discorso poetico e di abitare il linguaggio poetico.

[…] 

Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».

1] O. Paz, L’arco e la lira, a cura di Ernesto Franco, il melangolo, 1991 p. 33

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Francesco Paolo Intini

12 giugno 2019 alle 10:06 

 

Non Dio

 

Resta un dubbio sul gatto nero

Se i palazzi ruotano intorno.

 

I fotoni eccitano le rivoluzioni

La materia oscura inghiotte i quartieri.

 

Le ombre illuminano

E dal loro centro emergono gli occhi.

 

I teologi rimasero sconvolti dalla natura della luce

così in dettaglio non s’era mai visto l’essere.

 

Se doveva pensarsi Dio

bisognava liberarlo dai fotoni e dunque

 

Le strade si riavvolsero, il traffico rimase inghiottito

Il corpo nero diventò l’imploso di gechi e malve

 

Il pazzo che scrisse “ Dio c’è” nel triangolo stradale

è il folle che disse “ Dio è morto”.

 

Lucio Mayoor Tosi

12 giugno 2019 alle 10:48 

 

Nel «dialogo» non si fa differenza tra vivi e morti. Se non vi è differenza, allora siamo tutti vivi, o tutti morti. Se morti, a che vale buttarsi dal Pont Mirabeau? Forse a togliere tra di noi il disturbo…
“– è il dialogo che apre alla soluzione problematologica”. Non il monologo, quindi.
Un passo in avanti nel tempo e ci si ritrova morti. Finalmente immuni. Sarebbe una delizia? Ma se siamo morti e vivi, cosa cambia? Il nostro essere in natura; che da quando abbiamo smesso di migrare ci tocca di accendere il riscaldamento… Lo dicevo stamane agli aironi che vivono qui, nelle pozze d’acqua delle risaie. Agli aironi, perché no?

Giorgio Linguaglossa

12 giugno 2019 alle 11:16 

 

cari amici,

 

siamo inesorabilmente invasi dalle parole «piene», le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi, e quelle che usiamo tutti i giorni nei nostri commerci quotidiani. Le parole «piene» sono quelle di Salvini & company, sono quelle che chiamano a raccolta, imperative, piene di significato, piene di steccati.

 

No, le parole della poesia sono un’altra cosa, esse sanno di essere deboli e fragili, sanno di non poter contare sul proprio statuto di verità ontologica, sanno di poggiare su una ontologia meta stabile, soggetta alla mutazione, soggetta al toglimento, alla de-coincisione.

 

A me francamente fanno ridere le certezze dei poeti della domenica, quelli che mi dicono: «ma come fai a togliere l’io da una poesia?».

 

Ecco, dinanzi a questa domanda io non ho nulla da dire. Cosa potrei dire? Tutto l’ultimo libro di Maurizio Cucchi è il discorso di un io plenipotenziario: io di qua, io di là, io così, io colà… Probabilmente, opino che se l’autore mette dappertutto l’io ne sarà convinto, sarà in buona fede, forse pensa che l’io sia un passepartout che apre tutte le porte. Io invece, molto modestamente, sono convinto che l’io chiuda tutte le porte, chiude i discorsi invece di aprirli, e li chiude perché è convinto di coincidere con l’esserci, perché crede ingenuamente nell’eternità e nella bontà epistemologica dell’io. L’io si basa su questa credenza popolare: l’io è vero, tutto il resto è falso. Opinione accettabilissima per il senso comune, ma priva di qualsiasi significato filosofico.

 

È chiaro che un io di questo genere userà soltanto parole «piene», parole «vere»; dividerà le parole: di qua le parole vere e piene, di là le parole non-vere e non-piene.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Guido Galdini

12 giugno 2019 alle 15:35 

 

A dire “io” si finisce subito.

Per questo continuiamo a ripeterlo.

 

Giorgio Linguaglossa

12 giugno 2019 alle 16:14

 

Questa che segue è una poesia di un notissimo poeta italiano, la prendo come parametro ed esemplificazione di quello che dicevo sopra. La composizione inizia con la descrizione del pensiero dell’io, poi passa alla auto fustigazione di «noi animali», per poi proseguire con una ruminazione mentale oziosa e peregrina, del tutto vacua e irrisoria: «E laggiù dove andrò, remoto», cui segue tutta una infiorettatura di pensierini irrisori e gratuiti estrapolati dalla camera più segreta dell’io «nell’ultimo conato»…

Ecco, qui siamo in presenza di quello che volevo dire quando parlavo di «parole piene», di parole ad uso di tutti, di parole arroganti in quanto proiezione di un «io» nascosto, ascoso in chissà quale profondità mentale. Lo dice il testo stesso, all’io «piace… assaporare la più elementare forma di dominio». Sì, il dominio delle «parole piene», che si rivelano essere parole vacue, ingorde, irrisorie, fidejussorie… Le parole della storicità debole dell’epoca del presentismo mediatico.

 

Troppo spesso – pensavo – troppo,

troppo spesso noi animali ci affidiamo

alla bontà curiosa della nostra indole.

 

E laggiù dove andrò, remoto,

nella patetica smorfia verticale muore

l’impronta, e non lo sa, e replica

se stesso, ancora, nell’ultimo conato

costruttivo. Del resto

ci piace assaporare, puerili,

la più elementare forma di dominio,

espressione del nostro costume

e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia

le terre più estreme, dove l’attrito procede

e si consuma ancora più violento

e fisico, più naturale.

 

Se si legge con attenzione questa composizione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere della decrescita felice del soliloquio plenipotenziario che è sito in un angolo remoto della mente; una ruminazione che non dice niente, che non parla al lettore, una composizione che si allontana dagli oggetti e si avvicina alla ruminazione interiore. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…

 

Nunzia Binetti

12 giugno 2019 alle 17:13

 

-Tu sei perfetta sintesi di un petto in cui suona una musica al mattino -

Elena tra sé dice al risveglio, pensando da fisarmonica.

 

Eccolo il ritmo, pezzi di terra morta

sottratti in Argentina. Malinconia di un tango, senza danza.

 

Che senso avrebbe un brindisi ? Non un bicchiere

fra petali di rose sulla mensa .

 

Elena sceglie una vestaglia nera ;

il bianco della pelle la contrasta.

 

Una mia prova in tema. Gaie, Giorgio. Grazie Ombra

 

Mauro Pierno

12 giugno 2019 alle 17:19 

 

Forse la prestidigitazione.

Le mani sporche. Un lavaggio inutile e le

 

colombe verdi. Forse una centrifuga

fatta lavorare a forza. Forse un silenzio

 

senza multipli fratto

tutte quante le resistenze. Forse un vetro

 

alato, allora una manta. Forse

un oceano di propaganda.

 

Lucio Mayoor Tosi

12 giugno 2019 alle 17:53 

 

Accade questo,

che molti arrivano dallo spazio, e altri dal tempo.

 

Chi dallo spazio, tende sempre ad estendersi, aggregare e convincere.

Chi arriva dal tempo vive di attimi in sequenza, senza fine.

 

Per lo spaziale, il quando è quantificabile. Un freddo calcolare.

Per l’uomo del tempo, il quando è adesso. Fine e inizio.

 

Non avremo mai pace sulla Terra.

 

(May : pensierino. Giu 2019)

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Giuseppe Gallo

12 giugno 2019 alle 18:47 

 

Caro Giorgio, prima di tutto, un grazie per la chiarezza e la lucidità degli approfondimenti… ormai hai fornito tutti gli elementi per poter procedere sul sentiero dell’ontologia positiva… il resto sarà un’avventura individuale… Mi piace sottolineare, però, un altro aspetto presente nei versi di Milaure Colasson. Tu hai scritto:

 

“Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.”

 

Ebbene, questo tipo di scrittura mi suggerisce l’idea che la poetessa abbia subito anche il fascino della sensibilità orientale per quella “neutralità dell’immagine” presente negli Haiku, come avrebbe detto Steven Grieco-Ratheb. Per far emergere solo parole, dando ad esse il loro giusto peso, senza legami sintattici e senza la “funzione dittatoriale dell’io”, è necessario liberarle dalle incrostazioni della logica materiale, della loro concretezza comunicazionale… è necessario evocare la loro fragilità per trasformandola in essenza; le parole, in questo caso, veramente, diventano cose che non solo “nuotano nel bianco albume del nulla” (tra l’altro questa immagine mi ha provocato dei brividi), ma slittano, inesorabilmente, verso la deriva “di ciò che si dice”…

 

Giorgio Linguaglossa

12 giugno 2019 alle 20:47 

 

caro Giuseppe Gallo,

Milaure Colasson è una pittrice, ha sempre pensato e fatto pittura astratta o semiastratta, e questo le ha dato un grande vantaggio rispetto a tutti gli autori che scrivono poesia pensando alla poesia maggioritaria e uniformandosi ad essa. Colasson è abituata a pensare gli oggetti in quanto oggetti non in quanto funzioni dell’io o in quanto assoggettati all’io plenipotenziario. E scrive come pensa, scrive come vede gli oggetti. E questo è un grande vantaggio.

 

Mauro Pierno

12 giugno 2019 alle 22:05 

 

Eppoi gli abbozzi,

quante sculture.

 

Hanno un giunto di perfezione.

La pausa sopraggiunta, il solco esatto

 

per la digitazione.

Forse la prestidigitazione.

 

Le mani sporche. Un lavaggio inutile e le

colombe verdi. Forse una centrifuga

 

fatta lavorare a forza. Forse un silenzio

senza multipli fratto

 

tutte quante le resistenze. Forse un vetro

alato, allora una manta.

 

Allora

un oceano di propaganda.