La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide.
1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs
Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, D. Maffìa, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G. Bonaviri; Le stanze della memoria (1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) con prefazione di R. Utzeri; è del 2019 La morte di Empedocle.
Arrivare al luogo scelto / opposto a quello voluto dal progresso nell’Apparato Tecnico
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Perché il poeta di Genzano si occupa della «morte di Empedocle»?, di un fatto così lontano nel tempo che è diventato mito? C’è qualche rassomiglianza tra la situazione politica e sociale della Sicilia del quinto secolo avanti Cristo e la attuale? Empedocle nasce attorno al 490 a.C. ad Agrigento, da una famiglia ricca di parte democratica, posizione che condivise e sostenne, anche se, a parere di alcuni studiosi, non partecipò mai ad attività di governo della sua città; ma su questo ci sono opinioni divergenti, lo Zeller afferma che fu a capo della democrazia del suo paese; possiamo quindi presumere che in qualche modo egli abbia partecipato attivamente al governo della sua città ma con un ruolo super parte, in modo non diretto. Muore a 60 anni in esilio nel Peloponneso, probabilmente perché abbandonato dal favore popolare e allontanato da Agrigento, verosimilmente perché il suo progetto politico in favore del popolo fallì, con conseguente esilio decretato dagli ottimati. Penso che l’intendimento di Franco Di Carlo sia stato quello di mettersi idealmente e in immagine nei panni del filosofo greco, e di qui riprendere a tessere, attraversando i millenni, il filo di una meditazione poetica che si situa nel sottilissimo confine tra la meditazione filosofica e quella poetica.
La crisi dei nostri giorni richiede anche alla poesia di ripensare il proprio statuto di verità e di dicibilità, ecco la ragione per cui la poesia si snoda con un linguaggio suasorio e assertivo dove il locutore può argomentare in modo esaustivo e pacato come quando si parla in solitudine tra sé e sé, infatti le interrogazioni sono tutte rigorosamente implicite, il senso non abita in ciò che si dice ma in ciò che si evita di dire, in ciò che non può esser detto, in quanto il rispondere non si dice, dunque non enuncia il proprio senso; il rispondere lo afferma senza dire che lo afferma, in tal modo il senso è implicito e lo si esplicita se viene indicato ciò che è in questione nel rispondere, ma il rendere esplicito il senso equivarrebbe ad impiegare frasari aperti dove il locutore impiega le proposizioni per quello che sono: o interrogative o affermative, in modo dilemmatico e antinomico. È questo procedere nascostamente dilemmatico il rovello del discorso poetico di Di Carlo; quello che il poeta di Genzano chiama «Apparato Tecnico» è il pericolo che incombe sulla civiltà, e allora occorre riannodare i fili del pensiero poetante, ricominciare da Empedocle.
Ho scritto in altra precedente nota critica che Di Carlo “preferisce il lessico colloquiale, il tono basso, gli effetti contenuti al massimo, un passo regolare e simmetrico. Ovviamente, oggi non si dà più una materia cantabile e, tantomeno, un canto qualsivoglia o una parola salvifica da cui toccherebbe guardarsi come da un contagio della peste. E allora, non resta che affidarsi ad «un appello / al dialogo destinato a restare / Inespresso, una parola staccata / e lontana». La «Vicinanza nostalgica» è «la parola [che] nomina la cosa»; siamo ancora una volta all’interno di una poesia della problematicità del segno linguistico, ad una poesia teoretica che medita sul proprio farsi, sulle condizioni di esistenza della poesia nel mondo moderno, poiché la direzione da perseguire è l’esatto opposto di quella che vorrebbe inseguire lo svolgimento del «progresso», ma un «regresso» calcolato e meditato è la tesi di Di Carlo: «questo è il processo regresso da avviare sulla strada / del pensare, arrivare al luogo scelto / opposto a quello voluto dal progresso nell’Apparato Tecnico»”.
Ma il tono basso, il lessico intellettuale, i convenevoli stilistici di cui questa poesia non fa mistero, sono le sue medaglie al valor militare, sono il pegno che la poesia deve pagare per la povertà dell’epoca attuale. Di Carlo fa poesia mentre costruisce la sua meta poesia sulla poesia, opera una riflessione davanti allo specchio di un’altra riflessione, prende a prestito Empedocle e medita sulla problematica sopravvivenza della poesia nel mondo di oggi, sospesa a metà tra pensiero filosofico e pensiero poetico, ed opta decisamente per una poesia intellettuale intrisa di formalismi filosofici e di bizantinismi del pensiero; lambiccato ed elegante, Di Carlo procede con i suoi endecasillabi alla maniera di un filosofo presocratico. Lo dice in forma epigrafica già nel «Prologo»: «Dobbiamo metterci in cammino, forse un viaggio/ all’interno, verso un tacito discorso».
È chiaro che stiamo parlando di un discorso poetico che nulla ha da spartire con i linguaggi giornalistici che vanno di moda oggi, qui non ci sono battute di spirito o solfeggi per apparire gradevole, Di Carlo tiene ferma a dritta la barra del timone e procede verso una poesia inattuale e anacronistica in aperta antitesi allo spirito del nostro tempo. Il luogo della autenticità «è lontano. In qualche luogo. Nessuno lo conosce», occorre essere pazienti ed attenti, afferma il poeta di Genzano.
Molto presto, di mattina, un giorno entrai/ nel bosco di latte, nascosti ingressi/ tra le foglie, della sibilla
Poesie da La morte di Empedocle (Divinafollia, 2019)
Monologo
È lontano. In qualche luogo. Nessuno lo conosce.
Dobbiamo metterci in cammino, forse un viaggio
all’interno, verso un tacito discorso.
Un silenzio che parla con se stesso e dice l’essere
prossimo alla voce.
Circolare moto dentro l’intreccio affettivo,
designato per convenzione un significante,
indicazione fondamentale del mutamento
essenziale del segno.
Il linguaggio si svolge nel regno del disvelare.
Lavora a mostrare il pensiero. Esperisce,
è attivo e produttivo, una rivelazione dello spirito creativo,
una vera e propria visione del mondo.
È compreso e afferrato nella sera,
evidenza costitutiva l’unità armoniosa
dei momenti che gli è propria.
Allora m’incamminai sulla via del parlare
e delle cose presentate. Un appello al dialogo
destinato a restare inespresso. Una parola staccata
e lontana, un seme nei solchi tracciati custodito
nel campo dischiuso, trama verbale scalfita.
Un saldo profilo ormai senza incrinature verso un dire netto
mostrato manifesto del mistero che ora si sottrae,
ora s’annuncia rivelato o negato.
Una favola bella e pura che insegue l’azzurra sorgente,
parola detta si lascia ascoltare.
.
Profezia
Molto presto, di mattina, un giorno entrai
nel bosco di latte, nascosti ingressi
tra le foglie, della sibilla, via vai continui,
orribili lamenti. Accessi ardenti e bui antri,
segreti incerti respiri di platonici cavalli alati,
sospiri feroci, aperti al vento d’ottobre.
Le valli annerite annunciano la pallida sera,
poi risuonò l’aspra parola.
Parlò, gonfia il petto d’affanno e grida,
rabbioso il cuore, invasata la gola dal dio,
responsi chiedendo ai fati.
È giunto, empi mortali, ormai per voi
il tempo di destarvi e batter l’ali
verso sentieri, per luoghi beati.
Dannati sogni, facili finzioni
dolci immagini per vane illusioni.
Rinascete alla vita e distinguete
il vero dal mondo falso, riprendete
il viaggio incompiuto. Tempo verrà
che nessun moto, mai più vi scuoterà
dalla notte del sonno e lì resterà
sempre immutato, l’eterno dolore.
.
Il ciclo del ritorno
Il fine apparve. Il ciclo del ritorno
Vide la luce e la diffuse intorno alle figure,
agli sguardi, ai tuoi sensi svelati.
Udì la voce invisibile lo spazio lontano,
l’ultimo tempo.
Una renovatio mundi impensabile.
Vano recupero dell’impossibile.
Il percorso progressivo verso il tuo fondamento.
Redenzione dell’uomo modello di perfezione
fornita di senso e perciò di direzione.
.
Il cuore inerme
È inquieto il cuore, avanza il tedio.
Il male di vivere essenziale. Dio
ti ascolta. Conta la sua finitezza.
Fondamentale all’humour nero.
Fragile macina agita fantasmi,
sterile invidia della possibilità
indulge al fertile manierismo intellettuale.
Funge la partecipazione collaterale.
Finge il non senso concettuale.
Ma anche un piccolo verme nel finale calpestato,
si può sempre rivoltare.
Ultima risorsa d’un cuore inerme.
Franco Di Carlo e Giorgio Linguaglossa, Roma, ottobre, 2017
La parola dà l’essere
Ritornare dove già sono. Questo è il processo
regresso da avviare sulla strada del pensare.
Arrivare al luogo scelto opposto a quello voluto
dal progresso nell’Apparato Tecnico.
La dimora propria dell’uomo in quanto tale.
Compito assolutamente precedente
rigoroso, quando la parola dà l’essere che resta.
Sconcertante dileguarsi. Evidente realtà ineffabile.
Rivelarsi degno di essere pensato e donato.
.
Le cose
Porsi al di là per nascondere il senso
profondo delle cose. Custodire in sé
l’opinione effimera sul mondo.
Una modalità semantica che traveste
la volontà di verità ed evoca le forme
della trasgressione, crudeli e potenti, dell’empietà.
Le false maschere della voluttà.
L’al di là significa in realtà riflessione al fondo,
ultima scoperta dell’alterità. Una filosofia
differente, che va oltre e interroga.
.
Il chiaro vento
Nello spazio contratto della disfunzione,
nel tempo frantumato d’un passato
allucinato e d’un futuro svuotato.
Una distanza annullata, non senso,
labile vita dentro la dolce notte
quando s’ascolta lento il chiaro vento.
Il tempo del frammento.
.
L’ultimo viaggio
Mi occupo dell’errore e del male
che insegna la verità e il bene
e che la parola incanta ed esprime
perché serva agli uomini, sia utile
con l’affetto devastante della morte.
Altrove vitale, eros maledetto.
In bilico tra l’essere e il nulla.
Lo sguardo addolorato del piacere
scivola sul vuoto metallico
dell’anima nuda.
Offre il corpo alla rea inerme.
L’oltraggio della consistenza.
Unica generosità concessa
prima dell’ultimo viaggio.
.
Tutto è affidato al silenzio
Ci comprende il dolore perché ci riguarda.
La vita delle cose e i suoi giri infernali.
La semplice esistenza singolare che accade
una volta sola, ma può tornare
variare il colloquio in dialoghi plurali.
Serie conversazioni convocare in dibattiti.
Più dichiarazioni d’intenti che reali.
Nominazioni della malinconia. Disperazioni
accorpate, eretici empirismi descrittivi di sintomi
e fissazioni, devastazioni della mente
e dell’anima in brandelli abissali di patetiche
e buie allucinazioni.
Tra ruscelli lontani, velli d’oro e rossi rivi
non c’è risposta. Tutto è affidato al silenzio,
tra il tempo già dato del vissuto e lo spazio
del desiderio.
.
La fuga di Orfeo
Tremano le ali dell’uccello
invischiato nel cespuglio, scosso
dubita sgomento, fugge tremendo
il tempo temperato e teso, il taglio
dell’intesa attiva, mescolata al vaglio
al fascino del varco. Alfine giunge
scatta s’arretra prosegue e vola via.
Va incontro l’errante viandante alla meta.
Finalmente non guardò più indietro
né si voltò e libero da Euridice
ritrovò il suo cammino e il canto
dopo la tempesta la quiete del linguaggio.