Intorno alla generosità del Nulla, Una poesia di Giuseppe Talìa,  Lucio Mayoor Tosi, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Matteo Pietropaoli, Francesco Paolo Intini

 Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

Che dire intorno alla generosità del «Nulla»?

 

Caro Giuseppe Talìa,

 

ho ascoltato il famoso pezzo che hai postato, The clash. Nel passato l’ho sentito svariate volte con un po’ di noia. Non nutro di solito molta accondiscendenza verso la musica rock, anche se mi piace molto Vasco Rossi, per il resto la musica rock mi sgomenta e mi annoia, come tutta la musica che cerca l’intrattenimento, ma capisco che deve essere così, capisco che tutto quel rumore deve esserci per essere. Tuttavia mi interessa la funzione semantica e ultra semantica della musica rock. Mi interessa la funzione ultra semantica e semantica del rumore. Possiamo dire che la musica rock è musica del pleroma. In un mondo troppo pieno è difficile fare esperienza del vuoto e del nulla, e poi del nulla non si dà esperienza, se è questo che si cerca; il nulla ci accompagna, accondiscendente, in ogni istante della nostra giornata. Il nulla non lo si può afferrare, il nulla sfugge da tutte le parti perché è in ogni luogo e fuori da ogni luogo, perché è dentro ogni luogo. A pensarci bene, il nulla è ciò che rende significativo ogni istante delle nostre giornate, guai a chi mi togliesse il gusto della fagocità e dell’impermeabilità del nulla! Penso che una poesia che non mi rimandi al pensiero, al cospetto e al sospetto del nulla, non mi interessa, non cattura la mia sensibilità né la mia intelligenza…

 

Ma, come si fa a catturare il nulla? Semplice, rinunciando a volerlo catturare, facendo un passo indietro rispetto al linguaggio, facendo un passo indietro rispetto all’io plenipotenziario… questo Volere Potere di cui è piena la pseudo poesia e la pseudo arte dei giorni nostri, questo voler mettere delle «cose» dentro la poesia lo trovo puerile oltre che supponente, la supponenza degli imbonitori e degli stupidi; questo voler fare delle «istallazioni» del nulla lo trovo un controsenso, il nulla non si lascia mettere in una istallazione, non lo si può inscatolare e mettere sotto vuoto spinto. Il nulla non si può conservare in frigorifero, non lo si può mettere in lavatrice o nella centrifuga, non lo si può nominare, non ha nome, non ha un luogo, non ha un mittente né un destinatario, non è un messaggio che si deve recapitare. Il nulla non è Dio, non c’entra niente con Dio. Il Nihil absolutum non è ed è al contempo. È ciò che assicura la sopravvivenza dell’essere fin tanto che l’essere ci sarà. Il nulla non abita lo spazio-tempo, piuttosto è lo spazio-tempo che abita il mondo grazie alla generosità del nulla.

 

Una poesia che non dialoghi con il nulla è una para-poesia o una pseudo-poesia, come ce ne sono a miliardi di esemplari qui da noi…

 

https://youtu.be/daGP5fPDlqE

https://youtu.be/yyltpZWCsDU

 

 

Giuseppe Talìa

 

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse
Personale. Il vulnus della Legge lo trovi in ogni supermercato.

 

Nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli
e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato in…

 

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.
Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

 

È il sottovuoto il vero problema. È l’involucro il vero esantema.
Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

 

Il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;
diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

 

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica
e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

 

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

 

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati fanno

da colonna sonora ai gladiatori che sono diventati in questi tempi
degli influencer di fama.

 

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia
alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;

Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart, un pomp rock.

 

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla, ma si può condire.

 

[Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la guerra di Troia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. È uscita la raccolta Thalìa per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown, e suoi testi sono presenti nella Antologia How the Trojan War Ended I don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019]

 

Lucio Mayoor Tosi

 

Ukulele.

 

Nel debole pensare di un cervello dato
in beneficenza a un missile delle finanze,

 

uno dei tanti tra gli schierati a Hollywood.
Testata di segatura e ukulele in pancia.

 

Possono cadere come in Stranamore,
precisamente sul centrotavola di ogni famiglia.

 

.

 

Dichiarato il Vuoto di programma,
la macchina commerciale depenna

 

ogni notifica d’affari che interferisca
sulla partenogenesi della ricchezza.

 

Esplodono con rumore di conchiglia, mare
di ferragosto, o d’inverno le favole.

 

.

 

Ma un missile, cosa può pensare un missile,
un solo missile della finanza?

 

Non si combatte un sistema già avviato,
va solo ulteriormente svuotato di finalità.

 

Segatura e ukulele. Il resto si potrà fare
grazie a nuova programmazione.

 

.

 

Per questo la ditta NOE propone svariate
soluzioni.

 

Ottieni subito il tuo programma personalizzato
per sconfiggere il capitalismo.

 

Proteggi i tuoi cari.

 

(may – set 2019)

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

Straordinaria composizione perché è un esempio di quello che dice Derrida quando afferma che bisogna ritrarsi dal linguaggio, e, aggiunto io, bisogna ritrarsi anche dall’io e dalle sue adiacenze. Lucio Mayoor Tosi è riuscito in questa impresa assai disperata, e gliene va dato atto, infatti, lo scrive lui stesso: «la ditta NOE propone svariate/ soluzioni», vale a dire che tutte le soluzioni sono equipollenti e interscambiabili, proprio come avviene nella meccanica quantistica. Se Dada cercava in via unilaterale il non-senso, Lucio l’ha trovato, l’ha incontrato lungo la strada, senza volerlo, senza crederci, con la differenza, rispetto a Dada che in lui non c’è nessuna volontà di potenza in gioco, anzi, c’è la non-volontà di non-potenza. Lucio scava in direzione di un linguaggio che non è né linguaggio né meta linguaggio, un linguaggio verosimile e vetro simile, lui si prende gioco di qualsiasi compostezza e di qualsiasi seriosità e di qualsiasi posizione ironica o sardonica o sarcastica perché ritiene queste posizioni conformistiche e già telefonate dalla «programmazione» del capitalismo, che la comunicazione pone in atto. E lo dice a chiare lettere:

 

Non si combatte un sistema già avviato,

va solo ulteriormente svuotato di finalità.

 

Giuseppe Talìa

 

Eccola qui, questa sì che mi piace. Sembra un annuncio pubblicitario che svela le carte del prodotto farlocco che vorrebbe vendere.

 

          Lucio Mayoor Tosi

 

Il nulla è pieno essere, ed è alternativo all’essere parziale condizionato dall’esserci in quanto persona, ego e conseguenti implicazioni esistenziali e psichiche. Quindi sono pienamente d’accordo con Giorgio Linguaglossa,
quando scrive:

 

“La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica”.

 

Il nulla è pieno ascolto e silente attenzione – attenzione: è il nostro vedere interiore; in senso heideggeriano è componente della “cura” – .

Per il nulla, tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Se ogni cosa è bella e perfetta, in quanto naturale e in quanto ogni cosa “è”, per contrasto ne deriva chiarezza sul vivere naturale e innaturale. E qui troviamo l’angoscia, che giustamente Heidegger segnala come avvertimento dell’essere al cospetto del nulla, e prova filosofica della sua essenza.

 

Nulla pensiero, nulla desiderio, nulla speranza. Sono queste alcune tra le proprietà esistentive del nulla esserci. Ma queste sono anche qualità del pieno ascolto, e della piena partecipazione, quindi dell’esserci.
La contraddizione è solo apparente: si suppone infatti che vi sia la possibilità di un esserci nel nulla; le cui modalità, e l’efficacia, sono ampiamente dimostrate, in primo luogo dalle numerose pratiche ascetiche appartenenti alla religiosità orientale, particolarmente nel buddismo e nell’induismo. Si parla qui di ascetismo senza finalità ultraterrene, che ha valenze tout court di esercizio-per.

 

Infatti Giorgio parla di “meditazione poetica”. Che qui può essere intesa come pratica, o tecnica, per esperire il nulla: la sua pienezza, l’indifferenziabile perfezione. Momentaneo esserci nell’essere. In questo spazio collocherei la meditazione poetica. Il pieno e perenne conseguimento dello stato di ascolto, l’esserci costante dell’essere, per la religiosità orientale appartiene alla natura umana, a patto che si sia ben vista, vissuta e quindi superata l’angoscia di vivere; perché oltre l’angoscia si ha piena partecipazione a tutto ciò che è. Tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Ivi compreso l’uragano Florence.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Matteo Pietropaoli

 

«La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica. L’esserci umano può rapportarsi nei confronti dell’ente solo se si tiene immerso nel niente. L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica stessa. Ciò implica: la metafisica appartiene alla “natura dell’uomo”. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadere fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondamento privo di fondo, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell’errore più radicale. Perciò nessun rigore d’una scienza raggiunge la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell’idea della scienza».3

 

In questa riflessione di Heidegger sono in realtà mantenute a un tempo le due istanze della metaphysica generalis e di quella specialis, negli aspetti appunto della sua ontologia fondamentale e di quella che è indicata come metafisica dell’esistenza, ma entrambe sono mantenute nel carattere positivo della metafisica e non in quello semplicemente critico. Ciò che qui innanzitutto egli dice è che la domanda sul niente pone al fondo in questione il tutto di ciò che è, e così in primis noi stessi che poniamo tale domanda. Ma noi chi? Ogni singolo uomo inteso in quanto apertura di un orizzonte d’essere, in quanto punto di vista di questo orizzonte in cui si è inclusi, in quanto esserci. Solo sulla base di tale orizzonte d’essere ci può essere rapporto, e così qualcosa che è sempre mio, che sono sempre io, può rapportarsi nei confronti di altro che è, di un ente che non è questo punto di vista. In quanto esserci, l’essenza dell’uomo è per Heidegger proprio quella di andare oltre e aprire costantemente questo orizzonte che lo conduce al rapporto tanto teorico quanto pratico con l’ente, ossia con tutto ciò che è e con ogni singolo ente, compreso se stesso. L’ andare oltre, ossia uscire fuori di sé come ente e aprire quell’orizzonte di rapporto, di comprensione, per cui ogni ente si mostra innanzitutto e per lo più in quanto qualcosa, è ciò che costituisce l’essenza dell’uomo, vale a dire la sua esistenza. Questo però significa che fare metafisica non è qui interrogarsi su problemi logici, su questioni storiche o dottrinali, bensì andare oltre di sé come ente: «questo andare oltre è la metafisica». Il che al fondo vuol dire: l’essenza dell’uomo, in quanto esserci, di andare oltre, ossia di esistere, è a un tempo la sua essenza metafisica. L’uomo è fondamentalmente e già sempre metafisico, mai soltanto uno studioso di metafisica. Anzi, la metafisica è ciò che vi è di più proprio in esso, anche prima del suo essere uomo, perché è il suo accadere fondamentale di anticiparsi in quanto uomo, ossia riguarda il suo carattere di esserci, di apertura, di oltrepassamento, soltanto a partire dal quale ciascuno può individuarsi in quanto uomo e in quanto questo uomo.

[…]
la metafisica, dal momento che si confronta con il niente, è per Heidegger già esistenza, è esistere, la meta-fisica è l’essenza dell’uomo di andare oltre di sé non solo come uomo concreto ma anche come mero ente, di essere l’apertura dell’essere, l’esserci. Ma questa essenza dell’uomo in quanto tale è già propria di ogni singolo uomo. L’uomo è al fondo metafisico perché esiste, e, visto che esistere è il suo carattere d’essere, fintantoché egli è è sempre metafisico. Per il futuro della metafisica, nel senso della sua sussistenza, da questo punto di vista non vi è nulla da temere: finché esisterà l’uomo ci sarà metafisica. Allora però perché interrogarsi a riguardo? Perché preoccuparsi a riguardo? A che pro tale riflessione? Diversamente da molte teorie di stampo umanistico qui la metafisica non è intesa come una disciplina che debba servire a rendere l’uomo più civile, più spirituale o più intelligente. Anzi essa non è proprio una disciplina; l’esistenza stessa è metafisica, a onor del vero basta esistere per essere metafisico. E allora una metafisica dell’esistenza, che si sviluppi in quanto radicalizzazione di una ontologia fondamentale, che cosa significa e perché andrebbe ricercata? Si è detto che l’esistenza in qualche modo prefilosofica dell’uomo è già metafisica, e questo avviene perché l’uomo in quanto esserci va già sempre oltre di sé e, nell’estendersi come apertura, nell’esistere, riceve gli enti secondo la sua comprensione d’essere, sicché essi si mostrano in quanto qualcosa, ossia hanno un significato, già sempre in accordo all’orientazione di questo orizzonte. Questo orizzonte d’essere però, di cui vi è fin da subito comprensione e che quindi ha già sempre un senso, è del tutto inespresso per l’uomo, in quanto a un tempo il più generale, il più indefinibile e il più ovvio, al punto che l’uomo innanzi-tutto e per lo più non è in grado di renderne conto.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Qualcosa di molto simile è stato rappresentato già da Platone nella Repubblica con le ombre del mito della caverna: il singolo uomo vede delle cose senza poter scorgere il fondamento del suo vedere, la luce stessa che gli permette la visione, e così crede che le ombre siano cose in sé e non dotate di un significato in ordine a questo orizzonte, a questo modo di visione. Quindi nella situazione quotidiana l’uomo non è conscio di essere metafisico, ma questo non intacca affatto la sua esistenza, ossia la determinazione del suo essere oltre di sé e così il sentire, esperire e al fondo vivere all’interno di un orizzonte di senso.Accade però, ed è importante il fatto che semplicemente accada, che qualcuno si ritrovi nell’insignificanza delle cose, in quell’angoscia,5 che per Heidegger fa venire meno tutti i significati che gli enti ricevono quotidianamente in un orizzonte orientato, ossia dotato di senso. Non vi è più alcun senso e così il teatrino degli enti in quanto cose, delle ombre in quanto cose in sé, perde ogni significato. Anche all’uomo incatenato di Platone sembra infatti capiti a un certo punto di voltare la testa rispetto alle ombre e scorgere il fuoco. Non è chiaro, e andrebbe approfondito, se questa angoscia, questo voltare il capo, sia qualcosa che possa autenticamente essere causato, provocato, o avvenga di per sé. L’importante è qui che questo accada e conduca a rendersi conto dell’inessenza in sé tanto delle cose quanto della stessa verità come verità assoluta, al fondo il passaggio al tema ontologico-fondamentale della veritas transcendentalis: tutto ciò che è è tale in accordo a un preliminare orizzonte d’essere che lo dispone.

 

Qui si pone l’attenzione però su una cosa fondamentale, che troppo spesso rischia di essere tralasciata, e cioè che questo orizzonte d’essere ha un punto di vista, così come un punto cieco, e mentre quindi riceve e dispone tutto ciò che è in accordo al suo senso, è a un tempo spalancato a partire da un qui, da un ci che ne fornisce l’orientazione. Questo ci dell’essere è appunto l’esserci .Ciò vuol dire innanzitutto che tale orizzonte, in quanto orientato, non è assoluto, ha un punto di vista che non può ricomprendere tutto ma che accoglie e rigetta, seleziona e dispone, proprio a partire da qui, dal ci che esso stesso è, e non da un astratto punto distante, neutrale e indifferente. Questo è il tema centrale della finitezza di cui ogni sviluppo metafisico dovrebbe farsi carico: ogni considerazione sull’essere in generale è già sempre posta a partire da una posizione ontica che ne determina in qualche modo l’orientazione, e così il suo carattere. Al fondo si tratta del concetto heideggeriano dell’esserci nel suo esser gettato in un mondo, il quale anche quando riflette sul suo essere è condizionato dalla comprensione d’essere in cui si trova. E il progetto, per cui l’esserci già sempre disposto in un orizzonte d’essere è autenticamente nel carattere del poter essere? Il progetto è d”altra parte proprio ciò che illustra in primo luogo le possibilità del passaggio a una metafisica dell’esistenza. Si è detto infatti che nell’angoscia per Heidegger l’uomo si trova spaesato, privo del significato degli enti, e così inizia, qualora non la rifugga per timore, la sua interrogazione sull’essere, su ciò che è e sul senso. Che questa interrogazione prenda le mosse per altri motivi, come la meraviglia, è qui indifferente; l’importante è che il senso dell’orizzonte dato venga ora messo in questione, così come la sua verità in sé. In tale messa in questione, nell’andare oltre gli enti ricevuti in quanto cose e anche oltre di sé come mero uomo, si giunge a riconoscersi come apertura del proprio orizzonte, punto di vista che, pur già sempre in una comprensione d’essere, ha la possibilità di orientarla, di anticipare il significato delle cose ricevute determinando il senso dell’apertura. Ma questo che cosa comporta? Per lo più niente di positivo. Il percorso dell’ontologia fondamentale è ancora propriamente pars destruens, in cui a seguito dello squarcio dovuto all’angoscia si opera un’analisi esistenziale di ciò che è, la quale conduce appunto alla veritas transcendentalis dell’essere e all’assegnazione dell’esserci: niente è di per sé, tutto viene ricevuto da me in quanto apertura in accordo all’orizzonte d’essere spalancato. Tale conclusione è però a prima vista foriera del più sterile relativismo, e lascia così il singolo uomo di nuovo in balia del quotidiano, dove questi per lo più, una volta constatato l’abisso dell’essere, nuovamente si rifugia. Infatti l’ambito del quotidiano, sebbene ora sia stato privato di un senso assoluto, rimane per colui che non compie il passaggio ulteriore e resta nella dissoluzione dei significati l’unico senso, per quanto debole e pantomimico, in cui possa vivere.
(Matteo Pietropaoli)

 

3 M. Heidegger, Was ist Metaphysik (1929), in Wegmarken (1976), in
Gesamtausgabe, Band 9, ed. F.W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 121-122; tr. it. di F. Volpi, Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 2008, pp. 76-77. Qui la traduzione di Volpi è stata in parte modificata.

4 Cfr. in particolare M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik, cit., p. 199; tr. it. p. 187: «La possibilità che l’essere si dia nella comprensione ha per presupposto l’esistenza fattizia dell’esserci e questa a sua volta l’esser semplicemente presente fattizio della natura. Proprio nell’orizzonte del problema dell’essere, posto in maniera radicale, si mostra che tutto ciò è visibile e può venir compreso in quanto essere solo se c’è già una possibile totalità dell’ente. Da tutto ciò risulta la necessità di una peculiare problematica che ora ha per tema l’ente nell’intero. Questa nuova interrogazione risiede nell’essenza della stessa ontologia e risulta dal suo capovolgimento, dalla sua μεταβολή. Designo questa problematica come metaontologia. E qui, nell’ambito del domandare metaontologico-esistenziale, vi è anche l’ambito della metafisica dell’esistenza [Metaphysik der Existenz] (qui soltanto si può porre la questione dell’etica)».

[Qui la traduzione di Moretto è stata in parte modificata]

5 Cfr. i § 40 e 68 di M. Heidegger, Sein und Zeit, (in Jahrbuch für Philosophie und phänomenolo- gische Forschung , Band, ed. von E. Husserl, Halle 1927), Max Niemeyer, Tübingen 1993; tr. it. di P. Chiodi, riv. da F. Volpi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2006

da 

https://www.academia.edu/32037612/Metafisica_dellesistenza._Il_possibile_sviluppo_metaontologico_a_partire_da_Heidegger_Giornale_di_Metafisica_2-2016_

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Francesco Paolo Intini

 

Riprendo qui brevemente un mio post su Fb di qualche tempo fa, che come al solito fece terra bruciata, di foresta amazzonica inaridita, tutto intorno.

L’argomento era una parola dialettale del mio pugliese, un participio passato ossia “SCRIÈTE” (alias screato\ scriato?).

L’infinito del verbo dovrebbe essere screare o scriare ed indicare l’azione esattamente contraria al creare cioè ritornare nel nulla.

Il significato comunemente dato a questo termine è “ debole, di poca carne, cresciuto a stento” come è anche riportato in rete:

 

http://www.lessicografia.it/Controller?lemma=SCRIATO_e_SCREATO&rewrite=1

 

Niente a che fare con la ricchezza del concetto di scomparire, ritornare al nulla che implica una precisione chirurgica del linguaggio, allettante anche dal punto di vista filosofico perché significa che gli antichi miei conterranei avevano già coscienza del significato di creazione, del nulla e del suo contrario e dunque del divenire.

 

Ecco, caro Giorgio, il nulla è eredità di una cultura millenaria per niente morta che conosceva la dinamica fondamentale dell’esistenza e diceva creare il passaggio diretto e screare quello inverso.

 

Penso, ma potrei sbagliare ovviamente, che si possa attribuire alla poesia questa funzione di creare e screare contemporaneamente, un lavoro da equilibrista che sa mantenersi sulla lama del rasoio e non dà più importanza alle cose rispetto a ciò che non sono, per abitare l’istante di un lampo, assorbirlo e sputarlo.