Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Roberto Terzi, Fenomenologia dell’inapparente,  L’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, categoria di Giorgio Agamben, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
Faust chiama Mefistofele per una metastasi

Francesco Paolo Intini

QUANTO XI

Si trattò di competere con un seme di papavero. Lotta tra Re e nano.
Migliaia di funzionari per i feudi, a spiegare il nero degli stami.

Farneticava la ghigliottina perché aveva furore di avvenire.
Era il ciompo che segnava la gioventù con una lama intorno al collo.

Si cadeva così facilmente che furono necessari rinforzi di ortiche
Leggi mercenarie a regolare il sacco.

Arrivarono con i carichi di mitra
Trascinando l’asino di Gesù nel giorno delle Palme.

ACHTUNG! ACHTUNG!

Cambio vita è il salto di cerchio.
Quanto XI che eccita Nicodemo, il bolscevico.

Il carico di pallottole nelle vene giù per la giugulare
a capofitto nelle mani. Stimmate di ferro ai piedi.

Poi nel risalire un martellare chiodi. Torsione di dorso
Che non voleva saperne di spingersi oltre la Luce.

Nemmeno una piccola fermata a rigirare il Tempo
Miracolo di un esploso che torna nel tritolo.

Carlo Livia

[ inedito di prossima pubblicazione, La prigione celeste, con Progetto Cultura]

From here to nothing

Attraverso la notte sacramentale, nuda, trascinando l’anima del bambino
morto. Un vecchio mi vede da lontano e grida. Vuole uccidermi, ma diventa di marmo.

Cado nel groviglio francese. E’ piacevole. Il dolore cresce lontano. Divento
Auschwitz. Con le cosce dell’uragano Gloria, e un sesso trionfale con precipizi in fiore. Ritorno nel parco giochi. Un cipresso cieco, furioso, mi sbarra la strada. Ha tutti i morti in mano.

La rugiada delle fanciulle è spesso un addio viola. Segue le croci verso il buco nero, senza domande.

La veste vergine si affaccia dall’incesto, spargendo protoni mortali. Sul
davanzale intermedio traducono i morti in euro.

Dall’amplesso centrale cade un si minore. Biondissimo. Inestricabile dai
lunghi serpenti del profondo. Si staglia nel cielo lastricato di dei. Sul viale
ormonale appena risorto.

Nell’aria un uccello infelice. Diventa un peccato. O un flauto celeste, troppo
sottile. Mi trafigge il cuore. Per fortuna mi addormento. In sogno attraverso le
cascate.

Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Intini è evidente che il venire-alla-presenza delle parole nell’ordine del discorso poetico equivale all’apparire degli enti. Si può allora vedere nella questione dell’evento il momento centrale di questa poesia, un’ultima ed estrema radicalizzazione della problematica fenomenologica dell’apparire delle parole nell’ordine del discorso umano. Dell’apparire e dello scomparire delle parole e del senso eventuale loro connesso e concesso da un io che si è ritirato nel nascondimento.

La parola è evento, è il luogo nel quale si mostra l’evento. La parola ci guarda, sta lì da sempre, attende un nostro cenno, un accoglimento, impedito da sempre da una resistenza che noi opponiamo con pervicacia e supponenza. Allora dobbiamo chiederci: si dà un evento senza la parola che lo nomina? La risposta è NO, è la parola che chiama l’evento. È perché siamo «guardati» dall’evento che siamo anche «guidati», condotti dall’evento.

Roberto Terzi

Fenomenologia dell’inappariscente

«L’uomo in quanto esserci è il Ci, il luogo di questa manifestatività, ma non è colui che la costituisce o padroneggia, perché l’evento accade all’uomo prima di ogni sua iniziativa e l’uomo stesso,come vedremo tra breve, appartiene all’evento in cui diviene ciò che è. Ma concepire il fenomeno in termini evenemenziali significa anche indicare il cuore di nascondimento e sottrazione insito in ogni manifestazione, l’impossibilità di portare l’esserea d un disvelamento completo o ad una «evidenza». È significativo allora che nel suo ultimo seminario Heidegger si confronti nuovamente con la fenomenologia e parli programmaticamente di una «fenomenologia dell’inapparente»: gli enti appaiono, ma l’apparire degli enti non appare a sua volta, non perché sia qualcosa fuori dagli enti, ma perché è l’evento ritraentesi di ciò che appare. Diviene così comprensibile anche il senso del richiamo all’etimologia di Ereignis da eräugen (mostrare, far vedere, o anche guardare, adocchiare) e da Eräugnis (ciò che è messo sotto gli occhi): l’Ereignis è il movimento del venire-alla-visibilità, l’evento che «ostende» qualcosa portandolo alla manifestazione e conducendolo così al suo proprio. È ciò che rende possibile la nostra stessa visione, perché se bisogna parlare qui di un «guardare» e di uno «sguardo», si tratta innanzitutto dello sguardo dell’evento verso l’uomo e non viceversa. È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.»

da https://www.academia.edu/6007917/Esperienza_o_tautologia_La_questione_dell_evento_in_Heidegger

 

Scrive Giorgio Agamben in una intervista che abbiamo pubblicato recentemente:

«l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia.»

Ritorno ancora una volta alle Tre Domande:

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Inutile che vi dica che senza aver posto all’ordine del giorno queste tre domande (che possono compendiarsi nella n° 2), non si può scrivere una poesia che abbia un qualche valore. La poesia dell’immediatezza espressiva e dell’io è semplicemente chiacchiera, così come qualsiasi poesia che non abbia un nucleo pensante al suo interno

Penso che soltanto l’archeologia può aiutarci a districare la matassa delle parole inutili e delle fraseologie vuote. Il poeta deve farsi archeologo, speleologo, andare sempre più giù, nel profondo. Perché, come scrive Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

Un mio verso:

Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Contemplando il torso in marmo di Apollo, esposto al museo del Louvre, a Rainer Maria Rilke parve di sentire una voce: «Tu devi cambiare la tua vita». L’arte dunque è un richiamo a cambiare la vita. L’estetica, come asseriva Brodskij, è più antica e più grande dell’etica, ma per cambiarla la vita è necessaria una conversione, un rivolgimento dello sguardo, occorre che l’uomo risponda e corrisponda alla Domanda fondamentale che l’arte gli consegna. In questa poesia di Rilke, l’uomo dell’oggi guarda la statua e la statua, mozzata della testa, restituisce lo sguardo che ricade su se stesso, torna su di lei.

Una statua di marmo osserva la statua di vita che noi siamo. Due sguardi che si incrociano nel luogo dove ciascuno si scambia il posto. Il torso si espone ma non s’impone, chiede di essere guardato. Una energia interna fuoriesce nel mondo dal torso in marmo dell’Apollo che rapisce l’occhio dell’osservatore e lo spinge ad ascoltare la «voce» del rivolgimento radicale che il torso chiede.

Non più superficie di marmo ma «voce» che riecheggia nella coscienza dell’uomo ricordandogli che è giunto il momento di cambiare. L’autorità del torso di marmo dell’Apollo ci dice: «devi cambiare la tua vita», noi siamo i destinatari di questo imperativo categorico

Nel volto che non c’è noi guardiamo, cerchiamo il volto dell’Apollo ma non lo troviamo. Quel volto è scomparso, è rimasta una traccia che noi possiamo soltanto immaginare nella fantasia . Ed è questo il compito dell’arte. Con le parole di Giorgio Agamben: «Compito dell’arte è la rappresentazione dell’irrealtà», e Rilke adotta in pieno il precetto agambeniano: fa del marmo bianco che arde come la luce di un candelabro un mito, un mito che perennemente ci richiama all’imperativo categorico fondamentale che la grande arte deve perseguire: «Du mußt dein Leben ändern», «Devi cambiare la tua vita».

Molto semplicemente, penso che senza una «metafisica», gli uomini di oggi non possano avere alcuna «esperienza metafisica». Come asseriva Adorno, al posto della metafisica oggi abbiamo una storia della metafisica. Per gli uomini di oggi riesce sempre più problematico esperire una esperienza estetica, ciò che essi esperiscono si è indurito, raffreddato. Ciò che si è indurito, ciò che si è reificato e cosificato si sottrae ai giudizi esistenziali e ai giudizi estetici. Rimane il vuoto tegumento cosificato delle «esperienze» internalizzate nelle coscienze degli uomini. E a questo si dà il nomignolo, appunto, di «esperienza», magari estetica. Infarcita di estetismi.

Non c’è dubbio che l’esperienza della «durata» di una «esperienza» sia una cosa tutta da definire e approfondire a livello filosofico. Già il concetto di «esperienza» è qualcosa che deve essere ancora precisato dal punto di vista filosofico ha affermato Gadamer, nessuno sa che cosa l’«esperienza» sia ma tutti sappiamo che abbiamo delle «esperienze» intorno a cui, però, non sappiamo nulla di definito. Che cos’è una esperienza? Che cos’è una esperienza metafisica? Non ne sappiamo nulla.
Con le parole di Adorno: «Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica».1]

T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. a cura di Alberto Donolo, 1970, Einaudi p p. 336

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

Un contributo sul grande tema della Stagnazione (economico-etico-estetica) della Europa e della “Civiltà Occidentale” (La Civiltà della solitudine, secondo A. Sangiacomo) e del minimalismo messo di recente sul tappeto dall’amico Linguaglossa a Banja Luka….

da
La Post@ de “Il Mangiaparole”,

Anno 1, N. 3, luglio/settembre 2018

Gentile Redazione de Il Mangiaparole,

Mentre si sfornano ogni giorno decine di libri di poesia, mancano le possibilità di orientamento in senso critico perché mancano testi di critica.

Come mai accade questo?

In un recente articolo apparso sull’inserto “domenica” de Il Sole 24 Ore (12 agosto 2018) dal titolo «La poesia ridotta a feticcio» Alfonso Berardinelli scrive in proposito che «Almeno da venti anni, se non di più, in Italia la critica di poesia langue, è poco attendibile o poco motivata … Domina un cerimonioso e accomadante fair play, che in mancanza di valutazioni argomentabili o di semplice capacità di lettura premia gli autori più abili nel sistemarsi nelle maggiori (un tempo autorevoli) case editrici».
Perché, secondo voi, siamo arrivati a questo punto ed a chi può imputarsi la responsabilità in Italia di questa caduta della capacità critica?

(Alfonso, da Savona)

Risposta di Giorgio Linguaglossa:

“Rispondo raccontando un aneddoto. Una volta una rivista di questi giovanotti che scalpitano e sgomitano mi ha rivolto un questionario chiedendo cosa intendessi per «critica della poesia», quale «scuola
di pensiero estetico seguissi», se esistesse, a mio giudizio, oggi, «una critica della poesia». E via di questo passo. Risposi che non sapevo cosa fosse la «critica della poesia», che non seguivo «nessuna scuola di pensiero estetico» e che, a mio avviso, non esisteva «la critica della poesia».

In risposta, quei giovanotti mi chiesero «se avessi inteso prendermi gioco delle loro domande e se intendessi proprio quello che avevo scritto». Inutilmente ribadii che ero serissimo e che non mi sarei mai permesso di prendermi gioco di nessuno, tantomeno delle loro domande. Il risultato fu che le mie risposte non videro mai la luce in quella rivista.

Questo aneddoto lo riferisco perché illumina bene il livello della «pseudo-cultura» che oggi viene introiettata e spiega come gli «appassionati alla poesia » abbiano ormai interiorizzato le credenze ed i convincimenti di una vecchia cerchia sacerdotale la quale non ammette che venga posto in discussione il conformismo culturale.
Intendo dire con questo aneddoto quanta strada all’indietro le nuove generazioni abbiano percorso dal pensiero critico di persone della mia età.

Si è trattato, a mio modesto avviso, di una regressione a un pensiero soteriologico, pseudo elitario,di chi si crede di detenere le chiavi per l’accesso al Paradiso delle lettere. Insomma, non posso non notare una sorta di regressione profondissima verso un pensiero acrilico e acritico.

L’aspetto più ridicolo è il concetto di cultura che oggi impera e di cui anche quei giovanotti sono diventati portatori, un concetto dal quale sono stati espunti gli elementi di critica delle ideologie e di critica tout court.
La conclusione, che se non fosse grave sarebbe umoristica, è che questi giovanotti hanno interiorizzato il meccanismo mentale dell’Amministrazione della Crisi globale che sta vivendo tutto l’Occidente, ovvero il principio della censura e dell’esclusione di chi non condivide la cultura agiografica del presente.
Questo è proprio il metodo di dominio che l’Amministrazione delle “cose” ha in Occidente: l’Amministrazione gestisce le Crisi insinuando nelle menti deboli di pensiero critico la convinzione secondo cui occorre espungere dal catalogo degli «addetti ai lavori» chi non la pensa come la maggioranza imbonita, chi la pensa in modo diverso. E chi agisce in modo diverso.

(Giorgio Linguaglossa)