Renato Minore, O caro pensiero, nino aragno editore, 2019 pp. 100 € 15, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, Si vive nella «dimensione del filo». La fenomenologia degli oggetti si dà in forma di filamento, di spigolo, La visione di scorcio, con conseguente duplicazione e dis-locazione del l’io percipiente,

Giorgio Linguaglossa 

 

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Renato Minore è nato a Chieti nel 1944 e risiede a Roma. Le sue raccolte di poesia: I nuovi giorni (Rebellato, 1965), Il convento francescano, in “Quinta Generazione” (Forum, 1970), Non ne so più di prima (Edizioni del Leone, 1994), La piuma e la biglia, in “Almanacco dello specchio” (Mondadori, 1989), Le bugie dei poeti (Scheiwiller, 1993), Nella notte impenetrabile (Passigli, 2002), I profitti del cuore (Scheiwiller 2006), Stare a vedere quel che accade, in “Almanacco dello specchio” (Mondadori, 2012), O caro pensiero (Aragno, 2019, prefazione di Raffele Manica). Ha anche pubblicato i romanzi: Leopardi, l’infanzia, la città, gli amori (Bompiani, 1987, 1999), Rimbaud (Mondadori, 1991), Il dominio del cuore (Mondadori 1996); e i racconti e le fiabe: I ritorni (Guida, 1991), Lo specchio degli inganni (Lisciani Giunti, 1992) , Tontolo (Salani, 2011). Tra i suoi libri di saggistica: Giovanni Boine (La nova Italia, 1975), Intellettuali, mass media e società (Bulzoni, 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco, 1986), Dopo Montale (Zerinthia, 1992), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1993), I moralisti del 900 (Poligrafico dello Stato, 1997), L’italiano degli altri (Newton Compton, 2011), La promessa della notte (Donzelli, 2012), O caro pensiero (ninoaragno, 2019). 

 

Lettura di Giorgio Linguaglossa

 

So per certo che la mia lettura di questo libro è anti fenomenologico, ma vorrei andare oltre una semplice lettura analitica del testo che, penso, altri sarà in grado di fare egregiamente. Dirò che l’atto poetico da cui prende le mosse questo libro di Renato Minore vuole disegnare i confini entro i quali dovrà accadere la narratizzazione della vicenda del personaggio «io» alle prese con l’esperienza delle alterità. Quella narrativa che ha luogo nella  nostra mente è inderogabilmente intessuta con l’Altro, con il Tu, è la relazione tra il soggetto e tutto ciò che non è soggetto, perché il soggetto è il prodotto di tutto ciò che non è il soggetto. Il volume vuole anche essere una riflessione sulla problematica complessità dei rapporti interpersonali e psicologici che si instaurano nella nostra psiche quando siamo alle prese con la costituzionalità del destino, e allora occorre sottrarre gli aspetti psicologici dalla dimensione estetica per riscoprire il loro carattere ontologico, per rintracciare, a ritroso, i sentieri e i percorsi che abbiamo attraversato. È questo il momento  significativo del libro. È questo il compito della poesia. È questa la nostra storia. È questa la storia che ci narra Renato Minore in questo libro. Apprezzo in particolare questo ritorno all’aspetto ontologico del fare poesia, che non può essere ridotto ad una semplice decrittazione dall’esterno dell’esistenza ma è presentazione dell’esistenza, presentazione degli oggetti. Ontologia e Mnemosyne sono legati a doppio filo. Di fronte a un pensiero metafisico che ha dimenticato il senso dell’essere, la soluzione  prospettata da Heidegger è il pensiero emblematizzato nella figura di  Mnemosyne, quindi un “pensiero rammemorante” ( Andenken) o “poetante”, profondo e originario, che consiste nell’averne memoria. Il declino dell’Essere ridotto a subire il dominio dell’ente che, secondo Heidegger, in Occidente è cresciuto esponenzialmente. È necessario perciò riflettere su quella differenza tra essere e ente che sembra risuonare nel detto di Anassimandro la cui versione abituale riportata nel saggio di Heidegger del 1946 recita: «Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed esser giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo».1

 

1 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi. Trad. G. Vattimo. Milano: Mursia, 2015 p. 229

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

dalla sezione “Trittico paterno” in O pensiero 

 

di Renato Minore

1)

 

Ricordo il tuo sferragliare

di sillabe

per coprire la parola

che si decomponeva

in sciancati fonemi

nel nome deturpato

come lo scarabocchio della voce

 

Ricordo che infierii

su quel tuo imbarazzo

mi sembrava di crescere

sulla defaillance

 

E fatico a dirmi che non ci sei

con quel balbo crepitare

della glottide come la tua

per l’improvviso rifiuto

della sbarra al galoppo

al galoppo.

 

3)

 

Tu sei solo quel pensiero che è anche

la sola immagine del sogno, giravi intorno

a una piazza sotto la torre dell’orologio.

Ed io che non vedevo bene i numeri

da miope avrei visto sempre meno.

 

In quel niente continuavi a esserci

Quando s’è aperta la cassetta

ho visto di polvere la stoffa del rigato

bello che avevi quando giurasti

sessanta anni dopo

l’amore che ancora premevi con la mano

 

Tu sei solo quello che riesco a pensarti

se credo ancora all’imbarazzo

d’essere capitato non so

se per sbaglio nel camerino

della soubrette con le stelline

e tanto sciame dorato nella vanità

della trasgressione che ti fu perdonata. 

 

 

1)

 

Il cervello (dicevi)

è un organo

ontologico.

 

Se pensa è il nostro,

se sta sotto il microscopio

è quello di un altro.

Dopo tutto noi siamo

il nostro cervello

 

3)

 

Diventa triste

un pesce solo

nella vaschetta

ma basta mettergli

davanti uno specchio

per farlo contento.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

Il libro narra questo modo di procedere del «pensiero» colto nel fotogramma della nostra mente la quale ha solo il compito di coprire una «distanza», quella che separa l’io percipiente (l’io esterno)  dall’«io analogale» (lo spazio mentale interno). La coscienza dell’io poetico, se così possiamo dire, non è un deposito, un magazzino, una cosa o una funzione di qualcosa d’altro, ma è uno «spazio» interno, uno spazio analogale interno alla mente in collegamento con lo spazio esterno, una sorta di superficie speculare e continua analoga allo specchio che riflette il reale, che soltanto mediante l’atto di narrativizzazione del pensiero dell’io poetico può prendere forma e presenza. Tutto ciò che c’è nello specchio è un nulla, lo specchio riflette il nulla.

Questa problematica muove la poesia di Renato Minore, ne costituisce la fibra interna. Poesia che fa qualcosa di diverso dal realismo memoriale che continua anche oggi ad imperversare  dalla fine del novecento, una sorta di renovatio del neo-realismo adattato ai giorni nostri.  Questa problematica porta con sé quella del presente e del passato e della memoria. Il poeta romano intende Mnemosyne come il tracciato del pensiero che rimemora nel presente:

 

Il presente si vede solo di profilo

è il passato che abbiamo di fronte

 

*

 

Le cose che io so le cose che tu sai

Le cose che facciamo finta di sapere

Le cose che fanno il mondo grasso e tondo

Le cose che hanno angoscia e fondo

Le cose appena sussurrate

Intuite eppure dimenticate

Svanite appena la luce s’avvicina.

 

Dormi dormi che ti passa il magone

 

Non hai che pelle erosa

guaina che inghiotte e differenza

dolcissima idea del movimento

appena smorzato dal pensiero della sua fine

nella stringa nella stringa nella stringa.

Amore e pena dominio e specchio

tutto nella stringa notevolmente

 

Dormi dormi che la gioia s’avvicina

 

Occhi di faina

 

1)

 

Ha fulminato la retina

quel taglio di luce.

Ora illumina tra i metalli

dei divano letto

le planimetrie dei corpi

sciolti nella sabbietta

soffice tenaglia sussultoria

per celare e seppellire

 

da tritare

tritare

tritare

 

Qui, nello «speculare» si situa un «disturbo», qualcosa accade ma come per analogia a qualcos’altro che sta in un altro luogo, in un’altra dimensione; la dizione poetica opera attraverso la ri-costruzione di uno spazio analogale, speculare, cioè capovolto, nel quale opera e agisce un «io» duplicato che è in grado di osservare se stesso e lo spazio e il tempo, analogamente a quanto accade all’io che si muove nelle quattro dimensioni, ciò che consente all’io speculare di prendere le misure dell’io reale e di muoversi in contiguità con esso.

Ovviamente, si tratta del funzionamento di un meccanismo mentale che opera per via analogale. Nella poesia più evoluta che si fa in occidente, c’è un io analogale che agisce in luogo dell’io posizionato nel mondo,  quest’io opera mediante la narrativizzazione, cioè un raccontare che riproduce le azioni dell’io nel mondo reale. L’io vede se stesso nel mentre che opera nel mondo. La poesia costituisce l’interno di una cornice analogale dove viene agita la narrativizzazione. Possiamo dire che la poesia e il romanzo sono le forme d’arte che più hanno contribuito a questa opera di narrativizzazione degli ultimi due secoli, sono il luogo in cui si riproduce e si rinnova continuamente il racconto dell’io.

Il racconto dell’io analogale «speculare» che riacciuffa frammenti e spezzoni della memoria e li rimette in circolo; il viaggio dell’io in un mondo che riproduce il mondo reale come il computer riproduce il mondo tridimensionale sul monitor bidimensionale.


È come se ora

io e te fossimo costretti a muoverci

sulla superficie di un filo elettrico

mi accorgerei

ti accorgeresti

della dimensione

del filo

non di quella attorno

al filo.

Il custode della tua anima

ora ti chiede

se è  possibile

avere un’anima

senza custodia. 

 

È qui descritto in modo mirabile la fenomenologia dell’«io» costretto a «muoverci sulla superficie di un filo elettrico»; si vive nella «dimensione del filo». La fenomenologia degli oggetti si dà in forma di filamento, di spigolo, con preferenza per la visione di scorcio, di profilo, con conseguente duplicazione e dis-locazione del l’io percipiente. In fin dei conti l’io percipiente è un io recipiente, un recipiente che perde gli oggetti della nostra esistenza. Noi abitiamo il mondo attraverso una dimensione filiforme, in essa c’è non solo un «tempo interno», ma un «mondo interno» che noi non conosciamo, che non riconosciamo più, perché siamo diventati estranei a noi stessi. È questo processo di progressiva estraneazione che è tipica del nostro tempo che ritroviamo nella poesia di Renato Minore. Il verso è breve e molto breve,  ad armamento leggero, capace di rapidi scarti e repentini movimenti. La poesia di Minore è ricca di annotazioni riflessive sulle problematiche dei rapporti interpersonali, dell’incomunicabilità degli io in via di indebolimento, dell’io ridotto a questione privatistica, a monade incomunicabile. alla irriconoscibilità dei piccoli atti quotidiani: ad esempio il movimento delle mani, il saluto dei bambini.

Ecco tre poesie, libere traduzioni da L’infiammata assenza di Kikuo Takano:

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Il treno

 

Mi capita talora di prendere un treno

per andare volentieri verso un luogo

del tutto sconosciuto e i bambini

in fila sull’argine ignoto sventolano

le mani senza che nessuno risponda

al saluto subito dimenticato.

 

Ed io penso: “Ma le mani non dimenticano”.

Non dimenticano quelle mani d’essere mani

e dunque parto ancora una volta

voglio ancora incontrarle

le guancie vermiglie per la mia età.

 

Ma cosa è questa mano?

Compro il biglietto con la mano misteriosa.

E cosa è quella mano?

Corro a scovare quelle mani misteriose

per aver certezza di incontrare ogni altra mano

e vergognarmi di queste mie mani.

 

Un disco

 

Come fossi un disco

vorrei un solco che precipita

vertiginoso verso il centro.

 

La sua punta potrebbe seguire

al centro la vertigine canora.

potrebbe rivolgere

il suono verso quel foro

come un piccolo tunnel.

 

Ma la punta mi spinge verso al centro

con la sua voce canora e mi lascia

vuoto nella vertigine

non ancora pronto

a essere redento e neppure capace

di capire il mio turbamento.

 

Il gancio

 

Dentro di me si muove

un gancio di ferro

chissà da quando chissà perché

lasciato chissà da chi

appeso così è un gancio proprio pauroso.

e speravo davvero che con la ruggine

mai dovessi provarlo.

 

Ma ora desidero

vedere me appeso

a quel gancio dove non c’è

proprio nulla da fissare.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Scrive Roland Barthes:

«Che cos’è la Storia? Non è forse semplicemente quel tempo in cui non eravamo ancora nati? Io la leggevo la mia inesistenza negli abiti che mia madre aveva indossato prima che potessi ricordarmi di lei… Ecco qui (intorno al 1913) mia madre in gran toilette, con cappellino, piuma, guanti, biancheria fine che spunta fuori dai polsini e dalla scollatura… È l’unica volta che io la vedo così, colta nella Storia (dei gusti, delle mode, dei tessuti): la mia attenzione viene allora distolta e passa da lei all’accessorio che è perito; il vestito è infatti perituro, esso prepara all’essere amato una seconda tomba. Per “ritrovare” mia madre… bisogna che, molto più tardi, io ritrovi su qualche foto gli oggetti che ella aveva sul comò: per esempio un portacipria d’avorio (amavo il rumore del coperchio), una boccetta di cristallo intagliato… oppure quelle pezze di rafia che essa fissava sempre sul sofà, le grandi borse che prediligeva […] La Storia è isterica essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi. Come essere vivente, io sono esattamente il contrario della Storia, io sono ciò che la smentisce, che la distrugge a tutto vantaggio della mia storia… Il tempo in cui mia madre ha vissuto prima di me: ecco cos’è, per me, la Storia.

E qui incominciava a profilarsi la questione essenziale: la riconoscevo io veramente? (…) Io la riconoscevo sempre e solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggiva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta fra migliaia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”… la fotografia mi costringeva a un lavoro doloroso; proteso verso l’essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false… Il quasi: atroce regime dell’amore, ma anche condizione deludente del sogno… nel sogno essa ha talvolta qualcosa d’un po’ fuori posto, di eccessivo… E davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire proteso, verso l’essenza, ridiscendere senza averla contemplata, e ricominciare daccapo».1

1 R. Barthes in La camera chiara (Nota sulla fotografia), Einaudi, 1980 p. 66 e segg.