POESIE SCELTE di Patrizia Cavalli con Commenti di Giorgio Agamben : "L'antielegia di Patrizia Cavalli" e di Giorgio Linguaglossa: "La poesia normale della secondarietà" Due letture a confronto
Commento di Giorgio Linguaglossa
Il problema che la poesia italiana si è trovata ad affrontare subito dopo il '68 è stato l'emarginazione della poesia, anzi, la condanna della poesia da parte della nuova generazione. La contestazione sessantottesca dà il colpo di grazia alla poesia per un sospetto, tutto politico, della sua inutilità e inaffidabilità, per essere sempre dalla parte del cuore, dell'amore e della rima facile e irresponsabile. La generazione della contestazione prende atto che la poesia è diventata «inutile». Poi le cose cambieranno, si tornerà alla poesia, ma ci vorrà del tempo, dovranno passare alcuni anni, quando l'onda lunga della contestazione è terminata e cominceranno gli anni di piombo. Anche poeti di primo piano come Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968) e Montale con Satura (1971), gettano la spugna e accettano il disimpegno, optano per una «discesa culturale» per dirla in termini bachtiniani.
Ormai i tempi sono maturi per un «riduzionismo», per la derubricazione del ruolo della poesia a semplice intrattenimento, ad esercizio letterario, ad ornamento con annessa sostituzione delle problematiche ideologiche con le nuove tematiche del corpo, del privato, del quotidiano, delle occasioni. Nel frattempo, accade che il medio linguaggio poetico si è mediatizzato ed è stato derubricato a gergo a disposizione di tutti. Il linguaggio poetico, in effetti, si democratizza, è a disposizione di tutti, si è trasformato in un linguaggio «normale», adatto ad esprimere i conflitti e le problematiche del «nuovo» tempo. Il «nuovo» esige il dazio e si fa avanti. Ci si accontenta di esprimere le piccole tematiche, i tematismi, i trucioli, le tematiche edulcorate del cuore, il quotidiano, il privato, i privatismi, lo sperimentalismo, anch'esso privato e privatizzato. Sorgono gli idioletti e la moda della poesia neodialettale. Si diffonde la pratica di massa della poesia che troverà il suo primo compimento nella Antologia a cura di Alfonso Berardinelli e di Giancarlo Pontiggia Il pubblico della poesia del 1975.
Non ci sono ormai più temi ma tematismi. Il problema cui si trova a far fronte la «nuova poesia» è la costruzione di un linguaggio poetico «normale», non finto, non posticcio, non artificioso come quello dello sperimentalismo, ma che appaia «normale». La poesia di Patrizia Cavalli impersona idealmente tutte queste nuove esigenze, la sua poesia sembra scritta da una persona «normale», non frutto di una casta di letterati o di esperimenti linguistici, sembra perfetta, addirittura l'onda sonora dell'endecasillabo è stata indebolita e quasi evirata per darsi alla comunicazione di un pubblico che si trova a suo agio nella comunicazione di massa. Nella sua fase più matura la poesia di Patrizia Cavalli abbandona la raffigurazione di un tempo lineare, un tempo che mira a realizzare un'utopia o che tende verso una catastrofe apocalittica, come in questo secolo che volge ormai allo scorcio tanti si sono figurati con passione. La Cavalli scopre che non c'è alcuna apocalisse all'orizzonte, che, anzi, siamo tutti coinvolti nelle piccole catastrofi della nostra vita quotidiana. La Cavalli fa questo, medita con ironia in versi sulla propria condizione privata di massaia, di amante, di cittadina di un mondo massificato.
Per converso, la poesia della più grande poetessa degli anni Settanta, Helle Busacca, viene ignorata. La sua poesia è troppo ingombrante, impossibile da maneggiare, scostante, urticante, insopportabile con quella sua fissa di voler fare un processo al «sistema Italia», è noiosa e oltranzista, insomma, è illeggibile. Montale non la sopporta e la intelligenza letteraria la ignora. Però, questa endiadi, Cavalli-Busacca, è indispensabile perché fa capire come la stella che rifulge nel firmamento della nuova poesia italiana sarà Patrizia Cavalli mentre quella di Helle Busacca verrà posta nel dimenticatoio. La Busacca darà alle stampe a proprie spese I quanti del suicidio nel 1972 mentre il libro di esordio di Patrizia Cavalli trova il suo editore di riferimento: Einaudi.
Non è un fenomeno da poco. Appunto, il linguaggio medio della poesia contemporanea si è finalmente democratizzato, sta diventando patrimonio di tutti. La poesia che prima e meglio di altre intercetta questa nuova sensibilità e questo clima di «riduzionismo» è senza dubbio, quella di Patrizia Cavallli. Nella sua poesia il riduzionismo e la secondarietà del linguaggio poetico sono ormai cose acquisite, filtrano in tutte le direzioni, in tutte le profondità della superficie, stabiliscono dei ponti con il linguaggio di relazione. Linguaggio di una non-poetica, linguaggio del corpo, linguaggio dell'impronta digitale che rinuncia a priori alla ri-fondazione della lingua. Perché mai rifondare la Lingua?, per quale comunità di parlanti?, perché mai parlare di poetica?, per quale interlocutore?, per quale comunità?, per quale poesia?. Così, resta un problema gigantesco, ma in ombra, anzi, la rimozione di un problema che la poesia italiana non ha mai voluto affrontare, e che eviterà accuratamente di affrontare nei decenni a seguire.
Ma non è soggetto alla mutazione continua questo «parlare»?, come dargli una «forma»?, e non è questo suo continuo fluire un ente nell’ente? Nel Medioevo Dante Alighieri tratta dell’uomo «instabilissimum atque variabilissimum» che poteva ancora raccordare la propria instabilità alla stabilità di un impero universale. Indubbiamente, oggi, il poeta moderno deve rammendare e ricucire i frammenti della propria individualità detronizzata dall'«io» alla instabilità dell'impero universale. Siamo agli antipodi rispetto al Medioevo.
La scrittura poetica di Patrizia Cavalli è dunque il prodotto di una cultura dello scetticismo, del riduzionismo e della secondarietà, che ha avuto una ragione d'essere nel 1974 quando appare la sua opera d'esordio Le mie poesie non cambieranno il mondo, una boutade, nulla di più, che suonava blasfema nel '68 e che oggi appare semplicemente come locuzione acquisita. È il tramonto definitivo della «grande forma» che qui ha luogo: le «grandi forme», come le «grandi idee», come le grandi «utopie» sono opera del passato. Ed è tramontata anche l’illusione che si possa riformare la poesia con i mezzi della poesia.
Nella nostra «attualità superficiaria», anche il linguaggio poetico è ridotto ad una funzione strumentale. Forse, per il futuro dovremo abituarci ad una poesia scettica e minimalistica, ad una poesia ridotta a quasi-poesia. In tale accezione, la poesia di Patrizia Cavalli è stata senza dubbio quella che meglio ha interpretato le problematiche di una cultura in via di derubricazione.
Commento di Giorgio Agamben
Si può definire la lingua della poesia come un campo di forze percorso dalle due tensioni contrastanti dell’inno, il cui contenuto è la celebrazione, e dell’elegia, il cui contenuto è il lamento. Spinto al limite, il primo tensore frange il linguaggio nel grido di giubilo per la presenza del Dio, il secondo lo esautora e sfinisce nel mormorio inesitabile ai piedi dell’Assente. Ma, finché il ductus della scrittura sostiene il gesto della voce, la poesie risulta da una sapiente e sempre diversa coniugazione delle due tensioni.
E’ stato detto che la poesia italiana del Novecento (e forse la diagnosi vale per tutta la poesia moderna) è, nella sua linea dominante, elegiaca. Ciò ha condotto la critica a costituire il suo canone escludendo le componenti inniche (Campana, Rebora) e ponendo al centro l’ortodossia montaliana, tutta tessuta sulla felicità negata e sulla privazione. In questo modo, acquartierata la fanteria dei minori, era facile distaccare ai margini, in avanscoperta o sulla retroguardia le grandi variazioni tattiche di Saba, Ungaretti e Sereni, pur sempre riconducibili al tonos dell’elegia. Come spesso avviene, la rimozione della componente innica aveva però una conseguenza imprevista, che scompaginava la linearità del canone: la felicità di Penna, la voce sommessa di Betocchi, ma anche l’interiezione di Caproni e l’ostinato discordo di Amelia Rosselli erano, con ogni evidenza, irriducibili all’elegia.
Dove situare, in questa corsiva mappatura, la poesia di Patrizia Cavalli? Certamente fuori dall’ortodossia elegiaca, ma dove? Un sollecito indizio ci è fornito dalla lingua. L’inno, il cui paradigma è l’alleluia, inclina, per questo, alla paratassi e all’isolamento della parola (il caso limite è il Coup de dés, con la sua disseminazione dei segni sul candore allibito della pagina). Il vocabolo, già notava Hellingrath nella sua lettura degli ultimi inni di Hölderlin, tende qui a strapparsi da suo contesto sintattico e, fedele al suo paradigma interiettivo, cristalizza in monade discontinua e irrelata, in nome. L’elegia, al contrario - simile, in questo, al lunghissimo, ininterrotto “a-a-a-a-a-a...”, che, voce al limite del vivente, Canetti udì proferire da un mucchio di cenci sulla piazza di Marrakech -, tende alla flebile continuità del lamento, alla connessione ipotattica delle forme e delle parole.
Una breve analisi della lingua di Patrizia Cavalli ne esibisce il gesto antitetico: a una maestria incomparabile nell’ordito delle cesure e delle rime interne, che disfano a volte il verso in due emistichi, lo fanno quasi inciampare, fa riscontro un uso dell’enjambement violento quanto salvifico, che riprende il verso inextremis dalla sua spezzatura per indefinitamente protrarlo bel verso successivo; a una sapienza prosodica stupefacente, in cui la sconnessione fra suono e senso che definisce la poesia è esagerata all’estremo, corrisponde un contromovimento che l’emenda ogni volta con un’invisibile ricucitura. Una prosodia incredibilmente ricca di cesure e staccati, una strutturazione del discorso decisamente ipotattica risulta alla fine, non si sa come, nella lingua forse più fluida, continua e quotidiana della poesia italiana del Novecento.
Ciò significa che, nella lingua poetica della Cavalli, inno ed elegia si identificano e confondono senza residui (o, forse, il solo residuo è l’io del poeta). La celebrazione si liquidifica in lamento e il lamento si fa immediatamente innodia. Il Dio di questo poeta è, cioè, talmente ed esaustivamente presente che può solo essere rimpianto; la laude, apertamente francescana, delle creature è percorsa in controfuga da un intimo, buio mugugno, è quel mugugno: miserere e osanna.
A questa inedita coniugazione poetologica dei tensori inno-elegia corrisponde, sul piano ontologico, un’inconsueta economia del linguaggio e del soggetto. L’io che percorre le scene implacabili del suo “sempre aperto teatro” parla, ad onta della sua consumata competenza psicologica, da un territorio ontologico ed etico affatto nuovo e remoto, dove la casa della vita, così fattiziamente presente, si muta surrettiziamente in caverna platonica o in antro preistorico. Qui la lingua vede dove il poeta è cieco, parla dove egli ammutolisce. Questa lingua così accorta, tanto ossessivamente e metricamente intenta a dire “io”, questo ego idiosincratico fino alla monomania, ripetuto e sillabato fino alla nausea nel proprio labirinto domestico, quest’”io singolare proprio mio” compie invece il supremo miracolo di inaugurare un campo trascendentale senza io né coscienza, dischiude il “c’è” di un’ontologia brutale e allucinata, qualcosa come un paesaggio etico primordiale, dove nessuna psicologia e nessuna soggettività potranno mai penetrare e dove, sopravvissuto alla sua estinzione, pascola distratto il grande rettile giurassico della poesia. Questo campo trascendentale, incompitabile dall’io, non è, infatti, altro che la lingua, una lingua che non è più né inno né elegia, né celebrazione né lamento, ma che, nel suo sonnambolico incedere, tocca e palpa i contorni esatti dell’essere.
Patrizia Cavalli vive a Roma e ha pubblicato per Einaudi alcune raccolte di successo: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), Poesie 1974-1992 (1992), L'io singolare proprio mio e Sempre aperto teatro (1999), Pigre divinità e pigra sorte (2006). Con la raccolta Sempre aperto teatro, ha vinto il Premio Letterario Viareggio-Repaci. Sempre per l'editore Einaudi ha tradotto il Sogno di una notte d'estate di Shakespeare. Per nottetempo ha pubblicato il sasso La guardiana (2005) e ha scritto la presentazione al gransasso Doppio ritratto (2008).Ancora in poesia, Datura (Einaudi, 2013)
Tu te ne vai e mentre te ne vai
mi dici: «Mi dispiace».
Pensi così di darmi un po' di pace.
Mi prometti un pensiero costante struggente
quando sei sola e anche tra la gente.
Mi dici: «Amore mio mi mancherai.
E in questi giorni tu cosa farai? »
Io ti rispondo: «Ti avrò sempre presente,
avrò il pensiero pieno del tuo niente».
*
Anche quando sembra che la giornata
sia passata come un'ala di rondine,
come una manciata di polvere
gettata e che non è possibile
raccogliere e la descrizione
il racconto non trovano necessità
né ascolto, c'è sempre una parola
una paroletta da dire
magari per dire
che non c'è niente da dire.
*
Nel cesto della biancheria sporca
riconosco l'estate,
i pantaloni leggeri le magliette.
Avevo troppa fretta d partire
per potermi fermare a ripulire
le tracce della corsa.
*
Ma prima bisogna liberarsi
dall'avarizia esatta che ci produce,
che me produce seduta
nell'angolo di un bar
ad aspettare con passione impiegatizia
il momento preciso nel quale
il focarello azzurro degli occhi
opposti degli occhi acclimatati
al rischio, calcolata la traiettoria,
pretenderà un rossore
dal mio viso. E un rossore otterrà.
*
Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d'acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l'idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.
*
Dolcissimo è rimanere
e guardare nella immobilità
sovrana la bellezza di una parete
dove il filo della luce e la lampada
esistono da sempre
a garantire la loro permanenza.
Montagna di luce ventaglio,
paesaggi paesaggi! come potrò
sciogliere i miei piedi, come
discendere - regina delle rupi
e degli abissi - al passo involontario,
alla mano che apre una porta, alla voce
che chiede dove andrò a mangiare.
*
Ah sì, per tua disgrazia,
invece di partire
sono rimasta a letto.
Io sola padrona della casa
ho chiuso la porta
ho tirato le tende.
E fuori i quattro canarini
ingabbiati sembravano quattro foreste
e le quattromila voci dei risvegli
confuse dal ritorno della luce.
Ma al di là della porta
nei corridoi bui, nelle stanze
quasi vuote che catturano
i suoni più lontani
i passi miserabili di languidi ritorni
a casa, si accendevano nascite
e pericoli, si consumavano
morti losche e indifferenti.
E cosa credi che io non t'abbia visto
morire dietro un angolo
con il bicchiere che ti cadeva dalle mani
il collo rosso e gonfio
vergognandoti un poco
per essere stata sorpresa
ancora una volta
dopo tanto tempo
nella stessa posizione nella stessa condizione
pallida tremante piena di scuse?
Ma se poi penso veramente alla tua morte
in quale letto d'ospedale o casa o albergo,
in quale strada, magari in aria
o in una galleria; ai tuoi che cedono
sotto l'invasione, all'estrema terribile bugia
con la quale vorrai respingere l'attacco
o l'infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso
e forsennato nell'ultima immensa visione
di un insetto di passaggio, di una piega di lenzuolo,
di un sasso o di una ruota
che ti sopravviveranno,
allora come faccio a lasciarti andar via?
*
Sarebbe certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante; sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all'improvviso togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con un'aria leggermente impaurita
e i capelli un po’ spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o da una corsa.
*
Per questo sono nata, per scendere
da una macchina dopo una corsa
in una strada qualunque e trafficata
e guidata dagli angeli piegarmi
attraverso il finestrino
sopra quei capelli e in silenzio
sentire l'odore di quel viso
dove poco prima avevo visto
come la bocca e gli occhi
si passavano un sorrido che non si apriva mai
e correndo veloce scompariva
in un attimo e tornava.
*
Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall'alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
*
Mi ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,
aggiustata la piega destra della bocca, assottigliato
il corpo, alzata la statura. Avevo anche regalato
alle spalle un ammiccamento trionfante. Ecco ragazza
ragazzo
di nuovo, per le strade, il passo del lavoratore,
niente abbellimenti superflui. Ma non avevo dimenticato
il languore della sedia, la nuvola della vista.
E spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo
segreto intoccabile. Nelle reni
si condensava l'attesa senza soddisfazione; nei giardini
le passeggiate, la ripetizione dei consigli,
il cielo qualche volta azzurro
e qualche volta no.
*
Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c'è richiamo e non c'è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l'accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
*
Di essere ormai adulta l'ho capito
da come la notte vado al gabinetto.
Sicura di tornare al grande caldo, prima
era un'interruzione quasi a occhi chiusi,
veloce e trasognata. Ora è un viaggio lento
e freddo, staccato dal sonno, dove guardo
sapendo di guardare le stesse mattonelle
lo stesso muro screpolato, lo stesso secchio
lasciato in mezzo al corridoio,
e confusa nell'estatico disordine
riconosco il percorso in un codice
di piccoli sussulti finché mi riconsegno
a un tiepido torpore castigato.
*
Nella febbretta cuposa dei risvegli
il sudore del sonno si ingiallisce
e cola addosso alle finestre, al cielo
anche se è azzurro. E quando esco
dal sibilo dei sogni
che ha lasciato le mie orecchie ottuse
intossicate dalla ripetizione e riconquisto
lentamente i gesti
che mi portino a un'altra posizione
(forse se metto una camicia a righe
e i pantaloni bianchi, camminerò più in fretta,
avrò un'andatura eretta) dove io non sia
il recinto inerme dei terrori,
l'impresario di scontri clandestini
che alla fine si innamora dei suoi attori,
trovo una mimosa oro antico
il suo turno di splendore ormai finito,
il gregge come una nuvola piatta e mobile
sul prato senza più la frangetta degli agnelli
e il caprone capo col campanaccio al collo
abituato ormai a credere
che muoversi sia il suono.
*
Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l'espiazione, è questo il male.
da Poesie, Einaudi 1999