Intervista a Giorgio Linguaglossa
a cura di Nazario Pardini, del 17/03/2014
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?
G. L.: Nella mia poesia non c'è niente di autobiografico. Alla seconda domanda rispondo che non c'è differenza tra "poesia lirica" e "poesia d'impegno"; la poesia, se è poesia è sempre impegnata: a cambiare la poesia e a chi legge la poesia, e quindi il mondo. Ma i suoi tempi sono molto lunghi si può parlare di decenni, di secoli. Riguardo alla terza domanda, ritengo che la poesia non sia affatto una "espressione diretta dell'anima".
N. P.: La sua poetica, essendo lei uno dei maggiori interpreti della poesia contemporanea, è in gran parte nota attraverso le innumerevoli recensioni, prefazioni, e note critiche che la riguardano. Ce ne vuole parlare direttamente?
G. L.: Molto semplice, poiché soffro molto di noia, prediligo scrivere al momento, dietro sollecitazione immediata, e cose brevi. La durata mi produce noia. Ecco spiegato le mie tante note di lettura di libri di poesia, anche se poi gli autori di poesia si preoccupano soltanto di misurare col bilancino i complimenti, gli aggettivi e i sostantivi... vogliono solo i complimenti, a loro non interessa ragionare. E questo è un difetto del loro narcisismo che gli impedisce di crescere.
N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?
G. L.: Leggo di tutto, in modo confuso e in preda alla compulsione del momento. Ma un conto è leggere, un altro è riflettere su ciò che si legge. Ecco, ritengo che la seconda attività sia quella determinante per la propria crescita.
N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?
G. L.: Ritengo che la poesia possa nascere soltanto dalla lettura di libri di altri scrittori o poeti. Chi fa poesia secondo i suggerimento dell'io è un cattivo poeta. L'io con la poesia non c'entra. La contaminazione tra le migliori scritture è la stoffa che deve formare un'opera letteraria di qualità.
N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?
G. L.: Lo sperimentalismo è finito nel 1956, l'anno di pubblicazione di Laborintus di Sanguineti. Quando Andrea Zanzotto nel 1968 pubblica La Beltà arriva in ritardo, a quella data lo sperimentalismo, dico la sua spinta propulsiva, è già esaurito. Zanzotto è un autore post-moderno, epigono tra gli epigoni. Forse il più grande tra gli epigoni.
L'endecasillabo è mutato perché è cambiata la lingua italiana della comunicazione interpersonale. Il problema non è l'endecasillabo, si può scrivere una bella poesia anche facendo a meno di scrivere in perfetti endecasillabi. Il problema centrale per un poeta è essere fuori moda, cioè fuori contesto, non prendere mai nessuna idea dominante come verità rivelata, sottoporre tutto a una severissima vigilanza critica. È una via faticosissima che solo pochissime grandi personalità tentano. Il rischio è essere anacronistici, e quindi di essere confinati fuori dal proprio tempo. Quando Leopardi scrisse “L’infinito” (1921), la sua poesia era veramente e profondamente anacronistica se la consideriamo a confronto con le poesie che si scrivevano nel suo tempo. Oggi, a distanza di tanti anni, noi abbiamo dimenticato la fortissima carica anacronistica di quel tipo di poesia, l’abbiamo dimenticato perché abbiamo digerito quella profonda innovazione. Dico di più, a mio modesto avviso la poesia contemporanea se vuole durare nel futuro dovrà vestirsi di panni anacronistici, dovrà apparire ed essere profondamente anacronistica, apparire ed essere “fuori moda”, fuori contesto (rispetto al contesto del contemporaneo e delle sue poetiche di facile lettura e digeribilità).
Voglio portare soltanto due esempi di poesia che giunge fuori moda (troppo presto o troppo tardi, oppure fuori contesto): Sessioni con l'analista di Alfredo De Palchi (opera pubblicata nel 1970 ma scritta nel 1964) e I quanti del suicidio di Helle Busacca (che pubblica il libro a proprie spese presso una tipografia di sua fiducia nel 1972). Si tratta di libri che uscivano dall'orizzonte culturale dell'epoca e che sono rimasti confinati in una zona d'ombra. Di fatto dimenticati e solo recentissimamente sono stati disseppelliti dall'oblio. Con Sessioni De Palchi applica alla poesia italiana il cosiddetto decostruzionismo, applica la de-fondamentalizzazione del testo poetico, che verrà ripresa e sviluppata in un'altra direzione da Il disperso di Maurizio Cucchi nel 1976; ma nella raccolta di De Palchi c'era già tutto, e ad un alto grado di dis-percezione e di dis-oggettivazione. Il testo si de-referenzializza in modo molto più profondo di quanto andava facendo invece lo sperimentalismo anche con i suoi migliori esponenti. De Palchi non insegue il significante, a lui non interessa rincorrere significanti instabili e aleatori, quello cui mirava era la dissoluzione di un certo tipo di linguaggio poetico ormai avviato in una linea discendente. A giudicare dalla distanza del tempo trascorso appare chiaro che De Palchi non è un epigono, è un innovatore, non si può scrivere la storia della poesia degli anni Sessanta senza fare riferimento al suo libro.
Ho scritto recentissimamente che anche la tua poesia si muove nella giusta direzione, tende a ripristinare un lessico “antico” per riposizionarlo nel contesto linguistico macro poetico del linguaggio della comunicazione. Ma qui intervengono e devono intervenire altre considerazioni e valutazioni, e cioè se quel contesto lessicale sia stato versato (piegato, forgiato) in un continuum stilistico che giustifichi quel lessico. E questa è un’altra direzione che l’ermeneuta deve sempre prendere in considerazione.
Quando Montale abbandona il suo antico stile e con Satura (1971) cambia direzione e accetta di misurarsi con il linguaggio relazionale della comunicazione interpersonale, compie una operazione che ha avuto una profonda influenza sulla poesia italiana che seguirà, compie un anacronismo, ma all’incontrario, cioè accetta una modernizzazione lessicale e linguistica ma rinuncia alla costruzione di un “nuovo stile”. Si dirà che non era nelle sue corde e nelle sue possibilità creare un “nuovo stile”. Questo è un punto nevralgico: la rinuncia ad un “nuovo stile” caratterizzerà la poesia italiana a venire che sarà denominata poesia da traduzione, poesia del post-moderno, e aprirà la strada al minimalismo con tutte le conseguenze che la poesia italiana rinuncerà a costruire una nuova forma-poesia, accetterà in modo acritico di misurarsi con il problema della invasione dei linguaggi tele mediatici. Questo detto in poche parole è stata la via italiana ad un riformismo moderato che ha invalidato, cioè ha reso difficile e problematico alla poesia italiana di raggiungere una nuova forma-poesia. Che poi è il medesimo problema sul quale sta riflettendo anche un altro poeta contemporaneo: Steven Grieco (non a caso poeta di madre lingua inglese), sul problema della utilizzazione da parte della poesia italiana del linguaggio poetico della middle-class.
N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di case editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?
G. L.: L'editoria italiana di poesia purtroppo non esiste (parlo di valore culturale critico). E i premi letterari sono una vicenda che ha i tratti del grottesco. Le Antologie sono espressione del narcisismo di chi le partorisce e di chi vi partecipa. Allibisco quando vedo poeti affermati che depongono la propria firma in calce a insignificanti prefazioni di antologie e almanacchi.
N. P.: Certamente sarà legato ad una sua opera in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e alla funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?
G. L.: Mnemosine è la madre delle Muse. Bisogna ritornare a studiare il mito di Orfeo, i miti greci. Il lessico viene da sé. L'ispirazione viene da sé quando hai chiaro in mente ciò che vuoi dire. Riguardo alla mia memoria, essendo molto lacunosa, non ci faccio mai affidamento. Osservo i comportamenti umani.
N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea?, raffrontata magari con quelle straniere?, e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
G. L.: Ci sono bravi scrittori, ma li devi cercare con la lanterna di Diogene. E così è per la poesia. Dei premi letterari e delle classifiche dei libri preferisco non parlare, non trattandosi di cose serie.
N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?
G. L.: Nel libero mercato se un imprenditore ha un ramo della produzione in perdita, che fa? O taglia quel ramo di produzione o cambia i dirigenti. Nell'ambito del comparto editoria, se una collana di poesia o di narrativa è in perdita che fa l'editore?, semplice, non cambia i dirigenti e non sopprime le collane in perdita ma abbassa o tenta di abbassare il target di qualità per raggiungere i gusti del pubblico in una corsa sempre più verso il basso.
Se io fossi, che so, un grande editore la prima cosa che cambierei sarebbero i dirigenti delle collane in perdita economica e chiederei loro le ragioni di quelle perdite, con il benservito.
Ritengo che un singolo non possa fare niente per mutare lo stato delle cose presenti, il settore cultura è in mano alla piccola lobby degli apparati culturali, fa parte di quel gigantesco dromedario a più gobbe che è la creazione e il mantenimento del consenso e dello status quo. Soltanto una rivoluzione può stabilire nuovi rapporti di equilibrio tra le lobbies o determinare una cooptazione di una lobby in seno a quella dominante. È un problema di dominio e di egemonia che le lobby dominanti esercitano e gestiscono in danno dei sottordinati.
La ringrazio per la sua disponibilità.
La sua intervista verrà pubblicata sul blog “Alla volta di Lèucade”
Nazario Pardini 17/03/2014