Ennio Abate intervista Giorgio Linguaglossa
su “Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea” Società Editrice Fiorentina, 2013 pp.148 € 14.00
Domanda: Il tuo libro è suddiviso in tre sezioni: «La partenza degli argonauti», «Il post-contemporaneo» e Dopo il Novecento. Le questioni aperte». Cominciamo dalla prima, «La partenza degli argonauti». L’evocazione del mito serve - mi pare - a distinguere un prima e un dopo e a contrapporre nettamente «il viaggio della poesia moderna», ancora paragonabile a quello degli argonauti alla ricerca del vello d’oro, alla condizione d’oggi, post-novecentesca o postmoderna ( che tu, sulla scorta di una formula del tuo amico Giuseppe Pedota, dati addirittura con precisione: «Il 1 gennaio 2000 siamo entrati nel Dopo il moderno). Perduto il «conforto della tradizione», si stende davanti a noi, più che l’ignoto, la ripetizione di un eterno presente. Lo chiami sarcasticamente «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo» o, in altri termini, un «Moderno che si estende e si prolunga all’infinito» (p.11) o, ancora in altri termini, «una “pianura” che si annuncia, una superficie piatta che si prolunga in tutte le direzioni» (p.11). È, insomma, la diagnosi di un fallimento che implica la poesia di un intero secolo. E tu la imputi a una causa precisa: la poesia del Novecento si sarebbe come snaturata nel tentativo di inseguire (dovrei aggiungere: sulla scia delle scienze o della heideggeriana Tecnica o del positivismo) il «reale», diventando perciò «verosimile, pragmatica, prevedibile» e producendo questo blocco o crisi o «nulla» o scomparsa di «tutto» si sarebbe arrivati perché
Vuoi approfondire questo punto. Davvero la poesia del Novecento s’è bruciata per aver inseguito un «reale», risultato più inesistente o irraggiungibile del mitico vello d’oro? Davvero si sarebbe adeguata alla «razionalità dell’etica e del mercato borghesi» (p.13)?
Risposta: La tua intelligente domanda vorrebbe richiedere da parte mia una risposta apocritica, che cioè chiuda la domanda, la risolva e, quindi, la sopprima, la sciolga. Al contrario, la griglia concettuale della mia riflessione critica (: «La partenza degli argonauti», «Il post-contemporaneo» e Dopo il Novecento. Le questioni aperte»), verte al principio opposto: intende aprire la «domanda» mediante un continuo processo del «domandare». Nel mio intendimento critico la «domanda» apre al problematologico, non chiude; voglio dire che ogni «domanda» che punteggia la mia riflessione attraverso l'analisi di una vasta gamma di libri pubblicati a far luogo dal 1 gennaio 2000, è formulata mediante una risposta che «apre» a un'altra «domanda» che sta sotto, soggiacente, che deve essere ripescata e interrogata. È quindi un metodo aperto, un processo senza fine. Nella mia personale gerarchia, la questione del metodo viene prima di quella dell'analisi: o meglio non si dà analisi senza un metodo preliminare. Il metodo è sostanza delle cose. Questo processo aperto di indagine del «reale» (cioè dei libri di poesia) è quello che io chiamerei un metodo problematologico, cioè aperto a tutti gli esiti del pensiero, ma entro pur tuttavia la griglia concettuale che mi sono posto. È la griglia concettuale che, con i suoi binari, dà respiro al pensiero, il suo scartamento ridotto o ampliato. Una risposta problematologica del pensiero è una risposta dialettica, che pone in discussione se stessa nel momento in cui viene formulata: «frattura l'impensato al pensiero», cioè segnala delle alternative, crea uno spazio di relazioni e di direzioni; ma, ovviamente, non tutte le direzioni si equivalgono: non siamo in un impero dove tutte le strade portano a Roma, siamo in un labirinto dove tutte le strade si imbrogliano e non portano che a vicoli ciechi, è questo il problema. Le numerosissime domande che formulo di continuo nel libro non sono espedienti retorici ma intendono mettere in luce al lettore che il territorio che si profila davanti ai suoi occhi (sempre attraverso l'analisi dei libri di poesia) è un territorio sconosciuto, «ignoto». È questa una categoria chiave che mi ha guidato nelle mie riflessioni: il campo della poesia, dell'arte in genere come quello della fisica quantistica, della politica e dell'economia è un campo dove il reale si dà sotto la veste dell'«ignoto»; nessuno ha la chiave già pronta in grado di aprire le porte dell'«ignoto», e chi dice di averle è un falsario e un imbonitore oltre che uno sciocco.
E qui siamo già all'interno di un concetto fondamentale senza il quale non è possibile neanche articolare una «domanda» qualsiasi: quello della Crisi. Che cos'è la Crisi?; direi che è la modalità con cui si manifesta dinanzi a noi la difficoltà di porre «domande»; o almeno le «domande fondamentali». Tu mi dirai: «quali sono le domande fondamentali?»; ed io ti rispondo: sono quelle domande che mi consentono di aprire il campo di indagine del reale mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni. Tu mi potresti chiedere: «ma le domande scompaiono?»; ed io ti rispondo: sì, le domande possono scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli se qualcuno non le ripesca dal mare dell'oblio dell'essere: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse?, e la poesia non è un prodotto delle Muse?; la poesia ha, secondo me, il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport o spot televisivo.
Domanda: La tua preferenza va ad autori (Salvatore Toma, Helle Busacca, Masria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Giusepe Pedota,) nei quali scorgi «vivissimo il senso della Fine» (p.11). E la tua analisi sembra presentare forti tratti di “catastrofismo”. Ti rifai, infatti, parafrasandolo, al Cardarelli del 1919, cioè di dopo la Grande Guerra e prima del fascismo, per dire che: «oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole» (p. 12) , ma elenchi in un crescendo, che a me pare terrificante e però un po’ alla rinfusa, «fine del Novecento, fine del post-moderno, fine dell’utopia dell’uscita dal Moderno, fine del Progresso, della credenza in un miglioramento economico indefinito della società, fine del progetto Italia» (p.11). Eppure, quasi di soppiatto, nel tuo discorso rispunta l’utopia - e che utopia! - se sostieni che «occorre una nuova visione del mondo saldamente piantata sulla nostra madre Gaia, un nuovo periscopio» (p.15). Vuoi illustrare questi che a me paiono i due poli di una oscillazione?
Risposta: Quando affermo che la «poesia» è il suo stesso «oggetto», può sembrare un pensiero tautologico, si pensa subito all'arte per l'arte o a qualcosa che giri a vuoto; ma è vero il contrario: la «poesia» è un «oggetto». Finora ci si è mossi chiedendo alla poesia che cosa può o non può fare, come le poetiche normative che prescrivevano delle norme o degli indirizzi o l'accettazione di certi postulati filosofici; in realtà tutte le poetiche del Novecento sono state, in qualche misura, «normative»; il Novecento è stato il secolo che ha visto l'esplosione dei manifesti, dei gruppi organizzati delle poetiche di gruppi e di singoli; il secolo che si apre invece sembra essere l'epoca delle individualità, dell'atomizzazione del soggetto e della sua ghettizzazione, e ciò sembrerebbe in consonanza con l'evidenza della globalizzazione che è una necessità vitale delle società fondate sull'economia dello scambio e del profitto. Quando dico che la «poesia» è un oggetto che non può assomigliare a nessun altro «oggetto», ho già detto troppo. E con questo chiudo il discorso; o meglio lo apro. Tu mi chiederai: «come si fa a non assomigliare a nessun altro oggetto tra i miliardi di oggetti che ci stanno davanti nella nostra vita di relazione?»; ed io ti rispondo: deve essere un «oggetto» che, a prima vista sembra come tutti gli altri, ma che, a ben guardare, è oltremodo diverso dagli altri; tu mi potresti chiedere: «quindi un oggetto inutile?, o superfluo?»; ed io ti rispondo: non è né un oggetto utile né superfluo (entrambe categorie dell'economia politica) ma che li trascende nella misura in cui li implica: è un oggetto «ignoto», «sconosciuto», nel senso che non può essere né conosciuto né riconosciuto ma soltanto «rivissuto». Quando io nel libro affermo che occorre «un nuovo periscopio» intendo appunto questo: dobbiamo munirci di un nuovo strumento ottico con il quale osservare il mondo e dobbiamo munirci di un nuovo organo della vista, di un nuovo occhio e di un nuovo udito: il mondo (o reale) non è quello che gli altri hanno visto (o creduto di vedere) e udito ma è quello che noi abbiamo visto udito e dimenticato, è il mondo nascosto alla nostra coscienza, che noi dobbiamo risvegliare dal sonno della Ragione. L'arte significativa serve a questo: a risvegliarci dal nostro sonno dogmatico. Ovviamente la cosa non è né facile né scontata. Ciò che i contemporanei considerano arte nel 99% dei casi è solo paccottiglia, magari ben confezionata. Ciò che è riconoscibile non è arte. In autori come Salvatore Toma, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Maria Marchesi avverto nei loro versi «vivissimo il senso della Fine», la fine di un'epoca, la fine di un Modello di Sviluppo dello stile.
È importante sottolineare che occorre rovesciare il modello proposizionale della Ragione poetica che va da Myricae di Pascoli a Satura (1971) di Montale; con Somiglianze (1980) di Milo De Angelis e Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna abbiamo il rovesciamento del modello poetico proposizionale: la proposizione poetica di tipo lineare-temporale viene sottoposta a una intensificazione e una accelerazione tali da spezzarne il guscio lineare, lo frantuma, lo mette fuori gioco, lo rende inservibile. D'ora in avanti bisognerà ripartire da questa nuova impostazione del poetico, occorrerà riformulare il DNA della struttura del verso che non potrà più essere del tipo lineare temporale ma si dovrà iniziare a parlare di «temporalità del verso spazio-temporale», di struttura poliedrica della composizione, della metafora quale sintesi del processo del domandare, della problematizzazione di ciò che troppo facilmente è stato sproblematizzato. La rifondazione metaforica e proposizionale esige un linguaggio poetico nuovo. Tu mi dirai: «detto così sembra una cosa semplice»; ed io ti rispondo: «nient'affatto, è una cosa difficilissima». Tu mi dirai: «ma la poesia contemporanea ha scelto la poesia della chiacchiera, la chatpoetry, l'approccio giornalistico, l'alleggerimento del verso da tutte le zavorre che l'appesantivano, l'ironia, l'autoironia, la leggerezza...», ma io non posso che rispondere: «si tratta di una falsa strada, di una Irrweg, di una strada sbarrata, di un accesso facile, direi democratico al poetico».
Domanda: Così fotografi la post-poesia: «la post-poesia è ciò che viene dopo la poesia del Novecento, ciò che resta dopo il diluvio della rivoluzione total-mediatica; non può ricostruire nulla di ciò che è stato compromesso degli istituti stilistici novecenteschi, non può riallacciare alcun rapporto (né lo potrebbe) con la grande tradizione del Novecento. La via verso la «cosa» è sbarrata da una frana, da una alluvione prodotta dalla fine del Novecento» (p. 29). Eppure tu stesso sottolinei nei poeti che nomini (Benedetti, Pusterla, Fiori, Salari, ecc.) ascendenze novecentesche, «rovine» incorporate nella loro ricerca e che agiscono tuttora. Non sono forse la prova di una discontinuità meno assoluta e drastica di quella che tu sostieni e, dunque, una fine del Novecento forse incompiuta? Non è qui la sede per affrontare il dibattito su postmodernità come nuova epoca (Ceserani), tardo modernità (Jameson, Luperini) o ipermodernità (Donnarumma); mi pare, però, che tu propenda di più per la tesi «postmodernista» alla Ceserani. Sbaglio a scorgere delle incertezze, dei tentennamenti? Vorrei sentire cosa ne pensi.
Risposta: Al di là delle questioni terminologiche che, credo, rimangono tali, io propendo per il concetto (che prendo in prestito da Giuseppe Pedota) di Dopo il Moderno, che possiamo datare, per maggior comodità di chi ci legge, al 1 gennaio 2000. Io dico che il tardo-moderno di Jameson finisce il 1 gennaio 2000. Da allora siamo entrati nell'epoca della Stagnazione e della susseguente Recessione. Vuol dire qualcosa questo, o no?. Per uscirne dobbiamo cambiare il Modello di sviluppo economico, dobbiamo adottare un altro concetto di Modello di sviluppo, molto più democratico, capire che si esce dalla crisi economica solo se la ricchezza verrà distribuita con maggiore equità tra i ceti ricchi e quelli subalterni. Pensare di risolvere la Crisi del Modello di sviluppo stilistico con iniezioni di poesia da talk show, con la leggerezza e la frivolezza tipo la poesia di Vivian Lamarque, è da stolti superficiali. Non è compito di un contemporaneista qual io sono indicare come si guarisce dalla malattia della Crisi, non sono un medico, ma indicare la direzione da prendere per uscire dal «sortilegio» della Crisi, questo sì, è un mio compito. Tu mi potresti obiettare: «molti autori dicono che da Omero ad oggi c'è sempre stata la Crisi e che la poesia nel frattempo non è cambiata gran che»; al che ti rispondo: «buon per loro, vedono il fuscello nell'occhio altrui e non la trave nel proprio occhio».
Domanda: Il linguagio poetico è un linguaggio privato individuale o un linguaggio pubblico che coinvolge io-tu-noi?
Risposta: il linguaggio poetico è il linguaggio pubblico, anzi, il massimo livello di linguaggio pubblico perché fondato sulla grammatica la quale garantisce un ordine, una ratio, una civiltà. Esso può essere da tutti compreso. La sintassi è la legislazione della lingua, è il patto che tutti i cittadini devono rispettare. A volte, leggendo la poesia dei miei contemporanei, mi chiedo se la «poesia» voglia veramente essere compresa da tutti. Il vero problema è se mai si potrà continuare ad esprimere nello pseudolatino internazionale del minimalismo dei nostri tempi i drammi dei tempi nuovi, la vita delle nostre città, i conflitti interpersonali tra gli uomini, la scandalosa morte di Dio, la mutazione indotta dalla rivoluzione mediatica in atto. Le idee e i conflitti di questa età devono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine costituzionale di Augusto l’aveva trovato in Virgilio e il volgare di Dante aveva espresso i conflitti della civiltà delle città-stato.
Ma c’è oggi un nuovo «ordine»?, c’è una lingua da adottare come proprio linguaggio poetico?, non è diventato già l’italiano poetico in auge una lingua artificiale?, mi chiedo se non siano diventati anche i linguaggi poetici in idioma altrettanti linguaggi artificiali. Impossibile – mi si risponde – perché essi affondano nella matrice matria, radicati, prima di ogni parola, nella nostra infanzia. Dobbiamo davvero credere a questa leggenda?, dobbiamo ancora credere alla deità di una lingua inconsapevole dell’infanzia?, dobbiamo ancora credere alle tesi prescientifica espressa da Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia secondo il quale insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami?. Non c’è nessuna forma locutionis che ci è data per legato testamentario o per eredità, ogni nuova generazione deve lottare, ogni giorno, contro i conformismi della propria cultura e contro i truismi della propria lingua per potersi esprimere in un linguaggio forte e autentico.
Una Lingua poetica non nasce dal nulla, non nasce dal caso o dall’abilità di un poeta artifex se non c’è una Città-Stato, una res publica, una società civile viva, un consorzio culturale, degli interlocutori di rango con i quali interloquire. Se c’è il deserto come nella nostra povera Italia, un Nuovo Linguaggio Poetico faticherà a nascere; se tutto si risolve in opportunismi di letterati e in piccoli municipati non c’è alcuna possibilità di costruire una Lingua Nazionale (intendo un linguaggio poetico nazionale), si scriverà in quello pseudolatino tutto italiano fatto di pseudo ambizioni e di perbenismo, di conformismo e di arroganza letteraria.