Introduzione

 

Giorgio Linguaglossa con questa sua indagine sulla Nuova Poesia Modernista Italiana si conferma un critico assai penetrante. Con un linguaggio critico chiaro e preciso lo studio di Linguaglossa si offre quale una insostituibile mappatura della situazione della poesia contemporanea nella sua complessità di movimenti «interni» ed «esterni». Nella prima sezione intitolata per una fenomenologia del poetico, viene  sottoposto a critica e introdotto il concetto di quale rappresentazionela via diretta» e «la via indiretta all’oggetto»), mediante l’analisi di due poeti paradigmatici: Andrea Zanzotto e Giovanni Raboni; una problematica che ci conduce da subito, passando attraverso la destrutturazione dell’informale di Camillo Pennati, dentro il crogiolo della nuova poesia modernista nella quale sono conglobati poeti come Giuseppe Conte (la poesia lirica dopo il mitomodernismo), per passare a le linee laterali del secondo Novecento: Alfredo de Palchi, Luciano Luisi, Alberto Bevilacqua; per entrare dentro la problematica più scottante della «nuova poesia»: Dante Maffìa, Giuseppe Pedota, Roberto Bertoldo, Fabio Scotto, Mirko Servetti, Salvatore Martino, Francesco De Girolamo, Vincenzo Ananìa, Leopoldo Attolico, e la nuova generazione: Luca Benassi, Daniele Santoro e Faraòn Meteosès. Lo studio affronta anche l’analisi della nuova poesia modernista femminile con analisi dettagliate e documentate di poetesse come Helle Busacca, Maria Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Chiara Moimas, Lidia Are Caverni, Laura Canciani, Anna Ventura, Daniela Marcheschi Maria Teresa Ciammaruconi, Isabella Vincentini, Rosita Copioli, Maria Benedetta Cerro, Maria Rita Bozzetti, Gabriella Sica, Giovanna Sicari, Elena Ribet, Serena Maffìa, Lidia Gargiulo, Giuseppina Amodei, Manuela Bellodi. Uno studio complesso e sfaccettato che comprende il «versante lirico» della «nuova poesia», rappresentata da Mario Specchio, Alberto Toni, Fornaretto Vieri, Mauro Germani, Francesco Giuntini, Tiziano Salari, Valentino Campo, Fabrizio Dall’Aglio. La «versione antimoderna» è rappresentata da Giancarlo Pontiggia, Luigi Celi, Pietro Civitareale e Marco Onofrio; la «Post-poesia» è rappresentata da Cesare Viviani, Fabio Troncarelli, Sandro Montalto, Alfredo Rienzi, Adam Vaccaro, Davide Rondoni, Roberto Pazzi, Luciano Troisio, Giancarlo Baroni, Davide Puccini, Nello Rosolino Rosolini, Mauro Ferrari, Massimo Giannotta, Andrea Di Consoli e Plinio Perilli. Ed infine, la linea meridionale della “nuova poesia” modernista, che ricomprende autori come Giovanni Occhipinti, Carlo Cipparrone, Pino Corbo, Rocco Taliano Grasso, Eugenio Nastasi, Angelo Lippo, Antonio Spagnuolo, Franco Riccio e Nicolino Longo.

I giudizi che lo studioso dà sono sempre documentati e colgono sempre il centro dell’operazione poetica dei singoli autori. Per citare solo un caso, si legga quello che viene detto del poeta siciliano Giovanni Occhipinti («la scelta di campo dantesca della poesia umanistica»): «diciamo subito che la poesia di Occhipinti si pone come uno dei più significativi tentativi di sovvertire i rapporti di forza tra il linguaggio poetico del Nord, esemplificato dalla scuola lombarda, e la linea meridionale, dispersa e disarticolata in una miriade di autori non accomunati in un orientamento di poetica omogeneo ma sicuramente impegnati in una direzione di ampliamento delle tematiche, dell’oggettistica e della molteplicità di tempi e di spazi, nonché di una stilizzazione, da un lato forse più attenta alla tenuta «conservatrice» dell’impianto lirico, dall’altro, senz’altro più aperta agli spunti e alle influenze provenienti dalla poesia di paesi che si affacciano al Mediterraneo e agli influssi della poesia dell’Europa orientale». Ma si veda pure quanto si afferma di Serena Maffìa (nata nel 1975), nella cui poesia «gli avvenimenti sono rappresentati come se ci si trovasse davanti al pubblico, dove l’autore stesso o un personaggio preso in prestito raccontano esperienze di se stessi o di altri di cui ci si fa portavoce; per cui gli eventi e i gesti raccontati non sono altro che “racconto” in versi, poesia “narrativa”, dove il “fatto” biografico non è distinto né distinguibile dal “fatto” virtuale e il “fatto” si pone come terzo polo tra l’io poetico e il punto di vista del terzo parlante, il piano onirico viene sublimato dall’invenzione surreale».

Notazioni estremamente importanti sono inserite nei punti di svolta dello studio; ad esempio, parlando della poesia di Dante Maffìa, il critico dice che «la produzione degli ultimi dieci anni di Dante Maffìa ha posto alla poesia italiana la vera questione intorno alla quale si giocherà la partita della poesia a venire: la questione del realismo integrale»; oppure, oppure con l’acutissimo appunto sulla poesia di Faraòn Meteosès: «Se il Novecento si era aperto con la carnevalizzazione de I cavalli bianchi (1905) di Palazzeschi, si può affermare che si chiude con l’operazione di meta-carnevalizzazione Psicofantaossessioni di Faraòn Meteosès». Parlando della poesia di Fabio Scotto il critico indica una traccia importante del suo lavoro: «con la categoria della nuova poesia modernista ho inteso conglobare tutte quelle posizioni che si collocano in contiguità con il Moderno e che si richiamano al comune paradigma della Tradizione novecentesca, a differenza del post-modernismo, che invece tende a ripercorrere il secolo appena trascorso nei suoi punti di svolta contrassegnati dalle post-avanguardie della seconda metà del Novecento. Vero è che alcuni autori contemporanei sembrano muoversi in una sorta di via di mezzo tra queste due grandi correnti, oscillando tra l’una e l’altra, nel tentativo di conciliare stilisticamente le due Tradizioni».

Uno studio siffatto era del tutto assente nel panorama degli studi critici del secondo Novecento, e può essere considerato un insostituibile strumento di conoscenza di ciò che è avvenuto nella poesia italiana del tardo Novecento. Particolarmente significative sono le considerazioni sul «lutto» della Parola poetica del secondo Novecento, che «viene attinta dal lutto della perdita, dal lutto della sua impronunciabilità. La parola poetica di un poeta come Paul Celan può essere considerata analoga ad un sismografo sensibilissimo che risponde al tremore di lontani terremoti, o che annuncia lontani terremoti. È l’ultimo esempio di una parola poetica che tenta un discorso lirico nell’epoca della impossibilità della pronuncia di qualsivoglia discorso lirico». Degno di nota è la straordinaria capacità di sintesi che lo studioso mostra nel presentare i vari poeti e fissarne, in poche battute, la fisionomia e la poetica. Al riguardo, faccio alcune citazioni: «L’inattualismo e la discronia della poesia di Giuseppe Conte è proprio questa continua scommessa, questo continuo scandalo di riproporre un discorso lirico copo la fine dell’età della lirica. È questa, a mio avviso, la chiave di volta per comprendere appieno la portata dell’operazione culturale del poeta ligure. Ad un tempo pragmatica e paradigmatica, esemplare e inattuale»; e ancora, a proposito di Giuseppe Pedota si legge: «Giuseppe Pedota è un poeta del tutto atipico nel panorama letterario contemporaneo per il suo provenire dall’arte figurativa. Di qui l’attenzione naturale per la costruzione “ottica” e “spaziale” delle sue composizioni»; e infine, ecco come ci viene presentata Maria Benedetta Cerro: «è una poetessa della generazione “smarrita”, ovvero, quella generazione che non ha mai avuto udienza presso la grande editoria e che è stata costretta a pubblicare in edizioni periferiche». Insomma, Linguaglossa ci presenta calibrati e misurati medaglioni di poeti e di tendenze poetiche, e lo fa usando un linguaggio critico molto documentato e centrato, ricco di osservazioni giuste e incisive. Tra le tante citazioni, mi limito alla seguente: «Elena Ribet è una poetessa della nuova generazione (è nata nel 1973), che si è formata interamente nel nuovo mondo della rivoluzione mediatica dei linguaggi, in cui la vera e unica rivoluzione è stata quella portata avanti dall’induzione che il secolo della rivoluzione tecnologica ha avuto sul linguaggio della poesia». E infine, ecco cosa si dice di Cesare Viviani: «Il linguaggio poetico di Viviani costruisce e decostruisce ciò che ha edificato, si pone come critica del linguaggio, metacritica, linguaggio che medita sul proprio autoannientamento, sulla propria dissoluzione». 

Ben vengano, dunque, studi e scavi di tal fatta, ce n’è estremo bisogno per capire che cosa è avvenuto nella poesia italiana degli ultimi trent’anni. Un lavoro del genere, puntuale ed esaustivo, non poteva essere fatto che da un lettore assiduo e competente come Giorgio Linguaglossa, un lavoro militante che nasce da decenni di letture e riflessioni compiute sul ponte di comando della rivista di poesia «Poiesis», dal 1993, anno della sua fondazione, al 2005, anno della interruzione della rivista.

 

Carmine Chiodo

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

LA NUOVA POESIA MODERNISTA ITALIANA

per una critica della costruzione poetica

 

per una fenomenologia del poetico

 

La parola poetica del Moderno, che ha attraversato la destrutturazione dei linguaggi del Novecento, può essere definita, per analogia, come ciò che rimane di un esercito dopo una disastrosa sconfitta, come cristallizzazione di una carica energetica e di un’esperienza emotiva che sopravvive, come un’eredità rimossa, nella memoria storico-epocale. La parola poetica, sarebbe preferibile parlare di discorso poetico, nel corso del Novecento ha dovuto affrontare la sfida posta dall’insorgere dei linguaggi della modernità. La proliferazione dei linguaggi specialistici, di settore e di nicchia, dei linguaggi scientifici e sociologici ha costretto il discorso poetico dentro una asfittica forbice linguistica che si andava sempre più riducendo; i linguaggi diventavano sempre più incomunicanti nella misura in cui si assestavano come linguaggi di nicchia, linguaggi di settore, e quindi neutrali e neutralizzati, in una parola, infungibili e inutilizzabili dal discorso poetico. Si può affermare che l’ultima avanguardia che ha avuto sentore di tale problematica sia stata il surrealismo, che ha tentato una via di uscita attraverso una ars combinatoria dei linguaggi incomunicanti o mediante la associazione libera dei linguaggi incomunicanti dell’inconscio.

Oggi, nel bel mezzo della rivoluzione telematica, cominciamo ad avere consapevolezza che i linguaggi mediatici del secolo della rivoluzione post-industriale hanno posto definitivamente nel cassetto dei numismatici il discorso poetico inteso come discorso della tradizione lirica. 

La parola poetica del secondo Novecento viene attinta dal lutto della perdita, dal lutto della sua impronunciabilità. La parola poetica di un poeta come Paul Celan può essere considerata analoga ad un sismografo sensibilissimo che risponde al tremore di lontani terremoti, o che annuncia lontani terremoti. È l’ultimo esempio di una parola poetica che tenta un discorso lirico nell’epoca della impossibilità della pronuncia di qualsivoglia discorso lirico.

Dopo Celan, il tentativo di ripristinare un discorso lirico, si convertirà in operazione numismatica e di archeologia, per via della intervenuta crisi irreversibile della lirica.

Per sua natura, la parola poetica nel corso del Novecento si è venuta a trovare in una nicchia, in uno stato di latenza, in una zona di oscuramento della cultura dominante dalla quale non può non prendere le distanze pena l’ammutolimento o l’apologia della cultura egemone. 

Chiusa in questa tenaglia dilemmatica, nel corso del Novecento, la parola poetica si è trovata così a percorrere la via autentica, la via per intenderci imboccata da Celan e dal primo Montale fino a La bufera (1951), dopo la quale il poeta ligure cambierà lo statuto e la direzione del suo discorso poetico: non più la parola dell’autenticità, da cui lo stile gnomico-aforistico, ma lo stile paragiornalistico, la parola dell’inautenticità, la parola che ha perduto la numinosità nominante. D’ora in poi, nella poesia italiana ed europea, le due direzioni di sviluppo tenderanno a divaricarsi sempre di più sino a diventare antinomiche: la via inautentica si porrà come antitesi alla via autentica, l’una ad esclusione dell’altra, l’una impermeabile all’altra. La poesia della via in autentica abiterà sempre di più il logos atopico. La poesia moderna del dopo Celan rientra nella categoria dell’esilio. O meglio: dell’impossibilità dell’esilio. La via inautentica sarà quella del logos inadempiuto e inadempibile, della parola non più definitiva che non intende assumersi alcun onere nominante, alcuna opzione totale o totalizzante. La degenerazione della via inautentica sarà il logos sperimentale

Sempre più chiaramente, il logos poetico  trova dimora nell’ombra della cultura, in una nicchia del disastro di una cultura normalizzata, della cultura della circolazione delle merci. Se il primo Montale, il poeta degli Ossi di seppia (1925) e de Le occasioni (1936), assume la funzione di «bacino di raccolta» (dizione di P.V. Mengaldo) della poesia del primo Novecento, il Montale di Satura (1971) sarà il poeta della disseminazione dei linguaggi. Si assiste ad un fenomeno di analogia dei linguaggi, il discorso poetico tenderà ad abbandonare la funzione di alta formalizzazione del linguaggio poetico per assumere, in modo sempre più vistoso,  una funzione «neutrale» tra la pluralità dei linguaggi, tenderà ad assottigliarsi e, progressivamente, a scomparire quella specificità del discorso poetico dirimpetto alla invasione dei linguaggi mediatici e informativi. La cultura del tardo Novecento assisterà alla diffusione della normalizzazione. Si afferma definitivamente il paradigma del minimalismo: uno stile ludico-ironico (Valentino Zeichen), uno stile mimetico-cronachistico (Valerio Magrelli), uno stile ludico-celibe della leggerezza (Franco Marcoaldi). Resta peraltro intatta l’invarianza dell’esistenzialismo milanese nei suoi esponenti di maggior spicco (Maurizio Cucchi con Il disperso del 1976  e Antonio Riccardi con Impianti del dovere e della guerra del 2003), con uno stile mimetico attento alla topicità del reale. 

Quel logos poetico che proviene dalla cultura della normalizzazione costituisce piuttosto un atto di velamento che non un atto di s-velamento, alla quale fa da contraltare un atto di ri-velazione delle ipotesi di poesia misticheggiante e della poesia post-sperimentale. Al contrario della parola religiosa che abita la rivelazione, il logos poetico abita dunque lo s-velamento nel momento in cui quello s-velamento risulta ormai impossibile e inattingibile per via dell’oscuramento che una cultura normalizzata produce e induce. Il luogo prediletto del logos poetico diventa quindi il residuo, il dimenticato, il rimosso, il disperso, la soglia, in una parola, il disarticolato, ciò che è scisso ed è ostico alla ricomposizione. 

Il fenomeno della «disartizzazione dell’arte» di cui parlava Adorno deriva dunque da uno statuto epocale che non può essere edulcorato o enfatizzato come non rilevante o ininfluente. Connesso al fenomeno della disartizzazione c’era quello di quale «rappresentazione» eleggere a modello e, connesso a questo, c’era da risolvere il problema di quale paradigma eleggere quale binario della rappresentazione poetica: se il paradigma dantesco incentrato sulla narratività altamente formalizzata e sulla polifonia dei personaggi raffigurati o il paradigma petrarchista incentrato sulla monadicità dell’io, sulla monarchia stilistica e sul canto monodico dell’io poetico. 

Nel secondo Novecento italiano, da riviste come «Officina» di Pasolini, Leonetti, Roversi e, in seguito, in modo sempre più marcato, dagli orientamenti del Gruppo 63, il dibattito venne equivocato come un problema meramente tecnico-linguistico, o ideologico-linguistico, come un problema di techné, senza farsi sfiorare dal sospetto che la vera questione era piuttosto un’altra: non ristagnava nella opposizione tra la poesia in lingua nazionale e poesia nelle lingue locali, né soltanto nella questione dell’aggiornamento del linguaggio poetico alla nuova forma di civiltà della comunicazione già agli albori; il problema era ad un tempo più antico e radicale, e più nuovo: nella scelta dell’oggetto e nella scelta del soggetto, nella problematica della dissoluzione dell’oggetto e in quella del decentramento del soggetto, nella individuazione di una «tematica» e nel trattamento stilistico della medesima, nonché nel problema della linguisticità delle tematiche. In breve, il vero problema che i dibattiti dell’epoca eludevano o non affrontavano, risiedeva nel rapporto tra la «forma» e la «tematica» e nella qualità della «stilizzazione» applicata al linguaggio poetico. Nell’ambito di questa problematica, gli autori della prima Linea lombarda dell’antologia che Anceschi titolò nel 1952 (Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba), affrontarono il problema unicamente dal punto di vista linguistico, ovvero, dell’abbassamento del registro linguistico al piano della prosaicizzazione e della narratività, ottenendo il risultato di avvicinare il linguaggio poetico al linguaggio narrativo fino al punto di perdere il criterio distintivo tra i due piani del linguaggio e finendo per introdurre, alla distanza, un ulteriore elemento di confusione: un esempio significativo in quest’ottica è fornito dal famoso libro di Pagliarani La ragazza Carla del 1960, che resta a mezza strada tra il linguaggio neoverista e quello sperimentale; una ristrutturazione moderata in chiave narrativa e un tentativo di aggiornamento tecnologico della linguisticità della tematica, dove la opacizzazione del linguaggio derivava dalla opacità del personaggio centrale (la tematica della dattilografa alle prese con i problemi della promozione allo statuto piccolo-borghese), e dalla tematica della vita operaia e piccolo borghese in un contesto di adeguamento del discorso poetico alle esigenze comunicative di una borghesia alle prese con l’inizio dello sviluppo industriale. Su un altro versante, gli autori della Quarta generazione (Margherita Guidacci, Vittorio Bodini, David Maria Turoldo, Gian Piero Bona e altri), non sembrano fornire alcuna soluzione duratura alla crisi della poesia italiana. La loro proposta è ancora incentrata e inceppata sul problema del pedale alto e/o del pedale basso, della lirica e/o dell’antilirica, della tradizione e/o dell’opposizione, parole d’ordine fuorvianti e riduttive dirimpetto alla problematica che la costruzione di una «nuova poesia» poneva all’ordine del giorno. Nessuno di questi movimenti è stato sfiorato dal sospetto che il vestito linguistico è fatto per ben altri scopi che per coprire la nudità del corpo, e che il vero problema era non il vestito ma l’ontologia dei linguaggi estetici. Si resta in superficie, si naviga a vista. Il solo Angelo Maria Ripellino con una produzione poetica che copre un arco di quindici anni, da Non un giorno ma adesso (1960) a Autunnale barocco (1977), si porrà come maestro in ombra, il vero architetto di una poesia modernista, frutto di estraneità alle linee di forza degli istituti stilistici degli anni sessanta/settanta e di una straordinaria capacità di sintesi e di assimilazione della cultura poetica europea. 

 

 

la via indiretta all’oggetto: sperimentalismo, ex linea lombarda, informale

Andrea Zanzotto, Giovanni Raboni, Camillo Pennati

 

Possiamo affermare che l’arte del tardo Moderno assume definitivamente la rappresentazione come via indiretta all’oggetto: la rappresentazione è sempre un seguire le sfaccettature e le sbavature dell’oggetto, un aggirarsi cauto attorno all’oggetto per trascriverne i limiti e i contorni, nella consapevolezza che il discorso poetico può sopravvivere soltanto nel tragitto del bordeggiamento dell’oggetto, in quel limen, in quella terra di nessuno che resta la sola esilissima e sottilissima dimensione dove ancora resiste un quantitativo minimo di ossigeno, dove il discorso poetico può ancora trovare ricetto in un linguaggio non ostile. 

C’è da dire che nel tardo Novecento certo post-sperimentalismo ha assunto acriticamente il principio del bordeggiamento dell’oggetto mediante una scrittura poetica dell’accumulo o della rarefazione,  attraverso il taglio obliquo del «quadro», attraverso una incessante marcia di avvicinamento all’oggetto, mediante una tangenziale proliferazione linguistica, una crescita linguistica esponenziale, funeratizia. Un esempio prototipico in tale accezione può essere considerata la poesia di Edoardo Cacciatore, tutta incentrata sulla serializzazione (e sterilizzazione) del significante e sulla percussione fonetica del tutto scentrata e avulsa da qualsiasi idea significazionista del linguaggio poetico. Anche in Andrea Zanzotto, che attinge gli esiti più alti della cultura del post-sperimentalismo, può essere riscontrata questa inflazione del significante che inficia alla base il valore della sua produzione come della produzione di tutto il post-sperimentalismo. Dietro il paesaggio (1951) e Vocativo (1957), sono operazioni incentrate su un concetto di discorso poetico di marca post-sperimentale: dove l’antinomia di base è fornita dalla stabilizzazione della soggettività poetica (il punto di vista contemplativo e la tematica del «paesaggio» appena riattualizzati e ristrutturati linguisticamente), connessa con una stabilizzazione stilistica fondata sulla produzione lessematica del significante. Stabilizzazione che, a fronte della introduzione di una innovazione meramente linguistica, si tradurrà, alla lunga, in una operazione di riformismo linguistico di breve respiro. La vocazione «vocativa» prende il posto lasciato vacante dalla vocazione mimetica con la risultante di una  vistosa preponderanza della infrastruttura linguistica, che si regge per partenogenesi, a scapito di qualsivoglia istanza mimetica e significazionista. Di qui l’accumulo semantico e la rarefazione fonologica, che sono filiazioni della proliferazione sinonimica, della proliferazione della parentela semantica o fonologica, dove tutte le parole sono vocative nella misura in cui sono «evocative» della linguisticità mediante una infinita serie di serializzazioni e di affiliazioni vocative e fonetiche. Dopo la parentesi dialettale di Filò (1976), che costituisce l’applicazione della procedura metalinguistica sul tessuto lessicale del dialetto, il punto terminale di questa poetica lo si avrà con Meteo (1996) e Sovrimpressioni (2001), «dove la parola diventa rifrazione della parola; la cosa rifrazione della cosa. Ciò che noi percepiamo è solo un fenomeno di sovrimpressioni» scrivevo in una recensione dell’epoca, dove «i luoghi simbolici non coincidono più con i luoghi semantici», dove si riscontra, praticamente intatto, a distanza di quasi cinquanta anni da Dietro il paesaggio, la procedura metalinguistica e il punto di vista contemplativo dell’io poetico, attestando la produzione di Zanzotto in posizione vistosamente conservatrice lungo la direttrice della cultura di stampo post-sperimentale.

Un autore significativo che nella seconda metà del Novecento ha privilegiato la rappresentazione come via indiretta all’oggetto è, senza dubbio, Giovanni Raboni. Nella sua opera, in particolare a partire da Le case della Vetra (1966), l’inquadratura delle composizioni procede a zig zag, mediante sortite laterali e incisi apparentemente disconnessi, una ipotassi che procede a strappi e a salti, attraverso una paratassi ricca di pourparler e di considerazioni sghembe, postille che illuminano in modo indiretto i dettagli dell’oggetto. La composizione risulta come frenata, ritardata nel suo svolgimento, magmaticamente claudicante, instabile ed incerta, così che gli enunciati sono sempre insidiati da una diffusa apocriticità, dove non sai mai se trattasi di enunciati ottativi o enunciati asseverativi, se interiettivi o ragionativi, tutti condotti sul filo di un dubbio, di un rovello non più metodico ma incidentale che insidia ogni intelaiatura di senso, ogni ipotesi significazionista, dove la struttura del dubbio diffrange e rifrange gli enunciati in una molteplicità di direzioni. «In molte sue poesie il conflitto morale è come  rivisitato in sogno e l’assillo per i movimenti di verità e di rivelazione invece di stringersi a enunciati certi, invece di semplificare e abbreviare complica, frange, fa deviazioni, aggiunge incisi, parentesi, dubbi: e sospende il giudizio, ma lo sorpassa dimenticandolo».1

Con il senno di poi, possiamo affermare che il retaggio più importante lasciato da Raboni alla poesia del novecento è stato l’impiego del parlato o, più precisamente, l’impiego di un linguaggio che mima l’uso del parlato medio basso. Una operazione di indubbia caratura che ha contribuito a spostare l’asse del linguaggio poetico nazionale in direzione di una koiné linguistica di matrice lombarda, e contribuito in modo decisivo alla instaurazione dell’egemonia di un traliccio poetico piccolo-borghese: un modo di intendere lo «spazio» della poesia, «tematiche» piccolo-borghesi appropriate al parlato medio-basso, «interni» della piccola borghesia, un mimetismo fraseologico di tipo realistico-mimetico adatto alla investigazione di una realtà plebea e piccolo-borghese. Insomma, un mini-canone nato dalla costola del grande canone novecentesco in via di esaurimento e fibrillazione. Un’operazione strategicamente azzeccata perché andava a colmare un vuoto della poesia italiana, che operava una sorta di autoinvestitura della propria poesia e della poesia di marca lombarda. 

Così, la instaurazione dell’asse Parini-Tessa-Sereni-Raboni era una operazione strategica, e quindi politica, che colmava un «vuoto» e  metteva in naftalina i linguaggi del neorealismo non più in grado di fornire un aggiornamento convincente e duraturo del linguaggio poetico nei confronti dei linguaggi  della nuova società industriale. Una operazione strategicamente centrata sull’idea-base dell’egemonia della poesia di ascendenza lombarda. La conseguenza inevitabile di questa impostazione sarà la deiezione e la marginalizzazione della linea meridionale facente capo alla triade Quasimodo-Gatto-Sinisgalli.

Uno dei percorsi più interessanti per il rigore della ricerca e la continuità della tenuta stilistica mantenutasi sostanzialmente inalterata durante la seconda metà del Novecento fino ai giorni nostri, è senza dubbio quello sviluppato da Camillo Pennati (nato a Milano nel 1931), fin dalle sue prime apparizioni: Una preghiera per noi (1957), Landscape (Londra, 1960), L’ordine delle parole (1964) ed Erosagonie (1973). Il tentativo di Pennati si muove subito in direzione di una destrutturazione del discorso poetico verso l’informale, sgravato dagli oneri di una dipendenza dalla centralità dell’io. Si tratta del primo e più maturo tentativo di porre stabilmente il discorso poetico in una zona intermedia tra il soggetto e l’oggetto: svincolare il linguaggio  dalla dialettica tra l’io e il mondo fenomenico, per attingere una oggettività di visione e un punto di vista distanziante e distanziato e far aderire alla fenomenologia dei segni fenomenici una fenomenologia linguistica impostata sul principio dell’espressione modale, attraverso l’impiego sovrabbondante degli avverbi e di tutte quelle locuzioni equivalenti, frasari mobili e semimobili resi indipendenti dall’oggetto e dal concetto tradizionale di rappresentazione dell’oggetto. Si trattava di una diversa interpretazione del concetto di discorso poetico per attingere l’oggetto mediante la via indiretta, si trattava di una investigazione della «natura» dal punto di vista della «cultura», il primo tentativo nella poesia italiana contemporanea di porre il discorso poetico stabilmente sul piano della pittura informale allora coetanea: una scrittura informale per la rappresentazione informale di un oggetto.

Con le opere che seguiranno: L’iridato paesaggio (1981), Sotteso blu (1983), Il dentro dell’immagine (1987), Gabbiano e altri versi (1990), Una distanza inseparabile (1998), Lo stupore del verso 1974-2000 (2002), fino all’ultima, Modulato silenzio (2007), Camillo Pennati stabilizza ulteriormente la resa stilistica del suo discorso poetico inteso come un metodo di investigazione della «natura» dal punto di osservazione di una «cultura» esautorata dal soggetto e dall’oggetto. L’opera di Pennati si può anche leggere come uno dei tentativi di sottrarsi alla crisi novecentesca del discorso poetico e alla destrutturazione dell’oggetto che di quella crisi era il portato più eminente e vistoso; è comunque un tentativo condotto con un impiego di strategia linguistica e di sapienza stilistica davvero inusitata, una competenza ed un gusto lessicale che non lasciano margine a dubbi. Il discorso poetico di Pennati resta però impigliato nella antinomia di una osservazione del «paesaggio» inteso come dato e in una riflessione-osservazione di un «io contemplativo» che costruisce il testo come una ragnatela di segnali semantici e simbolici che rimandano, da un punto di vista distanziante, alla aelatorietà di un «oggetto mutante» qual è quello della «natura» emblematicametne considerata alla stregua di «paesaggio». Così, Pennati può affrancare il discorso poetico da ogni ipotesi di reminiscenza per legarlo alla presentificazione di ciò che appare all’occhio di un indagatore trascendentale, cioè di una visione «esterna» ed «impersonale», di un io percipiente come avulso da un contesto toponomastico o logocentrico, che resiste soltanto come modalità esperiente di un io non più re-cipiente ma unicamente ri-flettente.

 

1 P.V. Mengaldo Giovanni Raboni in Profili critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 p. 108

 

 

la generazione degli anni novanta

 

Libri come quelli della generazione «smarrita» non si possono adeguatamente comprendere se non facciamo un passo indietro, al primo e più grande autore del modernismo italiano: Angelo Maria Ripellino, il quale già negli anni sessanta apre la strada ad un diverso modo di intendere la poesia come un dispositivo di altissima perizia metrica e timbrica legato alla tradizione. Ed adesso facciamo un salto in avanti: con gli anni novanta si assiste ad un fenomeno, dapprima invisibile e sotterraneo, in realtà in azione fin dagli anni sessanta: la invasione demotico-populistica dei linguaggi mediatici, che spinge  il discorso poetico a restringere i propri orizzonti, accorciare la forbice delle proprie tematiche e ad avvicinare l’occhio dell’osservatore al «reale»; come se il discorso poetico avvertisse la necessità di avvicinare  il punto di vista dell’osservatore al punto di fuga della prospettiva del «quadro», adottare la visione del microscopio piuttosto che quella del cannocchiale. Direi che è perfino ovvio sostenere che oggi la discorsività poetica sia diventata altamente conflittuale: si è scoperto all’improvviso che la ragione narrante della lirica del primo novecento e dell’antilirica del secondo novecento era stata colpita a morte dalla falsa coscienza della impossibilità della nominazione. Dagli anni sessanta in giù è diventato possibile nominare delle «cose» soltanto in un certo linguaggio; in un altro linguaggio le «cose» non erano più dicibili. Si è così instaurato un duopolio: a) sperimentalismo e b) la riformulazione sereniana di un nuovo realismo (la poesia degli oggetti) iniziato con Gli strumenti umani (1965), che prescriveva, in modo indiretto ed implicito, il modus e il ventaglio del nominabile in poesia. La poesia degli oggetti nel frattempo si trasformava, in assenza di un concetto di correlativo oggettivo, in poesia dell’accumulo degli oggetti, dell’accumulo di parole, ponendo, implicitamente, in modo acritico, una equipollenza emotiva tra parola e oggetto.

Nella formulazione del paradigma proposizionalistico della poesia italiana, la crisi della Ragione sperimentale avrebbe comportato anche la intervenuta crisi della Ragione anti-sperimentale.

Quel discorso poetico che aveva seguito, a rimorchio, il paradigma proposizionalistico e tematico era il corrispondente  di una cultura della giustificazione. Quella cultura giustificava quel discorso poetico. Che cosa è accaduto durante il decennio degli anni novanta? All’improvviso, ci si è accorti che quel paradigma era diventato impraticabile. Questa consapevolezza inizia ad albeggiare quando diventa manifesta la crisi di un’intera cultura. Così, la cultura del novecento, che si era consumata nella faglia della crisi dei linguaggi poetici, era entrata in un buco nero dal quale sarebbe dovuto sortire un prodotto irriconoscibile. E invece la montagna ha partorito un topolino. Molti autori risolvevano la crisi ricorrendo ad un arretramento del discorso lirico al primo novecento, molti altri saltavano invece tutto il novecento per ripartire da una sorta di grado zero della scrittura, da una nivea e presunta virgineità della scrittura, come se fosse possibile riconquistare una virgineità di scrittura mediante una progressiva e tenace lucidatura degli ottoni  e del similoro (vedi Elio Pecora con Simmetrie – 2009). Una parte rilevante della scrittura dei lombardi, la parte culturalmente più provveduta, optava invece per una impostazione micrologista del discorso poetico. Come dice la sua etimologia, micrologia sta per «discorso sul piccolo». La micrologia abita i dettagli, gli spigoli degli oggetti, le giunture e le connessioni tra gli oggetti. Nella formulazione dei micrologisti più intelligenti il passo non è quasi mai più lungo della gamba: gli oggetti vengono protocollati, archiviati e accantonati nella scaffalatura della pagina con meticolosa cautela, gli oggetti stanno in bell’ordine dentro le rispettive scaffalature, il verso è presentabile, nitido, parco, ma, direi quasi sempre prevedibile, già messo in conto e previsto dal codice descrittorio di quella scrittura.

C’era però una ragione nella crisi della ragione poetica se alcuni autori della generazione degli anni cinquanta non si accontentavano più di una soluzione micrologista dei problemi estetici. E così alcuni di essi mettevano da parte il problema di quale linguaggio e sceglievano deliberatamente di imboccare la via perché il linguaggio? Poeti come Dante Maffìa con Lo specchio della mente (2000) e La biblioteca di Alessandria (2006), Roberto Bertoldo con Il calvario delle Gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006), Giuseppe Pedota con Acronico (2005), Giovanni Occhipinti con Il viaggio dello sguardo (2007), Maria Rosaria Madonna con Stige (1992), Maria Marchesi con L’occhio dell’ala (2003) e Evitare il contatto con la luce (2005), cambiano il registro del discorso poetico che, d’ora in avanti tenterà, di uscire fuori dalle secche del novecento sperimentale. 

Il genere poesia diventa sempre più problematico. È diventato problematico il linguaggio, è diventato problematico il modello proposizionale, è diventata problematica la scelta della tematica, è diventato problematico parlare dal punto di vista del soggetto. Siamo già dentro gli anni ottanta e novanta del novecento. Si imponeva una scelta, ed invece si è scelto di non scegliere. Vero è che alcune tendenze risolvevano la crisi con un atto di sproblematizzazione; sproblematizzazione del quotidiano e delle tematiche «metafisiche» mediante il «riduttore» di una semplificazione progressiva del discorso poetico: era questa la via dorata del minimalismo, lastricata di quotidianismo e pensiero debole. All’interno della sproblematizzazione che il minimalismo assicurava, si beneficiava di un allargamento a dismisura delle tematiche e dei linguaggi (una larga pianura esentasse) ed era possibile porre in essere una serie di «variabili» che consentivano una produzione all’infinito dell’oggetto-poesia. Era (ed è tuttora) la via più facile, la via più dritta, quella che conduceva e conduce subito al bersaglio. Insensibilmente, altre diramazioni della poesia contemporanea prendevano il largo, come un estuario, in un delta linguistico e stilistico dove i linguaggi, come dire, si settorializzavano, si specializzavano, oppure si polverizzavano e si inaridivano. C’era chi tentava (e tenta) di entrare (con uno scandaglio o una sonda) dentro le faglie, dentro le fessure del reale, sempre più asettiche, sempre più invisibili ad occhio nudo, sempre più reticolari, pulviscolari. Il linguaggio poetico mirava ad esplorare le «soglie», i «limiti», i «contorni», i «cobordismi». E c’era (e c’è) chi, invece, tentava (e tenta) l’esplorazione del volo panoramico, dell’accensione mistica, la descrizione dell’indistinto e dell’illimite, cadendo fragorosamente per mancanza di ali sufficienti a spiccare il folle volo. Accade così che ad un certo punto della fine del novecento alcuni autori scelgano la strada in discesa, quella che non ha bisogno di spiccare nessun volo, che si tiene stretta alla filosofia del passo dopo passo, dell’oggetto accanto all’oggetto: si giunge all’orlo della micrologia: il discorso poetico diventa sempre più micrologico, si muove in una scatola iperbarica con gli strumenti del sommozzatore, va nelle profondità del micron, scopre le false profondità del discorso micrologico, le fessure (di che?), le scissure (di che cosa?), è costretto ad andare in finte profondità, ad esplorare spazi ristrettissimi; oppure, è spinto ad attingere la genericità, l’estensione, seguire l’impulso stereometrico, deità ancestrali e mitologemi, fino a proporre un nuovo movimento poetico (il mitomodernismo). Altri autori invece investono gli oggetti: gli oggetti sono assiepati in spazi ristrettissimi, altri autori, al contrario, abitano gli spazi siderali, la cielità  guidati dagli attanti astratti. Che cos’era avvenuto? Era avvenuto che la micrologia, nei suoi esponenti più intelligenti, aveva nel frattempo tentato, senza riuscirvi, di bucare la falsa utopia del quotidiano. Così, se il minimalismo finisce nel secchio senza fondo della falsa utopia del quotidiano, i micrologisti finiscono intrappolati nella ragione narrante che li avrebbe condotti oltre il muro invisibile e impenetrabile del quotidiano. E là fuori c’era il mondo, gli ampi spazi dell’orizzonte.

Un vigoroso momento di reazione a questo flusso conservatore della cultura poetica italiana la si ha, come abbiamo visto, durante gli anni novanta e nei primi anni del nuovo decennio, quando sono sempre più numerosi i poeti che prendono atto della deriva epigonica delle esperienze che si erano concluse già nel decennio precedente. È in questa corrente, credo, che si debba inquadrare il recente libro di Salvatore Martino Nella prigione azzurra del sonetto (2009). Sarebbe in errore chi scambiasse la brillante operazione di Salvatore Martino per un’opera di neomanierismo, una sorta di neometricismo di maniera, un po’ attardato nella raccolta delle reliquie stilistiche della tradizione; il vero è proprio il contrario: Martino confeziona un sofisticatissimo e personalissimo soliloquio di inquietante modernità e leggerezza dentro la struttura del sonetto, direi un modernissimo discorso topologico all’interno di una struttura metrica pre-moderna. Probabilmente, il più alto esito della sua produzione poetica e il tentativo più riuscito di esercizio stilistico e di compositura formale degli anni dieci del nuovo millennio.

 

 

il «nullismo» come frontiera del post-moderno

Roberto Bertoldo

 

Un poeta che ha pensato il Post-moderno come «frontiera», in termini filosofici, che si sposta continuamente nel futuro è sen’altro Roberto Bertoldo.

 «L’età moderna – che in molte manifestazioni… ha sostituito l’infinito con l’assoluto (la ragione e la scienza in luogo della fede… ha confidato nell’oggettività. L’illusione di poter cogliere la ‘cosa in sé’ ponendola come oggetto è, oltre che un’illusione, un errore metodologico». Con questa asserzione inizia il libro di Roberto Bertoldo Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura (Milano, Guerini e Associati, 2003). Già in Nullismo e letteratura (Novara, Interlinea, 1998), Bertoldo era giunto a ripensare le fondamenta della post-modernità fino a giungere a teorizzare il nullismo quale punto terminale del nichilismo moderno e suo ribaltamento, presa di coscienza del punto terminale del nichilismo. «Quando Leopardi ratifica la crisi del principio di non contraddizione, il nullismo si delinea, pur ancora unto, a volte di metafisicità. Il nullismo sorge, nelle sue linee essenziali, con Leopardi».1

Che cos’è il dato fenomenognomico? L’autore lo spiega in una nota a piè di pagina quando scrive che «il dato fenomenognomico è in verità darsi, perché la materia si dà in forme e queste forme sono sempre, ovviamente, attive». A questo punto sorge il problema della conoscenza. Che cos’è la conoscenza? E l’autore risponde: «la conoscenza è l’impronta intellettuale di un fenomeno», e «la comprensione è l’impronta intuitivo-sensibile di un fenomeno».2

Roberto Bertoldo è un poeta e un intellettuale, ad una preparazione filosofica non comune egli affianca doti di poeta di grande rigore, è una personalità artistica aperta alle sollecitazioni della cultura. Bertoldo ha drammaticamente preso atto che alla poesia moderna manca l’ancoraggio di una cornice filosofica entro cui inscrivere gli eventi, venuta meno la centralità del soggetto cartesiano, quello che è rimasto è l’eccentricità di una pluralità di soggetti, ciascuno legittimato dalla reciproca delegittimazione. 

Se la scienza non si arresta per la mancanza di una adeguata filosofia della scienza, così l’arte e la poesia non si arresteranno a causa della mancanza di una filosofia dell’arte. L’arte moderna si muove senza un «orizzonte filosofico», priva di un «fondamento», vaga alla deriva topologica ed epistemologica senza che venga posta l’interrogazione principiale sulla sua natura e sulla sua destinazione. Bertoldo è figlio del suo tempo, rectius, del nostro tempo, è rimasto senza ancoraggio filosofico, senza una filosofia dell’arte, e allora l’unica via di uscita da questa impasse gnoseologica è quella di mettersi a pensare sul piano filosofico, ripensare le categorie elementari del pensiero, rimeditare l’a, b, c del pensiero filosofico. E qui l’autore liquida definitivamente ogni ipotesi di prassi artistica fondata sull’ideologia. La fenomenognomica di Bertoldo si inscrive in quel generale moto di de-ideologizzazione che ha attraversato e attraversa la cultura europea, ma l’aspetto saliente di questa ricerca resta la problematica irresolubilità di tutti gli assunti della grande metafisica occidentale da Aristotele e Platone a Husserl: il problema dell’oggettività dell’oggetto e il problema della soggettività del giudizio estetico, che ci riporta all’interno dell’antinomia fondamentale della filosofia dell’arte: l’antinomia del rapporto soggetto-oggetto nell’ambito del giudizio estetico. Il nullismo e la fenomenognomica sono dunque teorizzazioni tipicamente post-moderne, nel senso che vengono dopo la democrazia compiuta, della rivoluzione post-industriale.

Se è vero che «un modello culturale presume l’ordine del mondo», quello che ci resta è «l’intersoggettività dei fenomeni», «la relazione dei fenomeni», dunque una sorta di modello relazionale, una sorta di «transitività» di tutti i fenomeni. «La ragione pone ma non conosce oggettivamente la realtà». 

Posta in questi termini la questione, il giudizio estetico sarebbe una modalità del confronto di tutti i giudizi estetici, cioè dei «modelli»; a questo punto, Bertoldo è costretto ad investigare, ad andare oltre la questione dei «modelli» e a dichiarare che è «la verifica etologica dell’autenticità» che costituisce il vero discrimine del giudizio estetico. Posto che l’autenticità «è una questione che riguarda prevalentemente i comportamenti», «così posso giudicare un’opera d’arte non in base al suo stile o alle sue idee ma in base alla sua autenticità». Qui il problema è appunto riconoscere quel quid di autenticità che costituirebbe l’arte come oggetto, ma se «l’oggetto non è il dato ma ciò che è posto (dal soggetto)», ecco che di nuovo, l’oggetto che credevamo di aver finalmente afferrato, ci si discioglie tra le mani e agguantiamo un pugno di mosche. «Negare il soggetto significherebbe negare ciò che si dà in un luogo», quindi il problema si rovescia nel suo contrario, è l’oggetto che «ha un’esistenza puramente intellettuale, ipotetica, e resta irrimediabilmente contaminato dal dato che gli viene attraverso il soggetto».3

Grande merito di Bertoldo è l’avere introdotto l’«autenticità» quale categoria centrale del giudizio estetico. Il giudizio estetico non è più un giudizio sul bello. «Il punto cruciale è cosa fa di una forma una bella forma al di là di un qualche valore, anche estetico, predefinito (intersoggettivo, soggettivo, oggettivo)?». L’autenticità sarebbe quindi una qualità, ma «l’autenticità non è perfettamente riconoscibile, è propria del darsi del dato, non possiamo mai essere sicuri che una forma non sia autentica».

Qui la separazione tra essere-del-linguaggio ed essere-delle-cose è perfetta. Anche in Husserl il significato coincide con l’oggetto che un «atto del pensiero intenziona, ma questo a prescindere dal riferimento dell’oggetto a dati empiricamente esistenti».4 In Husserl il significato non è «immagine riflessa» dell’oggetto empirico. Il segno linguistico esprime solamente ciò che l’atto di pensiero vuol significare. Come in Husserl, anche in Bertoldo, la questione fondamentale è la individuazione della «costituzione a priori» delle leggi del pensiero, delle connessioni categoriali come morfologia dei significati5; individuazione di una «grammatica universale»6 come «grammatica puramente logica» dell’«apriori della forma del significato».7 Da un lato Husserl pone l’identità dei significati, dall’altro pone la fluttuazione degli atti significanti nelle espressioni linguistiche. Il problema della convenzionalità del segno che le estetiche del Novecento hanno individuato, ha prodotto il paradossale risultato di una indifferenza della parola di fronte alla necessità e alla essenzialità delle strutture formali del pensiero. È proprio questo che Roberto Bertoldo contesta quando protesta contro l’accidentalità dell’espressione e manifesta tutta la sua diffidenza verso la parola-segno, verso la fisicità significante, verso il predominio della funzione espressivo-significativa di contro alla funzione denotativa.

Nell’analisi di Heidegger è una dottrina delle categorie a fondare le forme del significato. La fondazione «logica» del significato è possibile in quanto questo «si dà… come staccato dalla realtà effettuale»8. La relazione con l’oggetto, con la sua esistenza è predicata solo nel giudizio: «esso (il significato) non enuncia nulla sull’oggetto, ma solo lo rappresenta»,9 ad esso «è totalmente estraneo esistere»10. La «verità» del significato – in quanto «conoscenza dell’oggetto» – è data nel rapporto di fondazione tra modus significandi e modus intelligendi, in quanto quest’ultimo non è che la forma di apprensione, da parte della coscienza, del modus esistendi. Modus intelligendi e modus significandi – visti nel loro aspetto passivonon sono che il modus essendi «oggettualizzato in conformità alla coscienza»;11 mentre – nel loro lato «attivo» – costituiscono l’intenzionare tale oggetto nella forma della coscienza e in quello dell’espressione. Per Heidegger, in fondo alla linea: modus essendi – modus intelligendi – modus significandi, sta la sfera dell’espressione linguistica. Ma Heidegger avverte anche che una «dottrina del significato» non spiega l’esistenza, il Dasein del linguaggio, non individua il fattore creativo del suo sviluppo, ma può solo comprenderlo nella sua «struttura logica».

È noto che in Benjamin il problema viene posto su un piano concettuale molto diverso. In una lettera del 13 febbraio 1920 Benjamin accenna «di non saper niente del libro di Heidegger», ma nel dicembre dello stesso anno in una lettera a Scholem, si scaglia su «l’indegno servilismo dell’autore di fronte a Rickert e Husserl» e che il libro di Heidegger presentava i problemi filosofici «in modo del tutto oscuro». Il punto di divergenza viene visto da Benjamin dentro il problema della soggettività e del rapporto soggetto-oggetto nella struttura del giudizio. Se il rinvio dei «segni» a certi modi essendi è fondato su ciò che questi segni significano, «è quel qualcosa di più generale e di più formale» che si lascia scindere dal significato a costituire il «modus essendi» di quest’ultimo e quindi quello del significante; ad essere infine il fondamento del significante. Questo per Benjamin è l’ambito linguistico, lo Sprachiliches. «In quanto lo Sprachliches si lascia evincere e distinguere (abheben und gewinnen) dal significato, è da indicare come suo modus essendi e con ciò come il fondamento del significante. L’ambito linguistico si estende come un Medium critico tra l’ambito del significante e quello del significato. Così che si può quindi dire che il significante mira al significato e nello stesso tempo, riguardo alla sua determinatezza materiale (hinsichtlich seiner Materialbestimmheit), si fonda su questo, ma non in modo illimitato, bensì solo in riguardo al modus essendi, determinato dal linguaggio». 12 Per Benjamin lo Sprachliches è il modus essendi del significato, in quanto tale, la logica del linguaggio è radicalmente immanente ad esso, non può astrarsi dalla sua storicità; «fisicità» del complesso fonetico e carattere «spirituale» della lingua, per Benjamin, coincidono. «Non si dà quindi ‘grammatica pura’ che prescinda dall’organizzarsi linguistico-storico del pensiero, dal suo esprimersi in ‘segni’… Le grammatiche sono soltanto ‘storiche, la ‘grammatica pura’ come sintassi universale delle leggi del pensiero e del linguaggio o è ‘utopia’, o è il dominio della tautologia, il monologo formale del pensiero».13

Bertoldo fa un passo indietro: prende atto, coerentemente al suo «scetticismo integrale», della «verità» del «dato». L’autenticità «è prima o al di là del segno linguistico».14 Ed è una novità di grandissimo rilievo rispetto alle estetiche del Novecento.

  1. 1R. Bertoldo Nullismo e letteratura p. 135
  1. 2Roberto Bertoldo Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura Milano, Guerini e Associati, 2003 p. 23
  2. 3Ibid. p. 59

4   E. Husserl, Ricerche logiche Milano, 1968 II p. 104

5   Ibid., II p. 122

  1. 5Ibid. p. 123

7     Ibid. II p. 126-127

  1. 7M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto a cura di A. Babolin, Bari, 1974 p. 126
  2. 8Ibid.

9        Ibid.

  1. 9Ibid. p. 127
  2. 10 Ibid. p. 141
  3. 11Ibid. p. 149

13 F. Desideri, Walter Benjamin il tempo e le forme Roma, 1980 p. 97

 

14 R. Bertoldo, Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura Milano, Guerini e Associati 2003, p. 31

 

 

 

il punto di non-ritorno delle poetiche novecentesche

 

La Darstellung (Rappresentazione) poetica sta alla Darstellung filosofica come la poesia post-baudelairiana sta alla forma del saggio. Che il saggio venga inteso, alla maniera del giovane Lukács, come nostalgia del sistema o, come per Benjamin, come memoria del trattato medievale o, come per la moderna filosofia dell’opinione, come interpretazione, è la riprova che anche la rappresentazione filosofica si muove entro le stesse coordinate storico-epocali: la rappresentazione come via indiretta all’oggetto.

Per il carattere intermittente e dis-continuo del pensiero che aderisce alla dis-continuità dell’oggetto, la forma oggi dominante della rappresentazione poetica è la composizione in frammenti; il che non vuol affatto dire che la poesia del Moderno sia frammentaria, quanto piuttosto che il frammento è il tessuto linguistico che aderisce in modo esemplare alla discontinuità dell’oggetto. La forma-frammento aderisce all’oggetto come il guanto alla mano.

L’odierna tendenza alla composizione micrologica della poesia europea del tardo Novecento, con la sua propaggine periferica del minimalismo italiano, segna la non consapevole e acritica elaborazione di questo nesso problematico. Il lavorare alla frammentazione e alla differenziazione dell’oggetto, fa perdere di vista la totalità di esso, appunto perché  messo a fuoco da un punto di vista eccessivamente prossimo all’oggetto. E qui si pone il duplice problema (obnubilato dalla contemporanea riflessione sull’arte) dell’oggetto linguistico e della distanza dall’oggetto. Si può dire, con qualche margine di ragionevolezza, che la complessità dell’oggetto può essere messa a fuoco soltanto mediante una adeguata distanza. La distanza dall’oggetto sarebbe quindi un prius che determina e fonda la «linguisticità» dell’oggetto linguistico. Ne consegue che sia in poesia che nelle altre arti (il fenomeno è più vistoso e immediato nella esasperazione della tecnica del montaggio nella odierna cinematografia), il montaggio degli oggetti diffratti e distratti assume un valore preminente e del tutto sovradimensionato rispetto alle esigenze costruttive del testo. Comprendo come una tale problematica possa apparire esogena alla cultura poetica del tardo Novecento italiano che registra l’assenza di una seria riflessione sul concetto di «linguisticità» degli oggetti linguistici.

L’essenza della metafisica moderna coincide per Heidegger con l’essenza della Tecnica. Per il pensatore tedesco, lo sviluppo della Tecnica è reso possibile dal suo essere neutrale. La Tecnica si dispiegherebbe in uno spazio neutrale (e neutralizzato) reso disponibile dallo sviluppo tecnologico. L’analisi della Tecnica dispiega, per il pensatore tedesco, il destino del mondo moderno: il crollo della metafisica ove ogni essente è assegnato all’assenza di destino, all’irrigidimento della via inautentica come ricerca metafisica dell’autenticità. Si può anche dire che la storia della poesia del Moderno è la storia di questa distruzione, e la tecnica, come fattore di pro-duzione dell’oggetto, come dominio del destino nel mondo dell’im-posizione è eliminazione di ogni differenza. L’apparire della differenza coinciderebbe con la sua consumazione nell’uniformità del processo. Le Forme, come personificazione delle categorie della metafisica occidentale, si autodistruggono nel compiersi del processo che le aveva tramandate. La loro tradizione è anche la loro distruzione.

La lirica monadologica che della Tradizione è stata per lunghi secoli custode fedele e devota, si è venuta a trovare, nel corso del Novecento, deprivata di essere: l’autocrazia dell’io poetico è stata irreversibilmente scalzata. La monarchia dell’io poetico è stata infirmata dal processo di neutralizzazione che nel Novecento ha reso possibile l’avvento e l’autocrazia della Tecnica. Per converso, lo «sperimentalismo» sarebbe il riflesso sul piano delle forme artistiche del dispiegamento della Tecnica sul piano della forma-merce. Come conseguenza dell’avvento dello sperimentalismo, l’io poetico ne è risultato delegittimato e deterritorializzato, e la poesia contemporanea si è trovata ad assimilare le tecniche del montaggio e della esasperazione costruttiva ad alta dose di astrazione e di concentrazione narratologica. 

La parte post-sperimentale della poesia contemporanea si è venuta così a trovare in circostanze sfavorevoli per via della assunzione della narratività diffusa e della pluralità linguistica propria del romanzo, dinanzi al quale l’adozione delle modalità plurilinguistiche del genere egemone, determinava una capitolazione, in sede estetica, della «rappresentazione» poetica. 

«Il linguaggio – afferma Wittgenstein in un aforisma delle Ricerche – è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più». I linguaggi poetici del Moderno non fanno eccezione, sono tra loro infungibili e irriconoscibili, legati da un rapporto di ostilità e di belligeranza. Un rapporto di irriconoscibilità. E questo è un sintomo di quella reificazione dei linguaggi poetici che parte dall’origine della società delle merci e si dipana e si irraggia alla periferia della modernità.

Sia detto per inciso: più la problematizzazione investe il pensiero più il soggetto esperiente si rivela colpito dal tabù della nominazione. Che l’atto della nominazione si riveli essere il lontanissimo parente dell’atto arcaico del dominio, è un dato di fatto difficilmente confutabile e oggi ampiamente accettato. Ma quando la problematizzazione investe non solo il soggetto ma anche e soprattutto l’oggetto, ciò determina un duplice impasse narratologico, con la conseguenza della recessione del dicibile nella sfera dell’indicibile e la recessione di interi generi a kitsch. Mai forse come nel nostro tempo la dicibilità della poesia come genere è precipitata nell’indicibile: una grande parte dell’esperienza significativa della vita di tutti i giorni è oggi preclusa alla poesia, per aderire al genere romanzesco della narratività. Direi che l’ordinamento borghese con il suo semplice prescrivere il dicibile, bandisce tutto ciò che non è immediatamente dicibile nei termini della sua sintassi e del suo lessico. L’indicibile è ciò che non è più raggiungibile e possibile. Ecco spiegata la ragione del trionfo del minimalismo come cannibalismo del discorso poetico. Oggi i poeti moderni non scrivono quasi più poesie che rappresentano una esperienza significativa, si limitano a comunicare il comunicabile, non fanno altro che fagocitare la tautologia. C’è oggi un’oggettiva difficoltà ad affrontare, in poesia, la problematica di un’esperienza significativa, ed è quello che fa, o tenta di fare la nuova poesia mediante la ristrutturazione del soggetto e dell’oggetto. E forse soltanto la nuova poesia poteva proporsi un obiettivo così rischioso, sullo slancio della prima nominazione, quando quasi tutta la scrittura contemporanea più scaltrita si limita a proporre una sorta di registrazione del quotidiano o del passato del quotidiano o del passato cronachistico, con l’impudenza della propria imprudenza. Conseguenza inevitabile dell’impasse in cui è caduta la poesia contemporanea è che si parla innanzitutto molto più del soggetto che dell’oggetto, dei suoi ruoli e del suo luogo, perché il soggetto ha cessato di funzionare come principio, o come principio regolatore; per contro, si parla molto meno dell’oggetto che del soggetto, così che il discorso poetico si dissolve in una miriade di appercezioni soggettive, in una fenomenologia delle sensazioni del soggetto. Il logos problematizzato condiziona i modi di espressione della soggettività, talché essa finisce inconsapevolmente nell’imbuto della reificazione delle forme espressive e la formulazione del logos subisce il tabù della nominazione, che è quell’altra forma di dominio in cui si traveste l’ordinamento borghese della rappresentazione secondo i suoi valori e le sue proprie gerarchie. Di conseguenza, il poeta si assoggetta ad una assidua autoanalisi di de-reificazione e di de-realismo. A pensarci bene, è paradossale ma vero: la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico nel quale prendere dimora, e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico; in mancanza di questi elementi la poesia dell’io esperiente cessa di esperire alcunché e diventa qualcosa di terribilmente autocentrico ed egolalico: diventa la carnevalizzazione di se stesso: diventa esternazione del dicibile sul piano del dicibile: ovvero, tautologia. 

Ecco le ragioni che spingono la nuova poesia a pensare poeticamente, ben consapevole della cornice del «Tramonto» entro la quale si definiscono le coordinate di una poesia che vuole uscire dalle secche del Novecento.

Ecco perché la nuova poesia pone un «filtro», una «distanza» dalla contemporaneità, per indicare quella dicibilità che oggi non attinge più la poesia, per indicare quel reale linguistico che oggi sembra sbarrato alla poesia.

Ed è qui il problema: nella difficoltà dell’io esperiente di cui facevo cenno, e nella difficoltà del piano linguistico, dove poche esperienze sono linguisticamente possibili e quindi esprimibili. Gli accessi alla «cosa» sono sbarrati alla linguisticità, e compito della poesia sarà sempre quello di ridefinire e ridisegnare i confini della linguisticità delle «cose».

Se il senso della poesia manca, manca la poesia il suo bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione del significato. La poesia esprime il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia dei poeti nuovi è appunto ricostruire una relazione tra il significato e il significante, ma in termini del tutto diversi rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nel Novecento.

In un mondo in cui i rapporti umani sono diventati un problema tra gli esseri riprodotti come talismani magici e ridotti a vasi incomunicanti di un messaggio che è stato soppresso dalla prassi sociale, resta il problema di come sproblematizzare il problematico, di come liberare le emozioni dalla cella dell’io che racchiude l’inautenticità generale del mondo delle merci linguistiche. 

È oggi forse davvero possibile soltanto una poesia dell’inautenticità e del falso? Come il tinnire di una moneta falsa la poesia la devi lasciare nel suo brodo di intrugli e di piccoli trucchi per poterla rubare agli dèi? Non credo sia questo lo statuto della poesia. Forse è giunto il momento di cercare una nuova via, è giunto il momento di lastricare il discorso poetico con i mattoni di una nuova parola poetica.

Nel corso del Novecento la progressiva scientificizzazione dell’arte ha avuto come conseguenza la scissione tra la «verità» e il «senso». «Se guardiamo allo sviluppo della scienza moderna, ci accorgiamo che essa, nel guardare alla “verità” come adeguazione al dato, al fatto, al complesso empirico verificabile e misurabile… ha teso strutturalmente a specializzarsi nella conoscenza di una “verità” che non è custodia del senso e che, anzi, consapevolmente e deliberatamente separa la ‘propria’ verità dalla verità intesa come custodia del senso. Quest’ultima – la verità come custodia del senso – è restata, nello sviluppo di un tale percorso, ascritta alla filosofia e alla religione».1 Secondo un indirizzo di pensiero contemporaneo, si è rivelata esiziale la separazione tra «la verità come rispecchiamento del dato dalla verità come custodia del senso»1; esiziale per la poesia dove la decurtazione del senso dall’ambito della prassi artistica ha aperto, come sappiamo, la strada ad ogni improvvisazione e a ogni tipo di interventismo sperimentale.

Non sfugge alla nuova sensibilità poetica che i problemi del senso e della verità siano correlati e che affrontare l’uno significa implicitamente affrontare anche l’altro corno del problema, e che i due problemi sono in realtà un solo problema: quello della verità e del senso. La vera svolta della poesia contemporanea è data dal punto dove siamo arrivati: al punto di non ritorno al quale sono approdate le poetiche novecentesche che denegavano legittimità al binomio «verità» e «senso».

 

1 G. Limone Fra “poiesis” e “teoria” Salerno, Palazzo Vargas Edizioni, 2006 p. 9

 

 

 

 

LE LINEE LATERALI DEL SECONDO NOVECENTO

 

 

la poesia lirica dopo il mitomodernismo

Giuseppe Conte

 

Giuseppe Conte, già con Dialogo del poeta e del messaggero (1992), abbandonava la strada maestra di una poesia mitopoietica per allargare gli orizzonti e aprire la poesia italiana alle suggestioni tematiche e stilistiche dell’Oriente. Si trattava di una penetrazione osmotica di suggestioni e di spunti, di aure e di sensibilità, di cointeressenze stilistiche e psicologiche con il mondo adiacente e in fibrillazione dei paesi che si affacciano al Mediterraneo orientale. Con Canti d’oriente e d’occidente (1997), «il mito scompare quasi completamente dalla poesia di Conte. Non ci sono più cosmologie né cosmogonie: come se i miti non riuscissero più a raccogliere l’inquieta forza psicologica che attraversa l’anima-acqua di Conte», come rilevò Pietro Citati in una recensione apparsa su «La Repubblica» del 1997. Noi prenderemo lo spunto dall’ultimo libro Ferite e rifioriture (Milano, Mondadori, 2006), che costituisce un esempio significativo di quel ritorno alla lirica che attraversa gran parte della poesia contemporanea. È bene dire subito che Conte nel corso degli ultimi trent’anni ha saputo costruire la propria personalità poetica con una attenzione particolare alla cura della propria identità e originalità di ricerca, mantenendo una costanza di rotta e una tenacia nella organizzazione di controeventi e di iniziative politico-culturali che ne fanno una delle personalità più significative e carismatiche nel campo della poesia contemporanea, ormai priva, dopo la scomparsa di autori dello spessore di Luzi e Raboni, di punti di riferimento per le giovani generazioni. L’opposizione all’egemonia dello sperimentalismo durante tutti gli anni ottanta con la teorizzazione del Mitomodernismo, il ritorno alle civiltà precristiane e alla mitologia classica, è stato un merito indubbio. Venivano così rivalutate, di colpo, sia il mito che la metafora, reintroducendo, con una spericolata e abile regia, nel corpo della poesia italiana del tardo Novecento, un pensiero estetico più aderente alle qualità della nostra tradizione poetica. Si trattava di una «restaurazione» come qualcuno ha scritto? Non proprio. Conte si rendeva perfettamente conto che occorreva introdurre una nuova linea di sviluppo per la poesia italiana. Entro il solco della linea Pascoli-Pasolini tracciata da Conte fin dai primi anni novanta, è ora possibile rinvenire e raccogliere l’eredità di nuove energie e sinergie estetiche: riparametrando la «nuova poesia» secondo un diverso asse rispetto a quello tracciato dal modernismo della linea lombarda ancorata all’albero genealogico Tessa-Sereni-Raboni, e a quello dello sperimentalismo incentrato sull’asse Pascoli-Sanguineti. 

il Mitomodernismo si pone come atto di critica «all’arco costituzionale del conformismo» (dizione di Giuseppe Conte) della poesia degli anni ottanta che vedrà l’egemonia del minimalismo. La parola poetica di Conte che negli anni ottanta era orientata verso un discorso poetico fondato sui valori di inattualismo e di discronia entro il quadro concettuale della poesia del tardo Novecento, finirà per perorare una idea di poesia considerata come discorso lirico che sopravvive alla crisi della lirica, che continua ad esistere dopo la fine dell’età della lirica, che continua a vivere dopo la fine del Novecento, dopo la fine delle ideologie e di fronte agli stabilimenti balneari del villaggio globale.

La poesia di Conte, con la sua onda sonora che sa di antico e il suo libero monologare, è il prodotto di una continua mediazione stilistica tra l’antico e il moderno. La «nuova poesia» è nient’altro che la poesia di Foscolo e di Catullo riformulata in chiave modernistica. L’inattualismo e la discronia della poesia di Giuseppe Conte è proprio questa continua scommessa, questo continuo scandalo di riproporre un discorso lirico dopo la fine dell’età della lirica. È questa, a mio avviso, la chiave di volta per comprendere appieno la portata dell’operazione culturale del poeta ligure. Ad un tempo pragmatica e paradigmatica,  esemplare e inattuale.

 

 

dal post-ermetismo alle poetiche del realismo 

Alfredo de Palchi, Luciano Luisi, Alberto Bevilacqua

 

Alfredo de Palchi è nato a Legnago nel lontano 1926 e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura «Chelsea» e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta, a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Torino, Mimesis, 2006), appare senz’altro come uno dei poeti più significativi del secondo Novecento appunto per il suo situarsi in una zona laterale e periferica rispetto alle linee egemoniche della poesia in Italia. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico di cui la poesia di Alfredo de Palchi è protagonista. E, in un certo senso, sta qui la radice della sua profonda solitudine stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento. Il suo primo libro Sessioni con l’analista esce in Italia nel 1967 con Mondadori grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni, poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è un destino tutto singolare ma non difficile da decifrare e comprendere. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 nei penitenziari di Procida e Civitavecchia scritta, anzi scalfita sull’intonaco dei muri della sua cella durante la detenzione politica del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo; estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica; negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare il muro della ideologizzazione dell’orizzonte di lettura del ceto letterario italiano, per di più de Palchi era visto con estremo sospetto per via della sua scelte politiche ed estetiche non in linea con le coordinate politico-culturali del neorealismo allora imperante in Italia. 

La poesia di de Palchi era chiaramente delineata fin dall’inizio: una individualità esasperata, un tragitto destinale che diventa tragitto della parola poetica. Il «maledettismo» di de Palchi non era nulla di letterario, non era costruito sui libri ma era stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon, la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana viene colpita dall’etichetta di «collaborazionista» e «reazionaria»; dall’altra, non è comprensibile in patria dove le questioni di poetica vengono tradotte immediatamente in termini di schieramento politico. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neo-avanguardia la poesia di de Palchi sarà messa in sordina come poesia minore e «laterale» e quindi esorcizzata, posta in una zona sostanzialmente extraletteraria e derubricata come operazione minoritaria e pre-letteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso. Finito in fuorigioco, chiuso dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa.

Finalmente, oggi i tempi sono maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura attuale non può non saltare agli occhi la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli. Fatto sta che la poesia di de Palchi non era immediatamente «arruolabile», e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non attendibile. Per ritornare all’attualità, oggi con l’esaurimento  del minimalismo, la nascita e lo sviluppo della post-poesia epigonica e il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi durante gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione estetica e storica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.Nonostante (Firenze, Passigli, 2004), è l’ultimo libro di Luciano Luisi, che ormai può essere considerato un poeta di straordinaria longevità e felicità espressiva, se consideriamo che il primo libro del poeta romano risale al 1949, avremo il chiaro ritratto di un autore che ha attraversato la seconda metà del Novecento senza pagare lo scotto dell’attraversamento, anzi uscendone stilisticamente indenne. Il critico francese Georges Mounin ha scritto che Luciano Luisi (nato a Livorno nel 1924) insieme a Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo, costituisce la triade centrale della poesia italiana del Novecento. Credo che il giudizio del critico d’oltralpe abbia un fondamento ma è con quest’ultima opera che Luisi ha raggiunto uno dei punti fermi della poesia italiana contemporanea. Già fin dalle due prime raccolte di poesia: Racconto in versi (Guanda, 1949), e Piazza grande (Cappelli, 1951), Luciano Luisi si era imposto alla attenzione della critica come un poeta di spicco del Novecento. Nelle prime opere risalta una forte l’influenza della scuola ermetica nell’ambito della quale il primo Luisi compare come una delle personalità di maggiore rigore stilistico, ma va detto che nelle opere successive il poeta livornese ha saputo distaccarsi dalla matrice ermetica per attraversare trasversalmente la crisi del linguaggio poetico nella successiva stagione neorealistica e negli anni della rivoluzione culturale avviata dalla neo-avanguardia degli anni ’60. Luisi è sempre rimasto fedele alla sua idea di fondo già espressa nel titolo della prima raccolta: la poesia come racconto, come mezzo espressivo idoneo a comunicare un oggetto al pubblico dei lettori; quindi né una poesia come prodotto di mera oreficeria, né una poesia come prodotto di «impegno» politico e sociale, né una poesia come prodotto della de-ideologizzazione neoavanguardistica. Negli ulteriori libri del poeta livornese, quelli che appaiono negli anni ottanta, La vita che non muta (1980), Nella cronaca (1982), La sapienza del cuore (1986, 1987) e Io dico una conchiglia (1989), Luisi mette a punto una nuova strategia stilistica: coniugare e contemperare la poesia del quotidiano, l’abbassamento del piano lirico, il pedale basso, con la necessità di un nuovo racconto, di una poesia narrativa che abbia fatto i conti con lo sviluppo della nuova modernità e con la sensibilità del nuovo pubblico verso i linguaggi postindustriali e mass-mediatici, forgiare un linguaggio poetico che sia in grado di offrire la massima leggibilità  dell’oggetto interiore e l’espressione delle grandi tematiche. La poesia di Luciano Luisi, già sul finire degli anni novanta, si pone nel discrimine di una poesia narrante, una riflessione incentrata pur sempre sulla monadicità dell’io quale finestra aperta sul mondo. Entro il contesto culturale del post-moderno la poesia di Luciano Luisi è un segnale autorevole dell’uscita dalla crisi del linguaggio poetico del tardo novecento. Luisi colpisce nel segno quando ripristina la forma-sonetto della tradizione calandola su una colloquialità che conserva tutta la freschezza e l’agilità del linguaggio strumentale: narratività, lessico del quotidiano e abbassamento del pentagramma tonale; metricamente e musicalmente ineccepibile, con le rime imparentate che conservano la naturalezza della lingua strumentale, il linguaggio poetico di Nonostante acquista forza e smalto comunicative grazie al pedale basso, di un pedalare in salita entro il cliché nobile della forma sonetto che dà consistenza e leggerezza ai testi senza mai cadere in eccessi di lessemi e di parole. Da Nonostante:

 

Affido ormai la mia speranza a questa /manciata d’anni (o di mesi? O di giorni?) /ma tutti tesi a godere la festa /della vita, con gli scenari adorni //d’azzurro e verde, e con la sua foresta /di passioni, e gli struggenti ritorni /della memoria, e l’attenzione desta /ad ogni appello che la mente storni //dalle sue angosce. Essere vivi, vivere, /e che a nessuno sconforto mai ceda /la bellezza del dono e farmi scrivere //che sarà sempre più spenta, avvilita /la mia giornata, così che non veda /che ad ogni minuto, ogni secondo è vita.

 

Si sa che il logos poetico è governato dall’esigenza dell’identità. E ciò che si dice deve dirsi come giustificato, come già avvenuto e quindi problematizzato; è questa la seconda esigenza logica: ciò che è proprio del logos poetico fondato sulla reminiscenza. L’identità ha per corollario la non-contraddizione: tutto ciò che è avvenuto è avvenuto per una fisiologia interna agli eventi, ed il logos poetico lo registra, calco linguistico dell’orma mimetica degli eventi. La reminiscenza, di cui la poesia di Legame di sangue (Milano, Mondadori, 2003) è attraversata e materiata, situa l’acquisizione della verità a livello ontologico, presuppone l’ontologico perché presuppone la verità. La verità di cui la poesia di Alberto Bevilacqua si occupa può essere racchiusa entro lo stretto cerchio del legame parentale. La reminiscenza sposta il problema dell’acquisizione del sapere dal campo dell’interrogazione a quello dell’ontologia. È proprio in virtù del contatto con il «tu» che si apprende qualcosa, ma il ricordo fa apprendere il sensibile come qualcosa di anteriore; attraverso la reminiscenza il poeta ricorda ciò che è stato come qualcosa di anteriore, riattualizza un passato. E la vicenda è già chiusa. Il problema della poesia diventa allora quello dei rapporti tra l’«io» e il «tu», ovvero, l’intentio recta. L’iconologia è guidata dalla reminiscenza. Fin dalla sua prima apparizione con L’amicizia perduta (1961), cui seguiranno L’indignazione  (1973), La crudeltà (1975), Immagine e somiglianza (1982), Vita mia (1985), Il corpo desiderato (1988), Messaggi segreti (1992), e Piccole questioni di eternità (2002), la poesia di Bevilacqua ha bisogno del contatto con la venienza del «tu» come stigma di autenticità. Leggiamo la parte centrale della poesia «Figlio evitato», da Legame di sangue:

 

«…ci troveremo là dove si sta nel prima /e al prima si torna, /rispondimi: perché avrei dovuto /infliggerti le devianze di una via /per un calvario breve? /mi vedrai un giorno apparire, /mi lascerai, io spero, /il posto a sedere /accanto a te: ricordati, se puoi, /di toccarmi almeno le mani /nelle mie mani le piaghe /del non averti /mai accarezzato da vivo //…delle primavere, delle donne che avresti /potuto avere /è fatta questa vastità della mia solitudine».

 

Siamo dinanzi ad una reminiscenza immaginaria. C’è un prima e un poi e c’è la giustificazione del padre ad un figlio mai nato; le ragioni paterne sono esposte in modo diretto, dure e crude, in risposta ad un’interrogazione che non c’è né mai ci potrà essere. Ma l’interrogazione resta, anche se non formulata, nel profondo della coscienza del padre; è lui che pone la domanda, anzi, la locuzione imperialistica: «rispondimi», a cui segue la ricostruzione all’incontrario della reminiscenza immaginaria. La costruzione all’incontrario prosegue in una ricostruzione capovolta: «ricordati», locuzione verbale rafforzativa che intensifica la fizionalità della situazione in direzione del capovolgimento retorico.

È chiaro che la poesia della reminiscenza non può tollerare altro che una fraseologia recta. Ma l’intentio recta, una volta assunta, detta le regole del proprio sviluppo: innanzitutto, un restringimento del ventaglio delle variazioni e delle deviazioni, una messa a fuoco della tematica. L’intentio recta richiede la forma-confessione: «…è nello sguardo chiaro/che potresti avere, è nel tuo guardarmi/ furtivo, mentre sono distratto,/ che mi capita di pensarti,/ figlio/ che non ho voluto per deliberato amarti». La composizione introduce subito una assenza, ed è la reminiscenza di un’assenza l’oggetto della ricerca. L’assenza di una persona amata. E qui siamo al secondo punto della nostra investigazione: la ricerca dell’autenticità è il motore immobile di questa poesia. Il locutore cessa di essere il fondatore del reale. Il soggetto ha perduto l’illusione del primato cartesiano della coscienza. Non è più la poesia del «paesaggio» qui a divenire problematica, non è più neanche il linguaggio che si pone come oggetto di un metalinguaggio che lo distanzia, qui è la coscienza stessa che è divenuta s-centrata, rispetto all’oggetto. L’oggetto «impossibile» è il padre morto:

 

«…insisto /in quel quasi niente /per potergli parlare ancora a mio padre, /un’ostia di pura eucaristia nell’osceno: /l’aver guardato il suo sesso da morto, /averglielo aggiustato nella sacca di cellophane, /relitto del mio primo seme, avanzo /di membra già il più corrotto, tumefatto, /già nero tizzone che pure /mi costrinse alla schiavitù dell’esistenza //quel quasi niente /che a furia di amarci non ci conosciamo più».

«… s’appoggiava mio padre con una mano alla parete /cercando con la candela /uno ad uno gli scalini per me, per farmeli salire, /io trattenevo il respiro, /quanto tempo, mi chiedo, impiegammo /ad arrivare all’ultimo, /ma poi ci siamo arrivati? /mi bagnava con la sua mano sudata /afferrandomi in tempo ogni volta, /mi sorrideva scoprendo la piccola macchia /di ruggine /su uno dei suoi denti davanti: /“Partire è un poco…”».

 

 

 

LA NUOVA POESIA MODERNISTA 

 

 

la questione del realismo integrale nella «nuova poesia» modernista

Dante Maffìa

 

Direi che la produzione poetica degli ultimi dieci anni di Dante Maffìa ha posto alla poesia italiana la vera questione intorno alla quale si giocherà la partita della poesia a venire: la questione del realismo integrale. Ma che cos’è che qui si intende per realismo integrale? In primo luogo, Maffìa inaugura la metanarrazione come strumento di indagine del reale e la moltiplicazione degli attanti privati, ovvero, la moltiplicazione dei personaggi. Nelle nuove condizioni in cui si è venuta a trovare la poesia italiana, era necessario un mutamento di strategia, una sterzata in direzione di una narratività riflessa; e in questo modo Maffìa poneva la questione di un umanesimo modernista, ovvero, una rappresentazione che sterzasse in direzione di una poesia significazionista, lasciandosi definitivamente alle spalle la questione, tutta italiana, se si dovesse tributare un omaggio alla linea pascoliana intesa come lirica lineare, lirica del paesaggio, in una parola, lirica fono-simbolica (con gli annessi e connessi delle retrovie neo-orfiche, post-orfiche, neo-materiche e neo-metriche), oppure se ci si dovesse attestare sulla linea Pascoli-Sanguineti, ovvero, dello sperimentalismo consapevole (con gli annessi e connessi di tutte le post-avanguardie dagli anni sessanta in su fino al crinale del Novecento). In realtà, Maffìa individua le proprie retrovie nella linea laterale che parte dalla «poesia onesta» di Saba attraverso il magistero di stile del primo e secondo Quasimodo e di Cardarelli, per giungere ad una completa assimilazione degli esiti migliori dello sperimentalismo disboscato delle frange dei deteriori esercizi linguistici. Con la questione del realismo integrale Maffìa poneva all’ordine del giorno l’esigenza di una poesia all’altezza della sfida posta dall’avvento della civiltà telematica, delle mutate esigenze della ricezione del discorso poetico da parte di un pubblico educato, o diseducato, dalle nuove forme di comunicazione del villaggio globale. 

La nuova poesia modernista di Dante Maffìa risolveva così, con un colpo da maestro, la problematica che ha attraversato sotterraneamente tutto il secondo Novecento: la dicotomia del nome e della cosa (e il problema della verità come rispecchiamento del dato o della verità come custodia del senso), la subordinazione del significato al significante. Maffìa avvicina il nome alla cosa (cioè la verità al senso) con la semplice presa d’atto che il policentrismo dell’io meglio risponde alle esigenze della pluridirezionalità del mondo della globalizzazione, e che la semplice assunzione della pluralità dell’io risolve d’un colpo la questione rimasta in sospeso nel Novecento: la costruzione di un discorso poetico in sintonia col moderno. Ed ecco che, appena posta la questione di un realismo integrale, si è risolto all’istante il problema di uno stile integrale che sappia coniugare l’alto e il basso, il sermo humilis e il sublime, la latitudine della dizione con la longitudine della metafora.  

Possiamo affermare che la nuova poesia modernista di Dante Maffìa ha portato un contributo notevole alla soluzione del problema posto all’inizio del secolo scorso da Eliot di esprimersi con un «subtle conversational tone», che sappia ridare forza e vigore al linguaggio poetico, una poesia che volga lo sguardo alla lezione di un Mandel’stam, per la costruzione di un discorso poetico che abbia la ricchezza denotativa della mandelstamiana metafora tridimensionale, una poesia saldamente ancorata alla orditura «significazioni sta» (per usare la terminologia del poeta russo) della lingua naturale. La poesia di Maffìa giunge al paradigma dantesco attraverso lo studio delle poesie di Tommaso Campanella e dei saggi di Mandel’stam, in particolare, del saggio Discorso su Dante del 1920, dove il poeta russo teorizza la stratificazione tettonica della poesia dantesca e la metafora «minerale», la metafora cinetica e la metafora «tridimensionale» come una chiave imprescindibile per ogni tentativo di rinnovamento del discorso poetico. Indubbiamente, la recente poesia di Dante Maffìa fornisce un contributo fondamentale per la costruzione di un discorso poetico che sappia coniugare il pedale basso e il pedale alto, che abbia la duttilità dell’impianto narrativo senza cadere preda della narratività irriflessa, che sappia coniugare l’agilità del tono con la scorrevolezza dell’impianto squisitamente poetico, insomma, uno stile integrale idoneo alla rappresentazione pluricentrica e planimetrica del reale. Il canto dell’usignolo e della rana (Ragusa, Libroitaliano, 2005), non è altro che la traduzione in linguaggio metaforico della coniugazione dell’alto con il basso, dell’iperuranio e dello stagno; sia la rana che l’usignolo sono entrambi nominazione di eidola, tessere multiuso utilissime per la costruzione di un realismo panoramico e pluridirezionale; le piccole storie raccontate in questo libro, apparentemente minimalia, a metà tra la parabola e l’aforisma, tra il dialogo e il monologo, a metà tra l’intrattenimento e il numinoso, sono storie che si inscrivono nel libro del mondo, in un certo senso continuano il mondo, escono dal mondo per poi ritornarvici mediante la vera amicalità di un lessico di stampo narrativo e di una agilità eminentemente poetica. da Il canto dell’usignolo e della rana: «Quattro televisori accesi /senza spettatori. Chi studia, chi stira, /chi fa le parole crociate. /Il gatto scodinzola inquieto, non sa /a chi può rivolgersi per una grattatine /all’orecchio e si ferma a guardare /una rincorsa d’automobili /per le strade di San Francisco. /Son già dieci volte che quelli /del piano di sopra tirano lo sciacquone /ed è appena mezzogiorno».  

Con i successivi libri Al macero dell’invisibile (Firenze, Passigli, 2006) e Il corpo della parola (Faloppio, LietoColle, 2006), la poesia di Dante Maffìa tende ad accentuare il dispositivo estetico verso un valore paradigmatico nella misura in cui la tensione verso un nuovo paradigma determina la direzione verso un nuovo stile, al contempo oggettivo e soggettivo, agganciato alla denotazione e alla nominazione. Libri che assumono un valore semaforico, che agiscono da ordinatori del traffico letterario, che riordinano la confusione babelica delle poetiche che tendono alla originalità presunta e onnivora. In particolare, Al macero dell’invisibile è un libro pensato come ponte linguistico gettato tra le opposte sponde di poetiche eterogenee e contraddittorie, tra la forzosa prevaricazione delle poetiche egemoni del conformismo minimalista e le poetiche «nuove» attente alla aderenza agli oggetti. Ad una poetica del mero «visibile» Maffìa oppone una poesia dell’invisibile nutrita di minimalia. La sua poesia risulta così dentro le cose e, al contempo, all’esterno delle cose, in funzione di una sempre maggiore oggettività 

 

 

l’interrogazione dell’«assenza» nella poesia di Dante Maffia

 

L’esigenza del principiale definisce il logos poetico nel momento in cui sono venute a cadere le ragioni che determinavano il fondamento della lirica in qualcosa d’altro da sé.

L’urgenza che muove oggi i poeti europei più sensibili è individuare una ragione della lirica nel punto cruciale della crisi della cultura da cui quella lirica proviene e alla quale anelerebbe tornare. Alla filosofia il discorso assertorio e alla poesia il discorso suasorio. È stata la trappola del neo-positivismo entro la quale una grandissima parte della poesia europea è ingenuamente caduta per pigrizia intellettuale o per la mancanza di una filosofia dell’arte che pensasse, in sua vece, le condizioni con le quali l’arte del nostro tempo si è trovata a convivere.

La poesia moderna è venuta così a configurarsi nella interrogazione di un modello che essa stessa, implicitamente, porrebbe nell’atto del suo pronunciamento ma senza la coscienza delle conseguenze e della portata che l’atto dell’interrogazione inevitabilmente porrebbe. Molta poesia contemporanea, per il suo essere acriticamente inconsapevole di un tale nesso problematico, perirebbe nel minimalismo, accontentandosi di vivacchiare all’interno di un domandare retorico, vacuo, consolatorio.

È contraddittorio vedere nell’idea di principio il fondamento del discorso sulle cose, poiché questa stessa idea presuppone un contenuto non fondato nella nozione di fondamento, che quest’ultima orienterebbe senza averlo interrogato.

Se il minimalismo è parametrato sul modello proposizionalistico e suppone già data la conclusione del modello «giustificatorio» del discorso poetico, la poesia che pensa i propri fondamentali non può non scandagliare la via della interrogazione radicale sulle cause ultime e più remote che governano la ragione stessa del logos poetico. Mentre il minimalismo si occupa di giustificare come vere un insieme di proposizioni che si reggono sulla semplice giustificabilità che lega le proposizioni le une alle altre, dove ciascuna è principio di un’altra, in una catena virtuale-infinita, la poesia di Dante Maffìa sfronda, d’un colpo, il pressappochismo della fraseologia del logos poetico inconsapevole, incaricandosi di porre la questione originaria e principiale sulla quale sola si può impiantare l’esigenza principiale generatrice di un nuovo logos poetico. 

Ne La biblioteca d’Alessandria (Roma, Lepisma, 2005; ristampa Azimut, 2008), quattordici ignoti scrittori del mondo antico sono tornati in vita e ci parlano della propria inesistenza, periti con tutti i loro libri in quel gigantesco incendio che divorò la biblioteca di Alessandria. Ma qui non è la posa sussiegosa o la trovata del poeta che ci sta a cuore, quanto piuttosto che queste quattordici liriche ci conducono dritto alla questione fondamentale del nostro tempo: la distruzione del Moderno e, per converso, l’impossibilità per un poeta di essere moderno, o di inseguire la modernità. Per un poeta del nostro tempo l’unica possibilità di essere moderni è perire, ogni volta, come l’araba fenice, e rinascere, dopo ogni incendio, riproponendo la medesima interrogazione.

Non ci si lasci fuorviare dalla straordinaria semplicità del lessico e della sintassi dell’autore il quale, come ho scritto a proposito di un’altra sua opera fondamentale: Lo specchio della mente edito da Crocetti nel 2000, ha operato una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito della poesia contemporanea. Innanzitutto, la compiuta spersonalizzazione ed il decentramento dell’io poetico e, in seconda istanza, l’estrema rarefazione intellettuale del procedimento poetico; Maffìa per parlare dell’attualità non ha bisogno di ricorrere al repertorio figurale e ad un’oggettistica del presente, gli è sufficiente operare un salto, per concedere ora la parola ai 34 folli rinchiusi nei manicomi di Aversa e Girifalco ne Lo specchio della mente, ora ai 14 poeti e scrittori periti con tutte le loro opere nel gigantesco incendio della biblioteca di Alessandria. In questo modo Maffìa crea un logos mitopoietico, ricrea un mito e, di conseguenza, crea un linguaggio ad esso corrispondente. L’apparente lontananza dalla contemporaneità della poesia di Maffìa è ciò che consente al poeta di Roseto Capo Spulico di attingere esiti di livello europeo. Maffìa può così parlare della «attualità» in modo più compiuto e profondo dando la parola ai 14 poeti e scrittori vissuti e scomparsi in quel gigantesco rogo di tanti secoli fa.

Maffìa sa benissimo che nelle nuove condizioni del villaggio globale, la cultura critica del nostro tempo si è venuta a trovare in una situazione di stagnazione. L’impossibilità di una nuova Avanguardia, nella cultura del Moderno, è appunto questa: l’avvenuta liberazione della poesia da ogni incarico di discorso suasorio o desultorio, ovvero, di ogni discorso che adotti il modello giustificazionista.

Dante Maffìa, con queste quattordici esili liriche, trae tutte le conseguenze dalla situazione dell’arte nel nostro tempo, e risponde alla crisi della cultura del Moderno con una interrogazione radicale: l’interrogazione di un’Assenza.

«Queste liriche, dal timbro sobrio e struggente, si dispongono come scolte posizionate ai confini estremi di un deserto dei Tartari dove la battaglia è già avvenuta», scrive Mario Specchio nella prefazione a La biblioteca d’Alessandria. La battaglia già avvenuta è quella del Moderno, nella quale ogni artista degno di questo nome non può non ritenersi coinvolto. In verità, non c’è né modello, né secondarietà che sottendano l’interrogazione: essa è sola di fronte a se stessa, questa è la condizione della sua profonda drammaticità. Anzi, la vera interrogazione è colloquiare con l’Assenza, con ciò che è scomparso e che non è stato fagocitato entro l’ordito giustificazionista della cultura della nostra civiltà. Porre la questione fondamentale in cui non esiste né un prima né un poi, è una strategia per nominare l’Assenza in cui l’arte del nostro tempo è coinvolta, significa, tematizzare e teatralizzare in forma radicalmente nuova la situazione storica che il presente impone al logos poetico. Parla Eferito Cacasipulos: «Non ha importanza ormai che sia stato scrittore. Il mio nome /non esiste più, in nessun luogo, /su nessuna pergamena. Se la memoria degli dei /è colpita da una funesta distrazione /ciclicamente avremo disgrazie così vaste. /Dissero che per colpa mia ci fu la danza del fuoco. /Ero il fustigatore dei costumi, le mie opere /erano filtri di saggezza. Perfino Eratòstene /mi perseguitò per mesi. Mi aspettava /davanti casa, mi ingiuriava, piangendo, /ripeteva che la Biblioteca era un luogo ameno /e non un tempio. Chiacchiere inutili /che stentavo a capire. Mi hanno informato /ch’è annegato nel Nilo. Io invece /sono morto ebete a forza di tentare /di riscrivere ogni opera capitolo per capitolo. /Alla fine il buio ha stretto la mia mente /ed eccomi qua, ombra che geme, inutile /circostanza d’un tempo senza tempo».

Parla Lemmonio Minasica: «Il fuoco entrò col pretesto di purificare. Come /una lama che taglia fibre e pietre e s’alimenta /di sua luce interna, mi guardò negli occhi /con un sorriso che prometteva /la pienezza eterna. Soltanto le opere tristi, /mi disse, saranno eliminate, non avere dubbi, /soltanto le opere prive di vita, le altre saranno /il perenne fluire della vita nelle parole. /Io gli ho creduto, fui molto ingenuo e permisi /che entrasse a far scempio dei testi. In fondo /ero contento che i libri nati male morissero /per sempre. Era il sicario, invece, /del poeta Ta-ku, più ricco di cento imperatori. /Gli aveva ordinato di azzerare la Storia /con promesse allettanti: una ragazza di Sicula /e la supremazia sull’Acqua.

Così anche le mie opere sono perite /e la loro cenere non si sa dove sia. /Ma se mi sarà permesso, prima o poi /scriverò un poema sul Fuoco, questo figlio /di cane ingordo, gli farò vomitare /tutte le storie di cui s’è nutrito».

 

 

l’irrealismo onirico-surreale della  poesia post-lirica

Giuseppe Pedota

 

Giuseppe Pedota è un poeta del tutto atipico nel panorama letterario contemporaneo per il suo provenire dall’arte figurativa. Di qui l’attenzione naturale per la costruzione «ottica» e «spaziale» delle sue composizioni. La sua filiazione «sghemba» e «laterale» rispetto ai generi poetici dominanti e alle poetiche egemoni degli ultimi trenta anni del Novecento lo hanno, come dire, da un lato reso immune da contagi e influenze, da contaminazioni e condizionamenti ideologici, dall’altro, gli hanno consentito una grande libertà di movimento e di stabilizzazione stilistica mediante l’adozione di una formula semplice e affatto originale: una ristrutturazione della lirica con inserzioni in essa del monologo interiore, che contempera l’alto e il basso, il passato e il presente, il dialogo con Einstein e i filosofi presocratici, con riferimenti ad un privato assoluto ed eternizzato e a lontananze ancestrali. Il risultato è un modernissimo discorso poetico, una poesia che ama le grandi dimensioni, che unisce ciò che resta della lirica dopo l’età della lirica e un respiro epico-narrativo. Una poesia che preferisce la gittata alta del concetto di discorso lirico inteso come dialogo-monologo, che fonde memoria e contemporaneo, arcaico e presente, istante e divenire. Pedota è forse l’unico esempio in Italia di un poeta autenticamente withmaniano e visionario, fautore di una discorso lirico che proviene da un individualismo esasperato, apollineo e dionisiaco. La generosità di Pedota ama le grandi distese del pensiero, il rischio dell’azzardo della propria costitutiva individualità. Pedota sa da sempre chi sono i «chierici cauti girasoli», che «annusano sempre da distanze immani/il fiato del potere», lui preferisce intessere un dialogo a distanza con l’Infinito e con Einstein: Equazione dell'Infinito del 1997 e I vincoli dello spazio del 1999, ora riuniti nel numero speciale 32 del 2005 di «Poiesis», Acronico. Ma perché prendere ad interlocutore proprio Einstein? È ovvio, perché Einstein è lo scienziato del Novecento più lontano dagli odierni perniciosi minimalismi e nanismi. Pedota ha sempre pensato che della poesia dei suoi contemporanei - fatte poche eccezioni - sia tutto una cospicua miniera di medietà e di piccolo cabotaggio; e se c’è una cosa che non interessa a Pedota è appunto il piccolo cabotaggio, l’ammicco al linguaggio poetico convenzionale, frutto di opportunismi e di piccoli trucchi. Pedota preferisce parlare in grande, adotta una grande visione per parlare ai pochi grandi spiriti del suo tempo. A volte, si ha la sensazione che la sua poesia sia simile alle grandi campate del ponte di Brooklyn che aggettano verso le insondabili profondità equoree. E Pedota cita Einstein: «non v'è una via logica per scoprire queste leggi elementari. C'è solo la via dell'intuizione», e si comporta di conseguenza: tutto il poemetto dei Vincoli dello spazio si staglia lungo la colonna vertebrale di una intuizione-immaginazione possente ed ardita, con un crepitare di immagini e di metafore come non si leggevano da tempo nella poesia contemporanea italiana. Il dialogo-monologo di Pedota «parla», diventa il medium di un phantasma che è Altro. La sua poesia è fantasmatica e visionaria appunto nella misura in cui è dettata da un dàimon, da un phantasma che lo soggioga e lo sospinge: «Dopo aver letto tutta la poltiglia/filosofica degli ultimi/concedendomi un sommo vizio estetico/in questa estate di cicale astiose/ho riletto come un poema il tuo concetto di spazio in Cartesio». Pedota è un eretico-veggente. «L’irrealismo», come è stata definita la poesia di Pedota, annuncia con sconvolgente nitore la fine della giustificazione della «Parola», il suo essere ormai divelta dalla giustificazione della Tradizione. Il poeta moderno vive così una sistematica scepsi che sbarra la strada alle istanze radicali e, ad un tempo, lo spinge a riformulare con perentoria icasticità le medesime domande ormai impronunciabili perché cadute sotto la scure dell’aforisma di Wittgenstein. Ecco la vera ragione di questa poesia, la sua ontologica moralità, il suo esser continuamente in bilico, la costante minaccia che incombe sul poiein. E la metafora cinetica costituisce il propellente energetico, la giusta soluzione estetica di un problema «politico». La forma stessa delle sue poesie, spesso incentrate attorno ad un asse immaginario, conferisce loro quel movimento rotatorio che contraddistingue il moto eliotropico delle singole metafore cinetiche. Così, la poesia di Pedota si ricongiunge al moto rotatorio degli astri e dei pianeti, delle galassie e degli universi, in una galattica, cinetica, entropica  instabilità: «fermarmi dove le mani del delta / si dividono negli occhi curiosi / dei ponti //allo svanire d'una voce /tornano regioni dove approdano /navi mai partite con equipaggi di nebbie».

Leggiamo una poesia tratta da Equazione dell'infinito (1996), scritta venticinque anni prima della data di pubblicazione: «o mia stella segreta come l'ombra /dell'altra luna /se le finzioni del cuore preservassero /dalle comete amare /io tramerei un bozzolo di luce /per incontaminati /e appannerei il mio specchio con un alito /di senno //ma il mio riflesso è un tempo /che si diverge in più futuri /innumerabili //le ragioni segrete /che dipanarono i tortuosi /sentieri del Minotauro /assaltano il mio labirinto /dove l'alfa si tocca con l'omega».

 

 

la regalità funebre e apollinea della «nuova  poesia» post-simbolistica

Roberto Bertoldo

Roberto Bertoldo è un poeta  del tutto particolare, rifonda il modello rappresentazionale della «nuova poesia», prende in consegna il legato testamentario di una lirica che si è affrancata dalla civiltà del post-simbolismo consegnandoci uno degli esiti più alti della poesia contemporanea. Anche il suo itinerario è del tutto singolare. Come poeta proviene dalla filosofia, e come filosofo proviene dalla poesia, e ciò nel tentativo di riposizionare la poesia su un terreno filosoficamente più stabile. Nel 1998 fonda la rivista di letteratura «Hebenon» e nel medesimo anno pubblica il romanzo Il Lucifero di Wittenberg, In poesia nel 1981 scrive Nuvole in agonia, cui segue nel 1994 Il pan demonio, nel 1999 Il rododendro, nel 2000 pubblica Il calvario delle gru e, nel 2006, L’archivio delle bestemmie. La peculiarità stilistica della poesia di Roberto Bertoldo riposa su un duplice ordine di ragioni, innanzitutto perché è un poeta-filosofo, una categoria molto rara nella poesia italiana contemporanea, dove piuttosto i poeti sono cicisbei delle istituzioni (nel migliore dei casi), oppure burocrati delle istituzioni poetiche; in secondo luogo, perché la sua poesia attraversa la civiltà del post-simbolismo e ne fuoriesce mediante un mirabile equilibrio tra la metafora e il narratum, riposizionando il discorso poetico in linea di continuità con la grande tradizione poetica europea. Bertoldo è anche autore di saggi filosofici Nullismo e letteratura, (1998), Principi di fenomenognomica (2003) e Sui fondamenti dell’amore (2006), che offrono le coordinate indispensabili per la comprensione della sua poesia. Il suo pensiero si muove tra la «teoria della conoscenza e teoria della creatività», la crisi della «letteratura meramente tecnologica e formalistica del nostro secolo e quella ontologica e fenomenologica». In altre parole, il tentativo è «di spiegare perché il linguaggio simbolico sia la risposta verbale scientifica alla prassi destrutturante del ‘termine’ propria dell’età decadente della tecnica». Da una parte, Bertoldo guida una sacrosanta polemica contro i generi letterari: la poesia «manierista» e la «narratura»; dall’altro, viene condotta una serrata critica al nichilismo, considerato un «errore ottico della cultura newtoniana, ossia moderna». Al nichilismo Bertoldo contrappone il nullismo, una vera e propria teoria della conoscenza ed una teoria della prassi. Nella recensione al libro apparsa sul n. 16 di «Poiesis» scrivero: «Il prometeico lavoro di costruzione delle fondamenta filosofiche per una poetica di largo respiro che fuoriesca dalle secche del Novecento ha qualcosa di ammirevole e grandioso proprio per l'estrema solitudine intellettuale con cui un’impresa del genere è stata condotta». Altro punto qualificante della speculazione di Roberto Bertoldo è la resistenza ad oltranza ad un tipo di letteratura ermeneutica e fenomenologica, e quindi ostilità ad un filosofo come Gadamer, con ciò che comporta il gusto adulterato della critica ermeneutica che si ispira al filosofo tedesco.

Sul n. 16 di «Poiesis» nel 1998 scrivevo che la poesia di Bertoldo è «un fraseggio fitto come di uccelli nei boschi... è come un armistizio che segue ad una guerra. Tutta la poesia romantica e post-romantica scaturisce appunto dal desiderio di dialogo; in questo senso Roberto Bertoldo non fa eccezione. Poesia post-simbolica erede del disfacimento del simbolismo europeo, nivea e  acuminata, a tratti spigolosa, a tratti di gentile dolcezza. Se “Venezia è una pausa”, la sua poesia è “una pausa della morte”, una stazione provvisoria verso “la propria obliterazione”. Poesia del dialogo nell’epoca dell’impossibilità del dialogo, che penzola come un impiccato sul ramo più alto del dolore». Queste notazioni estemporanee e transmentali volevano alludere alla sapiente dosatura di stilizzazione e significazione e all’aurea regalità che i versi di Bertoldo promanano. Certi versi sono «veneziani» come «veneziani» furono i versi del primo Mandel’stam; da Il calvario delle gru:

 

La mia storia si corica come una virgola

una gondola sul foglio, come si posa

l'inverno deciduo tra gli abeti

la mia storia è vile come la gondola

quando Venezia è una pausa,

quanto una virgola, una pausa della morte

 

  Regalità apollinea e funebre come nessun'altra tra i suoi contemporanei, ovattata e lacustre per la siderale distanza dal mondo; ma è per l'appunto la distanza che dà alla poesia quell’aura, anzi quegli echi di sontuosa bellezza e belligeranza, ovviamente qui si intende una autobelligeranza, una combustione tutta interna alla poesia. Come quella straordinaria equiconsonanza tra «la mia storia», la «virgola» e la «gondola», e poi quel richiamo anamnestico alla città lacustre ed umbratile, alla città del Tramonto, «Venezia», intesa come «una pausa» che richiama alla mente il ritmo sensuoso e sfuggente della gondola tra i flutti. Tutta infarcita di drappi e drappeggi, di una sontuosa negligenza, questa poesia irride, come da lontanissimo, agli scarti beffardi e barbarici di chi non ha scontato sulla propria pelle il crollo della civiltà del post-simbolismo. E comunque nulla di sublime o di posticciamente sublime in questa poesia, la cui drammaticità è legata agli scarti del grigio prosaico, al drappeggio che il corteo bacchico e apollineo comporta necessariamente nel suo strascico luttuoso e fluente; da Il calvario delle gru:

 

Nelle vostre facce getto la pausa di un sorriso

e cornici di rughe vi spaccano l'ombra

sotto gli occhi. Avete pelle di rosolio,

sofferenze di rododendri,

scontate la morte come uno stagno.

 

Poesia musicalmente impeccabile, che procede con l’intima eleganza del proprio altero sussiego, non lancia mai ammicchi alla scatola acustica o ai diserbanti di sperimentalismi innocui e virtuosi. Poesia sì anacronistica, se pensiamo alla poesia con gli occhiali dell’attualità, poesia modernissima se la consideriamo nel quadro della problematica europea della via di uscita dal post-simbolismo. Così si presenta Roberto Bertoldo, corrucciato e «deriso dal mio stesso anacronismo»; in verità, risulta il più contemporaneo tra i moderni per il suo essere all’altezza del tempo, per aver meditato le grandi problematiche del fare arte nel nostro tempo.

 

 

la poesia civile, il tema amoroso, lo stile metaironico 

Fabio Scotto, Mirko Servetti, Salvatore Martino, Francesco De Girolamo

Con la categoria della nuova poesia modernista ho inteso conglobare tutte quelle posizioni che si collocano in contiguità con il Moderno e che si richiamano al comune paradigma della Tradizione novecentesca, a differenza del post-modernismo, che invece tende a ripercorrere il secolo appena trascorso nei suoi punti di svolta contrassegnati dalle post-avanguardie della seconda metà del Novecento. Vero è che alcuni autori contemporanei sembrano muoversi in una sorta di via di mezzo tra queste due grandi correnti, oscillando tra l’una e l’altra, nel tentativo di conciliare stilisticamente le due Tradizioni. Allo stato, non sembra più ipotizzabile un poeta-traliccio, un poeta in grado di fondare un «nuovo linguaggio», e quindi un nuovo «traliccio linguistico» (alla maniera del Pascoli, tanto per intenderci); in questa accezione, sia il modernismo che il post-modernismo sono da intendere come filiazioni e diramazioni del grande alveo della poesia del Novecento; siamo tutti diventati epigonici, non c’è più una singola personalità poetica che sovrasti le altre, così come non c’è più una scuola di poesia che possa arrogarsi il merito di essere «in avanti». Caduta, con la fine del Novecento, la stessa accezione di avanguardia, come l’abbiamo conosciuta, penso che una «nuova» avanguardia, di là da venire, se mai verrà, sarà del tutto diversa da quelle che abbiamo frequentato e conosciuto all’università. È paradossale, ma sono convinto che una nuova vera avanguardia non potrebbe che scegliere il silenzio compiuto piuttosto che la Parola, non potrebbe che autosuicidarsi nell’atto stesso del suo collocamento. Così, l’impossibilità di una «nuova» avanguardia connota la drammatica condizione dell’artista contemporaneo. 

La poesia di Fabio Scotto, che aveva già dato prova di sé con le raccolte Il grido viola (1988), Il bosco di Velate (1991), La dolce ferita (1999) e Genetliaco (2000), attinge con L’intoccabile (Firenze, Passigli 2004) e  Bocca segreta Poesie 2004-2007 (2009), la sua meta più matura. La sua opera poetica la si può collocare nell’ambito dell’area modernista della poesia italiana del tardo Novecento per la perizia con cui conglomera in un tutto il registro lirico della tematica amorosa al registro narrativo della riflessione storica, passando dal verso breve a quello lungo. Ne L’intoccabile la sintassi franta, la composizione che privilegia la paratassi, le unità di articolazione spesso mancanti, costituiscono i contrassegni di fluidità e di duttilità del suo stile; anche la punteggiatura risulta assente, talché ne deriva lo scorrimento veloce dei fotogrammi; per contro, il verso breve rafforza quel caratteristico moto a singhiozzo: stop and go, l’andirivieni continuo tra la retromarcia innestata dalla fine del verso e la spinta inerziale del moto sintattico. La tematica amorosa è trattata sempre con precisione fotometrica, mediante fotogrammi in sequenza cinematografica, senza ripensamenti elegiaci o oltranze sentimentali. La sezione centrale che dà il titolo al libro: L’intoccabile «riprende il motivo iniziale, cioè la fenomenologia della passione con i sussulti del cuore, il reciproco cercarsi, l’incontro e il rifiuto», come annota Tiziano Rossi nella prefazione al volume. La tematica amorosa attraversa un po’ tutto il volume e ne costituisce il leit motif, la scansione di fondo, il rumore di fondo del libro con una narratività diffusa e leggera che rende agevole la lettura. Una poesia apparentemente fragile e vulnerabile, figlia del nostro tempo del disincanto e dell’egotismo, capace di narrare gli avvenimenti più intimi dell’innamoramento con una rara delicatezza di toni e di atmosfere ma capace anche di innestare un discorso poetico di grande spessore, come nella sezione intitolata «Quaderno cretese», dove la riflessione sulla contemporaneità trova un magnifico dispiegamento di verità dalla lettura di eventi di una lontanissima civiltà che ci riporta alla riflessione sulla nostra condizione di cittadini di una polis dalla quale sono scomparse le mura, una agorà senza limiti e senza identità: «Scale non da salire ma per sedere /Il teatro più antico del mondo domina la collina /nella piana di Messarà /Pare ancora di sentire le voci dei viandanti /fervere lo scambio delle merci /(là la fornace per le ceramiche; /qui il fabbro, maestro del bronzo…) /L’appartamento reale guarda a settentrione /Al Monte Ida dove ogni nove anni /Radamanto incontra il fratello Zeus /Insieme vegliano sull’Ade /Potere sui vivi e sui morti /Accanto la regina parla con le ancelle /in una pax minoica /Eppure nel mattino infuocato /un falco galleggia alto /imprendibile /Il suo volo è come il Disco di Festo /indecifrato /indecifrabile testo /Segreto sigillo» (da L’intoccabile). In Bocca segreta (Passigli, 2008), la tematica svaria dalle poesie di «riflessione» (da alcuni capolavori dell’arte figurativa) alla poesia di «paesaggio» e, infine, alla poesia dell’«autocoscienza» e della costruzione dell’«io». La versificazione si è come alleggerita, è diventata più essenziale, il dettato  ha un marcato andamento narrativo e il discorso poetico assume le sembianze del «racconto in versi». Le oscurità sono bandite, il discorso diventa sempre più chiaro.

Con Quotidiane seduzioni (2004) e Canzoni di cortese villania (2008) mai la poesia contemporanea aveva saputo proporre una tale drastica e totale sovrapposizione dell’antinomia tra la Tradizione e l’Antitradizione; e forse lo scintillio che tale giustapposizione produce è posto come fondamento del poiein e sua clausura. Con una sottilissima metaironia viene servito il condimento dello stile come museo di frasari nobili (la cui struttura imperiale disciplina la propria curiale lontananza dall’empiria) e frasari ignobili: enunciati fàtici che enumerano la propria belligerante aseità e insignificanza. La consapevolezza stilistica di Servetti è che ormai è diventato ovvio tutto ciò per cui la belligeranza dell’Opposizione della post-avanguardia e il risentimento dei neoorfici intendevano porre come la porta carraia di un nuovo avanzamento della ricerca artistica, la consapevolezza, dicevo, del poeta ligure si dimostra astutissima e strategicamente azzeccata.

Servetti prende atto, con esemplare lungimiranza, che l’automatizzazione della tecnica poetica è parte integrante di quel processo che coinvolge tutto l’apparato produttivo: come la tecnologia miniaturizzata dei chip consente il dispiegarsi della cibernetica, così la tecnica poetica risponde, con una miniaturizzazione della propria procedura, al macro dell’apparato produttivo. E se la tecnica è servile è perché essa è servente. Ma la tecnica poetica no: essa serve soltanto la menzogna che la propria procedura reca in sé come un marchio afflittivo. Ecco spiegato il dispregio del poeta verso la procedura post-sperimentale intesa come massimo inveramento di quel processo che ha dotato la tecnica di una indiscussa autolegittimazione. Servetti, che peraltro proviene dalla schiera dei poeti della seconda generazione sperimentale essendo nato nel 1953, prende atto e deglutisce a livello stilistico il fatto che fino ad oggi le rivoluzioni artistiche sono diventate reazionarie, e che ogni pretesa e pretesca rivoluzione non è altro in realtà che l’autoaffermazione di una rappresentanza, mera autolegittimazione di un ceto intellettuale. È paradossale la chiave di volta impiegata dal poeta ligure per il montaggio dei propri testi: il colto lessico di derivazione montaliana, pascoliana e neocrepuscolare viene montato su un cliché sperimentale; è il montaggio che sfrigola per l’attrito con i propri stessi materiali, è questa la novità dell’impostazione di Servetti: non più l’attrito tra l’aulico e il prosaico, concetto elevato scolasticamente a dogma indiscusso perfino dalla rivoluzionaria post-avanguardia, bensì frizione tra il lessico aulico ereditato dalla tradizione e montaggio di esso in un costrutto che ne mina la pretesa egemonica nel momento stesso che ne codifica il trionfo storico ed ideologico. D’improvviso, Mirko Servetti si situa in una posizione allo stesso tempo intelligente e terribilmente periclitante, rischiando di irritare gli opposti schieramenti dell’arco costituzionale del conformismo letterario e di venirsi a trovare in una zona di irriconoscibilità, e quindi di isolamento.

Dietro la levigata superficie dei versi di Quasi sicuramente un’ombra  (1984), Canti Tolemaici (1989), Quotidiane seduzioni (2004), traspare la cogenza impressa sulla materia sperimentale dallo stile neoclassico, la vigile coscienza che il neoclassicismo mostrato in pompa magna sia in realtà lo specchio per le allodole per i critici intonsi: il severissimo impianto stilistico denota il sospetto e il disdoro dell’autore verso ogni problema di stile per lo stile, verso ogni fede nello stile che viene a degradarsi in assunzione di una funzione servile. Servetti, il maestro di stile, giunge alla drastica conclusione che lo stile è servente in quanto sottoposto alla cogenza di una legislazione immanente, e quindi prodotto di reificazione. Servetti è forse uno dei rari poeti a me noti che giunge alla conclusione che il bello stile, anche lo stile più rarefatto, è anche il prodotto della barbarie della cultura che quello stile legittima e finanzia; Servetti ha una acutissima percezione di questo nesso problematico, ma non può avviarlo a soluzione senza procedere dentro i gangli della questione dello stile, senza smontare e a rimontare lo stile come un meccano, o meglio, come un meccanismo. Servetti è finalmente giunto alla conclusione che lo stile è la configurazione formalizzata di un insieme di enunciati omogenei e che ciò che legittima lo stile è lo stile stesso. Può sembrare una tautologia ed invece si tratta di un vicolo cieco verso il progresso delle forme estetiche. Lo stile che punta alla perfezione precipita in un buco senza fondo. Lo stile precipita nello stile. Piuttosto che una costruzione lo stile si rivela essere una vera e propria combustione, non più catena di rimandi da segno a segno ma catena di prigioni dorate che non rimandano ad alcun segno e ad alcun senso: «Tralucono le diatomee da un secchio /di salasso balcano che, stornato /all’albedine come tu volevi, /sloggia la bozzima dal tuo cambrì. //Urlacchiano albanelle a fil d’orecchio /per affermare che molto è apprezzato./ il tuo nulla da dire se i premevi /ricordi s’immischiano, a mezzodì, //con l’ebrietà che sturba le criniere /tue d’alga ravvolte a quegli arcolai /simili a nidi di rondine. Sere //fa udimmo, pisciando ai lucertolai /per scherzo, il risbuffar di ciminiere. /già lo abbiamo scordato, come sai». Irriverente alla tradizione (qui la parodia del linguaggio del primo Montale), la poesia di Mirko Servetti opera con tutte le sue forze in direzione del nichilismo; dopo aver superato tutte le tappe intermedie, sfocia nel «negativo» per interna combustione di tutto il combustibile disponibile. Con Canzoni di cortese villania (2009), Servetti giunge in prossimità del non pronunciamento a seguito della presa di coscienza che nella nuova modalità del villaggio globale «lo stesso bisogno di arte è ampiamente ideologico; si potrebbe vivere anche senza arte non solo obbiettivamente, ma anche secondo l’economia spirituale dei consumatori che, mutando le condizioni della loro esistenza, si possono indurre senza fatica a cambiar gusto, purché il cambiamento segua la linea del minimo sforzo». 1  

«Potevamo tradurre il Novecento/da nome a nome. Non l’ho mai saputo./O meglio, ho sempre solo creduto/al valore d’uso di quel momento». È la presa d’atto dell’impossibilità, nelle condizioni attuali dell’economia spirituale, che un’ultima avanguardia di là da venire è una faccenda da salotti intellettuali posticci e à la page.

Gli ultimi due libri di Salvatore Martino (1940): Libro della Cancellazione (Roma, Le Torri, 2004) e Nella prigione azzurra del sonetto (Faloppio, LietoColle, 2009), lo rivelano quale autore di primo piano di quella generazione di poeti che negli anni Novanta ha percorso la strada della ristrutturazione del discorso poetico. Per Martino, poeta modernamente lirico, la strada da seguire era quasi obbligata: la sliricizzazione della poesia e il tono understatement, il piano basso del linguaggio, con abbandono del terreno eminentemente novecentesco dell’«ironizzazione» del reale e/o di «iconizzazione linguistica» dell’«io». Con il senno del poi, possiamo guardare agli anni Novanta come un percorso ad ostacoli nel quale era già stata tracciata la direzione da seguire: una poesia «dopo l’età della lirica», una poesia «Dopo il Moderno», da alcuni ipotizzata come una sorta di generica poesia narrativa, da altri, invece, tra i quali Martino, preconizzata come una ripresa dei modelli poetici novecenteschi rivisitati e opportunamente ristrutturati.

Clausura, esperienza del limite e della soglia e conseguente angoscia di non poter attraversare la soglia dell’identità novecentesca. È la problematica centrale attorno alla quale ruota la poesia di Salvatore Martino. Ciò che si intende genericamente per poesia «moderna» è una sorta di «cancellazione», una sorta di tabula rasa che l’ultimissima poesia sembra volerci comunicare, in un contesto di eterna «belligeranza» (vedi la poesia «E lotteranno sempre l’angelo-dèmone e il bambino») e di ripiegamenti al privato, ad un privato depurato di ogni narcisismo cronachistico. Quanto alla Cancellazione potremmo, fra tutti, citare l’esempio dei tre autoritratti («Autoritratto a punta secca», «Autoritratto su carta pergamena», «Autoritratto in sanguigna sopra carta di riso»), dove la ricerca ruota attorno alla condizione del soggetto che scrive il proprio autoritratto. È ancora possibile il ritratto? E l’autoritratto? È ancora possibile stabilire il binomio: ritratto-verità? È ancora possibile la tematica dell’identità? È ancora possibile intendere lo spazio poetico come il luogo della «verità»? È ancora possibile lo spazio poetico? - Ecco, il libro di Salvatore Martino tenta una risposta a queste domande. E già averlo tentato è motivo di grande considerazione. Innanzitutto, il «viaggio»: turisticamente attrezzato, podisticamente computerizzato e stilisticamente standardizzato; ma ha ancora senso parlare di «viaggio» in poesia? Perché sia chiaro che per Salvatore Martino chi parla di «viaggio» o è un laudatores tempore acti o è un furbo o un baro, un prestigiatore, un falsario che tenta di spacciare la moneta falsa del «viaggio» per quella vera con il ritratto, o meglio, l’autoritratto del poeta in effigie. La strada che Martino percorre è l’esoterismo, a metà tra il triviale e il sublime, che è la replica, in negativo, di «Oswald’s Restaurant» di Cattafi («la vermiglia rete che ci tiene»), in una suite così ricca di cromatismi quale è Partenza da Greenwich, per non parlare di certo Cendrars, con le sue trasvolate oceaniche in altri continenti. Leggasi la poesia «Quella ragazza-dèa del Guatemala», ecco un colore che chiude, pur con la sua controllatissima tinteggiatura: «Ricordo una ragazza creola / nel bananeto presso Quiriguà / rideva imprecava si esibiva / contro una ciurma oscena d’individui / Non ho mai visto una bellezza uguale / perduta in un totale smarrimento». Mi sembra degno di nota che la serie intitolata «Dobbiamo imparare ad amare le nostre tenebre / anch’esse hanno bisogno dell’amore», consacrata più delle altre al dilatato sapore dell’avventura nel mondo fuori di casa, venga a culminare nella stanza di «Mi ricordo una notte in Amazzonia», àmbito circoscritto di per sé, cella senza confini, tempio della fantasia, continente della libertà fissato in una «sospensione temporale». Il tema del viaggio, paradigmatico e diaristico, farà posto alla descrizione d’una temperie spirituale, ma più volentieri il perimetro formale sarà quello d’un luogo all’aperto, distante dalla stanza dove si svolge l’autoritratto del poeta. Fino alla sezione finale del libro, che così suona: «Alla radice al pozzo che risuona / alla dolce risacca torneremo / limpidamente oscuri d’ogni traccia», dove la borgesiana esibizione metaforica risulta ben orchestrata in contrappunto con una metessi metonimica. È la sezione forse più alta e concentrata del libro, il luogo dove si assembrano e si consumano tutte le linee di forza. Esemplare è la poesia intitolata «Il messaggio dell’imperatore» dove il re dei re, il morente Dario sussurra disteso sul campo di battaglia, ad un soldato superstite, le parole che dovrà riferire all’orecchio del vincitore Alessandro il macedone. Forse, il senso ultimo della poesia di Salvatore Martino è questo: comunicare all’orecchio del lettore l’ultimo messaggio di una civiltà morente. L’ingresso nel Tramonto. «Il libro della Cancellazione» e «la prigione azzurra del sonetto», sono due modi di interloquire con (e di ereditare) la tradizione del Novecento: la direzione del linguaggio deterritorializzato e quella delle forme chiuse, delle strutture metriche e simboliche della tradizione: ed è qui che la perizia e la felicità espressiva del poeta siciliano possono giungere al massimo risalto.

Quel «declino dell’ontologia», quel declino, per dirla in termini più comprensibili, delle oggettualità, di cui ci ha parlato Vattimo sembrerebbe condurci alla soglia del declinare e del deragliare di tutte le arti «deboli» e «povere»: in primo luogo la «poesia», non avremmo più nulla di cui narrare. E invece, la poesia del romano Francesco De Girolamo Paradigma Antologia personale 1997 – 2009, (LietoColle, 2010), che riassume la sua produzione degli ultimi vent’anni, prende forza proprio da questa intima debolezza del discorso poetico del Dopo il Moderno che non può fondarsi su alcun «fondamento», proprio dalla «leggerezza» che ha investito sia il «soggetto» che l’«oggetto». Se c’è una poesia particolarmente sensibile a questa problematica è questa di Francesco De Girolamo il quale riutilizza i rottami e i lacerti «eleganti» del crepuscolarismo più astuto  per recapitare alcune felicissime sortite nei retaggi della rima invisibile che serpeggia come un marchio di luttuosa «eleganza» in questa poesia intimamente ultronea e ultranea.

La specificità del discorso poetico di Francesco De Girolamo riposa, dicevamo, sulla radicalità di questo assunto, sulla radicalità della sua interrogazione, sulla eccentricità di ciò che è privo di un centro e del quale bisogna cercare il senso. Una problematicità aporetica che ruota attorno ad un «dio» e ad un «io» assenti. «Quello che vedo non è quello che penso; / quello che dico non è quello che sento; / i miei amici sono i miei nemici; / l’io che non sono ha ucciso l’io che ero».

Dal punto di vista stilistico nella poesia di Francesco De Girolamo c’è interrogazione se c’è iterazione, c’è iterazione se c’è chiasmo, c’è chiasmo se c’è opposizione tra due polarità, c’è opposizione se c’è, in qualche altro luogo (nel mondo dei «realia»), una contraddizione che non può essere soluta: ecco la ragione del «tu», una sorta di doppio, una variante dell’«io», una variante figurale con cui intessere un dialogo. Ma il dialogo si rivela ben presto essere un soliloquio senza destinatario. Come la migliore e più alta poesia recentissima, il discorso poetico non si dà più come esternazione di un’anima «bella» o «brutta» che sia, il discorso poetico non riposa più su alcuna zona «sicura» e «stabile» come ancora avveniva nel novecento, su per giù fino agli anni novanta, dove era ancora possibile ipotizzare una «comunicazione» pur se problematica. Nelle condizioni attuali la parola dell’«io» (in poesia come nel romanzo) è continuamente inceppata e alterata e adulterata; è tramontata per sempre l’utopia di quelle poetiche che credevano ancora possibile una comunicazione im-mediata e sincera tra l’«io» e l’«oggetto». Nella poesia di De Girolamo non si dà esternazione senza estraniazione («È da qui che devo passare / se voglio andare oltre. non so dove; / che possa dire infine: “Ci sono!”»); estraniazione come esperienza del non-luogo («Via dalla casa morta, / via dalla stanza vuota: / per la strada più corta, / verso la luce ignota»); l’esperienza del non-luogo come esperienza del nihil non può darsi che nella forma di simulacro. Allora, la rima erratica, il parallelismo eccentrico di questa poesia altro non sarebbero (e non potrebbe essere altrimenti) che il corrispondente speculare dei simulacra erranti ed erronei di cui si vestirebbe il reale: «Non è molto quel ramo dietro i vetri / per sapere che fuori impera il niente; / ma è tutto ciò che scorgi e che non vedi / che lo trasforma in una gemma ardente».

 

1 G. T.W. Adorno Fra “Teoria estetica Torino, Einaudi,, 1970 p. 343

 

 

il discorso degli «spazi interiori» e la linea-incendiario-umoristica

Vincenzo Ananìa, Leopoldo Attolico

 

La poesia di Vincenzo Ananìa ha dimorato a lungo in anticamera prima di raggiungere un equilibrio tra quantità di «astrazione» e quantità di «concrezione», attraverso una assidua attività di mediazione tra il «generale» (l’attante astratto), e il «particolare» (l’attante concreto) o, detto in altri termini, tra la via indiretta e la via diretta agli oggetti inguistici. Era la sua personale via post-moderna ad una poesia che sapesse coniugare la massima comunicabilità con un minimo di offerta del foro interiore, didascalicamente attrezzata sul pedale basso del lessico del quotidiano. Lo stesso concetto di  «oggetto linguistico» viene qui sottoposto ad una meticolosa indagine, viene visitato da diverse direzioni e angolature, mediante scarti e scorci, con incursioni in diagonale e perimetrali, senza mai dare l’impressione di un affondo asintomatico che ne liberi la presunta essenza o il segreto irrelato, perché per Ananìa gli oggetti linguistici non abitano il segreto delle parole, quantomeno, non sono depositari di segreti latenti e, in questa accezione, la sua è una poesia molto distante da ogni ipotesi di post-orfismo, ma nello stesso tempo il suo metodo, diciamo, empirico e pragmatico, di visitare gli oggetti, ha qualcosa di capzioso e di ingenuo, di causidico e di intimo, con fraseggi assertivi e intermezzi labirintici che inficiano la precedente assertività. La composizione tipica procede attraverso una tranquilla esposizione degli spazi interiori e un meditato argomentare. Non di rado, il lettore si trova di fronte ad «interni» che sembrano ammiccare a chissà quali meandri di «intimità» ma in realtà il poeta romano non lascia mai varco alcuno a impudichi occhieggiamenti nel segreto della privacy: Gli interni domestici o le relazioni affettive sono come deprivate di familiarità e come sottoposte ad una «censura» preventiva, un filtro, che ne vieta la libera prospezione. La poesia di Ananìa ha accentuato la distanza che la separa dal minimalismo spurio (che elegge il foro interiore per l’esibizione della bella interiorità o dell’anima violata, operazioni in palese effigiatura di kitsch, che nascono nel laboratorio dell’elegia ai fini dell’impagliatura elegiaca). Nulla di tutto questo. Poesia che tiene severamente celata ogni istanza che porti verso il suo segreto che, come un pozzo senza fondo, o come un cobordismo, si rivela essere il risvolto del risvolto, il limite che diventa la superficie, o la superficie che diventa il limite. Una poesia nella complessa accezione invalsa nel post-moderno, ovvero una costruzione che potresti de-costruire per poi poterla ri-montare in altra guisa: ed il risultato non cambierebbe. Il lungo tragitto che ha portato ad uno stile «de-territorializzato» e «dis-interiorizzato» era stato messo in conto già all’inizio dall’autore, il quale ha preferito affidarsi ai tempi lunghi di una costante marcia di avvicinamento alla problematica costruzione di una poesia modernamente ammobiliata.

Ananìa dirige dal 1992 la rivista di letteratura «Pagine» ed ha pubblicato tre libri di poesia Nell’arco (Milano, Crocetti, 1992), Le ali di Darwin (Firenze, Loggia de’ Lanzi, 1999) e Noi (Roma, Zone, 1993). Ma è con Biblioteca. Poesie 1990-2006 (Roma, Zone, 2006), che il poeta romano (siciliano di origine) ci consegna una significativa epitome del suo lavoro. «È un insieme di poesie scelte dalle raccolte precedenti raccolte – in gran parte modificate, anche in misura rilevante – e di inedite scritte fra il 2003 e il 2006», come ci informa il risvolto di copertina. Una vera e propria opera di riscrittura che ha occupato l’autore per quindici anni: siamo in presenza di una ricerca, ad un tempo, retrospettiva e volta al futuro, di uno stile omogeneo che sappia collegare una infrastruttura didascalica con una tessitura metaironica, riferimenti biografici in senso lato con glosse impersonali, un tono confidenziale con un lessico severamente referenziale. Alcune poesie hanno un incipit, per così dire, dal mezzo; ovvero, presuppongono un già stato che si dà per scontato: «Appresi ad amare il mondo nelle notti/ insonni. Sulle loro lavagne…»); altre volte l’inizio avviene come interrompendo un pensiero in fieri, in un punto di criticità del pensiero, quasi un varco lo rischiari a ritroso, e qui interviene il procedimento ad entimema dove la proposizione iniziale è come sganciata dalle proposizioni successive e conclusive, e le une e le altre sono collegate da legamenti temporali non legate da nesso causale. Lo svolgimento delle frasi assertive risponde ad una rigorosa organizzazione logico-frastica del pensiero. Significativa di questa procedura è la poesia «Guerra»: «Passo passo, talvolta correndo, /sei penetrata dentro la mia vita /come se fosse terra di conquista, /drenando arterie piantando picchetti /aprendo spacci e posti di ristoro /ai crocevia dei nervi e delle vene. //Ora legiferi, amministri, incassi /fai respirare a certe condizioni /è buona ogni occasione per punire»

Biblioteca è, in realtà, un romanzo in versi, un romanzo di riflessioni, di sentieri interrotti che prendono lo spunto da una molteplicità di eventi del quotidiano; un romanzo di investigazione sui misteri del quotidiano. Questo appunto è il senso ultimo di questa poesia: la sostituzione della verità con la procedura della ricerca interrotta.

La poesia di Leopoldo Attolico appartiene al genere «ludico-ironico» o «umoristico-incendiario» che conta poeti di indubbia caratura come Ardengo Soffici e Govoni. C’è da dire che nel secondo Novecento la diffusione e la proliferazione dei poeti «giocosi» ha certo nuociuto alla riconoscibilità dello stile stravagante e solitario di un poeta come Attolico. Piccolo spacciatore del 1987, cui ha fatto seguito Il parolaio (1994) e Scapricciatielle (1995), fino alle ultime Calli amari (2000), Mix (2001), Siamo alle solite (2001), I colori dell’oro (2004) e La realtà sofferta del comico (2009), ci consegnano, nei momenti migliori, quando c’è un bersaglio concreto da colpire e da teatralizzare, una poesia umoristica e incendiaria di piacevole lettura. I colori dell’oro è  un canzoniere d’amore, cosa abbastanza insolita per un poeta come Attolico, troppo esperto e attento e prudente a non esorbitare dalla sua tematica preferita, Attolico finora ha saputo costeggiare, con prudenza, tra uno sberleffo e uno sgambetto, le tematiche «alte» e quelle «egemoni» standosene a debita e salutare distanza. Analogamente, ha saputo circumnavigare la tendenza allo sperimentalismo linguistico grazie al suo spiccato fiuto che gli consigliava di starsene in disparte. Attolico è un poeta-podista impegnato in una opera di demistificazione e di deautomatizzazione di ogni progettazione «costruttivista», come di ogni poetica «maggiore», convinto del ruolo destruens, che lo ha, in un certo senso, istituzionalizzato quale fautore di una poesia «ibrida» di genere «umoristico-incendiario». Attolico non ha mai cambiato la propria carta di identità né i propri connotati: ha sempre percorso e ripercorso l’originario tema della demistificazione e teatralizzazione dell’io. Lo scetticismo del poeta post-moderno qui si salda con la perizia linguistica di uno stile ormai già compiuto e metabolizzato che oscilla tra la psicopatologia della vita quotidiana e la  teatralizzazione dell’«io». Fuori da ogni clichè, da ogni maniera e da ogni convenzione del linguaggio poetico di tipo «alto», come di quello di tipo «basso», proprio in questa medietà, in questa continua oscillazione tra autodemistificazione dell’«io» e demistificazione dei luoghi comuni degli «altri», dei poeti «maggiori» (Pecora, Erba, Gramigna, Malerba, Giuseppe Conte, Stefano Benni), in questa teatralizzazione, nel dialogo continuamente interrotto e ripreso, la poesia del poeta romano attinge i migliori risultati. Leopoldo Attolico si rivela per quello che è: un poeta post-lirico che non vuole rimanere intonso, che si macchia immergendosi nella realtà sofferta del comico, un poeta post-lirico che sliricizza lo stile, lo minimizza, lo prosaicizza, lo contamina e lo teatralizza, un poeta podista impegnato nell’inseguimento della post-poesia, notoriamente diretta verso il nulla e il vuoto, un poeta tartaruga che insegue la freccia dell’ignoto in mezzo al frastuono dell’inautenticità (propria e altrui).

 

 

la poesia deterritorializzata, l’anti-carnevalizzazione e il «discorso sulla menzogna»

Luca Benassi, Faraòn Meteosès (pseudonimo di Stefano Amorese), Daniele Santoro

 

In un mondo dominato dalla ideologia del progresso, in cui il passato viene rimosso e dimenticato, calpestato e ignorato, la poesia del Novecento ha replicato con l’assunzione di un particolare abbigliamento stilistico, una sorta di «spazio poetico» e con la teorizzazione della cosiddetta «funzione poetica», ovvero, con la scelta dell’opposizione e di uno sperimentalismo consapevole come opzione sostanzialmente antiprogressista e, paradossalmente, oltranzistica. L’avvento e l’invasione delle poetiche epigoniche, intendendo con tale termine le poetiche che non criticavano le fondamenta della divisione istituzionale dei linguaggi e delle rispettive competenze scientifiche e gnoseologiche, contribuiva a creare un’oggettiva difficoltà da parte della «nuova poesia» a percepire e intuire i nodi problematici entro i quali si era venuta ad incastrare la poesia di fine Novecento. Appariva così pienamente visibile, agli occhi dei critici più attenti e sensibili, quel fenomeno che è stato comunemente designato come esaurimento del canone novecentesco. La nuova poesia era così costretta a vestire i panni dell’orfana, di chi non ha più dietro di sé la sicurezza di un sistema consolidato di certezze stilistiche che per convenzione condivisa designiamo con il termine di «tradizione» o di «canone».

È ovvio che in un tale contesto culturale la risposta della «nuova poesia» non può essere che la simulazione della «povertà», o meglio, l’adozione di una appena dissimulata «povertà» stilistica e lessicale. Nessuna lucidatura dei mobili di arredo, una apparente trascuratezza e trasandatezza del mobilio e delle suppellettili è uno degli aspetti caratteristici di questo nuovo «dandysmo dell’invisibilità», L’autocancellazione della tradizione dalla poesia di un Luca Benassi (nato a Roma nel 1976), intende simulare la non-progettabilità della costruzione poetica a fronte della progettabilità del reale, intende anche dimostrare la propria sostanziale refrattarietà stilistica alla «stilizzazione» della tradizione e dell’Anti-tradizione, guardate come espressioni di quella ideologia del Progresso che ancora consentiva alla poesia un presunto angolo di «autenticità», una nicchia di «riconoscibilità» purchessia e obtorto collo. Luca Benassi prende atto, implicitamente, del processo di denegazione e di deterritorializzazione che ha colpito la poesia nelle nuove condizioni poste dalla società della circolazione delle merci, e reagisce, a suo modo e nell’ambito delle sue possibilità, con l’adozione di uno stile sostanzialmente refrattario alla lirica e con il trattamento di una tematica e di un’oggettistica prive di «interni», o meglio, con una poesia che predilige la rappresentazione di «interni» senza «interiorità», di «interni» atopici. Non a caso il libro di esordio di Luca Benassi si intitola Nei Margini della Storia (Novi Ligure, Joker, 2000), dove il trattamento stilistico, pur all’interno di ambivalenze ed incertezze, rivela una ricerca di depauperamento e di essenzialità lessicale. Con i successivi libri I fasti del grigio (Roma, Lepisma, 2005) e L’onore della polvere (Joker, 2009), la poesia di Luca Benassi compie un decisivo salto di qualità nella consapevolezza della propria direzione di ricerca ma al tempo stesso vi si rintraccia anche una esitazione o un’incertezza dinanzi alla dimensione della problematica che si profila; ecco spiegata quella riflessione esistenzialistica che contraddistingue il suo ultimo stile: il contrappunto diventa il leit motiv dominante, una sorta di scandaglio dialettico, una sorta di pendolo di Foucault del pensiero poetante, una sorta di corrispondenza tra l’io esperiente e l’io poetante: «C’è un tappo che non chiude /le ho provate tutte credo, forse è / una questione / di filettatura/ ma ogni giorno c’è quel tappo /che non tappa…».

Non siamo più nei margini della storia ma dentro il trionfo dei «fasti del grigio» nell’«onore della polvere», la zona grigia degli oggetti indifferenziati, poveri e post-sublimati che richiede uno stile plebeo e protocollare ad un tempo, una sorta di gergo burocratico e alto-plebeo, uno stile piccolo-borghese, «grigio» appunto. È diffuso un certo grigiore stilistico e lessicale, una derubricazione dello stile che costituisce una strategia di accerchiamento del non-stile, come se il discorso poetico fosse ormai un esito pre-scritto e si risolvesse in uno stile prescritto. Il tema dell’assedio affiora qui come un chiaro proclama di poetica e di impegno per una poesia militante, uno zoccolo duro sotto il quale non è più lecito retrocedere.

Approccio davvero originale questo libro di esordio di Daniele Santoro Diario del disertore alle Termopili (Salerno, Nuova Frontiera, 2007), poeta dell’ultima generazione, che suggerisce nuovi scenari possibili. È il punto di vista di un disertore dell’armata capeggiata dallo spartano Leonida. «Leonida ha sessant’anni, se ne fotte/ di quanti manda a morte, vuole farsi onore,/ ligio più alla sua gloria che alla polis». Il campo di battaglia sono le Termopili, valico della Grecia centrale, tra il golfo di Lamia e le propaggini del monte Kallidromo, nodo strategico di collegamento tra la Grecia settentrionale e meridionale, dove nel 480 a.C.. Quattordici composizioni stilate con un lessico sobrio e rapido, quasi una sorta di sbrigativi appunti presi da un soldato disertore che sa già come andrà a finire e che non ha alcuna voglia di farsi ammazzare per la gloria, rectius, per la gloria di Leonida. Mentre Leonida si erge a difensore della civiltà e della polis, il disertore sa già che si tratta di retorica, di parole buone per gabbare il consenso dei soldati, che per quei soldati non ci sarà scampo, dal momento che un traditore, «un tale della zona», ha venduto ai persiani la notizia del passo di Anopòia, un sentiero che, passando attraverso il monte Kallidromo, guidava alle Termopili permettendone l’aggiramento. I mille opliti della Focide che si erano offerti per la sorveglianza del passo, si sono fatti sorprendere e abbandonano il campo. Ora, il teatro della strage è tracciato. Non c’è dubbio che la battaglia delle Termopili sia la metafora di una condizione storica, sulla quale viene costruito per i secoli a venire il logos della menzogna: la storiella di pochi eroi che si oppongono ad un esercito sterminato che avanza. È chiaro che man mano che l’autore si addentra all’interno della metafora ideologica raccontata e tramandata dagli ideologi e dagli apologeti che, nel corso dei secoli, l’hanno presa per buona e l’hanno propugnata, viene progressivamente in luce il nocciolo della verità storica Le poesie che ci introducono dentro questo complesso problematico costituiscono dunque un vero e proprio discorso sulla verità. Viene qui capovolta brillantemente la tesi secondo cui l’accesso alla verità percorre soltanto le vie nobili ed austere della virtù. Le Termopili rappresentano ad un tempo la condizione esistenziale della nostra civiltà, di coloro che sono intrappolati dentro una gola di montagna e non hanno scampo. Possono solo combattere per l’onore e la gloria, parole piene di vuoto e di menzogna. Eccoli i soldati mandati allo sbaraglio da politici e condottieri senza scrupoli: «eccoli i popoli del terzo mondo, i barbari, /quelli che ignorano le nostre leggi, /accampano di là del valico che siamo qui /venuti (anzi ci hanno mandati) a presidiare, /sono a migliaia quelli del re serse /noi appena quattro gatti che aspettiamo /in massa rinforzi di alleati».

Così, un evento accaduto duemilacinquecento anni fa, assume per noi una importanza tutta particolare, viene rivitalizzato e restituito ad una nuova e più vera significazione. Per Daniele Santoro la poesia è una scoperta di significati, una sorta di sistema di indagine che consente il disvelamento di un nucleo significativo, un discorso sulla verità, occulta e occultata. Il punto di vista del «disertore» conferisce ai testi una sorprendente orientabilità di stilizzazione; il metodo di indagine apofantico consente uno stile mimetico e plastico di notevole forza che rivela un poeta certamente fra i più dotati dell’ultima generazione e un’operazione culturale che si distacca notevolmente dai linguaggi parnassiani nutriti di eudemonismo ed eurofilia degli impervi monologisti.

Il principio estetico centrale di Hegel, il bello come «apparire sensibile dell’idea», presuppone il concetto di idea come spirito assoluto. Il principio estetico di Faraòn Meteosès (pseudonimo di Stefano Amorese) è il bello come apparire sensibile della «fogna», presuppone la fogna come abito dello spirito assoluto della moderna società delle merci. La società delle merci è una gigantomachia che rappresenta se stessa, una rappresentazione dove c’è tutto e il contrario di tutto. Una rappresentazione che è anche una carnevalizzazione del reale, che a sua volta è una carnevalizzazione di se stessa. Faraòn Meteosès è un poeta della generazione dei quarantenni: è nato a Roma nel 1965, e Psicofantaossessioni (Faloppio, LietoColle, 2007) è il suo libro di esordio. La latitudine è importante perché soltanto in una metropoli sporcacciona e mediocre come la capitale, immersa nei suoi riti politici bizantini e sede della finta cattolicità della controriforma di massa, di una piccola borghesia ministerialborghese infingarda, poteva nascere un fungo letterario come Faraòn Meteosès, il cui nome già altisonante, ha qualcosa di arcaico-egizio e di onirico-derisorio, che già preannuncia nel nome l’imminente prolasso della fogna delle merci linguistiche con le parole di chiusura della raccolta: «Qui… nel supermarket».

Bachtin nel suo libro su Dostoevskij accenna alla categoria dell’«eccentrico» che pronuncia la «parola inopportuna». La «parola inopportuna» di Faraòn Meteosès si trova davanti alla problematica di dover operare una «carnevalizzazione» di un reale che è già carnevalizzazione di se stesso, di un reale che ha già abolito la  tradizione, di un «reale» per cui non c’è più luogo né modo di operare alcuna violazione della norma tradizionale per il semplice fatto che il tardo Moderno ha abolito il concetto di norma e la società delle merci linguistiche non è distinguibile in alcuna guisa dalla società delle merci di quel supermarket permanente che caratterizza il Moderno. Il poeta romano, con una sintesi poetico-estetica, ha compreso tutto ciò, e la sua «carnevalizzazione» è, al contempo, una anti-carnevalizzazione, e la «discesa culturale» di cui parla Bachtin è resa qui impossibile dall’oggettivo stato delle cose in sede filosofica ed estetica: la «carnevalizzazione» di Faraòn Meteosès non può operare alcuna «discesa culturale» né lessicale, né stilistica. Come il carnevale segna la sospensione delle norme che regolano il consorzio civile e inaugura, per usare le parole di Bachtin, una «vita all’incontrario», così la anti-carnevalizzazione di Faraòn Meteosès si riduce ad essere nient’altro che la lotta per la autoconservazione dell’io pura e semplice, autoconservazione che si esprime nella hilarotragoedia dell’io sballottato nel ribobolo, nei rigagnoli, nei rottami e nel lerciume lucidato che galleggia in quel supermarket permanente che è la situazione-base del tardo Moderno. Psicofantaossessioni costituisce, a mio avviso, il più drastico e spregiudicato attacco di un poeta alla modernità del conformismo carnevalizzato che costituisce la base, la trama e la filigrana della tarda modernità letteraria, dove la «parola inopportuna» di bachtiniana memoria si rivela essere una altezzosa attività di fiancheggiamento del conformismo delle classi intellettuali dirigenti. La parola di Faraòn Meteosès è invece quanto mai opportuna in un contesto letterario come quello italiano dove la quantità di conformismo degli istituti stilistici ha raggiunto livelli davvero inquietanti. Il poeta romano imbastisce così una batteria di armi leggere, di mitragliamenti e di fuochi di sbarramento da lasciare impressionati e interdetti: la più alta dose di micro-armi di distruzione in mano ad un incendiario della tempra di Faraòn Meteosès, a metà tra «Arconte e Rodomonte/ priapeo e clitorideo», è cosa che fa ben sperare per poter rompere quel guscio di conformismo letterario che detta da sempre le gerarchie e le primazie letterarie: «Adesso depotenziare il POTERE /sfiancarne i fianchi in liposuzione dei lacché /ago-aspirarne i sottomenti in lifting dei Visir /nei double-face dei Conformisti-Trasformisti”; /non dico mai la Verità, in dettatura, se non sotto tortura, /perché il mio congiuntivo è congiuntivite, il mio indicativo è un indizio auditivo, /è un congegno linguistico in uno… Yabadaba-duzzie /delle mie balbuzie…

Se il Novecento si era aperto con la carnevalizzazione de i Cavalli bianchi (1905) di Palazzeschi, si può affermare che si chiude con l’operazione di meta-carnevalizzazione Psicofantaossessioni di Faraòn Meteosès.

 

 

LA «NUOVA POESIA» MODERNISTA FEMMINILE

 

Pier Vincenzo Mengaldo in Poeti italiani del Novecento prendendo le mosse dalla riflessione sulla poesia di Amelia Rosselli, riferendosi alla poesia femminile della generazione seguente, scriveva che siamo di fronte ad «una scrittura, o piuttosto a una scrittura-parlato, intensamente informale in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione della lingua della poesia a lingua del privato». Questa intuizione si è rivelata azzeccata per quanto riguarda la poesia di Antonia Pozzi, Alda Merini, Cristina Campo e Helle Busacca, ma rischia di diventare imprecisa e addirittura fuorviante se la applichiamo alla poesia femminile delle generazioni successive, che ha ormai metabolizzato e interiorizzato la parificazione esistenziale e sociale con il rispettivo coté maschile. La generazione della poesia femminile degli anni novanta non  riscontra più il bisogno di analizzare le proprie introspezioni e le proprie inquietudini, sostanzialmente non dissimili dalle introspezioni e dalle problematiche che si rinvengono presso la coeva poesia maschile. Dalla lingua del privato la poesia femminile contemporanea si muoverà in direzione di una poesia concreto-astratta: sarà il trattamento dell’«oggetto» ad essere del tutto differente e la posizione dell’«io» poetico ad aver mutato il suo punto di vista e il suo luogo. Nel frattempo, la nuova poesia femminile ha visto radicalmente mutate le condizioni del fare poesia: si è completamente dissolta  la poesia di protesta e la problematica femminista della generazione immediatamente precedente. 

Nell’area della nuova poesia modernista una menzione particolare va dedicata ad alcune poetesse che hanno avuto il merito di aprire nuovi scenari alla poesia contemporanea, accantonando l’idea di una poesia al femminile, del quotidiano, di una poesia di mera protesta della condizione femminile: Giovanna Sicari con Decisioni (1986), Sigillo (1988), Uno stadio del respiro (1995) e Epoca immobile (2003), Maria Rosaria Madonna con l’unico libro pubblicato: Stige (1992), morta nel 2002, Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996), libro uscito postumo; Maria Marchesi, di cui ricordiamo i due volumi pubblicati: L’occhio dell’ala (2003) e Evitare il contatto con la luce (2005); Chiara Moimas con L’angelo della morte e altre poesie (2005); Lidia Are Caverni con Un giorno e poi (1985), Nautilus (1990), Il passo della dea (1999), L’anno del lupo (2006), Laura Canciani di cui ricordiamo L’aquila svolata (1983), Da questi occhi (1986), Il dono e la meraviglia (1989), Lo stesso angelo (1998); Maria Rita Bozzetti con Monade arroccata (2008); Rosita Copioli con Splendida lumina solis del 1979 e Furore delle rose del 1989. Con la terza raccolta, Elena, del 1996, il periodo di punta del movimento «mitomodernista» è già nella sua fase di naturale riflusso; con l’ultimo libro: Il postino fedele (2008) siamo già in una temperie modernista; Maria Consolo di cui ricordiamo: Da sola a solo (1998),  Coi macigni e l’erbe (2000), Dissonanze (2003), In queste stanze (2006); Anna Ventura con Nostra dea (2001) e Cinquanta poesie (2003); Maria Benedetta Cerro di cui ricordiamo Allegorie d’inverno (2003) e Regalità della luce (2009); Isabella Vincentini con Diario di bordo (1998) e Le ore e i giorni (2008), Daniela Marcheschi con Sul molo foraneo (1991), Maria Teresa Ciammaruconi con Donne madonne e santi (2007), Gabriella Sica con La famosa vita (1986), Poesie familiari (2001) e Le lacrime delle cose (2009) Lidia Gargiulo con Penelope classica e jazz (1994) e i segni di proserpina (2006) Giuseppina Amodei con Il poeta muore ogni sera (2007). Delle nuove generazioni segnaliamo senz’altro Elena Ribet con Diario dei quattro nomi (2005), Serena Maffìa con Il ragazzo di vetro (2005) e Manuela Bellodi con La prossima volta  (2008). 

 

 

la retro-rivoluzione del linguaggio poetico  

Helle Busacca

 

  Un autore centrale degli anni settanta è senza dubbio la siciliana (1915–1996) Helle Busacca, con la elitaria e fulminante trilogia in memoria del fratello «aldo» suicidatosi all’età di quarantaquattro anni: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980). È l’occasione per innalzare un possente e numinoso «parlato» sliricizzato, un canto di una moderna Antigone che piange di rabbia e di disperazione per il sacrificio del fratello innocente. Era dai tempi di Dino Campana che una poesia tanto potente e innocente non veniva pubblicata. Nella poesia di Helle Busacca sia la tradizione che il moderno convivono senza collidere. Ed è questo il segreto della profonda suggestione che la lettura della sua opera maggiore produce nel lettore. Ed anche il profondo senso di meraviglia dinanzi all’impiego di un vocabolario pre-tecnologico del moderno entro la sintassi dell’iconologia dell’antico. Per usare un’altra terminologia, le forme simboliche della tradizione sono qui  svestite e rivestite con i panni di un monologo retrospettivo e introspettivo. Con la poesia di Helle Busacca siamo davanti ad una vera e propria retro-rivoluzione del linguaggio poetico del tardo Novecento: il primo caso di una poesia di stampo modernista. Un percorso tutto singolare e lontano dalle strategie poetiche che in quegli anni si stavano confezionando a Roma e a Milano. La trilogia della Busacca è la poesia più forte e autentica di quegli anni; lei guarda soltanto il suo tavolino e suo fratello morto e redige un lungo requiem pieno di rabbia repressa e di impotenza e di iperboli e di insulti contro «i neanderthals d’italia».

  Helle Busacca nasce a Sampietro Patti nel 1915 e muore a Firenze nel 1996. Ecco brevemente le sue pubblicazioni di poesia: Giuoco nella memoria (1949), Ritmi (1965), I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), Il libro del risucchio (1990), Il libro delle ombre cinesi (1990), Pene di amor perdute (1994). Nel 1997 appare la raccolta postuma Ottovolante, a cura di Idolina Landolfi. Nel 1972 Helle Busacca stampa, a sue spese, presso la tipografia S.E.T.I. di Roma I quanti del suicidio. 335 pagine fitte, intense, martellanti, ossessivamente imperniate sul tema del suicidio del fratello Aldo, avvenuto l’11 luglio 1965. C’è una prosa di Montale che allude a Helle Busacca come di un uccello un po’ esotico, un uccellaccio scontroso, in una prosa della Farfalla di Dinard, del 1956, dal titolo «La Busacca».

Nella raccolta uscita postuma nel 1997, Ottovolante, c’è una poesia dal titolo «Manoscritti», dove l’autrice parla di se stessa trent’anni prima come se si trattasse di un’altra persona o di una mummia. È la presa d’atto dell’inesistenza del fatto letteratura nelle nuove condizioni del tardo moderno: «Leggo. Mi fanno male gli occhi / anche con gli occhiali. La cateratta / e la vecchiaia, l’operazione / per carcinoma e l’infarto / karma per un fratello assassino…/…/ Leggo i diari di Helle Busacca, / di qualcuno che esisteva forse / cinquanta o sessanta anni fa / una storia storia – favola di qualcuno / che ora non conosco né conobbi mai / la storia di un’estranea come leggerei / una storia di Dostoevskij o di Victor Hugo / leggo una storia come di qualcuno / che è stato inventato / e che a cercarlo non c’è».

I quanti del suicidio, con I quanti del karma e Niente poesie da Babele, formano la ormai leggendaria ed elitaria trilogia dei «Quanti». Leggendaria ed elitaria visto il numero sempre più ristretto di ammiratori della poesia di Helle Busacca. Trilogia stilisticamente compatta, caratterizzata da un discorso lirico incentrato sull’uso di un «parlato» straordinariamente intenso e vero, tanto più vero e autentico se lo paragoniamo alle coeve esperienze della poesia femminile di impianto neocrepuscolare, o alla asimmetria del «parlato basso» di un Giovanni Giudici. Un «parlato» caratterizzato dallo scorrimento impetuoso del magma espressivo: incandescente, travolgente ed irregolare come una colata lavica. Gli ultimi due libri degli anni settanta presentano delle pause liriche, visioni di paesaggi, intermezzi del «parlato» che rivelano la lenta assimilazione del lutto del fratello «aldo». Martellante, percussivo, asfissiante, il discorso sulla morte del fratello si converte in un discorso poetico incentrato, come in una tragedia greca, sulla morte di un eroe che ha combattuto contro forze soverchianti, fino a rasentare, in alcune parti, la veemenza di un coro tragico: si alternano vaneggiamenti, affabulazioni, interrogazioni in un verso irregolare, umorale, ritmicissimo, sensibilissimo come un sismografo, un verso che segue l’impulso aritmico dei nervi e del cuore. Undici anni di creazione ininterrotta, dal primo libro della trilogia all’ultimo. Una impresa impossibile: costruire un epicedio delle dimensioni di una cattedrale romanica, una cattedrale senza dio, senza nessuna illusione. Una cattedrale nera. Ecco una poesia significativa  tratta da Niente poesie da Babele (1980): «volevo narrare tante storie / e forse non ne narrerò più nessuna / “… questa nota è per dire che un sistema / non può indefinitamente cedere energie all’esterno / senza venire distrutto,”… // Volevo parlare di tante cose / quando avevo vent’anni, un giorno, / quando avrò un tempo tutto mio… / volevo raccontare la nostra storia / (come, illusa, se a qualcuno gliene importasse) / la nostra storia che era quella dell’anima, undici anni fa, e anche dopo… e… “un sistema / non può indefinitamente cedere energie all’esterno/ senza venire distrutto”… / e una sagoma, (… sono già vecchio…) anche se persiste, ad un certo punto / non è se non il guscio vuoto / e calcinato delle lumache d’inverno nel fuoco del luglio / sotto gli ulivi del nonno. // Undici anni. Ma è possibile? Te li conti / sulle dita, e quegli altri in cui non ti trovi, / che anni erano? Che facevo, che pensavo, allora? / Io? che storia c’era da scrivere, e c’è, una storia?»

 

 

la koiné espressionistica della posizione monadologica

Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi

 

L’importanza della poesia di Maria Rosaria Madonna (nata a Palermo nel 1949 e morta a Parigi nel 2002), della quale è apparsa soltanto la raccolta Stige (Roma, Scettro del Re, 1992, altre poesie postume sono state pubblicate nel numero 34/35 di «Poiesis» nel 2006), la possiamo apprezzare adeguatamente se la consideriamo come spartiacque della poesia monadologica, erede ad un tempo della tradizione modernista e della tradizione dell’anti-tradizione del post-sperimentalismo. Nella poesia di Madonna le due tradizioni vengono a fondersi in una koiné originalissima, uno pseudolatino «davvero originale e ispirato» come scrive Amelia Rosselli nella prefazione al volume. Già nel 1992 nella nota in premessa al volume, parlavo di «impressionismo degli elementi astratti», con una vigorosa opera di sfrondamento di tutto ciò che è realtà empirica, una sottrazione di ogni realtà individuale-esistenziale. Leggendo queste poesie noi non ci chiediamo il perché della sofferenza, non ci importa, godiamo soltanto dei paesaggi astratti, degli accadimenti stilizzati. La materia della vita è stata interamente plasmata dal processo di stilizzazione, di distillazione. Il pubblico al quale questa sottile lirica si riferisce è un pubblico astratto, verosimilmente inesistente, un pubblico dal quale è scomparso il bisogno di interrogarsi sugli avvenimenti della lirica, forse per eccesso di sangue, per eccesso di realtà, per eccesso di potenza dei nostri organi ricettivi, così che non siamo più in grado di recepire le onde hertziane come i raggi ultravioletti. L’essenza di questa come della nuova lirica sembra essere la prevalenza del fuggevole sul durevole, dell’effimero sullo stabile… è una poesia che accoglie il silenzio come unica condizione di esistenza, una poesia che non tende all’autenticità, ormai dissolta nel mondo ed inutilizzabile al pari di un reperto di ingegneria del neolitico.

L’aspetto profondamente innovativo è nell’aver ideato una combustione a caldo di una linguisticità artificiale  e nella velocità iperbolica delle connessioni lessematiche e fonologiche, tale da renderci una poesia  ad altissima tensione metaforica e iperbolica, una esperienza linguistico-emotiva assolutamente singolare ed originale nel panorama della poesia italiana contemporanea. Da Stige:

 

Veniat sua jurisdictione terribilis

Supra mea culpa tollita, veniat

Sua maledictione supra mea carne bollita,

veniat Arcangelo superno supra mea

jocundissima ferita, veniat mea glabra

infernalia supra infermità condita,

veniat mea liquidissima suspicione

supra intenzione amarissima, veniat

asprissima dipartita post meo iocundo

delitto.

 

*

 

Si cum tuo licore nel mio core

versato, si cum tuo livore sul mio

onore posato, si cum tuo stiletto in mio

diletto infernato, si cum tua malia

in mia regalia instanato, si cum mea

trebile ardua Canossa supra tue

ossa annerato, sic transeat mea amaritudo.

Interceda tunc lux sancta et benefica

affinché lo mattino more ustorio

vampa infuocata discacci l’ombra

e mora lo demonio dello inferno!

io sempiterno dolzore amo e rinsavisco

e marcisco e porto lo crocefisso sulle spalle

leggero come l’albero di betulla 

 

Maria Marchesi pubblica il primo libro nel 2003, L’occhio dell’ala e, nel 2005, il secondo libro, Evitare il contatto con la luce (Lepisma, Roma), su una brillante intuizione critica di Dante Maffìa. La poesia della Marchesi  può essere considerata come uno dei massimi esiti della poesia modernista degli ultimi dieci anni; in essa viene portato a compimento e alla sua massima potenza connotativa il sotto genere della «poesia-confessione» inaugurato da Amelia Rosselli con La libellula. Poesia tutta incentrata sulla potenza denotativa del frammento, e quest’ultimo sulla potenza connotativa della metafora. Poesia che deriva da una sostanza esistenziale infiammabile e che unisce una grande potenza denotativa a una straordinaria capacità affabulatoria. Il suo cosmo poetico è caratterizzato da velocissimi cortocircuiti ideativi e da una micidiale abilità metaforica: una forza vitale dirompente ad altissimo consumo di combustibile che diventa magma metaforico, liquame della cloaca, tambureggianti percussioni denotative con rapidissime accelerazioni iperbolico-metaforiche, un lessico di straordinaria potenza denotativa che diventa urticante melanoma linguistico; una forza vitale dirompente pagata a caro prezzo dalla poetessa romana: i suoi trentennali ricoveri ospedalieri in reparti psichiatrici lo stanno a testimoniare. Sul tessuto di un discorso poetico emancipato alla luce della più attenta poesia europea, la Marchesi spezza il chiuso reliquiario delle tematiche femminili della poesia degli anni settanta e ottanta caratterizzate dall’ingresso massiccio del «personale». C’è una sofisticatissima stilizzazione di quelle situazioni private che nella sua poesia attingono la sfera dell’universale e della generalità; con il secondo libro la Marchesi ha saputo innestare la potenza di un parlato personalissimo, fitto di espressioni prosaiche, basso-plebee e alto-intellettuali, afferenti la sfera sessuale, lo stadio della cloaca: un monologo polifonico, un polinomio frastico ad altissima quantità di combustibile stilistico che riesce a conglobare e a fondere l’alto e il basso, l’osceno e il sublime, il fetido e il repellente, la «cloaca» e l’empireo, il regale e il letamaio con tutto ciò che c’è di umano nella dimensione della «fogna», riuscendo a coniugare la velocità dei cortocircuiti ideativi e metaforici alla potenza connotativa del discorso monodico e polifonico. Personalità davvero scomoda e intrattabile, aliena da qualsiasi forma di presenzialismo, nel 2004 si rifiuta di recarsi a ritirare il premio Viareggio che le era stato conferito, così come si è sempre rifiutata di apparire in letture pubbliche e/o private. Poesia modernissima: poesia monadologica che si apre alla spersonalizzazione dell’io e alla moltiplicazione dei punti di vista e dei personaggi; sistematicamente adagiata sul pedale basso di un parlato intellettuale-plebeo, la poesia della Marchesi, strutturata su un sistema paratattico e su un asintatticismo di fondo che aderisce perfettamente al magma emotivo sottostante, si impenna con improvvise e fulminanti intuizioni metaforiche e iperboliche. In specie, la prima raccolta appare incentrata sulla sostanza sulfurea e altamente tossica del lessico-liquame e delle trovate metaforiche; nella seconda, la materia infiammabile e sulfurea si è come attutita e assopita, subentra un ampliamento delle tematiche e dell’oggettistica «interna», la imagery diventa meno truculenta e sulfurea ma non per questo meno efficace. Le composizioni finali di Evitare il contatto con la luce (2005), valgono da sole l’ingresso in qualsiasi antologia della «nuova poesia» contemporanea: sono «Silvia», «Beatrice», «Laura», «Tutti dicono», parlano le donne dei grandi poeti che raccontano la loro verità, o meglio, l’altra faccia della verità, la  verità impronunciabile, il lato oscuro-femminile della verità. Ecco l’inizio della poesia «Silvia», la giovane ragazza scrive al conte Giacomo: 

«Conte Giacomo, /la vostra lettera è un tamburo /che mi sconquassa l’anima. Se vostro padre /e mio padre sapessero! In nome di dio, /perché dite che i fiori del giardino /diventeranno neri e sulla campagna /scenderanno i corvi? Io menzogne /non ne ho mai coltivate; /mi ardono corpo e testa, aghi /mi trafiggono, potrei solo sfiorare /le vostre guance e consolarvi /come una sorella. La sera guardo /la vostra finestra, prego /che i sogni vi allietino. Oh, no! /Sono una serva e so appena decifrare /l’alfabeto e voi siete un uomo /che ha letto tanti libri. Tempo sprecato, /dicono i maligni; io credo invece /che nei libri c’è nascosto dio. /Perché volete incontrarmi /nel bosco oltre la siepe? /Non sta bene, è peccato. /Perdonate il rifiuto, no, non posso. /Poi non saprei che dire al confessore. //Conte Giacomo, sono una serva /e uno come voi /non può innamorarsi /di una come me…» (da Evitare il contatto con la luce).

 

 

l’illuminismo stilistico e  la poesia tra prosaicizzazione e  stile alto-numinoso

Giorgia Stecher, Chiara Moimas

 

Giorgia Stecher è nata a Messina nel 1944 da una famiglia di origine svizzera ed è morta nel 1997. La genealogia è una sorta di carta di identità, e se ragioniamo sul suo stemma gentilizio troveremo accanto ad un lessico asciutto e referenziale, uno stile di squisita fattura modernista di stampo mediterraneo. Nella sua poesia la civiltà del mediterraneo si innesta nel solco di un severo spirito pragmatista di origine prealpina, dove l’antico calvinismo familiare si è dissolto nella filigrana di una sicilianità tutta insulare, dove emerge a tutto tondo il profilo di una borghesia insulare a cavallo tra le due guerre. In poesia Giorgia Stecher pubblica Dialoghi e soliloqui (Firenze, 1978), Qualcosa di sbagliato (Palermo, Il Vertice, 1981), Non la terra (Palermo, Il Vertice,1983), Quale Nobel bettina (Palermo, Il Vertice, 1986), Album (Palermo, Il Vertice, 1991), e infine, Altre Foto per Album (Roma, Scettro del Re, 1997), che rappresenta la chiusura e la definitiva maturazione stilistica della poesia di Giorgia Stecher. In particolare, con i due ultimi libri, di cui Altre Foto per Album è una edizione più ampia e selezionata della precedente, la poesia monadologica si apre alla molteplicità dei personaggi, ed anche la composizione armonica e tonale dello stile ne risulta avvantaggiata. L’occasione è fornita dalla rivisitazione di un album di fotografie di famiglia: improvvisamente, tornano per un attimo alla luce i volti e i destini dei personaggi. Come scrivevo nella postfazione: «la vita (che) si è trasformata in una successione atemporale di chocs, separati da intervalli paralizzati, viene ricondotta in vita a far luogo dagli chocs dei flash della macchina fotografica che restituisce tempo al Tempo estraniato. Nella deriva del Tempo la Stecher arresta e ricostruisce l’attimo e la temporalità, i destini individuali e collettivi. La verità si staglia non alla luce del sole ma alla luce del flash. Nell’epoca del televisore e del telecomando, è la foto ingiallita del tempo che rivela il mondo. E già in questa utilizzazione e retrospezione di una tecnologia arcaica si può desumere la spia della menzogna che la tecnologia miniaturizzata e computerizzata reca in sé come profondamente ostile all’arte. La profonda affinità spirituale tra l’economia politica e la tecnologia computerizzata, rivela il carattere apologetico di tutte quelle espressioni artistiche che speculano sul concetto di «tecnologia». Come scrive Adorno «non si dà vera vita nella falsa», l’autenticità della posizione estetica è sempre sull’orlo di perire, infirmata dall’inautenticità della prassi universale.

Finché l’arte possiede qualcosa, essa lo reclama sottraendolo furtivamente alla reificazione dominante dei rapporti di produzione come dei rapporti stilistici; essa sottolinea come la vita privata non ci appartenga più, nella misura in cui altro non è che una sommatoria di perdite, catalogo di occasioni mancate, rimpianto del non-essere… così la sovrana ironia del poeta è l’ironia di chi non è più un “piccolo mondo antico” caduto sotto l’obblivione della prassi tecnico-scientifica. La nuova modernità scaccia l’arcaica».

Quello che risalta è l’effetto linguistico distanziante tra l’arcaico (rievocato) ed il nuovo (revocato), dove l’ironia della Stecher si rivela essere il faro della coscienza riflessa sul nulla. L’idea di un genere si fa strada allorquando è completa la padronanza di uno stile. È lo stile che genera l’idea non viceversa. Giorgia Stecher prende l’abbrivio nell’istante in cui il flash ha colto i personaggi raggelati dinanzi all’obiettivo, «una fetta cospicua di minieternità». Nella «cineteca del ricordo» il poeta afferra il «dignitoso commiato di un’epoca». Leggiamo la poesia «Zia Carmela» da Altre Foto per Album: «Dunque Carmela amava Salvatore e Salvatore /Carmela ma i genitori opposero un diniego /grande quanto la palazzata alla marina. /Ma questa poi crollò col terremoto giammai /il diniego che li vide persi, persi e dispersi /in divergenti strade sepolti sotto le pietre /del rimpianto. Storie datate novecentosette /da noi lontane anni luce come del resto tu /nella tua posa la testa reclinata sulla spalla /gli occhi sgranati a chiedere ragione».

Nel 1989 Chiara Moimas (nata a Ronchi dei Legionari nel 1953) pubblica il libro di esordio Metamorfosi: donna, ma è soltanto con L’Angelo della Morte e altre poesie (Roma, Scettro del Re, 2005) che l’autrice giunge alla piena maturità stilistica,  al giro di boa; là dove la poesia del minimalismo era giunta all’appiattimento cronachistico e  a un linguaggio paragiornalistico, quest’opera ristabilisce, per così dire, uno spartiacque, una netta distinzione tra il nuovo linguaggio poetico e i linguaggi poetici che eleggono il quotidiano quale unico parametro di riferimento. La vera scriminante di questa poesia è dunque fornita dalla sua impermeabilità formale e stilistica alla penetrazione osmotica dello stile demotico e della prosaicizzazione dello stile paragiornalistico, ristabilisce e delimita i rispettivi demanii perimentrandone la rispettiva eteronomia. Da questo momento in poi è chiaro che l’orientamento della «nuova poesia» sarà quello di proseguire la risalita dal pedale basso al pedale alto, individuare una koinè intermedia che sposti il baricentro della costruzione simbolica del discorso poetico, nonché costruire una «tematica» «nuova» con un corrispettivo linguaggio poetico. La poesia della Moimas prende le mosse dalla riflessione sulla Storia e sul quotidiano, posizioni entrambe equivalenti e comunicanti alla guisa di vasi comunicanti stilistici, dove lo stile «alto-numinoso» e una koinè linguistica alto-borghese vengono impiegati per lo svolgimento del «nuovo» discorso poetico. Nella visione della «nuova poesia» l’ironia, vista come proiezione della posizione soggettiva, viene definitivamente bandita ed eliminata dal linguaggio poetico con un recupero della «visione tragica», con la consapevolezza della problematicità della sopravvivenza del discorso poetico nelle nuove condizioni poste dalla globalizzazione linguistica. 

Se il problema di molta poesia contemporanea era quello di adeguarsi passivamente alle istanze di penetrazione osmotica del quotidiano e del cronachistico nel discorso poetico, la Moimas imbocca con decisione la via diametralmente opposta: il «nuovo» discorso poetico dovrà porsi come filtro ontologico e stilistico ad ogni istanza di penetrazione osmotica e demotica o di invasione invasiva del quotidiano cronachistico. La questione della delimitazione e della circoscrizione del «nuovo» discorso poetico era implicitamente risolta dalla Moimas nell’atto medesimo della adozione del suo stile alto-numinoso e alto-borghese, dove la scabrosità del lessico ben si coniuga ad un essenzialismo simbolico: «Quale volto nasconde tra le pieghe del marmo /gonfie d’un alito che nessuno respira /quale terrore cela nelle orbite vuote. /Al crepuscolo dell’estrema navata /il suo stare non dice se vola o se plana /o se il volo trattiene e la quota /sul confine dell’orrido che forse lui vede. /non traspare lo slancio di femori e tibie /né si coglie lo scatto nello spento baleno. /Come trama leggera il costato si espone /alla lancia che passa e non figge; /gabbia per anime furibonde /che premono agli orifizi /per tumultuosi pensieri…» (da L’Angelo della Morte e altre poesie).

 

 

la poesia tra disumanizzazione e sublimazione 

Lidia Are Caverni, Laura Canciani, Maria Rita Bozzetti

 

Lidia Are Caverni con L’anno del lupo (2006) è giunta al nono libro di poesia Un giorno e poi…  (1985), Nautilus (1990), Il nido della termite (1991), Il passo della dea  (1999), Fabulae linguarum (2000), Il giorno di Ognissanti  (2002), Il volo della farfalla  (2003), e Le montagne di fuoco (2005). Tutta fondata sulla ragione astratta, la poesia della Are Caverni si rivolge ad un interlocutore astratto. Non quindi poesia dell’anima, con il corollario dell’anima come tavolozza di colori che attende la convocazione del poeta, non poesia dell’io ipertrofico, con conseguente retorizzazione dell’eloquio fàtico come accade nella poesia femminile più azzimata. Poesia squisitamente fàtica questa della poetessa veneziana, logos che parla seguendo l’istituto della traslatio e del parallelismo: perché il senso è sempre altrove, e il senso di una parola è destinato ad abitare la parola seguente come in un meccano di scatole cinesi all’incontrario, dove l’inseguimento del senso si espande all’infinito, lungo la linea retta della diaspora semantica e segnica, procedimento questo che contrassegna lo spartiacque di un importante segmento della poesia contemporanea che già nel 1995 denominavo «Nuova Poesia Metafisica». Oggi, a distanza di due lustri, mi accorgo che quella definizione coglieva nel segno. 

Poesia che elegge la forma ellittica del traslato quale momento retorico centrale del suo stile. La poesia di Lidia Are Caverni compie così il giro di boa della migrazione: dalla lingua «post-edenica», dall’epoca dell’innocenza a quella del «lupo», passando, o meglio trasmigrando, attraverso l’era della Storia inadempiuta, dove il nesso delitto-castigo celebra il proprio rigoglio nella parola abitata dalla inautenticità. La parola poetica sa di non essere più abitabile dall’autenticità e la sconta con la disappartenenza e la disparizione. Invisibile a se stessa è la poesia di Lidia Are Caverni. In un certo senso, non v’è poesia senza stupro originario, e che si tratti di stupro e di offesa arrecatale appare qui assolutamente inoppugnabile: la poesia medita sulla propria intimità deturpata: ordalia, controcanto del proprio impossibile canto. Poesia che incede con la grazia e la composta eleganza di un felino che tenda l’agguato alla preda. O della preda che tenda la trappola al segugio. Nel declivio della gentilezza di questa poesia c’è come una «disappartenenza», una «disumanizzazione» che la travalica e la tradisce, la consegna all’agguato del lettore. A rigore, non c’è messaggio senza differenza, senza uno iatus tra emittente e ricevente, senza l’alienazione della «disappartenenza» e della «disumanizzazione». Il sistema poetico «a commutatore aperto», come lo definisce Walter Nesti nella prefazione al volume, costituisce un segnale semaforico della «crudeltà» della labirintite sintattico-semantica che attinge il discorso poetico di Lidia Are Caverni, come se un retrovirus mutante si fosse insinuato all’interno dei gangli e degli snodi sintattici facendone saltare le connessioni interne e i cortocircuiti. L’aerea leggerezza del discorso poetico costituisce appunto lo stigma di questa affezione, di questa effrazione mercé la circolarità all’aria aperta dell’edificio linguistico, come un colosseo di parole convesse e complanari. L’aerea leggerezza del discorso poetico consegue dalla «compiuta peccaminosità» dell’atto poetico e quindi dalla sua impossibilità di porsi come veicolo di una «verità» che abiti un enunciato, tantomeno una «verità» che abiti un enunciato poetico: «Sono sempre stata così ritrosa/selvatica come una capra/che partorisce fra l’erba/al riparo del lupo così/ho partorito io senza che nessuno/che mi dicesse sola con la mia/ paura il mio gonfio ventre» (da L’anno del lupo).

Con Il volo della farfalla (2003). Intorno al metro-base dell’endecasillabo si svolge la progressione metrico-timbrica, spesso eccedente fino a due unità sonore, fino a un endecasillabo ipermetro o a un dodecasillabo tonicamente accentato sull’ultima sillaba. Potrebbe sembrare un esercizio retorico questa severa utilizzazione di un «traliccio» metrico e timbrico, ciò che invece qui costituisce un elemento di stabilità e di uniformità tonale e semantica e un valore aggiunto di consapevolezza stilistica. Pur importante, non è l’aspetto tecnico della versificazione di Lidia Are Caverni l’aspetto prioritario, altrettanto importante è il ritorno dell’aura del paesaggio che questa poesia ricerca (ciò che non significa una poesia modellata soltanto sul pointillisme paesaggistico o sullo svolgimento retinico delle immagini campestri); qui non v’è traccia di «ruralità», non c’è una iconizzazione della campagna né è acclamato un ritorno al rurale visto come ripiego e rifugio dal clamore della città, non è questo il punto, non si tratta di una primogenitura della campagna rispetto alla città, e neanche della iconizzazione mitica della natura naturata, quanto piuttosto di una «natura» in un rapporto di estraneità rispetto alla civilizzazione urbana. L’adozione del pedale basso installa un soprasegno, un supersegmento semantico: «Il cigno bianco temeva il gelo /il laccio che chiudeva la gola /l’agguato che generava la morte /il ghiaccio disegnava contorni /da cui non si poteva uscire uccelli /giravano intorno aspettando /che splendesse la fiamma dell’ultimo /falò la notte incombeva lucida /di stelle e l’erba gemeva /nell’agonia dell’ultimo inverno».

Polarità simboliche primordiali convivono e collidono entro una comune cornice referenziale. Nella poesia dianzi citata si può notare come si giustappongano e pervengano ad omogeneità opposte bonarietà: da un lato, la polarità «fredda»: «cigno-gelo-ghiaccio-uccelli-stelle»; dall’altro, la polarità «calda»: «gola-agguato-morte-fiamma-falò-agonia-inverno». Il tutto in un ordito lessicale e sintattico morbido e fluido sottoposto ad una sorvegliatissima vigilanza timbrica, tonica e semantica. 

Laura Canciani è nata a Cermes (Bolzano, nel 1934). Le sue radici profonde sono friulane ma vive a Roma. Ha pubblicato L’aquila svolata (Roma, Forum,1983), Da questi occhi (Roma, Il Ventaglio, 1986), Il dono e la meraviglia (Montebelluna, Amadeus, 1989), Un bouquet d’ombre (Firenze, Biblioteca cominiana, 1994), Lo stesso Angelo (Roma, Fermenti, 1998),  Aperta all'infinito (Firenze, Biblioteca cominiana, 1998), Reato di parola (Lecce, Manni, 2004) e Il contagio dell’acqua (Firenze, Passigli, 2010). La poetica di Laura Canciani è una poetica del sublime, cioè un movimento ascensionale verso l'infinito ed un ritorno (epistrophé) verso la patria d’origine. L’Uno, in termini plotiniani. L’inintellegibile è la categoria fondante della sua poetica, e il «sacrificio» ne è la conseguenza sul piano etico della prassi. La cattolica Laura Canciani è forse l’unica poetessa del tardo Novecento che sia riuscita a narrare la storia profana del suo «dio», con uno stile impuro e verginale ad un tempo. Il lato virgineo della sua poesia è soltanto l’altra faccia della medaglia della castità stilistica, quella particolare clausura stilistica che deriva da un atto forzoso di rimozione e di autocensura. La parola poetica della Canciani reca ad un tempo la macchia e il nitore del suo travaglio stilistico, rammenta lo scacco di una perdita primigenia, di un peccato originale della parola poetica In questa poesia l’unità del mondo sensibile riceve luce dall’unità del mondo inintellegibile. Dall’origine verginale dell’età dell’innocenza, la parola poetica della Canciani consegue una serie successiva di decadimenti e corrompimenti. È chiaro che una tale impostazione di poetica proietta questa poesia più su un versante metafisico che non su quello tradizionalmente orfico, tipico della poesia degli anni Ottanta. Ed è proprio questa posizione di poetica che ha reso possibile l’acutissimo sguardo degli haiku: Un bouquet d'ombre (1994). Che una metafisica della luce conduca poi ad un elogio dell’ombra, questo rappresenta un nodo teologico ed estetico che non può essere affrontato in questa sede. E comunque, non ci sono dubbi che si tratta di una poesia altamente significativa per la ricerca di «iconizzazione» che la investe, per l’alta qualità della sua stilizzazione, per la «soglia sottratta», il «dolore elidente», «la ferita ventata» da cui scaturisce.

La struttura molecolare della poesia della Canciani è fitta di sospensioni e di deviazioni, di apparenti incertezze, di diversioni, di inciampi semaforici, sintattici e semantici; gli aggettivi non seguono mai i sostantivi, non li sostengono secondo una docile significazione ma si presentano sghembi, obliqui, di traverso, come lame taglienti, come per contrassegnare una impossibile coesistenza degli opposti: della substantia e della quidditas, come repentini squarci di luce fendente nella nebbia e nei rapimenti di una controllatissima estasi. Improvvise accelerazioni si susseguono a brusche frenate. La poesia della Canciani si presenta così, come un corpo martoriato, solcato ed attraversato da ferite e da suture, da strappi, drappi e da inconsueti riallineamenti semantici. La stessa capacità oculare viene come lesa, colpita dal tabù della nominazione e la parola poetica che ne scaturisce, nasce alterata, deturpata, adulterata e, nello stesso tempo, castissima, seppur violentata dall'impossibilità di raggiungere la quiete e l’appagamento del Logos. Leggiamo una poesia dal titolo significativo: «L’occhio sfregiato»: «L'occhio calante del cigno /evaporò nella seduzione /della quieta pupilla /in ombra /e chiese che cerchi? /Cerco la luce /disse il dèmone».

È una poesia frutto di una spietata severità, simile alla cristallica perfezione della perla, che coglie segmenti di bagliori, frazioni di attimi. Il tempo della poesia si consuma nella durata del batticiglio del «cigno» del primo verso e si esaurisce nel finale dei due brevissimi con la geniale comparsa del «dèmone». La composizione corre velocissima dal primo verso fino al quarto, in progressione ritmica e con versi sempre più brevi. Il quinto verso interlinea una sospensione dubitativa, una interrogazione metafisica. In questa come in tutte le poesie della Canciani non vi sono suture ma soltanto fratture, abissi tra un verso e l’altro e, spesso, tra una parola e l’altra. L’aspirazione all’armonia come aspirazione all’infinito - tematica centrale nella Canciani - rimarrà frustrata ma non per una insufficienza del poeta, quanto per una presupposizione di poetica. La poesia della Canciani tende all’armonia nella stessa misura e con la stessa forza dirompente con la quale tende alla dis-armonia. C’è una forza distruttrice che procede parallela alla forza construens. Non è un caso che questa poesia che aspira all’infinito ed alla luce, sia in realtà così ricca e fitta e costipata di ombre. L’oscurità di questa poesia non è mai programmatica, non siamo mai davanti ad una poetica di tipo orfico o ctonio (non c'è qui alcuna «stazione» mitica), quanto invece dinanzi ad una poetica del conflitto tra luce ed ombra, tra aspirazione all’alto e frustrazione, spinta verso il basso, tra impulso insurrezionale dell’emozione e rimozione.

L’opera di Maria Rita Bozzetti si presenta, fin dalle prime raccolte (Polvere di giorni – 1992, Canta l’eterno presente - 1996  e Il Dio che non parla – 2002), come una traduzione del discorso sacro nella laicità del discorso poetico, un discorso «interrotto» e subito ripreso sulla presenza del messaggio evangelico nel tempo della scomparsa del divino. Un percorso assolutamente singolare di costruzione di una spiritualità stilistica ottenuta senza l’ausilio di alcuna stilizzazione, tantomeno di alcuna metaforizzazione prestabilita, che è proseguita con Nell’ozio delle erbacce (2004), Segmenti ex temporanei (2006) e Monade arroccata (2008). Con le parole di uno dei suoi esegeti più intelligenti, Donato Valli, la poesia della Bozzetti costituisce una riflessione su «il deragliamento costante della condotta del mondo», ovvero, in altri termini, uno dei risultati più sorprendenti in poesia di quel fenomeno epocale che va sotto il nome di «oblio dell’essere», una riflessione, in poesia, sul percorso dall’assenza all’essenza, ma è anche un prezioso documento per poter ricostruire, ex post, la geografia della poesia dagli anni novanta ai giorni nostri. La poesia della Bozzetti risolve a suo modo le problematiche che stanno al fondo della crisi della forma lirica mediante l’adozione di un discorso poetico mondano integralmente laicizzato. Posto che la poesia è tradimento di una tradizione, anche il suo percorso poetico sarà la traduzione di un «tradimento», meditazione che si appropria dell’istituto della variatio per svilupparsi seguendo una logica analogica e secondo una struttura retorica dello stile che corrisponda a quella premessa, diciamo, ideologica. Le figure retoriche della ripetizione, dell’elencazione, della variazione, della metafora referenziale, della inerenza denotativa svolgono un ruolo assolutamente preponderante accanto e a lato della digressione e del «ritorno»; i verbi sono spesso risolti all’infinito e al riflessivo, come azioni che avvengano all’insaputa e contro le attese del soggetto, il quale è partecipe di un generale moto di dissoluzione e di deragliamento. Lo stile non può che registrare questo «tradimento», attraverso la «rinuncia alla tradizione apollinea», per dirla con le parole di Donato Valli, una sorta di procedura a freddo, una fusione a freddo di materiali freddi, gelatinosi, di un sostrato «numinoso». La parola poetica si fa veicolo del verbo del Cristo. Monade arroccata (2008) è una singolare meditazione poetica a latere del Vangelo di Giovanni e sul Qohèlet. Operazione tipicamente post-moderna: il messaggio dei messaggi, il verbo divino diventa a sua volta oggetto del messaggio poetico. Prosaicizzazione del «divino» in chiave affatto demotico-populistica, né stilistico-olistica, la poesia della Bozzetti è una rilettura e uno scavare, con la sonda del veicolo poetico, dentro il tunnel della fede e del mistero. Il segreto della forza, e dell’originalità della rilettura laica del messaggio testamentario, che distingue l’operazione della Bozzetti, risiede, nel senso post-moderno del termine, nella capacità di una rilettura postuma dei versetti del Vangelo di Giovanni e del Qohèlet: «Il tuo essere nudo di ogni cosa / abbiamo paragonato al potere, / quello che sporca le strade con residui / di false feste, maschere per volti di guerra, / che riempie la bocca di suoni / tintinnanti come il giuoco dei denari, / che salva dalla miseria / togliendo la coscienza del male; / e davanti a questa illusione di forza, / tu, sei il forte da cancellare / perché più chiaro sia il debole nome / del re, e i suoi sudditi / siano salvati dalla miseria di una sconfitta».

 

 

il canto monodico della monadicità dell’io

Maria Consolo, Maria Benedetta Cerro, Anna Ventura

 

Maria Consolo è nata a Catania nel 1936 ed ha pubblicato quattro libri di poesia: Da sola a solo (Torino, Genesi, 1998),  Coi macigni e l’erbe (Genesi, 2000), Dissonanze (Genesi, 2003), In queste stanze (Lecce, Manni, 2006). In tutti e quattro i libri la Consolo prosegue con sempre più icastica precisione il suo soliloquio con il vuoto di una claustrale domesticità.  

È vero, molta poesia contemporanea adotta un metalinguaggio, presuppone altra poesia e parla intorno all’esistenza della poesia precedente come condizione di esistenza della poesia del presente; Maria Consolo invece non parla mai della poesia del passato, non accenna né ammicca mai alla poesia del presente, ogni evento messo sulla carta è stato già vissuto, ogni personaggio rappresentato è visto di scorcio, dall’angolo della propria assoluta singolarità, come si conviene ad una poesia lirica eminentemente monadica. Il rispetto della sintassi, l’assenza dei salti logici o metaforici costituisce per la poetessa siciliana il fondamento sul quale si deve basare l’edificazione di una lirica veramente espressiva. Direi che è la scelta del registro «basso» la caratteristica principale del suo stile. Come acutamente scrive Sandro Gros Pietro, che firma tutte e tre le prefazioni ai libri della poetessa siciliana, si tratta di un «diario di bordo del lungo e progressivo viaggio» che la Consolo ha compiuto nella trilogia, uno spietato dialogo con se stessa, con la madre morta, rinchiusa nella solitudine delle stanze di un appartamento di una delle tante città del villaggio globale. Si tratta di uno spietato processo dove la pubblica accusa è rappresentata da una voce della coscienza che rimorde e serpeggia in ogni minima entità linguistica, in ogni meandro dell’anima. Nata da una costola della poesia eliotiana, la poesia di Maria Consolo si rivela essere una delle voci più severe ed esigenti della poesia italiana contemporanea ed ha già raccolto consensi ed approvazione da parte di una ristretta ma elitaria cerchia di lettori.

Poesia che si presenta come una epitome di esperienze (Erfahrungen) possibili nell’ambito - come afferma Adorno - del sortilegio o, per dirla con le parole di un altro filosofo, nel mondo che è stato abbandonato dal divino. La «stanza» dove ha origine la poesia della Consolo è della stessa natura della prigione all’aria aperta qual è divenuto il mondo delle democrazie occidentali, variante più evoluta delle prigioni a cielo chiuso delle tirannie orientali. Poesia che, entro i limiti del proprio biglietto da visita, reca il timbro del disagio di una civiltà: il non vissuto. Non sta alla poesia, non è compito della poesia indicare una via di uscita dal «sortilegio», essa piuttosto, nella propria chiusa autocontemplazione, delinea i lineamenti della melancholia di un’epoca e di una civiltà. La poesia della Consolo fornisce un’autorevole testimonianza del carattere di apparenza della soggettività sorteggiata nella menzogna del «sortilegio» del quotidiano. Olisticamente prigioniera del «sortilegio» della menzogna e della verità, la poesia della Consolo dipana la vitrea verità dell’angoscia. Neanche la poesia può andare oltre se stessa. La categoria della contemplazione trae la propria centralità, nella poesia moderna, appunto dalla caducità della posizione soggettiva. Come la celebrazione dello stato di felicità nell’opera d’arte depone a favore dell’infelicità integrale, la poesia della Consolo depone a favore dell’infelicità integrale a causa della distanza incolmabile che la felicità annuncia ai suoi fedeli. «Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti», ha scritto Hegel e, certo, la pagina della Consolo ci ridesta alla felicità domestica proprio in relazione di prossimità con la catastrofe incombente, sono i suoi fogli «vuoti» che annunciano con nitore più di quanto dicano. Da Dissonanze: «Stanco mercoledì delle Ceneri; lacrimoso mattino di un inverno che ancora non cede; frettoloso portarsi delle beghine in chiesa a ricordare, qualora ce ne fosse bisogno,/che siamo fatti di cenere e in cenere ritorneremo».

Maria Benedetta Cerro è una poetessa della generazione «smarrita», ovvero, quella generazione che non ha avuto udienza presso la grande editoria e che ha pubblicato presso editori minori. Nata nel 1951 ha al suo attivo sei pubblicazioni di poesia. I primi due libri: Licenza di viaggio (Sora, Dioscuri, 1984), Ipotesi di vita (Lacaita, 1987), rivelano una poesia che ha un suo timbro di riconoscibilità e un linguaggio poetico ben individuato; seguiranno Nel sigillo della parola (Abano Terme, Piovan, 1991), Lettera a una pietra (Fondi, Confronto, 1992), Il segno del gelo (Perosini, Verona, 1997). Gli ultimi libri Allegorie d’inverno (Lecce, Manni, 2003) e Regalità della luce (Salvatore Sciascia Editore, 2009), sono un po’ la summa e l’esito estremo di un tipo di poesia rimasta ancorata al baricentro «basso» della monarchia dell’io e alla fenomenologia dell’io esperiente. Una poesia incentrata sulla regalità dell’io, in quell’arco di anni che datano dalla fine delle speranze di rinnovamento che la generazione del ’68 aveva alimentato ad oggi. Il ritorno ad una lirica ristrutturata e riorganizzata in funzione delle esigenze della rappresentazione dell’io, è un fatto evidente che balza agli occhi non appena leggiamo i testi delle poetesse della generazione «perduta», che attingono vertici di grande intensità lirica. La poesia della Cerro deve dunque essere inquadrata all’interno della cultura  dell’ontologia negativa, quella cultura del Novecento che discende da una costola del pensiero di Heidegger secondo cui «L’essere è ciò che non si dice», quel Nulla di cui non si dovrebbe dire, appunto, nulla, quella materia materiata di nulla che costituisce il sostrato ultimo della fenomenologia dell’io. Significativamente, Allegorie d’inverno contiene una sezione che ha per titolo «Variazioni sull’assenza», ma nelle poesie lì ricomprese c’è di tutto tranne che la pienezza di vita, vi si ritrova ciò che l’io non ha vissuto, le possibilità mancate, le occasioni perdute, tutta una fenomenologia dell’io esperiente che specula sulla vita non vissuta: «È passata la vita. / Quando? Dov’ero? /ditemi come era vestita. /se dovessi incontrarla /come è vero quest’oggi /così nero – anche al buio /la riconoscerei. /Ma ditemi di lei. /Come si fa a diventarle amica». La Cerro ha posto al centro della propria poesia una sola tematica e un solo telescopio: la presenza dell’Assenza, la zona franca della coscienza, con un linguaggio che rasenta il grado zero della lirica sliricizzata del secondo Novecento. Direi che una certa quantità di «cannibalismo» tribale è prerogativa della generazione «smarrita», quella generazione che ha dovuto fare i conti con la caduta verticale della legittimazione della poesia incentrata sull’io monadico quale modalità «naturale» della lirica del Novecento. Mentre la coeva poesia femminile del minimalismo acritico esponeva nella vetrina del cuore le intermittenze di una quotidianità fittizia e posticcia, era la generazione «smarrita» che investigava l’Assenza e le conseguenze di una cultura ombelicale e autoreferenziale, che aveva cessato la ricerca (se mai l’aveva iniziata) di una autenticità della posizione estetica. 

Anna Ventura con le sillogi, Nostra Dea (Firenze, Esuvia, 2001) e Cinquanta poesie – Cinquante poèmes (Chieti, Tabula fati, 2003), Non suoni, ma rumori (Padova, Venilia, 2009) ci presenta un profilo abbastanza compiuto e preciso della sua poesia, una poesia di stampo illuministico e razionalistico che adotta la clarté dello sguardo che si posa sugli oggetti, la visione nitida e delimitata, i contorni degli oggetti precisamente individuati; ma a mio avviso non bisogna cedere alla tentazione di etichettare una poesia di così notevole spessore culturale nella formula di «realismo lirico». La poesia di Anna Ventura è moderna nel senso che prende atto della fine del Moderno, della fine delle ideologie del liberalismo democratico che trovavano il loro corrispettivo in poesia nelle poetiche del minimalismo conservatore, e tutto ciò proprio nel momento del loro massimo apparente trionfo. La poesia della Ventura non indulge in ripiegamenti in heideggerismi di maniera, nei pentitismi della cultura che proviene dalle file dell’anti-modernismo, tantomeno indulge in hillmanismi tanto preziosi quanto esornativi, con tutto ciò che esse comportano: dall’abbandono della patria (o esilio) alla dipartita degli dèi, alla nostra condizione di «radura». Poesia anche distante dalla poesia «psicologica», fin troppo facile e prevedibile, tutta interna ad un impianto psicanalitico-minimalista. Sarebbe più conveniente quindi parlare, a mio avviso, di «metarealismo lirico» per la poesia di Anna Ventura, come del resto per la poesia contemporanea più adulta, che ha passato al vaglio critico il concetto di realismo o post-realismo. Anche quando la composizione si presenta come il distillato più maturo dell’oggettività, non è la precisione della macchina fotografica l’intento principale dell’autore ma, al contrario, è la visione, nitida e delimitata dalla cornice che suggerisce e fornisce gli strumenti stilistici per l’obiettivazione estetica: lo stesso impiego dello zoom di origine cinematografica, costituisce un vero e proprio binario sintattico-semantico che è venuto a sostituire la vecchia, antiquata e polverosa impalcatura lineare di matrice pascoliana. La poesia di apertura di Nostra Dea, «La terra del Minotauro» è l’esemplificazione più pertinente di questo tipo di procedura. È come se una telecamera si introducesse dentro il palazzo di Cnosso e si posizionasse davanti al «terrazzo»: tutto quello che accade è soltanto una conseguenza di quel punto di vista. Non v’è nessuna impostazione ironica, come non v’è alcuna traccia di alcuna impostazione trascendentale «nobile»; se così fosse, ciò segnerebbe l’introduzione di un «diminutivo» o di un «accrescitivo» tipicamente novecenteschi dentro un impianto lirico, invece, tipicamente post-moderno. Dunque, nei testi di Anna Ventura non v’è mai alcun luogo di «aggressione» ironica, l’autore impone una distanza tra sé e il testo, è la distanza iconica qui ad essere significativa, non la distanza ironica, come avveniva nei testi protonovecenteschi (vedi la poesia di un Gozzano o di un Govoni). Ma ora lasciamo spazio al testo: «Questo terrazzo bianco, / chiuso da un muro bianco, /ha una bifora aperta /sul verde del giardino, /sul rosso dei fiori d’ibiscus. /Il mare segna l’orizzonte, /oltre le cime degli ulivi. /È il mare fermo degli dei,mentre la terra – del colore del sangue – /appartiene al Minotauro. /Sul terrazzo c’è un tavolo rotondo /con due poltrone». Il lettore si introduce, attraverso «una bifora aperta», «nel verde del giardino», «il mare fermo degli dei» accoglie i visitatori. «Sul terrazzo c’è un tavolo rotondo/ con due poltrone». L’atmosfera è sobria, quasi turistica, il viaggio nell’al di là è un mito di vecchie e polverose filosofie. Il viaggio, con tutti i suoi corollari di peripezie turistico-spirituali, è ormai una moneta fuori corso finita nei cassetti dei numismatici. 

Il massimo che si può chiedere a questa poesia è: «Non chi sta sulla nave,/ma chi resta, di sera,/sulla banchina dell’isola piccola/è colui che veramente parte./Dopo aver salutato con la mano/la nave che veloce si allontana,/tornerà alla casa spoglia,/all’acqua razionata,/alle cento scalette/che salgono sull’erta./L’amara stirpe di Penelope/conosce questi inganni: restare/per partire nella lontananza del cuore,/nel silenzio dell’isola remota:/Ulisse vada ramingo:/il mare è tanto grande».

Resti, dunque, saldamente ancorata alla clarté cartesiana, è il più grande complimento che posso fare a questa poesia, così delicata e attenta ai dettagli e così consapevole dei limiti della conoscenza umana. Una poesia che accetta e prende partito per la perdita del centro della posizione estetica, senza drammi e senza finte ambasce o periclitanti esibizionismi del cuore; la severa misura del suo passo breve è il migliore viatico, il migliore indizio della sua gioventù. In tal senso, la poesia «Non ditelo a Cartesio» costituisce un ottimo esempio di registro metaironico: «Sono la terza moglie di Barbablù, quella /che osò prendere la chiave, /spalancare la stanza dell’orrore: un gesto /che la premiò, perché /a ogni coraggio c’è una ricompensa.

Ma niente ricompensa /l’innocenza violata, lo sbigottimento /di chi alza il sasso e sotto /ci trova lo scorpione. “E tu smettila, /dicono – di aprire porte, /di rivoltare sassi.” /Non ditelo a Cartesio: lui giace /nella sua tomba piatta, nell’ombra /di una chiesa ombrosa, ma la luce ancora abbaglia /i suoi seguaci, odiati illuministi in un mondo /che della ragione fa a meno volentieri. Io perciò, /sua fedele, cammino a testa bassa, col saio /del pellegrino rompiscatole, /i sandali consunti. Lascio la mia bisaccia…». 

 

 

dalla poesia neopagana  all’espressionismo «significazionista»

Rosita Copioli, Isabella Vincentini, Gabriella Sica, Giovanna Sicari

 

Rosita Copioli è stata una delle figure più importanti della poesia «mitomodernista», che ha avuto il suo momento di affermazione negli anni Ottanta, quando vedono la luce le raccolte Splendida lumina solis del 1979 e Furore delle rose del 1989. Con la terza raccolta, Elena, del 1996, il periodo di punta del movimento «mitomodernista» è già nella sua fase di naturale riflusso. Restano, comunque, sia nel terzo libro che in quest’ultimo: Il postino fedele (Milano, Mondadori, 2008), le idee di base che avevano ispirato il tentativo di rivitalizzare la poesia italiana del tardo Novecento reintroducendo nel discorso poetico l’idea del «mito» e l’idea di una poesia che gettasse le proprie radici nella lontananza dalla contemporaneità. Oggi, finalmente con il senno degli anni trascorsi, si comincia a comprendere che la scommessa della Copioli era quella che permetteva una più lunga durata ed una ispirazione più profonda. La conseguenza è stata una straordinaria ambiguità di opinioni: da una parte i detrattori di una «scuola» considerata eccessivamente «letteraria»; dall’altra, una schiera non esigua di ammiratori che invece la considerava «nuova» e feconda di sviluppi. Oggi possiamo tranquillamente affermare che la poesia della Copioli resta equamente divisa tra novità e tradizione: nel bilanciamento tra la tendenza al principio sintetico del simbolo e dell’allegoria e il principio analitico-descrittivo del piano narrativo. 

Non è un caso che le pagine più impegnative e  riuscite del libro siano quelle dove la poesia tocca antichi simboli primordiali, antiche deità dimesse come «Epimeleia», «figlia di Epimeteo e Pandora», o «Teti», trovata in «Un’alba nella secca del mare ho inciampato/ in un grumo molle scuro, come una medusa», dove la reinvenzione simbolica delle antiche deità pagane trova uno spunto narrativo e una forza poetica davvero inusuali. Oppure, il discorso sull’«Upupa», che ha una forza oracolare  irresistibile di altissimo diapason emotivo ed emozionale. Qui l’avvistamento dell’oggetto è un processo che segue il percorso diretto, attraverso la visione diretta dell’oggetto, fondato su un riposizionamento e ribaltamento del piano simbolico: «Sono davanti al mare/ ma il mare non c’è più./ Non s’è ritratto, è scomparso/ forse risucchiato da abissi./ Il luogo del mare, in luogo della spiaggia, un paesaggio di natura sabbiosa,/ bionda. Cavità, buchi, valli scoscese, calanchi…». Il reale cronachistico è lontano, lontanissimo, il lettore percepisce, man mano che la lettura va avanti, la dimensione limbale in cui sono immerse le esperienze rappresentate. Così, una poesia comincia in modo diretto, colloquiale, con tono e intento dimessi, descrittivi, come se ci si trovasse in una delle innumerevoli descrizioni della poesia contemporanea: «Mi trovavo su una spiaggia/ di un mare del nord./ Una spiaggia di sabbie e sassolini… Un’acqua grigia, calma, non trasparente»; e invece gli ultimi due versi ci rivelano una verità imprevista e imprevedibile: «Sono nel paese delle ombre, dico./ Sulla riva dell’ultimo mare». Qua e là il tono ed il lessico si alzano fino a sfiorare il registro alto sublime ma con una sapienza ed un senso della misura e della, direi quasi, contrizione che conferiscono al discorso poetico una serietà quasi claustrale. Ma anche quando è il piano biografico cronachistico che emerge, la poesia della Copioli non è mai scontata, non indugia mai nel facile gioco di rovistare nella propria biografia: c’è sempre qualcosa di misterioso, che rimanda ad altro, a quelle deità o qualcosa che erano in noi, sepolte, come nella poesia intitolata «Gli storni di Termini»: «Questa sera sono tornata a Roma/ in un primo giorno di dicembre/ quasi sotto Natale./ Non c’è più freddo./ Non devi nemmeno più/ rabbrividire…». Altre volte, è il discorso traslato che ci introduce per mano all’interno della intenzione significante, come nella poesia «Navigium Isidis», dove sono le due foglie combacianti che rivelano il senso del viaggio: «Sono nel navigium Isidis/ protette./ Sono sole, amanti amate. Sono le foglie/ che conclude la nave/ chiglia e cassero…». È l’errore del «messaggio» la situazione significante della poesia come in quella che, significativamente, dà il titolo al libro: «Come il postino più fedele»: «Tu mi dài delle notizie./ Io le ricevo. Come il postino più fedele/ le recapito all’indirizzo giusto./ Qui l’indirizzo è mio,/ ma il messaggio è sbagliato».

La romana Isabella Vincentini predilige una riflessione sulle radici storiche, antropologiche e mitopoietiche della poesia. La poesia contemporanea non sarebbe difforme dalla poesia della civiltà pagana ellenica e può essere ricompresa nella categoria della «verosimiglianza» (oikós) nell’ambito della «natura» (physis). Le deità dell’antica Grecia rappresentano la costellazione simbolica e mitologica dalle quali la poesia della Vicentini prende le mosse: rammemorazione e nostalgia della dipartita degli dèi. Come la physis  è basata sul concetto di regolarità e ciclicità, così questa poesia appare come un calco, di quel mondo un tempo abitato dagli dèi. Chi conosce l’attività critica e poetica di Isabella Vincentini sa anche della sua profonda adesione alla civiltà pagana dell’antica Grecia, che non nasce da un vezzo quanto da una attitudine e da una inclinazione naturali. Direi che non è affatto una novità la persistenza, durante gli anni Novanta,di una linea di ispirazione neopagana; la Vincentini già con il primo libro, Diario di bordo del 1998, aveva esordito con una poesia apparentemente «fuori binario» che, ad una analisi superficiale, poteva apparire attardata agli esiti ultimi della poesia mitomodernista in un momento in cui quella esperienza si era avviata al tramonto già da un decennio. Un fenomeno nuovo si era manifestato durante gli anni novanta che, oltre che un decennio di poesia epigonica aveva espresso anche nuove istanze, periodo molto più ricco e articolato di quanto invece comunemente si pensi, un decennio dunque di coltivazioni in «vitro» di piante officinali lontanissime da ogni forma di sperimentalismo e dalle piantagioni del minimalismo trapiantato e geneticamente modificato. 

Ma è con il libro dal titolo esiodeo Le ore e i giorni (Milano, La Vita Felice, 2008), che la poetessa romana attinge una originalità di impianto mitico-simbolico. All’inizio del «catalogo» (Iliade II. 484 ss.), Omero si rivolge alle Muse per conoscere i nomi dei «capi dei Danai» che giunsero a Troia. Il suo appello è giustificato dal fatto che le Muse, in quanto dee, sono presenti dappertutto e sanno ogni cosa, diversamente dagli uomini che hanno solo informazioni di carattere orale, sanno solo per sentito dire. Per attingere qualcosa di invisibile, il poeta sente il bisogno di rivolgersi all’onniscenza degli dèi, per cui non esiste aphanés: in tal modo egli supera i limiti umani, può cantare l’invisibile. Affermazioni simili sono fatte da Esiodo, nel proemio della Teogonia: le Muse investono il poeta del compito di cantare «futuro e passato», e anch’esse cantano davanti a Zeus «presente, futuro e passato». Dodona, Corinto, Erato, l’Aeropago sono i luoghi della poesia di Le ore e i giorni ma anche Venezia, Mantova, Anzio-Nettuno, città e luoghi del contemporaneo e città e luoghi di una antica civiltà mitica e mitologica. Così come nella civiltà mitologica il poeta ha accesso al mondo dell’invisibile e quindi entra in contatto con la alétheia divina, anche nella civiltà delle post-macchine il poeta è colui che è in perenne contatto con il mondo abbandonato dagli dèi e il regno mitico-simbolico delle forme simboliche. Che cosa sono, infatti, le «Antefisse», «l’Angelo necessario», «l’Angelo scuro», i «Medaglioni», i «Frammenti» se non personificazioni di una realtà ancestrale che giace al di sotto della superficie della cultura, diciamo così, giudaico-cristiana? Nella poesia della Vincentini il «nuovo» sguardo coincide con l’«antico». Il cerchio si richiude, l’inizio si tocca con la fine. C’è una tristezza tutta post-moderna nella constatazione della distanza che intercorre tra il mondo mitico-simbolico e la contemporaneità priva di identità mitica e simbolica. È «una fedeltà  anteriore» quella che sta a cuore alla poetessa romana: « No, non credere a queruli risentimenti,/ guarda le linee indelebili/ che obbligano a una fedeltà anteriore,/ come la nascita». Alla domanda di un dio probabile: «Chi tesse per me un così lungo oltraggio?», la risposta è contenuta nel silenzio della mancanza di parola «……. / …….» dei due versi seguenti («Antefisse»). Insomma, la poesia della Vincentini nasce da un «oltraggio», da una offesa che sarebbe stata arrecata all’uomo contemporaneo già in età mitica, quando si profilò, per la prima volta, l’eclisse degli dèi che porterà alla loro attuale definitiva deiezione. 

Quando Gabriella Sica pubblica nel 1997 Poesie bambine, in una recensione apparsa sul n. 13 di «Poiesis» scrivevo: «La poetica del fanciullino pascoliano è stata una operazione culturale chiave nel Novecento italiano. Una delle recenti acquisizioni di questa linea che passa anche attraverso una certa lettura della poesia di Penna e di Beppe Salvia è senza dubbio questo agile libretto di Gabriella Sica, ben modulato e di gusto corretto». Un libro scritto «in allegria», come scrive l’autrice. Nel 2001 per i tipi di Fazi esce Poesie familiari, dove la Sica presenta il conto della sua opzione stilistica e tematica: il racconto dall’infanzia all’età adulta in una serie di fotogrammi dell’Italia dagli anni cinquanta in su, fino alle radici del post-moderno attraverso la rivoluzione industriale e post-industriale. Anche la tastiera stilistica si allarga per abbracciare una materia più complessa e più vasta: quella parte della storia d’Italia che passa attraverso la cruna dell’ago dei ricordi delle persone, degli affetti e dei luoghi. Ed adesso con quest’ultimo Le lacrime delle cose (Milano, Moretti e Vitali, 2009), abbiamo un’opera che per stratificazione materica e stabilizzazione stilistica si può definire della maturità adulta. Vengono qui a sedimentazione le esperienze militanti di «Pratopagano», la rivista che la Sica diresse dal 1980 al 1987, l’esperienza di un certo primitivismo e adamismo connesse ad un ruralismo che la rivista espresse tentando una riconfigurazione formale della lirica post-penniana in chiave neomoderata, di contro ai movimentismi della poesia degli anni ottanta che vedranno l’affermazione progressiva del Mitomodernismo e il ritorno alla poesia neopagana. Alla distanza, la chiave neomoderata della Sica si rivelerà un grimaldello ben efficace. Gli anni ottanta sono anni di naturale riflusso e di ripiegamento ad una ritrovata interiorizzazione della lirica; gli anni novanta segnano la fine delle poetiche egemoni: chi non ha saputo rinnovarsi rimane irrimediabilmente indietro, chi invece ha tenuto fede alle proprie più profonde radici e si è messo in cammino verso l’ignoto e il rischio stilistico e tematico non tarderà a raccogliere i suoi frutti. La Sica sceglie di andare per la sua strada, procede per agglutinazione materica e stabilizzazione stilistica, il verso rompe gli argini dell’endecasillabo, spesso si allunga, penetra osmoticamente nel tessuto lessicale la storia dal punto di vista degli affetti familiari, il grande mondo è visto attraverso la lente di ingrandimento del piccolo mondo, l’attualità è vista attraverso la lente dell’eterno fluire di tutte le cose, ed anche la stabilizzazione stilistica si sistema sul piano basso della narratività. Risalta la compostezza lessicale e sintattica del nuovo verso sporcato di matericità e di cose rustiche, semplici; l’antico ruralismo si è stemperato e arricchito di una nuova consapevolezza stilistica: il giro frastico segue lo scorrimento sintattico, viene abolito l’enjambement, la precisione lessicale diventa il criterio guida di ordinamento del verso. La Sica va dritto all’essenziale delle cose da dire, nel modo più semplice e diretto, le amate rime scompaiono, scompare la colonna sonora e il verso indossa il saio d’una francescana umiltà e semplicità, compare una prosa che sa d’antico, i quadretti sono lindi e nitidi man mano che intorno le cose del mondo si offuscano e si confondono. «Ecco la valle estrema e ombrosa al sole / estivo dove la misura del tempo è colma / ecco le creature miti e liberate dal male. // Il seme del vivere è qui seppellito / tra cipressi erbe perenni e verdi siepi d’alloro. / Che semina a La Cura, lontano dal paese! // Quanti oh quanti non-vivi siete che vivi / io ricordo, in quanti morti? davanti a me / camminate senza porre domande e compiuti…».

Giovanna Sicari nasce a Taranto nel 1954 e muore a Roma nel 2003. Decisioni è del 1986, Ponte d’ingresso del 1988, Sigillo del 1989 e Uno stadio del respiro del 1995. Nel 2003 esce Epoca immobile, che segna una decisa evoluzione del suo stile: la dizione è come rallentata, si è acquietata in un giro largo della frase, il tono si fa meditativo, le parole non si assiepano più con la forza delle raccolte precedenti ma tendono ad un ammorbidimento, cercano una tregua, una sorta di pacificazione da quello stato di belligeranza lessematica totale delle prime tre raccolte. Nel 2006 uscirà, postuma, la raccolta completa delle poesie di Giovanna Sicari per i tipi di Empiria di Roma Poesie 1984-2003. Un discorso a parte va fatto sul concetto di «parola» e su quello che intendiamo per «poesia significazionista». Leggiamo un breve testo: «Non ho che cosce dure e capelli di ferro, l’amore è una risata / sarcastica, l’amore dal petto caricato di un prestigiatore /attende che il petto sia una mareggiata /che arrivi alla gola e bussi e crepi». Dove è chiaro che il genere è quello della poesia di confessione ricevuta in eredità da Variazioni belliche e da La libellula di Amelia Rosselli ma qui l’elemento fondante è dato dall’equipaggiamento stilistico della poesia-confessione: la qualificazione delle immagini, la loro selezione, la loro omogeneizzazione linguistica oscillante tra il surreale e l’onirico, il metareale e l’iperrealistico. Siano sufficienti alcune brevi citazioni di incipit tratte a caso: «Sognavo che ero morta e camminavo / l’ignoto scandiva impeti e campane»; «Con l’energia dei soldati ascolto il canto sfrenato / che arriva, che s’ode dalle crepe dei muri / respiro che crea un ingorgo!»; «Le sorelle mute per tutta la notte mi vegliarono»; «Dalla notte non venivano voli ma tele di ragni e canti di uccelli / risate da cani mentre giovanotti si tuffavano nella piscina» (da Sigillo); dove le azioni (più propriamente: una sorta di preparazione psicologica all’azione), sono come a contatto di un reagente chimico, l’io poetico, che «parla» è immerso in un clima di ostilità e di minaccia, di scherno e di derisione, di avventura picaresca e di intimità familiare, dove le «azioni», dicevo, sono delle vere e proprie «diserzioni». Una poesia esternamente tutta «passiva» ed internamente tutta «reattiva» e irriflessa, popolata di «soldati», «divise militari», «bombe al napalm», «fotogrammi osceni», «dove il vento nemico contagia i sordi», dove coabitano «Marlene, Gilda, Cleopatra», «banditi e rivoluzionari», occhieggiano «vampiri», un vero e proprio «inferno» «di cui gli uomini non sanno nulla»; tutta una nomenclatura che parteggia per una belligeranza universale, una indefinibile commistione di incomunicabilità e indecifrabilità, di tolleranza e di ribellismo esistenziale, rigurgiti di conflittualità e di amicalità, di ipotassi e di paratassi. La poesia della Sicari costituisce, a mio avviso, l’esempio più emblematico di un’età di transizione, che ha al suo inizio una presa di posizione molto forte nei confronti della poesia coeva degli anni ottanta, alla quale imputa una resa ideologica e stilistica, un cedimento «strutturale»: l’assunzione di un «quotidiano» acriticamente posto. In questa poesia la «parola» è già metafora, si presenta come un vettore in movimento verso la significazione auto-dislocantesi. Fintanto che c’è movimento c’è l’avvistamento del «significato», e se c’è in vista, dentro l’orizzonte di attesa del destinatario, un «significato» attingibile, ecco che la «parola» inizia a parlare. Il nomadismo della «parola» è il motore immobile di questa ricerca costante del «significato». Ed il senso complessivo, meglio sarebbe dire ultimo, sarebbe la «risultante» di tutti i «significati» attinti e mai raggiunti, mai posseduti. Nella poesia della Sicari avviene quindi una continua «perdita»: la «parola» insegue se stessa attraverso le innumerevoli facies delle sue «personificazioni». I suoi mutamenti possono essere identificati attraverso le innumerevoli «personificazioni», i cambiamenti d’abito di tutti i significati provvisori, ovvero, le innumerevoli stazioni di sosta lungo i binari di una fuga perpetua. Lungo i binari di una perdita perpetua. Lungo i sentieri di un paese manifestamente ostile. Allora, la «parola» attinge le «personificazioni» come configurazioni formali equivalenti del «significato», che viene attinto senza che mai esso venga veramente raggiunto. E quindi posseduto. È una rincorsa affannosa di qualcosa che sfugge continuamente verso l’assoluto. Come la chiama la Sicari: «la lingua degli angeli», la lingua immutabile perché interamente significazionista, che conosce soltanto la beata dimora del significato. «Parlo dalle vette la lingua degli angeli / guastami nella corrente / non ho che mare di fogliame gremito / se afferro le cose – non si tratta qui di salvezza - / uno per uno attendono / sono fermi, incitano alla disfatta / diventa giorno diventa acqua la materia del tempo, / se afferro le cose è per la nascita, per la liberazione / degli esiliati»  (da Uno stadio del respiro).

Le date non sono mai casuali ed è impossibile smentirle. Era, quella della Sicari, una poesia «significazionista» e «metafisica», di difficile ricezione, ostica, quasi impenetrabile, che da taluni veniva scambiata per eccessiva, addirittura per ingenua, o disarmata e disarmante, e quindi periferica, laterale, se non addirittura «minore». Insomma, una poesia non in linea con le implicanze del paradigma stilistico istituzionale. Se invece andiamo a rileggere i testi del primo libro, ci accorgiamo che  la Sicari si muoveva in controtendenza, seguendo quello che era un percorso obbligato della sua opzione di poetica in un momento in cui il «minimalismo», nelle sue varianti romana e milanese, nella sua inarrestabile marcia trionfale verso un epigonismo di maniera, sembrava aver dissolto tutti gli argini e tutti gli ostacoli e si poneva quale unico «paradigma istituzionale» della poesia contemporanea. È sufficiente la lettura di una sua poesia tratta dalla raccolta Decisioni per misurare la enorme distanza di questo stile da quello invalso negli anni ottanta: «Con ignoti sonnambuli sono qui, Mozart è mio amico, /un derelitto, un’insana meraviglia mi accompagnano. /Non è una rosa romantica l’impaccio di una festa /nel blasè di un caso con altri fiati nella campagna sfrangiata: /galoppatoio di festa per un gesto solo. /Mi dicevano la bugia chiusa /le anziane famiglie risorte dalla polvere dei santini. /Dalla bugia chiusa il diavolo arpeggia /e io sono qui a volere il non voluto, /come una seduttrice ambigua, non ho viandanti particolari. /Mozart è mio amico, forse un poeta assassino, un vero poeta /mi ha regalato un flauto talismano./Ma non è limite: un segno diabolico, poco poetico. /Bonjour mon amie, non è presente /ma potrei complice avvolgerti nell’eterno sfinito».

Una poesia intensa, febbricitante e pulsante ad alto quoziente di combustibile e di combustione come quella della Sicari. La prematura scomparsa della poetessa romana, sanzionerà un discorso «interrotto» improvvisamente ma ci fornisce un prezioso documento per poter ricostruire, ex post, la geografia degli anni novanta, l’ultimo decennio del secolo scorso, per poterne comprendere appieno le ragioni che stavano al fondo della crisi della forma lirica e ripensare la struttura profonda, la scaturigine di quella crisi e, quindi, le sue possibili soluzioni.

 

 

la procedura stilistica simbolico-allegorica

Daniela Marcheschi, Maria Teresa Ciammaruconi

 

Il primo volume di versi di Daniela Marcheschi, di cui è noto l’impegno di critico militante di poesia e l’attività di traduzione di autori di lingua svedese è, Sul molo foraneo (Esuvia, 1991). La Marcheschi impiega una procedura stilistica a «rallentatore», una sorta di «dis-locazione» dell’atto della lettura che consente lo svelamento del dettaglio e dei micro movimenti tellurici che avvengono durante la significazione. La strada scelta dalla Marcheschi è esattamente agli antipodi di tutte quelle scritture che emulano la velocità dei mezzi di locomozione della nostra civiltà. Questa esigenza di «frenare» e «ritardare» la significazione della parola poetica deriva dalla opzione allegorica. Un tono understatement gnomico, un parlato medio, un giro sintattico riflessivo caratterizzano le composizioni della prima sezione, che sarebbe l’ultima in ordine cronologico: «Emblemi» (1986-1990), dove campeggia l’allegoria (in particolare, «Frammento della balena» ed «Elogio aracneo»). Molte composizioni della Marcheschi iniziano con una negazione, che non indica soltanto diniego apofantico, o una opposizione alla affermazione, quanto piuttosto un esser-così dell’essere linguistico, una modalità problematica della registrazione linguistica e della percezione dell’occhio. Ne deriva una problematica modalità dell’atto della significazione. La poesia nasce già adulta e presuppone un tragitto del pensiero prima e dopo l’approdo alla significazione. La poesia diventa un punto di arrivo di un pensiero che ha iniziato altrove la propria investigazione. La poesia procede per la strada più lunga e contorta per giungere alla significazione.  Interviene una «distanza» da ogni concetto di poesia come effrazione linguistica, accumulo, sperimentazione. In questa procedura estetica appare prioritario la metanarrazione. Gli indirizzi trasversali degli incipit denotano l’attenzione costante in sede stilistica della Marcheschi sulla resistenza offerta dalla allegoria. Molte composizioni si aprono con la notazione pronominale «tutto», che allude al fatto che non proprio tutto è «tutto», e che il concetto di «tutto» contiene qualcosa che sfugge a quella nozione e che il «tutto» di una sfera rimanda pur sempre al «tutto» di una seconda sfera. E comunque, non «tutto» è estetico e, prima del «tutto» estetico, v’è un «tutto» pre-estetico che occorre attraversare. È questo un punto fondamentale della poetica della Marcheschi, che la contraddistingue da tutte quelle posizioni che eludono il problema extraestetico o che lo convocano in categorie aprioristiche e solipsistiche. Si legga il significativo «Frammento della balena»: «Siate soli, e semplici come la balena /mammifero grasso che s’aggira /nei mari polari amando i viaggi. /Alla balena /sia onore per la coda larga /che la imbruttisce /perché si muove sbuffando l’acqua /che tracanna, perché dal suo dorso /con lo zampillo /s’avverta il gravame del respirare nuotando. // Per annientarne l’esempio tanti /la cacciano, e affannosamente

lei respingendo /fino alle coste, dove a volte muore ansimando. /Sì, quel suo spietatamente sfarsi io lo conosco».

L’opera di esordio di Maria Teresa Ciammaruconi Liopè (1998), la rivela come una delle voci di maggiore originalità ma è con la successiva  Iperpoema (2004), un canto polifonico a tre voci (canto, controcanto e ipercanto), in tre stili diversi, che la poetessa romana di origine calabrese attinge  esiti in equivoci di espressionismo. In primo luogo, il policentrismo dell’«io»: tre diversi punti di vista rispetto ad un medesimo oggetto. Con le parole dell’autrice: «L’io, intanto, quello ingenuo e superbo della prima persona del verbo, tenta di ricomporsi in frammenti dove pensieri e cose si incontrano senza presunzione di senso. Lascio alle parole che da sole si sono duplicate il compito di creare con l’iterazione il disegno scomposto, la mappa improbabile del territorio dove tento di muovermi…». Ciascuna delle tre voci intende reclamare un proprio contenuto di verità del messaggio; scopo dell’autrice è smascherare le modalità di codificazione del discorso persuasorio, ciascuna voce articola un proprio discorso di senso, pretende una egemonia del senso fino ad assurgere a discorso apodittico e ottenere dal lettore un consenso emotivo,  razionale/irrazionale. Il tal senso il «macchinario testuale» della Ciammaruconi mira alla demistificazione implicita del piano retorico dei linguaggi, pur senza adire il piano tecnologico del montaggio ma semplicemente mediante l’impiego di un discorso tripartito: frammenti pseudofilosofici della tradizione presocratica si alternano e si omogeneizzano con i lacerti del linguaggio scientifico e della poesia culta della poesia novecentesca della diramazione sperimentale. Il risultato è la destituzione di senso  di ogni linguaggio che ambisca ad una pretesa egemonica del senso. Strategia stilistica che mira ad una implicita demistificazione dei tentativi stilistici del versante post-modernistico. Operazione brillante ma ancora tutta dentro il quadrante concettuale del novecento. Il fatto è che la Ciammaruconi dovrà scontare tutto intero il suo magistero di esperienze linguistiche fino alla terza opera: Donne madonne e santi (Lepisma, 2008), la quale segnerà un profondo rivolgimento della direzione di ricerca stilistica che, dal versante post-modernistico, slitterà verso una direzione decisamente modernista. Se in Iperpoema venivano giustapposti linguaggi eteronomi al fine di creare smottamenti e peristalsi semantiche, in Donne madonne e santi la direzione di ricerca mirerà ad un linguaggio univoco e onnivoro che ha metabolizzato gli apporti linguistici di altre entità linguistiche, gli apporti extralinguistici e dialettali, gli apporti diacronici al fine di giungere ad una definitiva stabilizzazione linguistica e stilistica. Con quest’ultima opera la poetessa romana mette definitivamente il punto fine ai linguaggi protocollari e alle metodologie compositive tipiche dello sperimentalismo del novecento. Dall’iperpoema l’autrice romana passerà al poema delle radici, ad una rivisitazione del folklore e della storia delle terre del Sud. Questi i plot: nella prima sezione viene ripresa la fabula di Gioachino di Celico il quale «si mette in cammino / da solo cerca la sorgente di una voce che chiama»; nella seconda fabula, intitolata «La madonna con la spada»,  viene ripresa l’antica leggenda della disperata ed eroica resistenza opposta da un pugno siciliani male armati, guidati da una «Madonna con la spada» alla invasione araba del 864, dopo venti anni di assedio. Capita così che la poetessa romana attinga gli esiti più alti della poesia contemporanea grazie al combinato disposto di crescendo e di diminuendo, con un verso franto e spezzato, particolarmente adatto  alla concitazione e alla emotività della esposizione. La trilogia che segue, con i poemetti «I tamburi di San Rocco», «Della luna perduta» e «Per il Santo di Paola», sono la esemplificazione del personalissimo nuovo stile della Ciammaruconi: una sorta di espressionismo stilistico: una ibridazione dal basso, dal piano del folklore e da alcuni lemmi dell’italiano culto caduto in disuso, e una ibridazione dall’alto, dal piano culto dello sperimentalismo novecentesco coniugato con la ballata popolare, con il ritmo e la coloritura della canzone popolare.  Il risultato è una koiné linguistica culto-plebea, un linguaggio democratico e non demotico, di una leggibilità assoluta e di grande varietà lessicale e semantica. È il definitivo accomiatarsi della Ciammaruconi da ogni residua influenza dello sperimentalismo novecentesco, e il definitivo approdo verso un concetto di arte poetica di nuovo conio, che fa uso di ibridazioni, di conglomerati e di agglutinazioni stilistiche che culminerà in tuttominuscolo (Azimut, 2009), frammenti d’occasione del quotidiano corrivo in uno stile intellettuale-plebeo davvero insolito.

 

 

il «dialogo» come autorappresentazione dell’io e il reale neo-iposurreale

Lidia Gargiulo, Giuseppina Amodei, Serena Maffìa, Elena Ribet, Manuela Bellodi

 

L’elemento caratterizzante dell’opera poetica di Lidia Gargiulo, Penelope classica e jazz (Roma, Il Ventaglio, 1994) e i segni di proserpina (Roma, la città e le stelle, 2006), è l’applicazione del principio ironico. Si parla meglio per traslato e mediante un personaggio diverso dal solito io poetico. Si parla meglio attraverso il personaggio Penelope, denominata «Sposa» e «Sorella» del grande «Assente». «A che punto è la tela, signora?/ A buon punto, signori, a buon punto /…/ Così rispondo ai Proci: A buon punto, signori,/ a buon punto. Ma questo è il punto…». Nella poesia della Gargiulo l’ironia non si dà come un portato della soggettività ma è inscritta nel codice genetico delle tematiche adottate (Penelope e Proserpina). È la distanza temporale che determina l’ironia. L’adozione del principio ironico indica che è venuta meno la facoltà desiderante e la volontà di rappresentazione del reale: il linguaggio poetico si autolimita entro il momento dell’autorappresentazione; ciò che appare prioritario è la perfetta concordanza con il carattere convenzionale e cerimoniale dell’universo della comunicazione mediatica. In una «nota dell’autore» in exergo a i segni di proserpina la Gargiulo afferma: «Io mi ostino, per affezione e abitudine, e perché mi diverte, della poesia, l’apparente povertà e la ricchezza tutta da scovare, reinventare col solo strumento della parola… Dove può andare una poesia così?». Direi che una poesia come questa della Gargiulo fluisce inevitabilmente verso il nihil. È questo il suo destino e il suo salvacondotto. Probabilmente, questa poesia, intimamente problematica e dilemmatica, cede, di fronte alla volontà di potenza del reale, la propria substantia per ritrovarsi de-realizzata in mezzo al reale, deprivata di «rappresentazione» e di «concordanza» con il reale. Ma c’è una parola magica che la Gargiulo pronuncia nella «nota dell’autore»: «Retroguardia». Consapevole del proprio essere inane e defenestrato, nella situazione post-moderna un autore non può che comporre opere di «retroguardia», non può che adottare «l’apparente povertà» della poesia di contro alla potenza numinosa e de-realizzante della civiltà mediatica. L’ironia e le gieux de finesse sono le strategie del poeta «povero» dinanzi allo strapotere del «reale», l’unica barriera corallina di difesa dinanzi alla vastità di quel mare. Ne i segni di proserpina, del 2006, interviene l’adozione del dialogo quale tecnica narrativa trapiantata nella poesia. Qui il patologico gioca un ruolo decisivo, perché consente un avvistamento dell’oggetto colto nel momento della sua massima prossimità e paradossalità, e il paradosso è la procedura maieutica ed euristica di costruzione dell’oggetto poesia: 

 

«-Scrivi, scriba. Scrivi che ha vinto la Guerra Giusta e comincia la pace.

-Signore, le bombe hanno colpito i palazzi, i monumenti…

- Li ricostruiremo più belli. Scrivi: I liberatori hanno distrutto le armi atomiche e le armi chimiche del tiranno.

- Signore, non ne abbiamo trovate di armi.

- Le ha nascoste, si è nascosto lui e ha nascosto le armi. Ma lo staneremo. Scrivi: Ora il mondo è al sicuro».

 

L’adozione della scrittura in prosa corrisponde alla nuova situazione di domanda di verità che il mondo chiede alla «povera» poesia. La «tecnica» della nuova poesia della Gargiulo: l’ironia in re, si offre come piatto disadorno: «C’era una volta intorno al mondo un girotondo/ di metallo sonante: nummo sesterzio dracma…».

Il magistero stilistico della fiorentina Giuseppina Amodei è fondato sull’utilizzazione dell’immagine priva di spazialità (cfr. Il poeta muore ogni sera Roma, Lepisma, 2007), ovvero, priva di connotazioni che possano far risalire a una dimensione spaziale di posizionamento dell’oggetto e del soggetto, un dimensionamento del soggetto in un luogo privo di successione temporale, una sottrazione della temporalità dall’oggetto (che si presenta come per giustapposizione e/o successione); il tempo cronologico della poesia viene ad essere transvalutato in tempo ideografico. La poesia della Amodei segue la successione temporale del discorso mediante un procedimento di de-realismo, il piano del reale viene ad essere scollegato. Significativo che le poesie della Amodei risultano prive di titolazione in quanto prive di localizzazione spazio-temporale («Divento/ punta d’arco gigante Sagittario/ guardiano al mio destino/ - primo sguardo sul mondo -»). L’io poetico viene sottoposto ad un «ingrandimento», ad un «gigantismo», una sorta di teatralizzazione, divinizazione: l’io poetico diventa una deità che getta il «primo sguardo sul mondo»: «mi aggrappo alla criniera del Leone/ eletto re di foresta e di cielo/ sguazzo nei Pesci e nell’Acquario/ calpesto gli Scorpioni ed i Serpenti…Salto/ sulle code impazzite/ dei sassi che cadono in agosto/ - così senza preavviso -». Viene ad essere disautomatizzato il linguaggio poetico convenzionale con le sue rituali localizzazioni spazio-temporali e con il suo concetto di verosimiglianza; tutto ciò che avviene all’interno del processo metamorfosante dell’io poetico è una sconfessione dell’io poetico della poesia-confessione come di ogni altro procedimento poetico basato sulla solida struttura del racconto e sulla narratività progettuale dell’io poetico. l’ordine logico-sintattico viene sostituito dall’ordine alogico-asintattico, dove predominano i polisindeti e gli asindeti e la fraseologia poetica è ridotta ad una congerie di segmenti-immagini, di segmenti ideografici che non rispondono più ad alcuna colonna sonora ma perseguono una musicalità «interna» ai segmenti, una sorta di dissonanza sistematizzata nell’antisistema. Ed ecco il titolo, ripescato dalla miniera della poesia simbolista, e ridisegnato in chiave grottesco-derisoria di colui che muore ogni sera, di colui che ci ricorda, per anamnesi, un arlecchino o un pierrot, travestiti e travisati per l’ingresso in scena dell’io poetico metamorfosato. In un’altra poesia è ben indicata questa ipotesi di poetica della decontestualizzazione della lirica dal suo ancoraggio soggettuale e spazio-temporale: «I luoghi/ del poeta/ sono navicelle/ senza rotta/ nessun/ teorema/ niente/ geometria», dove l’ungarettismo metrico viene ad essere rovesciato nel proprio paradosso, e la cognizione del dolore è rovesciata e spostata in un universo de-simbolizzato e de-contestualizzato, in un luogo a-topico che non è più retto dalla geometria o dalla teorematica della geometria post-euclidea. Anche il verbo all’infinito è la spia della decontestualizzazione dell’azione non più legata alla centralità dell’«io»: «Scoprire che nel grumo/ del dolore del mondo del reale/ si nasconde un disegna senza caos/ - assente lo scompiglio/ che si mostra/ alla mia limitata conoscenza -». Quello che resta è «un disegno senza caos», una intenzione dell’universo che ci priva anche della presenza pacificatrice e consolatoria del «caos». È ovvio che c’è una corrispondenza-continguità tra l’«io» poetico e l’io poetico del Demiurgo che istituisce le intenzioni in-significanti. Nei suoi momenti migliori la poesia della Amodei riesce a deautomatizzare il linguaggio poetico togliendolo alla sua intenzione significante, come nella poesia che inizia con il luogo trito, ritrito e imbalsamato di tanta poesia enfatica e provinciale: «Canta la luna», dove ad essere de-erotizzato e democraticizzato è il chiar di luna così desolatamente presente in parte della poesia del novecento: «Canta la luna/ intona il suo lamento/ si fa complice ambigua/ non vuole illuminare/ i luoghi osceni cupi/ segreti inquieti chiusi/ nello scrigno dorato/ dove il lucchetto stringe/ gioielli/ che resistono all’usura» Che cosa sono i «gioielli che resistono all’usura»? Sono i ricordi, o meglio i finti ricordi, dell’infanzia, in realtà «i luoghi osceni cupi» custoditi «nello scrigno dorato» della falsa coscienza borghese.  

Serena Maffìa (nata nel 1979) si era cimentata in numerosi testi teatrali prima di dare alle stampe questo libro di poesia Il ragazzo di vetro (Lucca, maria pacini fazzi, 2005), ed alle spalle aveva una già lunga e complessa esperienza di pittrice, di autore teatrale e di attrice a discapito della sua giovanissima età, esperienze disparate che erano congeniali alla struttura eclettica della sua personalità. Che l’eclettismo sia la struttura portante del suo discorso poetico è un elemento da prendere in seria considerazione anche quando indaghiamo sulle linee di ricerca delle odierne esperienze di poesia contemporanea presso la nuovissima generazione. Dobbiamo accettare la tesi secondo cui l’eclettismo è una caratteristica peculiare della generazione dei «nuovissimi». Direi che l’eclettismo sul piano stilistico corrisponde alle mutazioni genetiche indotte dalla sempre più alta velocità e complessità della comunicazione mediatica. Ad un incremento del tasso di innatismo tecnologico delle merci e della «merce» della comunicazione, corrisponde, sul piano delle forme artistiche, un progressivo innalzamento della conflittualità tra i «generi», e tra le forme-interne all’interno dei «generi». È il carattere «aperto» del «genere» della nuova poesia che permette scambi reciproci, la sua attitudine a incorporare, in dosi diverse, gli elementi più disparati (documenti, favole, riflessioni filosofiche, precettistica morale, regesti della lirica, descrizioni, incisi vocativi e segmentazione teatrale del testo). È, in definitiva, l’assenza di frontiere dei nuovi «generi» che contribuirebbe al solidificarsi del «nuovo» stile tipicamente teatrale e attoriale della poesia di Serena Maffìa. Gli avvenimenti sono rappresentati come se ci si trovasse davanti al pubblico, dove l’autore stesso o un personaggio preso in prestito raccontano esperienze di se stessi o di altri di cui ci si fa portavoce; per cui gli eventi e i gesti raccontati non sono altro che un «racconto» in versi, poesia «narrata», dove il «fatto» biografico non è distinto né distinguibile dal «fatto» virtuale e il «fatto» si pone come terzo polo tra l’io poetico e il punto di vista del terzo parlante, il piano onirico viene sublimato dall’invenzione surreale. La conseguenza di una tale impostazione è l’oralità e l’immediatezza della comunicazione, dove tra la surrealtà e la iporealtà si stabilisce una sorta di terreno comune che l’io esperisce non come Erfahrungen né come Erinnerung ma come una realtà neo-iposurreale. La realtà non ha bisogno di essere assoggettata ad alcun procedimento «carnevalesco». Il reale è già «carnevalizzato», esce dalla fucina della vita già «carnevalizzato», integrato ed inglobato nelle esperienze denaturate della modalità esperienziale. La poesia restringe il campo dei propri oggetti alle esperienze immediate, ai dati immediati della coscienza, una sorta di «poesia tribale», dove il flusso di coscienza è una modalità della processualità «fattuale»: «La mia mano è fiorita, /ho gettato i petali / sulla mentuccia che rideva: rideva di me! /Uno sciame di farfalle rosse l’ha gremita. / … il tempo le condurrà lontano / prenderanno il volo e…/  del ragazzo di vetro non resterà più nulla. / Le formiche cuciranno le ferite / non preoccupatevi, le cicatrici allibiranno con lui. / La Notte, Signora velata, tornerà a riposare».

Elena Ribet è una poetessa della nuova generazione (è nata nel 1973), che si è formata interamente nel nuovo mondo della rivoluzione mediatica dei linguaggi, in cui la vera e unica rivoluzione è stata quella portata avanti dall’induzione che il secolo della rivoluzione tecnologica ha avuto sul linguaggio della poesia. Le sono quindi estranee le problematiche del post-ermetismo, dello sperimentalismo e quelle di un certo hillmanismo e di un certo heideggerismo di ritorno; le sono completamente estranee le diramazioni conclusive di quel fenomeno tutto novecentesco e italiano dei linguaggi post-sperimentali, fagocitati nel mare magnum dei linguaggi esornativi e pubblicitari dell’universo mediatico. Una poesia quindi che è giunta dopo il diluvio degli «oggetti linguistici», dopo la dissoluzione del traliccio della poesia post-pascoliana, dopo la sproblematizzazione della stessa linguisticità e dopo la definitiva crisi della poesia della nominazione del «quotidiano», precipitata nel minimalismo attuale. Da un certo versante, Elena Ribet prende atto della impossibilità di costruire una «poesia degli oggetti» o del ricordo degli oggetti e, quindi, dell’estrema difficoltà di riproporre una poesia della rammemorazione, o del passato, a prescindere dal pericolo di una caduta nell’elegia, che sarebbe a questo punto un male minore, quanto per la consapevolezza che la «nuova poesia» sembra prediligere il Presente per via di quel fenomeno che chiamerei la presentificazione del quotidiano, che è cosa ben diversa dal quotidiano tout court. Già nel titolo dell’unico libro della poetessa, Diario dei quattro nomi (Novi Ligure, Joker, 2005), abbiamo la declaratoria della dissoluzione della monadicità dell’io e del canto monodico: i quattro «nomi» della poesia di Elena Ribet sono i quattro «nomi» del soggetto che si sdoppia e si duplica in quattro maschere.

Elena Ribet parte da una poesia a metà strada tra Georgia Stecher e Maria Marchesi ma compie un passo ulteriore e ha saputo metabolizzare le conseguenze che la rivoluzione mediatica ha comportato sul piano della linguisticità dell’oggetto e della stessa «assenza» dell’oggetto, dei nodi problematici posti dal moderno, («Tutto scorre quieto, lineare. Guardiamo le foto della luna di miele. Ma io mi sento brutta, non so perché. E continuo a fare brutti sogni. Questa notte ho sognato una stalla dove due uomini deformi mi violentavano. Poi ho sognato qualcosa di divertente sul matrimonio, ma non ricordo bene: un album di foto buffe, uno scherzo, la zia che diceva qualcosa sul camminare a piedi nudi. Tanti frammenti di sogni, elenchi di cose fatte, di cose da fare»), riprende da un ricordo della Achmatova («Un quadernetto con delle rose/ chiuso con un elastico rosso/ cercate quello»), fino alla propria originalissima pronuncia: «divento sensibile al respiro e al corpo /[so farmi male in molti modi] /ora /è meglio che io spenga la luce».

Il meccanismo dell’autocoscienza dell’io è visto come un meccano di matrioske; l’una sarcofago dell’altra, dove la presentificazione dell’evento abolisce la coniugazione dei tempi al passato, perché tutto ciò che è accaduto è soltanto ciò che accade, il presente si rivela attraverso tutta una fenomenologia di metafore del «quotidiano», il «quotidiano» è muto, è altro, è l’impresentabile e l’impredittibile. La presentificazione del quotidiano si rivela attraverso le metafore che lo illuminano: «Una elena dentro l’altra tutta figura e superficie. Una matrioska sarcofago delle elene di ieri una scatola dove nascondersi. Non ci sono vittorie del tempo c’è quel che rimane ci sono luoghi ci sono attimi e persone ci sono memorie e cellule tutte diverse tra loro c’ò tempo per ogni cosa sotto il sole c’è spazio per ogni cosa».

Manuela Bellodi è alla quarta raccolta di poesia, dopo Distacchi (1980), Per una manciata d’amore (2002), Albicocche per i miei ospiti (2006), e quest’ultimo La prossima volta (2008). Poetessa della «nuova generazione femminile», infatti il libro ha tutte le caratteristiche stilistiche della nuova sensibilità: a) un proposizionalismo di derivazione narrativa; b) il trattamento del «privato», rigorosamente ripulito di ogni aspetto legato alla propria vicenda biografica; c) stilizzazione in chiave metaforica del «privato». La poesia di Manuela Bellodi, come del resto tutta la recente poesia, sembra essersi disancorata dagli ormeggi della tradizione e dell’antitradizione. C’era un tempo (lontano) in cui c’era quella cosa chiamata società letteraria. Oggi ne sono rimasti i frammenti. Ma forse è meglio così, anche questo è un segno dei tempi. Se c’è qualcosa che contraddistingue la poesia della Bellodi da altra poesia contemporanea è la sua perfetta «non-riconoscibilità», il suo essere maggiorenne senza dare impressione di esserlo. Poesia che contrassegna l’uscita dallo stato di minorità della forma-lirica. Questo è ormai un fatto compiuto e assodato. Un fatto del passato. Per la Bellodi la poesia è quella cosa che va a capo e che riprende di nuovo fino a quando non va di nuovo a capo. E così via. In una eterna altalena di su e giù. E forse è meglio così. Direi che la nuova forma-poesia è un conglomerato di battute da cabaret, istrionismi, ironici mimetismi del parlato, pseudo-aforismi, finti solfeggi, finti ammicchi, finte citazioni, trovate, calembour. La poesia della Bellodi si muove con agio e grande eleganza, tra i proposizionalismi del nuovo gergo parlato della nuova intellettualità, presa al guinzaglio dei suoi nuovi problemi esistenziali. Ho già avuto modo di dire che la «nuova poesia» si trova in una terra di nessuno dove non c’è più uno stile egemone o una corrente di pensiero letteraria attendibile e affidabile, sono rimasti soltanto correnti e venti che spirano in tutte le direzioni. Sta di fatto, che la poesia della Bellodi ha quella particolare fragranza delle brioches al mattino col profumo del caffè, quella leggerezza di pensieri abbandonati a foglietti volanti roteanti nel vento, quella particolare delicatesse che li rende inimitabili e leggeri, perché non vogliono insegnare niente a nessuno, non possono convincere nessuno, non possono deplorare nessuno. Quella particolare gassosità e freschezza dei pensieri poetici della Bellodi è una qualità rarissima, lo humour di una raffinatissima e scaltra impostazione dell’oggetto-poesia tra gli oggetti linguistici e non che imperversano nella nostra vita quotidiana. Ecco, la Bellodi ci consegna alcune tra le più fresche e divertenti (ma quanta consapevolezza in quel divertimento!) composizioni di questi ultimi anni. Ma inutilmente la Bellodi ci vuole convincere del suo esser digiuna di poesia del novecento, in verità la trafilatura dei suoi versi la tradiscono per essere una raffinata interprete della tradizione, anche quando il verso sorvola lo sciocchezzaio o il gioco di parole, in realtà è la trafilatura dello stile che rivela inequivocabilmente la superiore consapevolezza estetica della sua poesia («Non son da te diversa / ladra o donna nella strada dispersa e disperata / che ruba e vende amore / come un distributore automatico»; «Tra me e l’e-mail / ho posto un guard-rail / al fax / preferisco il sax: / www. chi sei tu?»). C’è un grande riserbo, una attenta sorveglianza, una feroce autocensura che esercita le proprie attribuzioni sulla quaestio della «intimità», sulle questioni legate a ciò che un tempo lontano si indicava con il termine di «anima»; parola che ora è andata fuori corso e l’argomento è stato lavato e sterilizzato, e ne è uscita una «cosa» fresca di bucato; vedi la poesia intitolata «Fresco di bucato»: «Ecco, ogni cosa è tornata al suo posto: / il mio dolore accuratamente nascosto / e piegato come un fazzoletto antico, ricamato, / rimesso nel cassetto con cura, ben stirato / per paura che qualcuno ancora possa usarlo».

 

 

IL VERSANTE LIRICO DELLA «NUOVA POESIA» MODERNISTA

 

 

conflittualità tra il genere lirico e il nuovo paradigma

Mario Specchio, Alberto Toni 

 

Mario Specchio è nato a Siena nel 1946, la data di nascita è indispensabile per posizionare il poeta senese in quella corrente sotterranea che nel corso del tardo Novecento ha operato in sordina e lungo le linee laterali rispetto all’asse «portante» degli istituti stilistici solidificatisi intorno al minimalismo romano-lombardo. Illustre germanista, i suoi studi e le sue traduzioni di Goethe, Hesse, Celan e Rilke  hanno dato un contributo non irrilevante all’approfondimento di una poesia che fin dalla sua prima apparizione con A piene mani (Firenze, Vallecchi, 1979) - ma le prime poesie risalgono addirittura al 1964 - lo hanno rivelato quale poeta sostanzialmente modernista, «un giovane all’“antica” che schiettamente si poneva a un vibrante noviziato sotto il patrocinio di alcuni modelli niente affatto dissimulati, ben riconoscibili», come annotava Mario Luzi nella prefazione. Già in questa primo lavoro appare chiara l’opzione di Mario Specchio per la linea laterale Saba-Sbarbaro-Cardarelli quale versante privilegiato della poesia del Novecento. Sempre Mario Luzi nella acuta prefazione annotava che Specchio metteva «il vino nuovo nei vecchi otri», cogliendo immediatamente il nocciolo dell’operazione avviata dal giovane poeta senese. Ma sarà con Nostalgia di Ulisse (Firenze, Passigli, 1999) che Mario Specchio attingerà il punto più alto della propria produzione poetica. Con il secondo libro, Specchio indica una soluzione alla crisi del genere lirico quale si era andata configurando lungo gli ultimi due decenni del Novecento e, in un certo senso, anche retrospettivamente, mette un punto, un segnale, un avviso di non ritorno e procede con passo sicuro in direzione di una lirica ristrutturata; che operi una modernizzazione del linguaggio, sempre all’interno del «traliccio» Saba-Sbarbaro-Cardarelli, che abbia i suoi capisaldi nella metafora e nel piano colloquiale. Specchio tenta di trovare una soluzione stilistico-estetica a problemi che estetici non sono, si verifica così anche nella sua poesia una conflittualità tra il genere lirico e il paradigma prescelto, una conflittualità foriera di imprevedibili sviluppi. In proposito, l’indagine di Grammont sul vers libre nella poesia francese ci fornisce un esempio istruttivo di ciò che intendo. Nell’analizzare lo schema del verso lungo seguito da uno breve, Grammont si sofferma sul potenziale «espressivo» e sulla «rapidità» dello schema metrico di ogni poeta, ed è significativo che la capacità di Mario Specchio di alternare il verso lungo (per lo più endecasillabo) a quello breve, derivi proprio da una lunga e costante frequentazione della poesia europea del Novecento: La poesia del Novecento è un congegno linguistico che viaggia ad una velocità enormemente superiore a quella dell’Ottocento. Trakl, Rilke, Mandel’stam e Celan fanno una poesia che richiede al lettore una lettura a velocità multipla, il verso si fa più vischioso, denso, fitto di resistenze interne, oppure slitta velocemente da uno strato linguistico all’altro. Man mano che ci si inoltra al suo interno, la poesia dei maestri del Novecento si fa densa, compatta, ordina le parole come una falange macedone dinanzi al lettore, quasi a vietargli l’ingresso nel senso, nel segreto della sua struttura interna. Che è anche una spia semaforica dell’approssimarsi della crisi interna della poesia moderna. Il suo ultimo atto di resistenza. La crisi del messaggio poetico recherebbe in sé, retrospettivamente, la crisi delle convenzioni comunicative su cui quel messaggio si basava, ovvero. Il fenomeno dell’oscurità della poesia moderna è un dato di fatto non eliminabile. L’oscuramento del senso del messaggio poetico sarebbe la ragione stessa che presiede alla sua oscurità.

Quando Specchio titola l’ultima sezione della Nostalgia di Ulisse: «Frammenti per un canzoniere postumo», ciò significa che è già dentro quella problematica dell’oscuramento del senso che ha attraversato la poesia europea del Novecento. Il carattere «postumo» del «frammento» reca già in sé la problematica dell’oscuramento del senso e della dicibilità: «Ho costruito l’inferno pezzo a pezzo / giorno per giorno /con mani pervicaci. /Ho costruito un inferno senza fuoco,una stanza spaziosa,/raffinato /ho appeso alle pareti quadri e foto /l’ho ammobiliato come fosse un luogo /dove restare per l’eternità».

Il titolo stesso del libro «Nostalgia di Ulisse» dà la chiave di lettura della sua poetica: nostalgia per una vita piena di ricerca e di senso, nostalgia per il viaggio e per l’avventura; Ulisse è diventato un mito muto che non parla più agli uomini dell’ipermoderno, ormai è definitivamente sbarrata la via che conduce ad  una vita ricca di avventure e di senso, l’uomo moderno può viaggiare in internet, non ha più bisogno di alcun viaggio né di alcuna avventura e l’opera d’arte non può adire alla rivivibilità di un’esperienza che non c’è mai stata. La poesia non rimanda più ad alcun mondo dietro di sé e non ha più alcun mondo fuori di sé. Ciò che resta è il tema del doppio e dell’identità. Come a dire, guardiamoci dal kitsch del viaggio nell’infanzia o in mondi sconosciuti o nel quotidiano: non c’è alcun viaggio che dischiuda un’esperienza significativa se non nella proiezione della nostra identità sul fondale bianco dell’assenza di destino. «Ho inseguito ridendo la mia ombra /l’ho afferrata /l’ho fatta in mille pezzi /poi l’ho vista di nuovo ricomporsi

altera e impenetrabile. /Talvolta mi attanaglia il desiderio /di disperdermi in lei /essere un’ombra /allungata sul muro di bugnato /che costeggia il giardino, /testimone dell’ombra /come un pezzo di sole /caduto per errore /tra le foglie del platano» (da Nostalgia di Ulisse).

Con il successivo libro, Da un mondo all’altro. Poesie 2000-2006 (Firenze, Passigli, 2007), Specchio opera una sterzata all’interno del paradigma lirico, optando per una lirica del principiale, apertamente in controtendenza rispetto agli ultimi esiti della poesia italiana contemporanea che tenderà a privilegiare una poesia sostanzialmente «narrativa». Una sorta di «controriforma» che intende ripristinare la centralità del discorso poetico quale discorso lirico, riflessione sulle relazioni affettive fondamentali: il padre, la madre, l’anima, la morte, l’amore, la città di Siena, le donne amate. In sintesi, la lirica di Mario Specchio fa due passi indietro, prima della crisi della lirica, per poter compiere un passo in avanti: ristrutturare la lirica utilizzando gli stessi elementi compositivi e tematici della lirica, nella convinzione che una risposta alla crisi della lirica, dichiarata alla fine del Novecento, possa e debba essere formulata attingendo al medesimo serbatoio della lirica, in quella linea che, a partire da Saba e attraverso Cardarelli giunge fino a Betocchi e a Caproni. Rimane sostanzialmente intatta l’eredità del Novecento: l’impiego del verso libero, l’alternanza del verso lungo con uno breve, l’indebolimento della accentuazione complessiva del dettato, l’impiego della metafora «povera» («un gabbiano/ taglia il muro di pioggia/ e con fatica/ raggiunge il lucernario del tuo cuore»), quasi casuale e come dispersa nel dimesso dettato del monologo lirico. L’ultima poesia di Mario Specchio si presenta come una ricerca della identità, uno scavo nei penetrali dell’interiorità, una riflessione sul significato dell’io e della poesia. La poesia del poeta senese «chiude» proprio là dove altri tenderanno ad «aprire» il discorso sull’impossibile discorso della lirica nel Moderno, e questa «chiusura» si rivela essere, ad un tempo, una scelta valoriale e strategica, come per sbarrare il passo alle poetiche che abbandonano il discorso sul principiale, considerato sorpassato o pleonastico, per indirizzare la poesia in direzione di una sorta di glossematica o di glottologia del commento. Dentro il fortilizio del discorso lirico la poesia di Mario Specchio si accinge così a resistere ad un lungo assedio, un assedio dagli esiti incerti, altamente periglioso, dal quale sortirà un solo superstite: o il Moderno, con le sue propaggini di una poesia «narrativa» e post-moderna, o il discorso lirico rigorosamente delimitato dalle «chiusure» del proprio casato gentilizio, delimitato dalle nobili ascendenze della cultura della civiltà europea.

Di Alberto Toni ricordiamo i libri: La chiara immagine (1987), Partenza (1988), L’apparizione (1992), Poesie per Patrizia (1993), Dogali (1997), Liturgia delle ore (1998), e gli ultimi Teatralità dell’atto (2004), Mare di dentro (2009), conclusivi di una stagione di grande maturità espressiva del poeta romano. Si è parlato della poesia di Alberto Toni come di un esempio di coniugazione del registro della cronaca privata con quello ben più ampio del piano storico. Ma ad una analisi più accurata non può sfuggire la particolarità di questa poesia sapientemente dosata sul pedale basso del linguaggio quotidiano e sul registro degli eventi «triti»; non l’aulico e il prosaico vengono qui a confliggere e stridere, quanto la struttura dello spazio linguistico. Come avviene allora che la struttura dello spazio dei testi di Alberto Toni diventa un modello dello spazio dell’universo e la sintagmatica interna del testo diventa un linguaggio che simula la dimensione spaziale? A rigore, dovremmo parlare di isocronismo di tutti gli eventi o, come li chiama l’autore, «atti», che si sono succeduti e si snodano nel continuum spazio-temporale della Storia. «dentro la Storia, anche per trovare le parole per un colloquio nuovo con i lettori del ventunesimo secolo», scrive l’autore nel risvolto di copertina di Teatralità dell’atto. Si può dire che tutta la poesia del poeta romano, fin da Partenza (1988) a Liturgia delle ore (1998), si inserisce in una ricerca dello spazio linguistico che riesca a contenere una pluralità di luoghi, di eventi, di personaggi quali attori disomogenei appartenenti ad un insieme omogeneo. Se accettiamo la definizione di «spazio» data da Juri Lotman quale «insieme di oggetti omogenei (fenomeni, condizioni, funzioni, figure, significati variabili, ecc.), fra cui esistono dei rapporti, simili ai comuni rapporti di spazio (continuità, distanza, ecc.)», possiamo leggere la poesia di Alberto Toni come un tentativo di simulare il senso spaziale mediante enunciati che non hanno natura spaziale. Del resto, sempre Lotman ci ricorda che anche i fisici e i matematici si servono di concetti come «spazio luminoso» e «spazio fisico» che sono la base di modelli spaziali largamente in uso in ottica e in elettrotecnica. In modo non dissimile, Alberto Toni utilizza un concetto similare nella sua poesia mediante un uso concettuale topologico di nomi storici e entità geografiche. Un esempio: «…Gridano/ le acque peloponnesiache: ‘Un blu/ profondo, altro che Golfi del Messico -/ Paradiso e Floride; Sparta suprema cinta di sangue/ e Atene sua antagonista, che Dio l’abbia in gloria e/ abbatta il muro dei secoli indifferenti’/…/… nessuno se n’è accorto/ leggendo Tex Willer, le acque mediterranee,/ Greci e Navajos, lo spirito d’avventura apra/ finalmente nuovi capitoli di pagine scritte./ Mejo de così…», dove l’enfatizzazione della procedura topologica è attizzata dagli accostamenti «abnormi» che stridono dal punto di vista semantico e concettuale: vedi l’accostamento di «Tex Willer», «Greci» e «Navajos», condito con l’inserzione di una assonanza romanesca: «Mejo de così». Risulta quindi consona a questa procedura l’abbassamento del piano poetico al piano pseudo-narrativo, nonché l’enfatizzazione in direzione di una prosaicizzazione e diseroicizzazione del testo poetico. La Storia non interviene con intermezzi o mediante citazioni «illustri» o «pedestri», attraverso una disamina dei vinti o dei vincitori, ma attraverso una sapiente fusione della «cornice» con il «quadro», dove il fatto privato assume le sembianze del fatto pubblico; ed ecco spiegata la frase enigmatica del titolo, che rimanda ad una condizione teatrale del fare artistico contemporaneo, come se ci si trovasse continuamente sulla scena di un teatro, nella condizione esistenziale che tutti i nostri atti non possono non assurgere al piano teatrale, ma non in una condizione di recita pirandelliana, bensì in una condizione, appunto, di teatralità dell’atto, cui non sfugge neanche la condizione dell’artista nel nostro tempo. Discorsività, emotività e rappresentazione sono i tre binari sui quali lo stile della poesia di Alberto Toni poggia i propri fondamenti. Poesia che assimila la prosa, che attira la prosa con la forza di un magnete; si badi, non poesia che va verso la prosa ma prosa che viene attirata, fagocitata entro il campo di tensione linguistico della poesia. 

 

 

la linea metafisico-escatologica 

Fornaretto Vieri, Mauro Germani 

 

Del poeta fiorentino erano note, prima del 1999 quando apparirà Tartaria (Firenze, Polistampa), poche poesie apparse in riviste toscane in modo frammentario e discontinuo. Con Tartaria invece abbiamo la fisionomia di un poeta non sussumibile all’interno delle varianti delle poetiche contemporanee ma «in un’area letteraria pochissimo frequentata, quella metafisico-escatologica», come scrive Franco Maniscalchi nella pertinente nota introduttiva al libro. Innanzitutto, va detto che l’originalità della poesia di Fornaretto Vieri deriva da una rigorosa speculazione sul concetto di Parola poetica e dalla rigorosa traduzione in poesia degli assunti filosofici cui l’autore è giunto. Il poeta fiorentino giunge a suo modo, attraversando la poesia del negativo del Novecento, al concetto della Parola poetica come Assenza, ovvero, luogo dell’utopia, luogo del non-luogo. La poesia assume su di sé il compito inderogabile di trasformarsi nella trasfigurazione del non-luogo, nel luogo, ovvero, nel Logos. Una singolare sovrapposizione di pensiero tomistico e pensiero heideggeriano genera la poesia del desiderio che fonda il rapporto con il dicibile; la contraria costellazione psichica del non-desiderare è esattamente «ciò che non bramiamo», che «non può essere oggetto né della nostra speranza né della nostra disperazione». Per Fornaretto Vieri, lo Streben, lo sguardo rivolto all’indietro verso il «Verlonerer Ort», che «immer habe ich dich gerufen», è la condizione metafisica e la costellazione simbolica che guida lo sguardo nostalgicamente rivolto verso il remoto. Il moto del ritrarsi e del ripiegarsi corrisponde al tropismo della parola poetica che recede dinanzi alla pronunzia dell’utopia: «Il non luogo, l’impronta dell’altrove,/del luogo in nessun luogo eppure ovunque», cosicché «il viandante intende al perso dove,/ nell’oltre nuovo dell’Incarnazione», si verifica la vestizione della parola: «Nel verbario dolente del mio dire/ più non trovo il tuo volto, ma l’assenza,/ la stremata memoria, quintessenza volatile dell’ombra al suo morire».

Il vaso formale di questa poesia è la «stanza», sede strofica dove la memoria stilnovistica dell’amore diventa «soltanto una rima e il suo svanire/ e il ridire d’amor la tua valenza». Il viandante metafisico che abita il Libro della Parola poetica come un nomade il suo deserto, si avvia all’avventura spirituale: «M’inoltro a mezzanotte a settentrione», «Oltre il silenzio delle coturnici», ove «Si frantumano i ghiacci nella sera», «Lontananza di tempo che ti scherma», «In freddi scintillanti, in quasi immoto/ muovere delle ore, in regno d’ombra». Qui l’avventura dello Streben duplica il periplo del ritorno ad Itaca, l’erranza escatologica è un ricalco del nomadismo della parola poetica alla ricerca del suo luogo. La poesia che titola «Streben», recita: «Mai più con me, da me per sempre assente». Quel «sempre assente» è il nocciolo della questione: la «mancanza» è ciò che attira la parola poetica verso il buco nero dell’indicibilità, la parola «nel fruscio che va oltre le presenti/ cose e rincorre come può gli eventi,/ scrosci di gronde, affiches, fanali algenti,/ in frangenti impigliati o via fuggenti…». Questo rappresentare l’irrappresentabile è il destino nostalgico della parola poetica che l’autore configura in termini iconici neostilnovistici: «Questo interiore mio sempre chiamarti/ ed il cercarti per straziati incanti/ e il tuo dimenticarmi e non più amarmi/ non valgono al mio cuore che disarmi,/ che non si accenda nei dolenti canti». Tartaria è il paese della verità («Tartaria grigioverde landa») o, il suo sinonimo, Coulommes («Coulommes lontana e persa e breve villa/ impossibile corsa ai miei pensieri/ sul cuore groppo che non dissigilla»).

Ed ora citiamo la definizione del poeta fiorentino riportata in prefazione: «La poesia è una eco che muove incontro alla sua vibrazione primigenia; l’intima sostanza poetica è innervata da una istanza eminentemente anaforica (anaphérein: portare – phérein – indietro – ana – far risalire, richiamare). In tal senso si può ribadire che la poesia autentica – poesia del lontano e del perduto – è sempre una poesia romantica e con i romantici si può ripetere che anche la poesia classica è pur sempre romantica (…) Il linguaggio è tanto più poetico quanto più forte è in esso la tensione verso il non luogo linguistico». E così, per Fornaretto Vieri «un’istanza di espressione plenaria rinvia al luogo assente della piena dicibilità dell’essere nel suo svelamento» e «il linguaggio confessa, appunto, la sua natura, attualmente, utopica».

«Polvere d’ulna o calce dalla luna /s’interna nella rete dei fogliami: /stride il refe del vento che alla cruna /scorre del freddo e va sfibrando i rami. /Per antri d’ombra a rastremati rostri /si filano le bende di Sesostris».

Con la poesia di Mauro Germani, Luce del volto (Udine, Campanotto, 2002), ci troviamo dentro il «Tramonto», all’interno della sensibilità tardo-autunnale che guida il cammino delle migliori intelligenze poetiche contemporanee, quando il sole malato del Novecento si sta rapidamente concludendo e si eclissa per sempre la speranza di una «rinascita» o di una «redenzione». È il momento in cui il viandante entra nella notte: «È qui, in quest’anfiteatro di macerie, di antichi rifugi, di arcate superstiti e templi diroccati…». La condizione spirituale e psicologica dei viandanti è la seguente: si è perduta per sempre la memoria dell’inizio, del principiale, di come si è entrati nella selva oscura: «Arrivammo quaggiù in un tempo remoto. Avevamo un destino notturno, una missione troppo segreta».  I protagonisti, coloro che fanno ingresso nel tramonto, hanno già compiuto il viaggio, il gelo è penetrato così profondamente che non possono più avvertire alcuna sensazione di freddo: «Clandestini e perduti ci incontriamo dove i lumi affogano nella corrente. Non sentiamo più il freddo e accogliamo i segreti richiami del vento… La notte viene dal lago, da un centro smarrito, da un sepolcro di stelle».  Il secolo è finito senza alcuna eredità, senza un legato testamentario. Un’intera civiltà è entrata nella via della «notte», ma dove? «Dove salta la notte nel fondo del suo specchio». Ma di che pasta è fatta la nostra erranza? «La nostra erranza è di chiodi e di nuvole», e una voce di un disperato viandante chiede: «Di chi mai siamo gli eredi?».  Nel «Baluginante fogliame… C’è un’ombra più grande che sempre ci sfugge…». Il delirio è la condizione spirituale sostanziale della nuova condizione umana: «A volte scendono dalle colline schiere di cavalieri invisibili…», e un anonimo personaggio  rivela nel delirio: «Ho sentito una notte il fragore delle armi, l’affanno dei cavalli al galoppo… Una lama mi ha passato la carne e il sangue ha macchiato la terra… La luna dev’essere entrata dentro di me…». «L’acqua ti colava dalla fronte». V’è un lago solitario che precipita nella notte, vi sono cavalieri armati, si ode il fragore delle armi, una fanciulla («Quando morivi eri più bella»), vi sono anonimi viandanti che sussurrano domande ormai insensate: «Che cosa fummo una volta? E che cosa siamo se non questa patria immemore, questa perenne agonia?». Qualcun altro: «Devi far presto… devi entrare nel lago nero, inginocchiarti sull’acqua…», ma non è una abluzione purificatrice, è l’oblio dell’essere che si è consumato come una torcia, e si è spento del tutto, senza fragore. Forse c’è qualcuno, c’è una presenza, non si sa se «ha la voce di un profeta dimenticato oppure di un amante tradito… È senza volto e senza storia… Non c’è che il suo mantello di nulla, il tremore d’un riflesso sull’acqua come un’antica nostalgia». L’uscita dal tunnel del Tramonto è una sensazione ondivaga, fumosa; una parola sconosciuta, onirica: «La dipartenza… Una scia argentata che la corrente sospinge fino alla sponda opposta»; «Siamo lettere di una scrittura che si cancella. Siamo una domanda che tace». Con queste parole inesorabili si chiude la prima sezione de L’ultimo sguardo (1988-1995).

Una escatologia laica e materialista, più simile a una condizione testamentaria che non fideiussoria. Un testamento implica un funerale e l’esibizione di un cadavere: il cadavere del Novecento. Nel fuoco delle prime quindici liriche in prosa, Mauro Germani ha già esaurito il suo personale mandato: la requisitoria della «notte» incipiente. La produzione che verrà, e che ora è raccolta in questo prezioso volume, narra il dilemma e la titanica impresa di sortire, con le truppe dal tramonto, nella piena luce del mattino: «Allora si apriranno d’improvviso le porte, un nome straniero chiamerà dalla penombra e sarà il tuo, il nostro»; «Ma le parole non hanno lidi (…) Il resto è poesia della notte e del fuoco lontano»; «Angeli senza luce aspettano l’alba promessa. Dev’essere tardi. Forse gli uomini non esistono…». È una condizione dubitativa quella che si apre all’essere, che mina la percezione del «reale»: «Guardami, guardami ancora, anche se sono lontano, se non ci sono… Partiremo veloci con la luna sotto il mantello…»; «Forse non sono che un vagabondo dei boschi, ma presto avremo la stessa voce, dice il cavaliere alla nebbia». Il «dispaccio» di cui si narra è «una lunga filastrocca… La porto come il mio tascapane, come la mia uniforme», un dispaccio incomprensibile, asignificante dove «tutto si confonde in una lingua musicale». Un emissario del nulla affiora dalla tenebra del sonno e parla: «Che dici, che dite nella penombra? Siete voi?», parole terribili perché nella loro semplicità rivelano l’orrore della irriconoscibilità reciproca degli uomini.

Con il successivo Livorno (Forlì, L’arcolaio, 2009), la prospettiva scatologica scompare, Germani sembra tornare ad una poesia della interiorità e della intimità, ad un basso continuo lessicale e stilistico che sembrerebbe più un ripiegamento dinanzi ad una forte resistenza che non un avanzamento verso l’ignoto stilistico.

 

 

la stanchezza del tempo e la sensiblerie del Tramonto 

Francesco Giuntini, Tiziano Salari

 

Con La fabbrica del tempo (Firenze, Polistampa, 2001), Francesco Giuntini  ci consegna in un volume unico i libri già editi: Lancette (1995), La catena dei giorni (1998) e, in appendice, la terza silloge intitolata  La vicenda del sole e degli eventi minori. Il titolo complessivo è, appunto, La fabbrica del tempo, suddivisa nelle sezioni «Notte», «Mattino», «Pomeriggio», «Sera» e poi ancora «Notte». È una lirica che sa risolvere la miniatura con la campitura metrica, che coniuga la conversazione con il monologo, l’ampio spettro delle variazioni con un rigido nucleo monotematico. Dal punto di vista stilistico la poesia di Giuntini apre al futuro facendo un passo indietro in direzione della tradizione lirica; ha in comune con il versante narrativo la preferenza per la rappresentazione, con il dramma la tendenza alla problematizzazione del conflitto. Lirica che compie una intelligente azione di ristrutturazione della linea laterale della poesia italiana (che da Onofri giunge fino a Dino Campana). Giuntini utilizza tutto il cimiteriale ossario del Tempo: l’orologio, la clessidra, le stagioni, i giorni, le ore, la vicenda del sole, e poi Orfeo, l’idiota, le maschere etc., coloro che si sono sottratti alla prigionia della temporalità condivisa; e poi le donne che si sono poste nella posizione di attesa della presentificazione del Tempo: Didone, Penelope. Entro questa «griglia» metafisica la poesia di Giuntini trova una dimora stabile. La  impermanenza mi sembra il carattere saliente di questa lirica, la sua altezzosa «resistenza» al tempo, il suo pendere verso la «memoria». Ecco quel sinistro tintinnio, quel barbaglio minaccioso: «Battono i passi per le stanze vuote»; «Che torpore di nebbia avvolge questa/ processione di lampade sul ciglio»; «Qualche raggio s’infiltra, se la polvere/ posata su la ruota del calesse/ ti ha visto entrare, sagoma e rumore,/ frangere la caligine dei piani». Il verseggiare è un po’ come il vendemmiare, e ognuno raccoglie quel poco che ha seminato, e non c’è dubbio che Giuntini in quest’opera abbia seminato una grande quantità di pensiero raccogliendo una messe di alta calibratura. Poesia che ha raggiunto una saggia distanza dal piano cronachistico del quotidiano, tutta incentrata su un’idea di procedura temporalmente orientata verso lo scandaglio del lato nascosto del visibile con una particolare attenzione per le ore serali e antelucane, per le parole-metafore che aggettano verso una dimensione di latenza, dove vige il «tono d’ombra», le «sagome d’ombra delle cose», «il varco delle tenebre, alla sera». Sono sufficienti alcuni versi da La fabbrica del tempo per intuire la «tenuta» del registro stilistico di questa poesia: «Se tu fossi rimasta mia compagna / per questo giorno tetro /che segue la mia festa, se tu avessi /preso parte ad un brindisi, che bagna /la stanchezza del tempo e tiene dietro /allo scettro degli anni, come un guitto /segue il principe triste, non sapresti /che forse era già scritto…».

Con Il senso della misura (Firenze, Polistampa, 2006), la poesia di Giuntini acquista in astrazione ciò che perde in concrezione. La forma del sonetto (con enedecasillabi non rimati e ritmicamente attrezzati), privilegia le strutture chiuse della tradizione. Il libro è un dialogo ininterrotto con gli universalia: con i quattro elementi che sovrintendono alla struttura del cosmo: il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra che formano la categoria «Degli elementi sensibili», fino a giungere a «Per le sfere celesti», la grande sezione di chiusura del libro passando attraverso la porta stretta della breve sezione centrale «Dalle terre emerse», sorta di contrappunto della memoria delle cose «familiari», dove «Il prevalere dello spazio» contrassegna «Il battito del tempo», dove soltanto «Il filo del pensiero» può oscillare «A tarda sera il filo del pensiero/ si assottiglia e diviene trasparente», almeno fino a quando su tutto sovrasta «Il prevalere del silenzio», l’ultima poesia della sezione che dà il via alla parte conclusiva, propriamente una sorta di prologo al cielo. Qui lo stile e il linguaggio poetico di Giuntini può eccellere nelle calibratissime giunture metriche, nel fraseggio e nelle flessioni dell’endecasillabo ammantato con la toga di una nobiltà ancestrale e quasi fissa, immota, ferma nel tempo che nel frattempo è trascorso e trascorre. Diventa allora chiaro che «il senso della misura» può essere soltanto il metro che, come un metronomo, guida il viaggio metafisico del poeta fiorentino «in profondo silenzio» tra le stelle, i pianeti e le galassie (Venere, Mesarthim, la via Lattea, tra Meteoriti e Vortici neri, tra il Sole e gli Spazi siderali, La Nebulosa del Granchio, Ganimede, Achird, Schedor, Albireo, Heka, Hassaleh, Saturno, Sirrah, Marte, Deneb etc.). Un impianto endecasillabico di inusitato nitore ed eleganza,: «Io vivo dentro un sogno, non conosco /la paura di esistere. So bene /che il tempo e la distanza hanno il valore /di uno sguardo che interroga, fra tanti…» (da Il senso della misura).

Tiziano Salari è un poeta che da tempo è impegnato a riparametrare la poesia italiana contemporanea all’interno del quadrante della speculazione sull’arte che il Novecento ha prodotto. Certe sue retromarce alle posizioni filosofiche del giovane Lukacs pre-marxista, lo rivelano per uno dei più attenti e problematici poeti della contemporaneità. La sua convinzione che occorra individuare una terza «linea», una terza direttrice di marcia all’interno della forbice costituita dalla linea dello sperimentalismo e da quella della Linea lombarda, è un tentativo degno di attenzione. È qui che si giocano, e nel futuro si giocheranno, le partite decisive, è su questo tavolo che nel prossimo futuro si faranno i conti in tasca alla poesia italiana a cavallo dei due millenni. Quali novità sono state apportate dalla «nuova poesia» e dalla nuova speculazione sull’arte al «canone» del Novecento? E queste novità si situano in una direttrice di continuità o introducono una dis-continuità, una rottura e una direzione «divergente» rispetto al «paradigma maggioritario»? È il «paradigma» del tardo Novecento realmente maggioritario dal punto di vista dei risultati estetici, od è invece maggioritario soltanto dal punto di vista degli equilibri politici ed istituzionali?

Oggi, porre il problema della poiesis significa riconoscere la problematicità aporetica delle norme che disciplinano la prassi artistica; così che la modernità è indiziata di un inesauribile politeismo di norme proprio in quanto i processi produttivi extraestetici pongono con forza l’esigenza che i processi produttivi estetici siano pensati come profondamente contraddittori ed antinomici. In tal senso, Tiziano Salari è convinto che una nuova poesia non potrà che sortire da una critica totale e radicale del presente. La sua lettura di Heidegger, attraverso la lezione del giovane Lukács, è oggi una delle più autorevoli ed originali direttrici di ricerca della «nuova poesia». Salari ripianta la parola poetica  all’interno di una sensibilità del «Tramonto». La parola poetica è «radice errante», il «senso» è disperso e soltanto il «profugo, sempre, mai/ rimpatriato» è portatore di destino, «nel luogo del principio/ errabondo nel logos», come recita la poesia di apertura dell’ultima raccolta del poeta di Verbania, Il fruscio dell’Essere (Nuova Frontiera, Salerno, 2007). È significativo l’accenno esplicito al «principio», contenuto nel frammento citato; la riflessione di Salari si concentra sul punto di origine della crisi della parola poetica novecentesca, Sta di fatto che una «nuova poesia» nasce allorquando matura una nuova concezione della parola, soltanto allora, improvvisamente, la nuova sensibilità per la parola fa apparire «invecchiata» la poesia immediatamente precedente. Salari è ben cosciente che fino a quando non si consoliderà questa nuova sensibilità per la parola, appariranno soltanto opere di accademia o di epigonismo. La lingua, per il poeta di Verbania, non è un semplice medium nel quale transita l’intenzione significante, non è un conduttore di energie significanti o un tubo catodico nel quale si verificano gli effetti elettrostatici e cinetici che noi sperimentalmente vi induciamo. Vista nella sua totalità «ogni lingua comunica soltanto se stessa», afferma Benjamin. È illuminante l’attenzione prestata da Tiziano Salari alla categoria della «totalità». Ogni opera d’arte linguistica è un in sé che si esaurisce e si legittima nell’ambito del proprio orizzonte linguistico. Ogni opera d’arte è una totalità temporalmente determinata. 

La poesia di Tiziano Salari nasce dunque e si consolida lungo l’alveo della crisi novecentesca della parola poetica, trae da questa crisi le linfe e le forze per attraversarla compiutamente ed approdare ad un nuovo territorio, tende alla rappresentazione dell’epifania dell’Essere; il carattere «astratto» di questa poesia è il prodotto del novecentesco processo di disintegrazione dell’«io». La parola poetica si presenta come «mancanza», come vuoto che separa il nome dalla cosa: il vuoto della cultura del tardo Novecento.

Con i versi del poeta di Verbania: «essere bilingue, multilingue,/ disorientato e/ straniero nella propria lingua/ in una sola lingua sradicato» (da Il fruscio dell’Essere). D’ora in avanti, il poeta del Moderno si troverà impaniato nella irresolubile condizione di straniero nella propria patria e di straniero nella propria lingua, una duplice condizione di estraniazione che soltanto i più consapevoli «nuovi poeti» del tardo Novecento intenderanno nella sua pienezza di risvolti e di sviluppi. È questa la condizione spirituale affrontata ne Il Pellegrino Babelico (2001), che reca in exergo l’ammonimento di Angelus Silesius: «Sei la Babele stessa: se non esci da te/ In eterno rimani taverna del demonio». Il Pellegrino Babelico ha letto tutti i libri ed ha percorso tutte le avventure del pensiero e della poesia universale: nella sua voce e nella sua mente si affollano le dichiarazioni di Shakespeare e di Baudelaire, di Kafka e di Nietzsche, di Schopenhauer, di Freud, di Cervantes… il «Pellegrino» si perde in tutte le lingue e in tutte le identità, non ha più una identità, gli dèi sono lontani, si profila il Tramonto. Dentro le quinte e il fondale del «Tramonto» la parola del discorso poetico è macchiata di inautenticità. L’«io» del «Tramonto» è una finzione e la sua parola è inautentica. Dal punto di vista del «Tramonto», il discorso poetico che abbiamo conosciuto nel Novecento, diventa sempre più falso, posticcio, prodotto di una finzione, vulnerato ideologicamente e le sue parole suonano alle orecchie del  «Pellegrino Babelico» profondamente inautentiche.  La sezione denominata «Tramonto» de Il fruscio dell’Essere, ha un andamento saggistico-prosastico; nelle nuove condizioni spirituali e materiali di fine novecento, il discorso poetico, così come l’abbiamo conosciuto, ha terminato il suo ciclo vitale, l’unico discorso poetico possibile è questo che si profila all’orizzonte: un ibrido, un ircocervo, a metà tra la prosa saggistica e il saggio poetico, che oscilla, come il cappio di un impiccato, tra la finzione e la famigerata positura dell’«io» poetico. «Giorni brevi d’inverno, con i crepuscoli precoci. Anche le percezioni si contraggono, e la vita sembra meno preziosa, l’addio al giorno che muore più estenuato. A volte non si tratta neppure di un addio, ma di un lento trapasso dalla penombra all’ombra». «Ogni tramonto è tutti i tramonti e allo stesso tempo quello assoluto e irripetibile. L’ora della nostra morte».

In questa condizione spirituale di desertificazione, il «Pellegrino», colui che ritorna, è un ectoplasma, un viandante che ha dimenticato di esserlo, e che avanza a tentoni incontro ad «un aperto destino», mentre intorno cade la neve. Ecco la poesia intitolata «Ritorno» (da Il fruscio dell’Essere): «sulle acquee superfici di latta rilucente /percossa da un tremulo raggio granuloso /s’avanza un traghetto lento verso il molo // un uomo cammina sul ponte e scruta le sponde /che si avvicinano con lo stratagemma /di guardare le cose che la sua vista abbraccia /come perdute o per lui morenti /mentre ancora le possiede /sul limitare di un aperto destino // spetta a lui la decisione di mutare percorso / e nessun dio lo può salvare / dalle nocche delle Madri / che premono velate nell’addiaccio / dell’inconscio a rinchiudere / in un anello i cappi esistenziali // e balzano greggi di case bianche su per i monti / a smuovere nel profondo / la nostalgia di un rifugio, / ma l’uomo sa che solo / nella parola e nel verbo della sua mente / è l’approdo e il resto è neve / al grido del battelliere / al sole che dissigilla nel vento. / Case cupole e bandiere».

 

 

il modello  del «nuovo realismo» e il neocrepuscolarismo post-moderno  

Valentino Campo, Fabrizio Dall’Aglio 

 

Possiamo affermare che la «nuova poesia» si pone il problema dell’elaborazione di un nuovo modello di rappresentazione che sia ad un tempo mimetico e transitivo, che consideri il soggetto completamente calato nel mondo con cui istituisce una relazione di senso e l’oggetto liberato dalle asfissianti regole d’adeguazione a un «fuori». Un modello non precettistico, non normativo, non regolato dalle poetiche ideologiche che hanno deliberato nel corso del Novecento quale tipo di figuralità eleggere e quale oggettistica, financo quale tematica e quali «interni», addirittura quali paesaggi adottare e che tipo di narratività preferire: se il pedale «basso» o il pedale «alto» come se si trattasse di andare in bicicletta. 

In questo nuovo orizzonte di pensiero, la «nuova poesia» ha inteso iniziare un dialogo con la «verità» attraverso un nuovo simbolismo poetico-configurativo, ponendo nello zaino del rigattiere ogni discorso sull’assenza di senso della verità, o sul senso della verità e sulla sua natura presuntivamente legiforme. Nella «nuova poesia» di Campo (La quarta guerra sannitica e altri poemetti Faloppio, LietoColle, 2010) è un nuovo modello rappresentazionale che si afferma, che trova nel proprio svolgimento nuove forme-icone per la linguisticità degli «oggetti», là dove è il trattamento che costituisce il differenziale tra gli oggetti d’esperienza e gli oggetti linguistici. Per la «nuova poesia» la rappresentazione è la presentificazione di una assenza, intesa come sutura linguistica di un oggetto linguistico che si ritrae, e che nell’atto del ritrarsi deposita una scia linguistica, una traccia, un solco linguistico di ciò che è scomparso. In particolare, nella poesia di Valentino Campo la presentazione è quasi sempre indiretta (in quanto simbolica e analogica) o traslata (in quanto allegorica);  il «quadro», gli «interni» e gli «esterni» sono scentrati, non hanno né una prospettiva né un centro, sono finzioni sceniche, finzioni di finzioni, realtà allusive e illusive che apparentemente sviano il lettore o passano sotto silenzio ciò che non si può dire. La poesia di Valentino Campo parte dall’assunto secondo cui il dire è cosa diversa dal dirsi, e ciò che la poesia dice è ancora altro da ciò che potrebbe essere detto. Il silenzio quindi non è il vuoto che insiste tra le parole ma è il vuoto di ciò che non si può più dire a seguito di una censura. Così il lato cronachistico del reale non si può più dire in quanto già detto e raccontato. È questa la ragione per cui la poesia di Valentino Campo è così lontana dalle poetiche del quotidiano-cronachistico, perché quest’ultime hanno già esaurito il loro bagaglio di locuzioni prima di dirsi, e quindi sono tautologia e apologia. Su questa discriminante la posizione di Valentino Campo appare netta e perentoria, non soggiace a fraintendimenti. Se intendiamo porre la «nuova poesia» su un solido terreno filosofico, si può affermare che la sua morfologia corrisponde alla fenomenologia più evoluta e culturalmente critica che vede nell’oggetto linguististico una immagine absoluta, libera da ogni correlativo esistenziale. Non più la variatio ma la traslatio è la categoria centrale della «nuova poesia». Di qui, non è più la serializzazione del significante la categoria centrale ma la presentificazione del significato: che si svolge tra la visibilità della significazione e l’invisibilità di ciò che non è significato, come un congegno ottico che riparametra continuamente l’oggetto in rapporto alla sua visibilità mediante la «metafora continua», che è l’espediente retorico della traslazione tra una presentificazione e la successiva. La poesia si configura così come una orditura di presentificazioni, come un meccanismo che riordina la visibilità in una successione di stratificazioni dove l’oggetto nuota nello spazio tra la visibilità della superficie e l’invisibilità dello sfondo lambito dalla non rappresentabilità. Alla base di questo ri-orientamento del vedere c’è un atteggiamento metaforico, quella capacità di vedere «secondo», che consente di dare forma «seconda», mediante innumerevoli configurazioni di significato a oggetti traslati. La metafora che tende alla traslazione è anche soggetta alla trasformazione. In tale accezione la metafora continua tende a de-formare l’oggetto nel suo itinerario iconico mediante presentificazioni successive.

Scrivere un pezzo su «La quarta guerra sannitica» è qualcosa che non ha più a che fare con i tradizionali concetti di verosimile e di realismo cui siamo abituati, qui siamo in presenza di una operazione culturalmente evoluta: è un redivivo guerriero sannita che parla dalla sua postazione di combattimento ed aspetta i romani per la quarta guerra sannitica, la guerra che non è stata fatta e che mai si farà: «Vi scrivo da una zattera di pietra./Ho inciso ogni tronco con la testa/del giavellotto,/unto di sterco il mio volto./Cosa ci faccio/in questa selva di vetro?/i romani dove sono?/non li vedo./Non so la rotta/la mia e di questo scoglio,/non cerco indizi in alto, tra le foglie../Affilo punte di selce/Preparo il rancio,/passo in rassegna ombre/poi scavo,/ancora,/dove la terra cede/per farsi malta scura,/sprofondo fino al mento/e già le sento, le voci,/le loro,/chiedere perdono,/franare in questo fosso (…) Sono giunti alla mia tana /anche stanotte i cani, /una dozzina, /ho perso il conto, /ho tagliato il fiume a nuoto, /arato il greto di sterpaglie, /una ninfa delle acque dormiva /l’altra cenava dai romani. /Il Biferno non è un fiume /e i romani lo sanno bene, /vogliono braccarmi da vicino,/gli hanno staccato la spina, /tolto il respiratore, /dicono che nel giro d’un anno il nemico sarà curato, /la guerra non esiste /per chi ignora quando si muore…». Che è anche una meditazione sulla situazione dell’arte nel nostro tempo: una situazione di attesa atopica e acronica, una presentificazione di un nulla colossale che grava sulla poesia come impossibilità di narrare l’esistente cronachistico, il contemporaneo, senza interporre un filtro, una resistenza, una strategia di elusione e di estraniazione.

Già con il libro precedente, Hic et nunc (Passigli, 1999), appariva chiaro che la poesia di Fabrizio Dall’Aglio si presentava come uno degli esiti più significativi e stilisticamente più omogenei della poesia contemporanea proprio per il suo disporsi in limine alla tradizione del novecento maggioritario, e grazie proprio alla sua consapevole accettazione di quel limine. Oggi, con il senno di quest’ultimo libro, L’altra luna Poesie 2000-2006 (Passigli 2007), direi che il neocrepuscolarismo di Fabrizio Dall’Aglio guadagna, in nitore e smalto proprio in proporzione inversa all’aumento della quantità del rumore di fondo che la crisi della poesia del tardo Novecento ha generato nella combustione della Ragione sperimentale. Nella misura in cui oggi il rumore di fondo del minimalismo amplifica il quantitativo di decibel del nichilismo fino alle estreme propaggini dell’ottundimento semantico e dell’inaridimento significazionista, ogni altro messaggio poetico che non si affilii al paradigma stilistico egemone rischia di venire soverchiato dall’assordimento, dall’invalidante affollamento e dall’infoltimento acustico permanente. È bene dire subito che l’esistenzialismo crepuscolare della poesia di Fabrizio Dall’Aglio è qualcosa di strutturalmente diverso e qualitativamente distinto dai cliché esornativi e manierati del post-manierismo contemporaneo che fanno assomigliare il testo poetico a festoni floreali o a grecali semantici o a medaglioni sonori. La poesia di Fabrizio Dall’Aglio ripete «ossessivamente» la iconologia della monarchia dell’io come il canto del gallo rispunta all’alba di ogni mattino, e preannunzia il rigore del giorno con il colore livido e bigio del sole antelucano, e ripete, come l’uccello nell’orologio della omonima poesia della Achmàtova, il singulto disperato del proprio re-sistere nel tempo. È significativo che tutta l’iconologia del mondo chiuso si disponga in ordine di belligeranza rispetto al mondo aperto del villaggio globale,  la cui «trasparenza» costituisce la legge fondamentale. Di qui la «trasparenza» del linguaggio poetico di Dall’Aglio; è qui che si può misurare la quantità di stilizzazione sottoposta ad una curvatura millimetrata ed obliqua secondo una ipotassi severamente costruita. Così, il solipsismo lirico di Dall’Aglio mostra un alto rendimento stilistico ogni qual volta la lirica bussa alle porte della cittadella turrita dell’«io». In tal senso, in tempi di invasioni barbariche, in tempi di minimalismo e di massimalismo, il solipsismo, oltre ad essere una forma di resistenza ai surrogati e ai similprodotti  della società delle merci linguistiche, si presenta soprattutto quale dimora dell’unica «radura» in cui oggi è costipato e relegato l’io lirico, al pari di un lebbroso che deambuli entro gli asfittici confini del proprio lazzaretto. Accade che il solipsismo di Dall’Aglio ci parli di noi più compiutamente e più rigorosamente di quanto non ci tocchino le vicende triviali della similpoesia con i suoi convenevoli e i suoi finti languori e le atmosfere artefatte e posticce.

Il neocrepuscolarismo di Dall’Aglio ha conglobato e cementificato, dentro l’io lirico, la cultura della crisi novecentesca dell’io lirico e gli esiti della definitiva deterritorializzazione della centralità del soggetto epistemico. Si tratta di un neocrepuscolarismo postmoderno, ovvero, di un esito stilistico determinatosi a ridosso delle diramazioni epigoniche del minimalismo. Poesia della scissione e dell’antinomia, prima ancora che stilistica, direi ontologica, che fa dire al poeta: «La vita è nemica della vita», con uno stile inconfondibilmente gnomico e aforistico, antiretorico e antinarrativo, dove l’atopismo esistenziale è in relazione sinallagmatica rispetto al solipsismo stilistico post-novecentesco e costituisce, a mio avviso, la vera scriminante rispetto alle propaggini delle poetiche acritiche che considerano la cittadella turrita dell’io lirico come ancora non infirmata e incrinata definitivamente dall’insorgere del Moderno.

Direi che nella poesia di Dall’Aglio la rastremata edificazione della stilizzazione sia un prodotto epifenomenico di un travaglio esistenziale portato alle sue estreme conseguenze parallelamente alle esigenze che l’insorgenza della crisi post-novecentesca della forma-poesia ha indotto all’interno della struttura del testo poetico. Poesia compiutamente modernista per aver esperito sulla propria pelle anche la deterritorializzazione della temporalità e la desertificazione di ogni ipotesi di poetica costruttivista, esperienza di uno degli esiti estremi di rarefazione del logos poetico dopo la combustione del Novecento:«Ti narrerò la storia della vita /che ho vissuto e che pure è vissuta /lontano da me, lontano dal mio tempo /intorpidito. Perché io vivevo //la caligine impazzita delle giornate /il caldo ristagno del mio corpo, /e un’altra storia si svolgeva altrove./Dove non so. Dove era dove».

 

 

LA «NUOVA POESIA» VERSO LA POST-POESIA

 

 

dallo sperimentalismo alla narratività dello sguardo «interno»

Cesare Viviani, Fabio Troncarelli

 

Se per il primo Viviani di L’ostrabismo cara (Milano, Feltrinelli, 1973) la poesia era il logos della ragione sperimentale, per l’ultimo Viviani di Passanti (Milano, Mondadori, 2002), la poesia è diventata il logos del soggetto trascendentale. Se il linguaggio del primo Viviani, come quello di tutta la post-avanguardia, entrava in rotta di concorrenza con i linguaggi della scienza e della modernità, l’ultimo Viviani prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla «differenza», sullo «scarto», sullo «statuto ambiguo»; prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La poesia di Viviani è il tipico esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia nelle due versioni: Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo dell’abisso del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire. Con le parole di Heidegger: «Il dire concettuale più elevato consiste non semplicemente nel tacere nel dire ciò che propriamente è da dire, ma dirlo in modo tale che sia nominato nel non-dire: il dire del pensiero è un tacere esplicito. Questo dire corrisponde anche alla più profonda essenza del linguaggio, il quale discende dal silenzio». In Passanti, Viviani dismette l’articolazione interrogativa del linguaggio, il logos poetico si snoda attraverso un dire concettuale elevato: in primo luogo si tratta di un linguaggio spersonalizzato: gli attanti astratti, nel loro logos sibillino ed esoterico, precludono e forcludono ogni tentativo di comprensibilità; il loro eloquio dimora in un asseverare, un tono assertivo-ruminatorio, un logos taciturnico dove è spleneticamente assente ogni esiguo rapporto referenziale; il logos poematico, nel mentre che si avvolge su se medesimo, decostruisce la propria metafisica, tende a sfociare in un ronzio fonico analogo al silenzio, dove poeta e pensatore heideggerianamente convergono e coincidono sull’orlo dell’annientamento: «E i vigorosi, i valorosi non per un’idea/ di patria, o per ordine astruso, ma per noi/ vanno incontro al nemico, a probabile annientamento”», dilaga un tono assertorio, gravido di minaccia: «Le lance che ogni volta gli ospiti infliggono». 

Il linguaggio poetico di Viviani  costruisce e decostruisce ciò che ha edificato, si pone come critica del linguaggio, metacritica, linguaggio che medita sul proprio autoannientamento, sulla propria dissoluzione. Anche il titolo Passanti sembra alludere alla condizione esistenziale dell’uomo moderno, insieme alla condizione del logos poetico ormai deprivato del principiale, della sostanza ontologica. L’assenza di stilemi interrogativi significa qui che l’autore tratta le questioni extra-assertorie dal punto di vista del locutore implicito, dell’attante occulto che parla e parlando si comprende, in un circuito tautologico che tende alla comprensione infinita, quasi raggiunta e sempre prorogata: un logos poetico che si apre all’infinito in direzione del non-finito dei linguaggi dell’iper-moderno. E questo carattere non-finito dei linguaggi dell’ipermoderno è il contrassegno più significativo della poesia dell’ultimo Viviani, che ha saputo riparametrare e rimodernare l’approccio agli oggetti linguistici e il punto di vista narrativo quale soluzione stilistica adeguata alla prosaicità di una linguisticità diffusa di una narratività virtualmente infinita.

Per chi ha vissuto, con coscienza critica, come Fabio Troncarelli la situazione delle poetiche di fine Novecento, si è dovuto sobbarcare il peso e la responsabilità di una drammatica lacerazione, di una drammatica crisi del pensiero poetico. Da una parte, l’esaurimento della novecentesca «poetica degli oggetti» che, dagli «emblemi oggettivi» (secondo la dizione di Luciano Anceschi) di Montale era sfociata, in ultima istanza, nell’odierno minimalismo attraverso una successiva riduzione degli «oggetti» al loro minimo comun denominatore: una semplificazione – per usare un termine della matematica – progressiva che avrebbe condotto la scrittura poetica fino agli esiti ultimi della micrologia e della topologia. Una riduzione progressiva degli oggetti che preludeva alla loro scomposizione, alla loro dissoluzione, alla loro messa in evidenza – per usare un altro termine della matematica – e, infine, alla loro destrutturazione. Per un altro versante, è bene precisare che la micrologia si presenta oggi come una variabile all’interno della invariante della crisi novecentesca dello spazio poetico, ovvero, assunzione acritica del micron quale oggetto della rappresentazione. Il risultato inevitabile ed inevitato era la tendenza a censurare qualsiasi poetica che adottasse una visione del reale, una diversa concezione del linguaggio poetico e, soprattutto, una diversa concezione dello spazio poetico. Alle poetiche del minimalismo sfuggiva il concetto della complessificazione degli oggetti in interazione reciproca: il pensiero poetico sfociava così nel commento alle notizie di cronaca e nella sostituzione della geografia (che presuppone un atlante ancora tridimensionale) con la topologia (che presuppone una mappa unidimensionale).

Fabio Troncarelli con Felicità lontana (Roma, Lepisma, 2007), comprende che si è esaurito il traliccio pascoliano con l’infinita schiera degli epigoni novecenteschi da Le ceneri di Gramsci in giù, che si è esaurita la lezione del «pedale basso» di ascendenza narratologica, comprende che all’interno di questa forbice l’unica via di uscita da questa impasse è fornita dalla rifondazione, prima ancora che del linguaggio poetico, dello stesso pensiero poetante, della necessità di ridefinire i confini e la legittimità del cosiddetto spazio poetico. Troncarelli comprende, per tempo, che la via del plurilinguismo e delle mescidanze linguistiche, della serializzazione del significante etc., si è ostruita, è un vicolo cieco privo di sbocco alcuno, e che occorre procedere con un salto ed una sterzata, una «rottura» più che con una discontinuità.

Fabio Troncarelli comprende dunque che non è più possibile, nella situazione attuale della poesia, una «poetica degli oggetti» di anceschiana ascendenza per il semplice dato di fatto che è scomparso l’oggetto. Dissolto, distrutto. Comprende altresì che non è più percorribile una «poetica dei luoghi», perché essi sono stati dissolti, distrutti: non c’è più il luogo dorato dell’infanzia, e quindi l’elegia è una operazione kitsch, da cineteca del ricordo; non c’è più il luogo del presente, perché tutti i luoghi sono analoghi e omologhi. La «poetica dei luoghi» è dunque destinata a trasformarsi in topologia, in una parola: kitsch, commento della «cronaca privata» e della «cronaca pubblica», dove la distinzione tra privato e pubblico si è completamente dissolta.

La poesia di Fabio Troncarelli è strettamente legata alla poetica e alla critica; è una poesia che vive organicamente un rapporto stretto con la poetica e la critica, una critica che si trasforma continuamente in autoriflessione, in autocritica, nella misura in cui va alla ricerca della propria ragion d’essere anche nel confronto con la tradizione di poeti e filosofi della civiltà occidentale (vedi le traduzioni poste in calce al volume di Baudelaire, Wordsworth, Boezio, Shakespeare, Callimaco); una poesia prosasticamente attrezzata sul pedale basso che elegge la ragione narrante quale strada maestra del discorso poetico. Prototipica, in questa accezione, è la poesia di apertura «Corno d’oro», dove impulsi mimetici convivono e collimano con spunti onirici e visionari in una cornice paesaggistica entro la quale gli elementi e i dettagli del «quadro» trovano una composizione cromatica e architettonica, un equilibrio coloristico e tonale di squisita fattura. È la procedura narrativa del discorso poetico («Immobile come l’etichetta su una bottiglia/ di vino che non invecchia, una città splendida/ ha abbassato il ventaglio, in fine mattinata,/ schiarendo l’aria umida, scolorita/ come la parte umida di una corteccia…»), quella che consente un ampio dispiegamento di risorse spaziali e di dettagli coloristici tenuti insieme dall’analogia e dalla contiguità, in un pentagramma ad un tempo sonoro e spaziale. È questo il segreto del carattere tridimensionale della scrittura poetica di Troncarelli: la distanza del punto di vista dell’autore-lettore dall’orizzonte del «quadro». Il titolo del libro è a questo riguardo emblematico: La felicità lontana come lontananza dalla felicità, una lontananza-distanza che permette lo scandaglio in plein air, la visione dall’alto, panoramica e parallattica.

Ed ecco che il discorso poetico si dirama e si svolge in una miriade di rivoli e di sentieri laterali (una sorta di pointillisme), interrotti e riannodati, abbandonati e riacciuffati, quasi per caso, o per necessità, in un tessuto dove i fili spuri sono della stessa stoffa di quelli pari, esiti della stessa materia materiata, escrescenze della vita, metaplasmi dell’esistenza ormai lontana, quasi che la lontananza sia la giusta posta per l’azzardo, il giusto prezzo per l’impossibile discorso qual è ormai diventato il discorso poetico nel tardo moderno, quasi una «Elena che si trucca con le sue rughe ed è ancora bella».

 

 

post-simbolismo, esistenzialismo, carnevalizzazione 

Sandro Montalto, Alfredo Rienzi, Adam Vaccaro

 

Nel nuovo genere letterario contemporaneo ha assunto un ruolo dominante quello che si potrebbe chiamare «alto giornalismo», cioè quel mix di tecniche letterarie e narrative ereditate dal romanzo e, in minor misura, dalla poesia post-baudelairiana. In fin dei conti, il commentatore mediatico e il commentatore letterario non sono tra di loro dissimili, entrambi obbediscono al medesimo principio dell’usum delphini; di qui la stilizzazione e l’abilità retorica con cui entrambi esordiscono sul piano delle considerazioni e delle tecniche argomentative. Sandro Montalto ha scontato sulla propria penna la tautologia di una cultura poetica che ha perduto il collegamento con la zattera del significato, che ha creduto possibile puntare tutto sulle ipotesi di una poesia che eleggeva la poetica del significante e l’apocriticità dell’io poetico. In più, Montalto ha avuto la ventura di giungere alla poesia dopo la «latenza» di una intera generazione poetica posta nel silenzio da discutibili operazioni politico-letterarie. Montalto si è trovato così senza la «copertura», alle proprie spalle, che soltanto una generazione poetica intermedia poteva fornirgli con la propria autorevolezza letteraria, senza un retroterra poetico che non fosse quello del minimalismo. Montalto è un autore troppo intelligente e acuto per non aver compreso immediatamente quale era la posta in gioco: o scrivere alla maniera della tribù o venire espunti da ogni visibilità letteraria. Montalto ha scelto la soluzione «laterale», optando per una post-poesia, tutta tagliata sul pedale basso e sul piano di una narratività fabulatoria incentrata sulla carnevalizzazione e sulla teatralizzazione dell’io lirico mediante la demistificazione di ogni forma di linguisticità che abbia la ventura di passare attraverso il cosiddetto io lirico. Il suo libro di poesia di esordio, Scribacchino (Novi Ligure, Joker, 2000), a cui seguirà nel 2006 Esequie del tempo (Lecce, Manni) e la plaquette Pause nel silenzio, ha una forza urticante e blasfema, una implacabile morfologia derisoria, una teatralizzazione da hilarotragoedia, una dizione ad amplissima gamma tonale ed emotiva, una carica significazionista talmente elevata e concentrata da rendere questo libro uno dei momenti più evidenti della «nuova poesia», che già nella data di apparizione, il 2000, reca in sé il timbro inequivocabile del crinale finale del Novecento. Il libro annuncia una sorta di equidistanza ed equivalenza tra  tutti i generi letterari, fagocitati dentro la fucina dell’avanguardia mediatica del linguaggio pubblicitario: al discorso poetico non resterebbero altro che i reperti, i cascami, le scorie, i materiali di risulta, un puzzle di microlinguaggi dichiarativi dove l’io lirico è ridotto a un «viscido ammasso/ di teste e squame, di membra e membri,/ corna, piume, artigli e altri pezzi di un pazzo puzzle/ animalesco, emettente versi raccapriccianti e strani liquidi». Anche la forma dialogica, il soliloquio o il puzzle sono tutte forme destituite di legittimazione, sono parte integrante di un canone ideologico che la poesia di Montalto intende minare, crivellare di colpi e far esplodere sotto le percussioni di un furioso monologo interruptus («la macchina parlante», una sorta di Grandevetro computerizzato), abbandonato e subito ripreso, autoderisorio, sardonicamente posticcio e desublimato, desultorio e archeologico, intriso di «tecnasmi» e pleonasmi, barbarismi e sordidi neo-platonismi, un ibrido, un ircocervo linguistico che propala pseudogiudizi fintognostici e pseudognomici, fintoelegiaci e pseudomaccheronici. Che cosa rimane dell’io poetico? Nulla, un terreno paludoso e viscido, gonfio di menzogna e di falsa coscienza, con in più la consapevolezza di essere un istrionesco «scribacchino» che racconta fetide menzogne. Leggiamo da Scribacchino: «Non sono ciò che scrivo, non scrivo ciò che sono. /Non faccio la vita ma la faccia smagrita. /Faccio il poeta e la faccio finita»; «È un telegramma, questo che ti invio senza vuoto /a rendere: è un retro di scontrino che vergo /con pezzi di sangue coagulato. /Mi soffoco e strozzo /(e paonazzo) nello scrivere qualcosa che non ho /da dire, un nulla alfabetico e punteggiato, /come muto sommelier coprofago,come elogio funebre accartocciato /e gettato nella bara».

Alfredo Rienzi è nato a Venosa nel 1959 e risiede a Torino, dove esercita la professione di medico. Notazione significativa della sua formazione scientifica ed extraletteraria che avrà una influenza non trascurabile nello sviluppo della sua poetica. Ha pubblicato in poesia: Contemplando segni (in Sette poeti del Premio Montale, 1993); Oltrelinee (Alessandria, Ed. Dell’Orso, 1994) e Simmetrie (Novi Ligure, Joker, 2000), di cui ci occuperemo in questa sede. Nel 2005 esce Custodi e invasori (Milano, Mimesis-Hebenon), che sviluppa il discorso avviato con l’opera precedente in chiave modernistica, portandolo agli esiti più alti della «nuova poesia» modernistica. Operazione tematicamente compatta e teoreticamente conchiusa quella di Simmetrie, articolata in quattro sezioni: «Antinomie» (1997-1998), «Arenile» (1994-1997), «Nell’ora del male» (1994-1997) e «Nigredo» (1995-1998). Direi che al fondo del discorso di Rienzi c’è il proposito di introdurre la simmetria, cioè l’ordine, nel caos, ovvero, il disordine. Rienzi prende atto della definitiva autonomia/antinomia del segno rispetto alla res ma non per una fuga tangenziale verso la simmetria unidimensionale dei segni, che porterebbe la ricerca in direzione di una riproposizione delle poetiche post-sperimentali, quanto piuttosto verso la ricerca delle «antinomie» del discorso suasorio. Per Rienzi una doppia negazione resta negazione, non diventa affermazione come il realismo ingenuo lascerebbe intendere. La doppia negazione rappresenta piuttosto lo sviluppo di una falsa antinomia, ed un discorso poetico cosciente delle proprie risorse non può sottacere questo assunto fondamentale: il procedimento simmetrico della doppia negazione ci introduce all’interno delle antinomie della logica simmetrica del linguaggio. Ed ancora, la doppia negazione sarebbe la risposta assertoria ad una domanda principiale, che però nel testo non è posta, essa è al di fuori del testo; così come la verità si trova per Wittgenstein al di fuori del mondo, per Rienzi la verità si trova al di fuori del testo, al di fuori del contesto segnico. Con tale presa d’atto, Rienzi si taglia fuori dalle poetiche del post-simbolismo acritico e del post-realismo acritico, così come dalle poetiche post-sperimentali. Lo stile di questa poesia brilla per la totale assenza di coniugazioni al congiuntivo e al condizionale, quasi a voler disconoscere all’io una diversa modalità esperiente. L’osservatorio del poeta è tutto invasato in un presente onnivoro. Alla famosa domanda di Rilke: «Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere/ degli angeli?», Rienzi non può non rispondere che in forma dilemmatica, con una doppia negazione assertoria: «Non luce, non tenebre», «Non suono, non musica», «Non monte, non caverna», «Non cielo, non terra: acque indefinite tra il ramo e il frutto s’avvolge la serpe», «Non bianco, non nero: linea virtuale / di demarcazione», «Non Corona, non Fondamento», «Non centro, non distanza», «Non fango, non cenere», «Non arrivo, non ritorno», «Non fuga, non assedio». «L’osservatorio privilegiato». I testi di Rienzi ad una lettura superficiale potrebbero essere letti come un epicedio della poesia dello stato d’animo o dell’essenza delle cose; in realtà, il paesaggismo di Rienzi non ha nulla di artificiosamente retinico, non è finalizzato alla costruzione di una superficie cromatica, la numinosità dello stile di questa poesia è programmaticamente profana. Se osserviamo il panneggio metaforico di questa poesia ci accorgiamo che la sua presentificazione è ostensibilmente serotina e purgatoriale: «Giungo sull’arenile a notte fonda/ - come un’onda bassa: inavvertita». La seconda sezione, «Arenile», di cui abbiamo citato i due versi iniziali, esplora la condizione intermedia dell’indistinto, la condizione purgatoriale della zona d’ombra («la luna e le sue fasi»), nell’ora del tramonto («Sarà qui tra il rosso e l’indaco»), quando «il guardiano dorme» e «si chiude e si dilata il cielo, iride», nell’ora purgatoriale del tramonto in una terra di nessuno ove «una linea impalpabile segnava/ spazi di nessuno tra il giorno e la sera», dove non regnano più né le domande né le risposte, dove non è avvenuto alcun peccato: «Non domandarmi dove sorge la stella/ veglia sul mare e vigila la linea/ dell’orizzonte…». Qui si trovano alcune composizioni tra le più suggestive ed esteticamente calibrate della «nuova poesia»: «Il dono che il destino mi ha recato /sull’arenile, lontano dai fuochi, /è stato il tempo per studiare il cielo /e le costellazioni in movimento //così che ora io le stelle ho l’orgoglio /di mostrartele, come se fossero /miei versi, ché ora ne conosco i nomi /e so indicarti ad est la fredda Vega //e sotto di essa Deneb ed Albireo, /Altair nell’Aquila tra la Via Lattea /e il Serpente, Ofiuco, la rossa Antares /e Gemma della Corona Boreale…»; «Saettano ancora chiassosi i gabbiani /e le sterne ove l’acqua si fa mare /dove la vita nasce e dove muore, /risorge e si sperde nelle onde eterne. //E dal cielo e per il cielo svolgono /spirali il gheppio e il biancone: poi fermi /si fanno emblema di spirito santo /come nelle icone di Pentecoste…».

Nella terza sezione, «Nell’ora del male», lo stile si fa gnomico, vibra un’unica, totalizzante asserzione negativa: «Nell’ora del male e della condanna/ non possono salvarci le tortuose/ linee della vita e della fortuna/ o dell’amore…», compare qualche gerundio: «scendendo dai quattro angoli del mondo»; si insinua qualche inciso interlocutorio: «Eppure in qualche modo…»; affiorano rari imperfetti: «avevano voci di merli e/ ghiandaie quando furono assaliti/ alla nuca dal tempo senza alcun preavviso…»; intervengono lemmi di crudeltà: «la spada lo passò da parte a parte/ senza usare il fuoco, il fragore, l’odio»; addirittura, affiora il passato remoto: «Fu l’urlo del lupo l’estrema soglia/ della notte…».

Custodi ed invasori è un libro chiave perché assume una triplice funzione: a) di diga contro la dissoluzione del discorso poetico; b) di assestamento e stabilizzazione del discorso poetico sul piano della medietà linguistica; c) di recupero critico e ripensamento del principiale. Poesia del Tramonto, epicedio della tradizione, la poesia di Custodi ed invasori porta a compimento quella stessa tradizione: rifulgono gli ultimi bagliori della civiltà poetica dell’Occidente quale atto di massimo allontanamento dalla propria origine. I Custodi e gli Invasori sono gli «Estranei» che continuano a braccarsi e a uccidersi per l’eternità; impersonano le categorie del tragico mediante una iconologia «tradizionale». La belligeranza quasi disumanizzata dell’ultima poesia di Rienzi, deriva la propria forza seduttiva dall’essere il prodotto del rimosso della civiltà dell’Occidente; il fulgore di questo verseggiare deriva dalla inevitabile consapevolezza della distruzione dell’ultima casa comune delle genti d’Europa: il simbolismo europeo; che oggi rinasce, con la livrea del lutto, nella forma di un post-simbolismo, guarda caso, entro l’alveo della tradizione italiana che del simbolismo europeo è, invece, rimasta ai margini, per le note ragioni storiche che qui da noi non lo fecero attecchire e sviluppare: l’egemonia dell’idealismo crociano,  l’autarchia culturale imposta dal fascismo e, infine, l’ideologizzazione dello sperimentalismo. Il fulgore dei versi di Custodi ed invasori allude al bagliore degli incendi di cui quella civiltà si è macchiata. Trapelano all’orizzonte i bagliori degli incendi di una gigantesca belligeranza  («Il dorso fulvo del leone curvo nell’erba gonfia d’harmattan»; «l’arroventato strepito del drago nella ragade rossa del tramonto// la mondezza del pozzo per l’immolarsi dell’emerocallide,/ per seti inestinte d’abitatori e transeunti o forse pellegrini/ dal pallio nerorlato»). Gli uomini della civiltà attuale hanno dimenticato il proprio nome, ergo, nessuno può essere chiamato a rispondere dei propri delitti («Qui nessuno conosce il proprio nome, nessuno ne ha memoria»); si avvera qui il vaticinio della maledizione del nome (nomen-omen). «Si dice sia un mistero la dimenticanza», «dal tempo in cui vacillarono i regni di Edom senza cadere». Il poeta dice: «ho viaggiato/ dalle memorie alle dimenticanze», perché «è la fine che ingravida il principio». Il suo eloquente vocabolario: «Questo è il campo dei suoni senza luce (…) È il luogo delle luci senza suono». Siamo giunti alla radura  della rinunzia alla Parola quale compimento della tradizione poetica dell’Occidente. Lo stile dell’epicedio è quello che più si addice alla constatazione dell’imminente ammutinamento della Parola. Il poeta ha imparato che «non c’è vita intermedia tra il nulla e la parola/ tra le rive del fiume non c’è ponte». Siamo così giunti alla soglia del Silenzio, dove la parola poetica ammutolisce per la spaventosa consapevolezza che si apre, come un baratro, davanti a sé. Resta soltanto la belva feroce che abita il cielo nella splendida poesia «Resta incerta la questione del nibbio», dove «vittima» e «carnefice» si scambiano i ruoli, e la morte ha il crudele e ambiguo fascino dell’ultima seduzione.

«Cadevano cose d’ogni genere dalla torre durante i temporali /spiovevano nel vento del tramonto /in cerchio detriti, vecchie cornici, medaglioni di latta //le remiganti di corvi e storni galleggiavano in vortici d’aria /mi facevi osservare  le passioni fatte materia (grovigli di nastri, /filamenti rugginosi) con suoni sordi precipitare…».

Adam Vaccaro (La casa sospesa Novi Ligure, Joker, 2003), è autore della generazione di mezzo, che ha ereditato in pieno tutta la leggerezza, la gassosità dell’epoca della post-utopia, dell’indebolimento delle poetiche «maggioritarie» che hanno egemonizzato il panorama della poesia italiana del tardo Novecento: il post-sperimentalismo da una parte, le poetiche neogotiche, neometriche, neomateriche e le poetiche dell’area lombarda dall’altra. Il fatto poi che Vaccaro risieda a Milano, si è rivelato un vantaggio-svantaggio nella misura in cui la presa di distanza, «la adiacenza», da Milano quale capitale delle officine poetiche del tardo Novecento si è rivelata fatto compiuto. Nell’organizzazione del suo stile l’autore sposta continuamente il tiro dalla dissacrazione al dileggio, fino all’autonocumento, fino agli atti autolesionistici, tra riservatezza ed autenticità, fra lirismo comico-farsesco, aridità sonnambolica e chiaroveggenza. Fu per primo Baudelaire ad inventare una poesia di tipo «nuovo» adatta alla nuova civiltà delle grandi città. La lettura che ne fece Benjamin, per l’importanza in sé delle tesi espresse, va al di là della poesia di Baudelaire ed investe in primo luogo il problema di essere assolutamente moderni, essere al passo con quest’oggetto sconosciuto che è la Modernità. Nella poesia di Adam Vaccaro notiamo ad ogni momento il fermento, l’agitazione della folla metropolitana. Anche se non appare prima facie, la poesia di La casa sospesa è letteralmente «traumatizzata» dallo choc della follia metropolitana, oltre ché della folla della metropoli. Superata la minaccia del trauma, lo spettacolo è però contemplato con un certo distacco, l’autore reagisce con il sarcasmo, il ludibrio, lo scherno e l’ironia. Tutto ciò gli serve da schermo, da riparo e da strategia di difesa per attutire le percussioni della percezione o, come direbbe Roberto Bertoldo, della sensazione del dato nel suo darsi. E che il ludico ludibrio investa, di riflesso, poeti eminenti come Giuseppe Ungaretti o poeti in zona «retrocessione» come Salvatore Quasimodo, cionondimeno, questo non significa che il linguaggio post-avanguardistico resti immune dalle parole acuminate di Adam Vaccaro: il post-moderno ha questo di vero: che non consente più alcun lasciapassare ai poeti timidi o incautamente e burocraticamente «prudenti». Giunto a questo punto, abbiamo compreso le ragioni per cui ormai la «prudenza» stilistica ha un costo piuttosto elevato: perché tutto rifluisce nel gigantesco ingranaggio della fagocitazione e del riciclaggio dei materiali stilistici di risulta, come dei materiali «nobili», dell’alto e del basso, dell’aulico come del prosaico, del sessofobico come del sessolalico. 

Siamo arrivati al punto in cui tutte le poetiche epigoniche del Novecento si sono dissolte in un delta di rigagnoli epigonici, si sono per così dire, ammutinate, rivoltate contro i rispettivi «legittimi» titolari della linea maggioritaria. Che poi Adam Vaccaro erediti dalla psicoanalisi l’idea della impostazione «analitica» di un testo letterario, questo fatto non fa che avvalorare la nostra tesi di fondo di una sorta di rito di carnevalizzazione psicologica messa in atto dalla poesia di La casa sospesa. Gli incontri umani si rivelano essere una sorta di museo dell’anonimia, i personaggi non sono altro che segni semantici, puri significanti dietro i quali l’io si affanna in un cinetismo privo di direzionalità. 

 

 

dal post-discorsivo alla post-poesia

Davide Rondoni, Roberto Pazzi, Luciano Troisio, Giancarlo Baroni

 

Davide Rondoni, nato a Forlì nel 1964, con questo libro, Avrebbe amato chiunque (Parma, Guanda, 2003), si candida a metà strada dalle suggestioni dell’area lombarda e la civiltà letteraria di Firenze. Questa collocazione geografica è anche una ubicazione storico-letteraria non fortuita che ci consente di demarcare le coordinate generali della sua poesia. Direi che della poetica del post-ermetismo fiorentino, Rondoni conserva quanto è sopravvissuto dell’analogismo soggettivistico, dopo l’eclisse dell’egemonia della post-avanguardia, mentre dell’area lombarda rivive nel poeta di Forlì quella tendenza verso una poesia in re, orientata verso gli oggetti e, quindi, tendenzialmente oggettiva e di matrice razionalistica, in cui il colore del suono nasce dall’immagine e non l’immagine dal colore del suono; una poesia che non muove dal concetto dell’idea di poesia, e che, in sintesi, non è una poesia ante rem di stampo lirico, nel senso in cui questo termine aveva un senso prima del bombardamento dell’idea di lirica prodotto, con beneficio d’inventario, dalle aviazioni del Gruppo 63 e dalla diffusione dei linguaggi mediatici. Gli oggetti della poesia di Rondoni si sono come caricati di realtà, stipati e costipati, occupano uno spazio ben preciso e delimitato dentro la scansione temporale, dimorano nella cornice referenziale della familiarità ed è dentro di essa che la loro posizione rivela l’estraneazione di cose irrelate: «Trovare in casa all’alba abbandonati / i vostri giochi, uno Zorro / trasformato in motociclista /o su un cavallo sproporzionato, // un telefono colorato senza pile /un laccio delle scarpe /o una maglietta che sollevo adagio //è ricevere dal mare della notte /i segni di una terra, /di una riva che dal buio /si sporge al mio naufragio». È ovvio che in un tale concetto di lirica, sostanzialmente ristrutturata e consolidata dalla presa d’atto degli esiti della cultura critica post-modernistica, la costruzione estetica resti saldamente ancorata alle categorie aristotelico-cartesiane. Non è un caso che in questo libro Rondoni utilizzi i metri corti tradizionali e il verso libero e «semilibero» dei modernisti (molti di questi versi sono degli endecasillabi dagli ictus debolmente accentati); è importante l’impiego dell’immagine quale soluzione (catartica) finale di molte liriche: «Verrebbe da dire: me la sono cavata, /fermo stanotte /al tavolo della cucina /mentre qui intorno nelle migliaia di appartamenti /come in strani cunicoli sospesi per l’aria /dormono tutti /e l’argento della pioggia finisce nel buio». Il «tavolo della cucina» è qui una «figura», un luogo, una «metafora» ed un oggetto allo stesso tempo, ovvero, una «rappresentazione» con molte sfaccettature e molte significazioni. Nelle composizioni più riuscite, le «figure» si riappropriano della destinazione d’uso del mondo empirico, della molteplicità che è propria dell’immagine. Il tragitto della poesia del poeta di Forlì è il ritorno della parola alla sua destinazione d’impiego, il che trascina con sé tutta la sfaccettata ricchezza della significazione. È comprensibile come i luoghi visitati dal poeta di Forlì: Bologna, Milano, New York, San Pietroburgo, Parigi, Chartres, Jesi, Sansepolcro siano ancora «icone», «figure» di un viaggio spirituale, luoghi simbolici, cioè carichi di rappresentazioni; così come i reperti di cronaca nera da cui sono tratte molte poesie sono i regesti di ciò che già si trova bell’e confezionato nella cronaca. Direi che la poesia di Rondoni tenda piuttosto verso il «chiunque», verso la molteplicità proprio in virtù dell’univocità delle sue rappresentazioni che non verso la topologia intesa come discorso sul reale. 

La recente antologia personale della poesia di Roberto Pazzi (nato nel 1946) ci consente di misurare il percorso della sua poesia, dall’inizio (1970) fino a questi ultimi anni, con uno sguardo complessivo-retrospettivo. È qui che appare chiaro la potente «stabilità» stilistica di questa poesia, che ha saputo attraversare mode, correnti e terremoti storici tenendo ferma la direzione del proprio sviluppo e il tragitto da percorrere: la linea Saba, Sereni, Cardarelli contemperata dalla linea fantaisiste che Giacinto Spagnoletti aveva acutamente individuato nella quarta di copertina di Calma di vento del 1987. Alla prima silloge poetica, prefata da Vittorio Sereni nel 1970, apparsa sulla rivista «Arte e Poesia» n. 4-5-6, sono seguite le raccolte L’esperienza anteriore (1973), Versi occidentali (1976), Il re, le parole (1980), Il filo delle bugie (1994) e La gravità dei corpi (1998), ed infine, questa antologia, Talismani (2003).  

Innanzitutto, il titolo di Talismani – Antologia personale 1969-2003 (Genova, Marietti, 2003), ci rimanda agli «amuleti» montaliani, a quegli oggetti che sono gli emblemi di un destino, di un personaggio. Nella poesia di Pazzi i «talismani» hanno anche un’altra valenza semantica e simbolica, costituiscono la trama stessa del suo discorso poetico. Pazzi attraversa il secondo Montale senza pagare dazio allo scetticismo gnoseologico del poeta ligure, e lo scavalca. Parafrasando Benjamin, i «talismani» di Pazzi sono analoghi a «sismografi sensibilissimi che rispondono al tremore di lontani terremoti». Ecco, dunque, una chiave di lettura di questa poesia: la riflessione dell’io poetante si incentra sull’inappariscente, l’irrelato, il residuo, il dimenticato, il rimosso. Come il buon dio anche il tempo abita il dettaglio: «Per otto anni il mio orologio /ritardava un minuto e mezzo /ogni sette giorni. /Poi una mano lo aprì, e ora /anticipa di un minuto e mezzo /ogni sette giorni (….) Due orologi battono dalle torri /Le stesse ore a prudente distanza».

Ecco che le «smagliature» di montaliana memoria vengono ora al pettine. Lo scorrere del Novecento ha reso finalmente evidente che l’inautenticità non si lascia catturare se il poeta non produce un congegno, un dispositivo, un «talismano» che la renda visibile. Così, per illuminare l’inautenticità di una vita, ne occorrerebbe una seconda: «Sarebbe molto bello se la mia/fosse una seconda vita/e potessi scoprirlo un po’ per giorno,/dissotterrando da me stesso/i vestiti che scelgo e gli oggetti/che compro, per riportarli/dopo lunga oscurità al sole».

Il ritorno a casa non è propriamente il ritorno ad Itaca, non c’è da uccidere i Proci, Penelope è assente, ma ci sono «visite di sconosciuti» che vivono esiliati in un’altra dimensione, in altri luoghi: «ritornato da casa di Elena /a casa mia non trovo nessuno. /Così procedono visite di sconosciuti /che solo il mio passo mette in fuga. /divinità domestiche in mia assenza /restano a custodia delle stanze, /aprono armadi, provano vestiti /e le stoffe stringono sempre più /le ombre». Pazzi ha il coraggio intellettuale di instaurare subito un dialogo con il lettore, senza preamboli e senza ricorrere a truismi o alle seduzioni di una colonna sonora; anche per questo aspetto la sua poesia ha saputo nutrirsi della «crisi» del Novecento, traendone tutte le conseguenze sul piano estetico e della composizione frastica, liquidando le impostazioni «neutre» o politicamente scaltrite del gergo poetico egemone, mantenendosi alla larga da ogni ipotesi di poesia che indaghi le pluralità dei linguaggi, il cosiddetto plurilinguismo. Per Pazzi è chiaro che la poesia non ha bisogno che di un solo linguaggio che abbia la elasticità di contenere una spettro di tematiche e di tonalità emotive e semantiche. La medietà linguistica della poesia di Pazzi è fondata sulla cellula base della frase-metro, una unità metrica minima: una unità frastica minimale ottenuta mediante la riduzione al minimo comun denominatore del linguaggio poetico del tardo Novecento. Con questo dispositivo linguistico Pazzi costruisce gli edifici di parole delle sue affabulazioni. Lingua socratica e chiara, dove la metafora è rara quanto discreta, così semplice da apparire improvvisamente nuova: «Ho scorso nell’agenda ad uno ad uno/ i nomi degli amici, ci sono tutti,/ la città se li tiene ancora./ E le case appese agli indirizzi mi guardano...». Il dialogo (o meglio, il monologo) di questa poesia, il suo carattere epifenomenico è ciò che resta dopo l’eclisse del dialogo: una sorta di coda linguistica che sbatte dopo che è stata amputata dal corpo del Novecento.

Parlando a proposito della raccolta La gravità dei corpi del 1998, sul n° 21-22 di «Poiesis» del 2001 scrivevo: «Roberto Pazzi tratta la parola come se la pronunciasse per l’ultima volta. Ecco il punto: l’ultima volta e per sempre. E poi il vuoto. Leggendo le poesie raccolte in questo volume noi possiamo fare a meno di sapere chi sia l’autore, a quale scuola di poetica appartenga, da dove viene e dove va, che cosa ha fatto e cosa vuole fare per il futuro, tutto ciò ha poca importanza, potrà soltanto colmare la nostra curiosità ma non ci dirà nulla di quello che le parole dicono. E le parole rivelano la mano del seminatore che le ha seminate, il tremore delle mani che le ha lanciate: «…è già tutto qui,/ porto, mare, orizzonte,/ flotte di nomi,/ giorni che verranno, giorni che furono,/ epoche lontane si confondono/ ed io mi perdo,/ non cerco più il passaggio,/ gli stretti dove di notte,/ a luci spente,/ sfilano le navi del nemico». E poi il vuoto. Dopo la lettura di ogni poesia rimane il vuoto. E questo è il segnale semaforico della poesia: «Le parole sono piume disperse/, antiche prove di volo,/ invidia delle creature terrestri./ Qualcuno le spaventò,/ disse che il canto le caccerà/ non appena mi ricresceranno/ le mie ali». 

Le prime raccolte poetiche di Luciano Troisio risalgono al 1960, con L’angelo alle spalle (Padova, Rebellato), seguita da Anamnesi in tre versioni sempre (1965). Seguiranno, dopo un periodo di silenzio, Precario (Lacaita, Manduria, 1980), Persistenza del cavallino (Alessandria, L’Arzanà, 1984), I giardini della maharani (Treviso, Mercato saraceno, 1986), Prove di diluizione (Fiume, Edit, 1999), Three or four girls (Milano, Signum, 2002), e Parnaso d’oriente (Venezia, Marsilio, 2004).

Commentando Parnaso d’oriente in una recensione apparsa nel n. 30-31 anno 2004 di «Poiesis» commentavo: «L’odierna tendenza alla composizione micrologica della poesia europea del tardo Novecento, che prolunga le sue propaggini anche nel nuovo secolo, trova nella poesia di Luciano Troisio un autore referenziato, pur se in lui la tendenza viene contrastata da un solido ausilio dell’ironia e da una solida percezione della caratterizzazione topologica delle tematiche; infatti, molte poesie sono esemplificazioni di personaggi assenti, o che abitano l’onirico ed il surreale, o meglio, una via di mezzo tra l’onirico ed il surreale, e comunque privi di qualsiasi caratterizzazione ontica o psicologica, resta, se pur resta, la dimensione favolistica: “Allo spartano Dipartimento Sette/ di Bao Shan Lu/ s’allungava un virgulto/ di pruno fiammante/ nella piovosa primavera di Shang hai.// Nell’entrare impediva/ di chiudere la finestra dello studio./ Prima di partire mi ero ripromesso/ di ignorare presenze vegetali,/ per vari giorni ho riflettuto”». Dove la sapiente introduzione dello skaz vivacizza il narratum deterritorializzato e disartizzato. La poesia di Troisio sconta la scomparsa dell’oggetto oltreché la scomparsa del soggetto già avvenuta da un pezzo. Con il successivo libro Strawberry stop (Faloppio, LietoColle, 2007), Troisio costruisce una sua lingua-labirinto. Come all’interno di un gigantesco prefabbricato i cui singoli elementi siano costruiti di altrettanti pezzi prefabbricati, la sostanza, il sostrato ontologico del Moderno è qualcosa di dis-locato e di Altro, i cui conglomerati appartengono alla categoria, appunto, dei conglomerati, fatti di giustapposizioni ed emulsioni, di lavorati e di semilavorati, quali materiali che si offrono alla auto-costruzione e alla auto-combustione, in una parola alla auto-produzione, come frasari che riecheggiano e ripercorrono le frasi un tempo già pronunciate. L’ingresso in questi grattacieli del prefabbricato sono le novelle piramidi del nostro tempo, fatte di effimero e di transeunte, di transitante nel nihil, come ponti di corda tesi sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà. L’ingresso, dicevo, in questi grattacieli prefabbricati di frasari nobili e non-nobili è, certo, un tortuoso cunicolo. Dentro di esso, ci si muove a tentoni, non si vede dove esso conduca ma l’attraversamento è per un poeta un obbligo non eludibile. Questo «passaggio» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco) – ma compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è impenetrabile e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e anche ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.

Il poeta del moderno non può non tentare di ripercorrere, tra le innumerevoli «vie indirette», quelle appunto che lo riconducono ad un rapporto stabile e duraturo con la contemporaneità vista come sommatoria di istanti, istantaneità, attraverso l’Er-fahrung. Ecco la ragione del «viaggio» in Oriente di Luciano Troisio, il togliersi da una immediatezza per essere deiettato in un’altra immediatezza; l’auto-costruzione dell’io è un processo analogo alla auto-produzione di un io feticizzato: la vita vuole qualcosa che non può in alcun modo raggiungere, né il «viaggio» né alcun altro «passaggio» può riprodurre in alcun modo la pienezza di un io in perenne auto-produzione. Il feticismo della merce si riflette nel feticismo dello stile come due gemelli siamesi, inestricabilmente condannati ad un medesimo destino. In ogni piega della forma, in ogni suo minimo recesso, lo stile demotico reca il carnet della barbarie della cultura da cui proviene. Anche nello stile più alto e sublimato, quella barbarie vi ristagna e sordidamente vi serpeggia anche se non vista. «In che consiste il mio stile?» si chiede Troisio nel titolo di una sua poesia, e così prosegue: «Da giovane/ non mi andava di/ prendere troppo sul serio/ il professor Sanguineti/ ma…». Ma, c’è sempre un «ma» da cui guardarsi come da un terrorista, c’è sempre un preambolo o una precondizione da porre prima che inizi il «viaggio», surrogato di un conglomerato avariato e non più disponibile. E così il viaggio ad Est di Troisio assume lo stile «alto demotico» dell’intellettuale occidentale che sente da vicino la terribilità del turismo di massa, del «viaggio» turistico, privo di temporalità, e quindi di reale accadimento.

Troisio proviene dalla fine del Novecento, dall’esaurimento del post-sperimentalismo per giungere, ora, ad un singolarissimo stile non-stile, uno stile «alto demotico», che assomma leggerezza e classicità, agile e rapido come si conviene ad una scrittura tutta di nervi e di tendini, fitta di inversioni e divagazioni, di pensieri e di retropensieri, quasi di coltissimo reportage turistico, in finto stile da reportage finto-culinario: «Da cinque generazioni/ specialità pesce-gatto (cha ca)/ in via Cha Ca (del Pesce-Gatto) 14, Hanoi/ menù fisso circa 90.000 dong/ (inclusive of  boissons)». Uno stile «finto», che sa le astuzie della «finzione», che riflette sulla propria impermanenza e leggerezza.

Giancarlo Baroni (1953) ha pubblicato Contraddizioni d’amore (1998), Enciclopedia, Simmetrie e altre corrispondenze (1995), Cambiamenti (2001) e I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli (2009), dove il poeta parmense mette a punto una peculiare forma-poesia: un sistema di enunciati apparentemente oggettivi e neutrali che non inficiano i sistemi di attese retoriche. Se Schlegel aveva scritto che «i romanzi sono i dialoghi socratici del nostro tempo. In questa forma liberale si è rifugiata, fuggendo la saggezza delle scuole, la saggezza della vita», per Baroni la veste saggistica della sua poesia allude, socraticamente, ad Altro, ed il traslato assume un ruolo centrale. La metaironia del discorso poetico del poeta di Parma è l’abito post-moderno della nuova oggettività. Parlare d’altro è il miglior modo per essere realisti non ingenui.

Quando riflettiamo sul «quotidiano», ci inoltriamo in un ginepraio di deduzioni e di indicazioni, di semafori verdi, gialli e rossi da cui è impossibile uscirne. Se accettiamo il concetto di «quotidiano» come un «riduttore» nel senso indicato da Valéry quando dice: «Si potrebbe – e forse lo si dovrebbe – assegnare come unico oggetto alla filosofia quello di porre e di precisare i problemi, senza preoccuparsi di risolverli. Si tratterebbe allora di una Scienza degli enunciati, e dunque di una purificazione delle domande», dobbiamo accettare una concezione del linguaggio poetico come non differente da quello naturale, come un insieme di.«enunciati» caratterizzati da chiarezza (certezza) dichiarativa. In tal senso, una poesia «tematica» come quella fornita da Giancarlo Baroni in I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, è un esempio lampante di come un’opera tematica riesca a tematizzare, mediante un riduttore, un’area simbolica e iconologica, nel miglior modo possibile mediante una poesia eminentemente dichiarativa, che si snoda come composizione di  una molteplicità di «enunciati» senza fare ricorso ad alcun impiego di retorizzazioni. L’universo degli «uccelli»  viene qui esplorato ed indagato come un altro «Regno». Tra il mondo degli uccelli e quello umano si stagliano così delle similitudini e delle analogie. È questo semplice nesso che tiene unita e compatta la configurazione simbolica e iconologica dell’opera. La poesia di Baroni non scommette più alcunché sulla colonna sonora del significante come era in auge nel modello giustificazionista della poesia novecentesca ma riposa sulla citazione diretta del referente un luogo veramente esistente (es. l’ex convento di San Paolo) o di un avvenimento storico realmente accaduto (la sconfitta dell’imperatore svevo nella battaglia di Parma nel 1248). È il referente che dà veridicità e forza iconologia alla poesia e non il contrario. Qui è assente la discontinuità paratattica, tutti i segmenti compositivi sono legati gli uni agli altri dal meccanismo del movimento sintattico e il discorso poetico è tutto incentrato sul piano narratologico del parlato e del dichiarato, sull’enunciato dichiarativo. Il principale procedimento retorico impiegato da Giancarlo Baroni è quello che potremmo definire una sorta di «referente oggettivo», l’uso di enunciati diretti per significare un significato traslato ed ultroneo.

 

 

lo sguardo prospettico e la lingua poetica del «falegname»

Davide Puccini, Nello Rosolino Rosolini

 

Davide Puccini è un poeta della generazione di mezzo, la generazione dei poeti nati intorno agli anni cinquanta. Nato a Piombino nel 1947 ha al suo attivo una robusta ricerca di filologo e critico di poesia, fin dalla pubblicazione di Lettura di Sbarbaro (1974), per passare alla direzione critica di tutte le opere di Giovanni Boine (1983), del Morgante del Pulci (1989), delle poesie in volgare del Poliziano (1992), dell’Orlando furioso di Ariosto (1999, 2006); nella collana «Classici italiani» della Utet, di Franco Sacchetti ha curato Il Trecentonovelle 2004) e Il libro delle rime (2007). A fianco di questa attività di critico il lavoro poetico si è tradotto in tre libri di poesia: Il lago del cuore (2004), Gente di passaggio (2005) e, l’ultimo, Madonne e donne (Faloppio, LietoColle, 2007). C’è da dire che se i primi due libri di Puccini erano ancorati al baricentro basso di una poesia della memoria diretta e indiretta, cioè una poesia del ragionamento, della ratio della memoria a far luogo da alcune fotografie sopravvissute al tempo, una poesia dell’affabulazione e della clarté dello sguardo che muoveva la propria investigazione sul reale a partire da una «riproduzione» del reale, la ricerca condotta in Madonne e donne adotta una integrale visione post-moderna di approccio alla questione del «reale»: il discorso poetico diviene qui un metadiscorso che viene svolto a margine dell’arte figurativa. Le procedura estetica di Madonne e donne introduce un nuovo metodo procedurale. Il risultato è una «riforma» dello sguardo poetico che  non si concentra più sulla fenomenologia dell’io tipico della lirica monodica (con l’annessa adiacenza della confluenza tra io esperiente e io poetico), qui il problema di quale rappresentazione viene risolto mediante l’introduzione di una novità, come dire, procedurale-formale, che dà luogo ad una poesia di stampo oggettivo, una poesia di ragionamento e di indagine, dove la ratio del discorso poetico è strettamente legata agli sviluppi della indagine sui dettagli e su alcuni aspetti significativi delle opere pittoriche prese a modello, come materia prima del discorso poetico. È l’indagine dell’occhio che rivela il destino dei personaggi raffigurati; indagine che si muove sempre sul filo di rasoio di una logica rigorosissima e assurda, dotata di autoevidenza e irrefutabile. È la logica dell’occhio che guida la ricostruzione del personaggio raffigurato; il destino è già dentro la materia raffigurata, alla logica dello sguardo compete soltanto la estrapolazione dell’ordito interno, quel segreto ineffabile che si trova dietro e dentro la simulazione dissimulazione del procedimento poetico. E il destino inscritto in codice  nella orditura dell’opera pittorica, trova il suo investigatore-scopritore che saprà restituirle nuova vita e nuovo significato. L’ultima poesia di Davide Puccini si muove in una dialettica del rispecchiamento che la poesia esperisce nel momento stesso in cui rispecchia una forma d’arte allotria e parallela sulla quale e dalla quale prendere le mosse per una ulteriore indagine sulle ragioni di sopravvivenza del discorso poetico. Procedura poetica rastremata e appuntita proprio per la acuta consapevolezza della crisi di autoevidenza e di rappresentazione del discorso poetico dopo la «dissoluzione dell’oggetto» e la «disparizione del soggetto» novecenteschi. Citiamo la poesia scritta a margine de «La nascita di venere» di Botticelli: «Spinta a riva da Zefiro lascivo /che Flora forte avvinghia, /poggi leggera sopra /il bordo della candida conchiglia /in sinuosa posa, /dipinta in tutto il tuo nudo splendore

velato appena dalla lunga chioma /e dalla mano che ricopre il seno: /l’Ora sollecita stende sul corpo /un ventilato lembo

il cui roseo colore /reca un nembo di fiori, /perché le fiere che saranno umane /non restino abbagliate dal tuo grembo».Nello Rosolino Rosolini è nato a Lucca nel 1926 e vive a Latina. Durante la seconda guerra mondiale (1943-1945) è stato prigioniero per tre anni in Germania, Polonia e Prussia orientale. Ha scritto i primi versi all’età di settant’anni. Pubblica nel 1999, La favola dell'autunno e, nel 2000, Quei passi lungo la sera (Roma, Libreria Croce). Nel gennaio del 2002 pubblica Haiku (Roma, Ed. Scettro del Re) e, l’anno seguente, Parole e silenzi (Roma, Scettro del Re, 2003) che, con la successive sillogi L’indulto del tempo (Roma, Lepisma, 2003) e Poesie della Domenica (Roma, Lepisma, 2003), ci consegnano alcune delle poesie più intense che siano mai state scritte sulle esperienze di prigionia durante la seconda guerra mondiale.

Come chi arriva tardi dopo un lungo pellegrinaggio in terra straniera, trova il proprio paese cambiato, gli antichi costumi dismessi, la propria donna unita ad un altro uomo, così Rosolino Rosolini è tornato, dopo un lungo esilio dalla cultura, alla poesia, quando la poesia ha iniziato a bussare nella mente e nel cuore di una smagliante e veneranda età. E così sono apparsi due libri di poesia in soli due anni come per suturare e contenere quel fiume in piena che per settant’anni il poeta di Latina aveva dovuto sedare sotto la cenere. E non c’è dubbio che la parola di Rosolini abbia qualcosa che manca a tanti  letterati: quella naiveté, quella urgenza, quella approssimazione alla cosa che soltanto i chiamati da una vocazione possiedono. «Urlai contro la morte per impaurirla / ma non s’allontanò». Si tratta di un ricordo della guerra di Russia dove Rosolini ha combattuto. Gli eventi della guerra, i relitti dell'esistenza, i reietti della vita a settant'anni ritornano alla memoria, s’affollano, si vestono di parole e rivivono una seconda vita larvale, fantasmatica. Quando Rosolini parla della guerra, il tono si fa grave, il lessico spoglio: «Ho vissuto come fuoco / nella fiamma mai spenta / s’è bruciata la vita, arse le rose.// E non passerà questo passato / perché sempre troverò nel volto di qualcuno/ il ghigno di quelli che trascinavano/ i condannati alla fine.// Sentirò sempre le grida di comando/ in quella lingua che mi scoppiava nelle orecchie / come uno sparo (...) Quell’orrore lo porto ancora addosso». Rosolini sa d’istinto che la poesia riceve luce e vigore dalla vita, sa per esperienza diretta che la poesia disgiunta dalla vita diventa un orpello, una piuma di struzzo o una escrescenza letteraria, una polluzione tumorale; la grande serietà della poesia sta nel suo essere ancella della vita, devota custode dei segreti di quest’ultima, delle sue incoffessabili astuzie della ragione. Le metafore si presentano in veste dimessa e dismessa e, quando risultano azzeccate, rivelano l’essenza di una esistenza: «Sono una valigia vuota/ pronta a tutte le partenze». Il poeta di Latina lavora come un falegname, usa i chiodi ed il martello, le poesie escono di getto, sulfuree e magmaticamente già modellate. Una concezione fisiologica della poesia Rosolini ha nei confronti della poesia un contegno di assoluto rispetto, l’arte del poeta non la considera affatto diversa dall’arte del falegname o del muratore. Per Rosolini la solidità della costruzione dipende dalla qualità dei singoli mattoni, dalla calce viva. E qui si giunge ad un punto essenziale della sua poetica: qualsiasi materiale è adatto alla  poesia, tutto può entrare nella poesia e tutto può uscirne per rientrare nel caos del mondo ma, quel che è singolare, ciò avviene senza che la sua poesia perda quel quid di autenticità che la contraddistingue. Per Rosolini l’estetica è la costruzione, saldamente agganciata alla sella turgica del proprio corpo e della memoria, la sua poesia sa correre il rischio finanche di essere «brutta» e «cacomorfica» pur di sortire direttamente dal filtro del tempo.

 

 

la «fine» della civiltà del modernismo verso la post-poesia

Mauro Ferrari, Massimo Giannotta, Plinio Perilli, Andrea Di Consoli

 

Soltanto un discorso lirico saldamente attestato sul versante del «canonico» della poesia del Novecento, come questo di Mauro Ferrari Il bene della vista (Novi Ligure, Joker, 2006), con la sua cifra  monologante incentrata sull’io poetico, saltando tamquam non esset tutto il prodotto della cultura della modernità delle neoavanguardie e del post-sperimentalismo, poteva tentare di riannodare i legami che la cultura dello sperimentalismo aveva consapevolmente spezzati e interrotti con il quadro di riferimento «normativo» del «grande canone» novecentesco. Soltanto un discorso poetico che proviene da lontano, da vie laterali e longitudinalmente periferiche, poteva imboccare una strada tutta in salita e così diversa, occorreva un ascetico tirocinio per operare un consolidamento stilistico così compatto. La poesia di Mauro Ferrari tenta l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale, appartenente alla stagione manifatturiera del «moderno» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale della Bufera (1951), fino a opere come Il conte di Kevenhuller (1985) di Giorgio Caproni. Un tirocinio la cui spia è costituita da uno stile familiare-demotico, amicale-demotico, con poesie dedicate ai contemporanei poeti compagni di strada. Il carattere stilistico è qui un rispecchiamento del legame intenzionale della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto: gli atti intenzionali del soggetto poetante definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio», è un sapere dominato dalla nostalgia per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto. Soltanto il riconoscibile entra in questa poesia con il suo statuto e il suo vestito linguistico. La formalizzazione linguistica di questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico di questa poesia, sempre attestata tra il rimuginare e la considerazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Il titolo del libro «il bene della vista», allude proprio al tragitto percorso dall’atto della contemplazione. Non vi sono passaggi tra i diversi gradi di senso che l’oggetto rivela, v’è un continuum linguistico e una discontinuità stilistica. L’io percipiente contempla e possiede l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità del soggetto percipiente, rappresentato nell’atto del vedere, afferrare, comprendere il mondo (oggetti, se stesso, fatti, Storia), è una via di uscita dalla frammentazione dell’oggetto e del soggetto, sono due discontinuità che si sommano, anzi si sovrappongono. La continuità della percezione viene così annullata, per creare interferenze, caos, catastrofe. Poesia che tenta la costruzione di un argine all’incapacità di «vedere», anzi alla cecità propria del minimalismo, tutto incentrato sulla riproposizione della centralità di un «io» contenitore. 

Nella poesia di Ferrari troviamo la tematica-base del nostro tempo post-utopico: la mancanza di radici del soggetto nell’epoca della globalizzazione delle merci linguistiche. Sorge una domanda, apparentemente ingenua: quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione? Inoltre, la mancanza di un «luogo», di una polis, di una cittadinanza linguistica e di una comunità linguistica quali conseguenze hanno sull’avvenire e il presente della poesia? Di qui il bisogno di rispondere a queste domande, di ricostruire, per via immaginaria, delle parentele e dei legami parentali con altri poeti della contemporaneità che rappresentano la comunità linguistica, quasi che, per così dire, la consanguineità potesse sopperire alla mancanza di sangue. Così, sottratta al «luogo», la poesia di Ferrari tenta di ricostruire e riallacciare i rapporti con la grande tradizione del Novecento, riscoprendo le proprie fondamenta in quella civiltà del modernismo che era stata edificata dalla poesia italiana durante gli anni del boom economico: non quindi autori come Giovanni Giudici con La vita in versi (1965), Amelia Rosselli con Variazioni belliche (1964), Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), quanto da autori come Mario Luzi con Nel magma (1963), non da autori come Elio Pagliarani con La ragazza Carla (1962), (se si sottrae questo autore, una volta per tutte, alla assimilazione della sua esperienza stilistica alla linea neosperimentale). Quel che rimane oggi, a distanza di quasi cinquanta anni, della poesia con impianto narrativo-autobiografico, una volta caduta l’impalcatura ideologica dell’epoca pre-modernistica, si rivela essere una colloquialità atopica e post-utopica, una interiorità riconquistata e rifondata sullo spostamento-spaesamento dell’«io» poetico («Ci incontreremo in una piazza vuota/ con i colombi malati e zoppicanti/ che sfigurano le statue, e ci diremo/ che quel luogo non è nostro – che nessuno/ è il nostro luogo ormai»); il dialogo con l’interlocutore è diventato un rapporto immaginario, un rimuginare sulla problematicità di un dialogo interrotto e non più recuperabile. Il ricorso alla metafora è in questa poesia un vestito linguistico che tende a nascondere più che a rivelare il contenuto di verità: che cosa sono i «laghi» che chiudono il libro se non quella tranquilla liquidità lacustre che inghiotte ogni possibile o impossibile rappresentazione linguistica? «Sia fatta la volontà dei laghi,/ fondissimi e irrintracciabili».  Che cos’è l’io poetico che risorge  «come la tregua di una notte/ strascicata sul campo di battaglia,/ insonne e tormentato da visioni». «Tutto è perduto. Un re notturno è in fuga»?; Adesso lo sappiamo, Mauro Ferrari è un poeta della generazione del «Tramonto»: ecco spiegata la ragione delle metafore militari che allignano sotto la superficie dei versi, percorsi come da brividi, da una tensione interna che scorre appena sotto la tranquilla ostentazione di pace della sua superficie; i metaforismi delle stagioni, in particolare dell’inverno, di un inverno che non preannuncia alcuna primavera, sono inquietanti, e anticipano un «inverno» sempre più  rigido: «E adesso che la barca/ vira a inverno sai, nello stagliarsi/ della costa che delinea l’orizzonte/ e spacca il largo vuoto, sai/ quanto è improbabile novembre,/ l’equilibrio falso ma lucente/ delle cose che cadranno…». 

Chi è «Il messaggero»? – dal titolo di un poemetto in prosa – , il maratoneta che reca il messaggio della «battaglia» appena conclusasi? Quale è l’esito della «battaglia»? Ma né l’assemblea del popolo né il console hanno alcuna intenzione di interrogare il messaggero sull’esito della «battaglia», né sono realmente interessati all’esito dello scontro già avvenuto; del resto, colui che giunge «da Termopili di parole» è esausto «inconsapevole di alcun messaggio mai affidato alle mie mani»; così il «console» può dirimere in modo burocratico la questione, e «ordinerà di sprangare le porte, tenere accesi i fuochi ed erigere torri, e lascerà gli spalti…». Il messaggio che un inconsapevole messaggero reca con sé non è ormai più decrittabile. La poesia è rimasta senza messaggio, questa è l’ultima parola del libro.

Nostra Patria appare nel 1981, nel 1993  Massimo Giannotta dà alle stampe Il ventre della notte. Il libro è  costruito secondo un meccanismo stilistico di scatole cinesi: man mano che ci si inoltra all’interno scoccano gli effetti di inghiottimento e di straniamento, si delinea un itinerario «superentropico». L’ippopotamo e il drago (il «Kraken») costituiscono la metafora ossessiva del libro, la metafora nucleare dalla quale si originano, per scissione, le strutture metaforiche di derivazione. Attraverso un «Passaggio» (il «casello autostradale») si entra in «Ex Ponto» («Il gonfio mare / è l’acherontico confine / di un esilio infinito») per approdare al non-luogo delle «Disilluminazioni», il regno dove ponza l’ippopotamo. Il per infinita vecchiezza / ancora / misteriosamente assorta / in un sogno di perduta grandezza / decaduta e scrostata / decadente e corrotta / segnata dalle cicatrici / di antiche saccheggi…»). La critica dell’economia politica diventa qui critica dell’economia poetica: il verso è stringato, essenziale, ridotto all’osso, parametrato sul basso continuo con spunti di antisublime surreale. Il girone successivo si chiama «Il Kraken», propriamente il mostro marino, e attraverso l’«Introduzione al Kraken».  si accede finalmente all’io lirico («Vissi la mia infanzia / in una città / venerabile una chimera. / “Che bel bambino, signora…” / (Ignobile mostriciattolo caccoloso)». La versificazione è spezzata, franta, con un tono meditativo, gnomico, aforistico, ridotto a relitto linguistico. Il luogo della labirintite, della dismorfofobia inizia con l’infanzia e termina con la città, il topos del disordine esistenziale e politico, e quindi anche metafisico, fino a giungere all’ultimo girone: «Aornos»: il luogo del lutto. L’«ippopotamo» è il mostro che «si nutre di carne umana» che presidia la terra di nessuno della civiltà delle macchine. È la struttura prototipica della poesia di Giannotta. Il libro ha forma circolare: al centro c’è l’occhio di un sistema di gironi, il buco nero dove il tutto precipita e si dissolve. Struttura che si ripeterà anche nelle opere seguenti il Portolano di mari iperborei (1998) e La conta di Lancelot (1998). Il «portolano» rappresenta la carta geografica dei mari, le possibili vie percorribili sono virtualmente infinite. La macrometafora del marinaio che, invece, percorre una e una soltanto via rimanda alla metafora del Tutto quale entità sistemica disfunzionale, una realtà frattale, cioè fitta di discontinuità ed irregolarità formulabili matematicamente. La poesia giannottiana vive contemporaneamente all’interno e all’esterno della «dimensione lirica», dichiarandone il superamento e la dismissione nel momento stesso in cui ne recupera, sommessamente, il tono innico e monologante; tutta immersa nella propria antinomia di fondo la poesia di Giannotta è particolarmente significativa e paradigmatica degli anni novanta perché prende atto della definitiva crisi degli istituti stilistici che facevano capo all’idea di lirica per entrare in quella che definirei post-lirica, una zona ad alta tassazione stilistica, confinante, da un lato, con il versante narrativo e, dall’altro, con il pendio declinante della lirica novecentesca. Il personaggio di Lancelot è un po’ la metafora di questo stare nel mezzo, di questa impossibilità di scegliere: egli non può diventare primo cavaliere perché schiavo d’amore per Ginevra e, al tempo stesso, rinunciando al suo peccato, perde la forza di compiere qualsiasi impresa; egli vive nella conflittualità tra due possibilità antitetiche, vive tra due alternative prive di mediazione. La lacerazione del sistema linguistico è un altro portato della poesia di Giannotta, che riflette, nel proprio sistema stilistico, le antinomie dell’economia politica del tardo moderno. La conta di Lancelot è tenuto su un duplice ordine temporale: il presente e il passato. Lancelot ha transitato le epoche senza esser riuscito a risolvere la crisi di identità che lo attanaglia; ci sono continui rimandi temporali: dal presente al passato e viceversa, fino alla morte di Lancelot. Seguono La fortezza marina (2001) e il Ciclo della crudeltà (2006) che chiudono questa ideale tetralogia.  Ma è con Incerte latitudini (Empirla, 2009) che Giannotta costruisce l’epica del quotidiano di un’epoca post-bellica. Sembra un libro scritto dopo una esplosione nucleare. Stilisticamente, non è più prosa e non è più poesia. Siamo subito proiettati dentro una gigantesca realtà di «palazzi bombardati» dove combattono i «teknosoldati» contro gli strateghi «della controinsurrezione» mentre «le colonne di fumo grigio o nero degli incendi che salgono a mischiarsi con le matasse arruffate delle nubi», «da un’ombra a un’altra ombra, drappelli, battaglioni, eserciti di ombre», con intermezzi di iperrealismo («Il corpo squarciato all’altezza del ventre… Non so dove sono le mie gambe… All’alba verranno le mosche a deporre le loro uova nelle piaghe aperte… Chissà dove sarà il mezzo sacco di farina che portavo, stringendolo a me prima dell’esplosione che mi ha ucciso… Forse qualcuno l’ha rubato. Non so bene»), accanto a lacerti di rottami stilistici di una tradizione intermessa e come dimenticata («Oggi, il repentino turbinio di una gonna a fiori di una sconosciuta passante, mi ha ricordato un gesto di lei, aggraziato e improvviso, quasi brusco…»). Siamo già entrati nella civiltà della belligeranza universale, ed anche stilisticamente la poesia assume una orditura a metà tra dramma e carnevalizzazione, a metà tra la seriosità del dramma e la farsa del carnevale nucleare. Fino al «tormento della corda», al supplizio cui viene sottoposto l’intellettuale che si rifiuta di collaborare con gli invasori: l’«interrogatorio di Campanella» è il centro motore del libro. Man mano che ci si inoltra nel libro anche lo stile si opacizza ed assume la veste narrativa. La forma-poesia è ormai un lontano ricordo dell’umanesimo del passato.

Plinio Perilli è nato a Roma nel 1955. Nel 1982 esordisce con un poemetto sulla rivista «Alfabeta». La sua prima raccolta, L’amore visto dall’alto, apparso nel 1989 e ristampata nel 1996, ha avuto il merito di segnare un confine e uno spartiacque rispetto alle poetiche in vigore nel decennio precedente, tracciando un percorso di indubbia originalità dirimpetto alle poetiche de «la parola innamorata» da una parte e della Opposizione permanente prigioniera di uno sperimentalismo esasperato dall’altra. Perilli ha avuto il merito di intuire, già agli inizi degli anni ottanta, che la parola poetica era stata destituita di «rappresentatività» e che sarebbe stato sempre più problematico opporre una resistenza alla deriva dei linguaggi; così come parimenti privo di valore culturale critico era il tentativo di restaurare un idioma-cliché lirico-frammentista (tipico della «parola nnamorata» di quegli anni). L’assunzione della prosasticità veniva dal poeta romano caricata di una valenza critica ben superiore a quella che poeti apparentemente à la page ponevano quando parlavano di tecnologia linguistica, oppure quando feticizzavano il «quotidiano». In questo contesto culturale, Plinio Perilli si muove agilmente dentro la forbice ristretta degli opposti schieramenti con una poesia che intende rivalutare il piano del «quotidiano» per collocarlo su una «colloquialità» oggettiva e argomentativa. La rappresentazione dell’amore giovanil-borghese della nuova generazione era un serio proposito per restituire alla poesia del quotidiano una metafisica della quotidianità, e non piuttosto una resa al prosaico, come qualcuno ha insinuato. La distinzione non era di poco conto, e tutto il valore culturale della trilogia di Plinio Perilli si gioca su questo punto: se la si appiattisce sul piano della «colloquialità del quotidiano», si rischia di inventariare questa poesia quale «variante» nell’intrico dei rami delle poetiche che epigoniche, se al contrario, come pensiamo noi, la poesia di Perilli è da ascrivere nell’ambito di quelle poetiche che hanno pensato di «dire» rappresentando, che hanno preso le distanze critiche dalle poetiche post-sperimentali come da quelle elegiaco-intimistiche, allora possiamo, a ragion veduta, affermare che la poesia perilliana, nella sua apparente immediatezza, sia stata uno dei gradini fondamentali sulla strada della presa di coscienza dei problemi di poetica che stavano al fondo della poesia degli anni ottanta e novanta. Con le opere successive, Ragazze italiane (1990) e Preghiere d’un laico (1994), Amelia (2006), la poesia perilliana  acquisterà capacità di dispiegamento argomentativo, oggettività e maturità stilistica verso esiti di narratività e di linguisticità del nuovo privato.

Con Petali in luce (1994-1997) del 1997, il poeta romano affronta la problematica del romanzo in versi: 365 giorni, una poesia al giorno. Terzine ampie come ventagli, screziate come cravatte di Missoni, fragranti ed accattivanti. L’idea di Plinio Perilli è semplice: scrivere un diario lirico che insegua il tempo, lo catturi e lo assimili per osmosi, per contiguità. Un colloquio intimo, reso palese e pubblico. Un colloquio con il tempo equivale ad un colloquio con il vuoto. Il tempo è, ad un tempo, né pienezza né vuoto assoluti. Le parole di Perilli sono piene, lussureggianti e spumose, schiumanti di vita e di desiderio. Un diario lirico del desiderio potremmo chiamare questa sequenza di terzine. Dopo la trilogia dell’amore per le «ragazze italiane», Perilli era giunto ad una zona di confine, aveva chiaramente avvertito che il giacimento si era esaurito e che occorreva cercare in un’altra direzione: una poesia prosastica, snodabile e sondabile, post-sperimentale nel senso migliore del termine, nel senso appunto che dopo lo «sperimentalismo» non vi può che essere un territorio da coltivare e da dissodare, un territorio da inventare. Una poesia senza pose liriche, senza martellature timbriche e tonali, senza orchestrazione sonora. Intendiamoci, la costruzione sonora c’è eccome, c’è perché non potrebbe non esservi, ma è totalmente libera, totalmente emancipata. In un certo senso, Perilli ha vissuto sulla propria pelle la crisi della forma-poesia del tardo Novecento. Ed è da qui che bisogna ripartire, non per un semplice restauro della forma-poesia ma per un trattamento più «intimo» delle tematiche. Il poeta romano assume tutto intero il rischio di adottare un libro-labirinto dove il polimorfismo e la pluralità delle situazioni vengono assunte come potenzialità della linguisticità poetica. Si va verso la costruzione di un «nuovo paradigma»: la forma-poesia diventa romanzo in versi, piega il romanzo alle proprie condizioni di esistenza.

  Volendo fare ordine tra gli eventi l’«io» poetico di Andrea Di Consoli pone invece in evidenza l’irreparabile caos del «reale», l’irrimediabile assurdità di ogni ipotesi di poter introdurre una economia monetaria dentro il tubo catodico dell’autenticità dell’«io»: come se fosse ancora possibile uno «scambio»  tra le esperienze significative dell’autore e quelle del lettore, con lo «stile» a fare da moneta, da garante dello scambio.  È ancora possibile l’autenticità dentro l’involucro dell’«io»? È ancora possibile la posizione poetica come una posizione legiferante che ordina (o scombussola) i segni e le segnaletiche, i codici e i subcodici che ci consentono la lettura del «reale»? È ancora possibile la posizione «fissa» dell’«io» poetico dinanzi e/o intorno al «reale»? È ancora possibile il «reale» come lo abbiamo conosciuto nel lontano Novecento? Se tutto ciò è ancora in predicato, ne deriva che oggi, negli anni Dieci, nelle nuove condizioni della società internettiana e mediatica, ogni sforzo ordinatorio e classificatorio del «soggetto» non può non naufragare nella eteronomia delle «cose», degli «oggetti» e dei segni del «reale», sia perché manca un luogo determinato nel quale si possano raggruppare con regolarità i fenomeni e gli eventi, sia perché manca un «soggetto» monadologico e centralistico che legifera il suo monologo lirico. Questo luogo che si è frantumato è il pensiero, l’«io», il «soggetto» il quale non può e non vuole più risolvere in una sua propria presunta unità e omogeneità le contraddizioni e le eteronomie del «reale»; anzi, lo stesso «soggetto», empirico prima e poi quello poetico, è diventato un epifenomeno di quella fluidificazione universale entro la quale si dissolve l’unità e l’omogeneità del mondo e del vissuto. L’«io» poetico si mimetizza con il non-io del «quotidiano» diventato fluido sino a confondersi con esso e a perdere la nozione di identità dell’«io».  Allora, l’unico ordine è quello puramente nomenclatorio. Ecco perché l’ultimo libro di Andrea Di Consoli Quaderno di legno (Roma, EdiLet, 2009) si presenta con la struttura di una grande clinica psichiatrica, suddivisa in tanti reparti a seconda delle peculiarità delle malattie dell’«io». 11 Reparti: Reparto n. 1 (Intorno alla poesia); Reparto n. 2 (Giorno dopo giorno, a Roma); Reparto n. 3 (Lucania che non ci sei più); Reparto n. 4 (Dora, Claudio, il padre e la madre); Reparto n. 5 (Cose che uno pensa di sapere); Reparto n. 6 (Con Don Carlo al cimitero di Aliano); Reparto n. 7 (Pagana e oscena filosofia del paese); Reparto n. 8 (Dio, la luce, le facce di merda); Reparto n. 9 (Nel fondo della disperata carne); Reparto n. 10 (Frammenti per Claudio); Reparto n. 11 (Commiato dall’amata carne). 

Quaderno di legno chiude una ideale trilogia iniziata con Discoteca (2003) e proseguita con La navigazione del Po (2007), dove è l’«io» che parla, che racconta di un’autobiografia e  del proprio «quotidiano». Ma in una società come quella attuale che non ha più i connotati di massa, dove la standardizzazione della post-massa di quella che un tempo lontanissimo era la massa, si risolve in massa critica che implode in se stessa autoannientandosi, dove la fluidificazione del pensiero e dei pensieri li ha resi tutti indistinguibili e interscambiabili, è ancora possibile la poesia?. Ma davvero le cose stanno così si chiede Di Consoli: e la scoperta è bruciante e scioccante («Sotto a queste parole / ci sono altre parole»). Parole, miliardi di parole che fanno esplodere dall’interno l’involucro beneducato e corretto del linguaggio poetico-letterario egemone. Emerge una furia iconoclasta ed eslege che non risponde più a nessun ordine, a nessun mandato né sociale né privato, né di avanguardia né di retroguardia; l’«io» non rappresenta neanche se stesso, non ha neanche il ruolo di testimonial della propria inautenticità e/o identità, non è neanche veicolo della propria inautenticità. Quello che resta, e che il poeta lucano-romano può ancora utilizzare, è un linguaggio intellettuale-plebeo, un idioletto individuale «privato», un tubo catodico dove possono transitare le idiosincrasie, i dolori, le apprensioni, le rabbie di un «quotidiano» deturpato e scisso, non più leggibile da una semantica, da una semiologia del dolore o da una semiologia del contro-dolore. Esilaranti certi scorci grotteschi hanno in sé la disperazione, una carica antiretorica e antiletteraria che non intende scendere in alcun modo a patti con l’educato e forbito linguaggio curiale del linguaggio poetico egemone e con il doroteismo dell’emiciclo parlamentare del conformismo nazionale. Di Consoli raggiunge la stabilizzazione linguistica proprio a ridosso di quel pavimento sconnesso costituito dai linguaggi poetici del contemporaneo, si alimenta proprio delle sabbie mobili e delle disarticolazioni, delle fratture dei linguaggi poetici novecenteschi devalorizzati e derubricati come non affidabili. È questo il suo punto di forza.

 

 

 

LA VERSIONE «ANTIMODERNA» DELLA NUOVA POESIA 

 

 

la parola «remota» e la figuralità «arcaica»  

Luigi Manzi, Giancarlo Pontiggia, Luigi Celi

 

Dario Bellezza scriveva nella prefazione a Linea suburbana (1981) che «la tradizione in cui si ascrive Luigi Manzi è difficile da individuare; il visionarismo panico non è mai stato proprio della poesia italiana, se si eccettua forse certo d’Annunzio e Campana; la tradizione ermetica, quella neorealistica fino al trionfo metalinguistico della neoavanguardia hanno minato la possibilità del poeta italiano di procedere per illuminazioni invece che per ragionamenti e glosse illeggibili; così Manzi è una via di mezzo: da una parte vorrebbe tener testa alla sua capacità di visione, dall’altra vorrebbe addormentarla in nome di uno sperimentalismo che è proprio della stagione piena di fermenti che va a cavallo degli anni sessanta e settanta. Può, Manzi, non scegliere per virtù di poeta ricco e sanguigno che le mode non possono guastare; pure non si può negare che, figlio del suo tempo, il poeta abbia subito il fascino non solo della poesia classica, ma anche dell’esistenzialismo ideologico di quegli anni». Se c’è un poeta che contraddice l’impostazione binomiale (sperimentalismo e linea lombarda) della poesia del tardo Novecento, è proprio Luigi Manzi. L’occasione per una rilettura della poesia di Manzi ci è fornita da due recenti  antologie: Il muschio e la pietra – Guri dhe myshku (trad. in albanese di Gezim Hajdari, Nardò, Besa, 2004), e Rosa corrosa (2003), che includono una vasta selezione di testi che vanno da Linea suburbana 1967-1981 (1981), Cuore di lepre (1987), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), oltre un gruppo di poesie inedite. La prima riflessione che viene in mente è la straordinaria coerenza del percorso poetico del poeta romano, che ha attraversato  e bucato la rivoluzione mediatica dagli anni sessanta in giù. Un lessico spoglio, inattuale, tutto concentrato e rastremato ed un fraseggio prosodicamente attrezzato sul pedale basso della desublimazione e podisticamente calibrato sul verso libero. Se confrontiamo l’incipit di una delle poesie degli anni sessanta («Che si può dire in generale di questi uccelli veloci / che al fioco rumore della lanterna dei miei passi / volano via a grappoli dal cespuglio di fichi»), con una delle ultime poesie inedite, troviamo lo stesso lessico basso e spoglio, stringato, lo stesso timbro, il medesimo cromatismo delle immagini antimodernistiche («Brilla il falcetto del cantoniere / che, alto sopra la parete, / si tiene a un mazzo / di capelvenere»). Poesia fatta a sbalzo, con lo scalpello su di un marmo poroso e grezzo, figuralità premoderna, di ciò che è scomparso (il cantoniere, la lanterna, il pescatore); gli «uccelli» sono spesso designati nella sostantivazione astratta, ipostasi metafisiche che rimandano e riecheggiano la poesia di matrice simbolistica, oppure sono merli, cucù, c’è il tordo; il tempo è sempre un tempo di confine, di transizione, di latenza, preferibilmente l’autunno; i paesaggi sono sempre tutti rigorosamente appartenenti alla figuralità della civiltà preindustriale. C’è qualcosa di scabroso ove balugina, qua e là, un dualismo antinomico personificato dalla «lepre» e dalla «volpe», trapela una una atmosfera di «violenza e lussuria». Il repertorio tematico e iconografico del simbolismo viene sottoposto ad un severo processo di revisione critica: la superficie compatta di questa poesia indica come la figuralità arcaica depone a favore di un messaggio poetico ostile alla ratio della comunicazione mediatica. Stilisticamente convivono un classicismo post-liberty e post-decorativo che si riallacciano all’unico grande poeta metafisico del primo Novecento: Dino Campana. Nella poesia di Manzi i segni dello «sfacelo» sono sottintesi ed intesi oggettivamente quale repertorio figurale. Con le parole di Adorno: «i segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale». Poesia che si rivela disperatamente «moderna» nella misura in cui allontana da sé ogni repertorio della modernità, resistenza spasmodica condotta con tutti i mezzi e con tutta la combustione di cui questa poesia è capace avverso  la forma di merce dell’arte e ai simulacri della «bellezza»: «Me ne vado per le fiere / a cantare, bere, bere. / Quanti bimbi scarmigliati. Quanti uccelli nella luce. / Io ho invece la mia croce. Porto vino per le fiere. / Lo distillo dal furore. / Poi lo spillo, / bere, bere. /Com’è scuro, scuro, scuro. / Come schiocca nelle vene / nere, nere. / Vien dal succo del penare, / vien da piaghe di catene. / Cola cupo / nel boccale».

Nel 2005 Giancarlo Pontiggia pubblica Bosco del tempo (Parma, Guanda, 2005); ed appare subito chiara la sua completa estraneità alle linee che fanno capo al minimalismo romano-milanese e al post-sperimentalismo nella versione modernizzata dell’Opposizione (permanente) in chiave neomoderata.  Con Con parole remote (Guanda, 1998), veniva tracciata una mappa lessicale e figurativa che indicava un orientamento e una  sensibilità programmaticamente «antiche».

Se noi accettiamo quale parametro di riferimento e di orientamento la tematica dell’«attualità» o la poesia del «quotidiano»,  così com’è invalso ormai nell’uso che ne fanno gli odierni minimalisti, la poesia di Giancarlo Pontiggia potrebbe essere catalogata nell’ambito della linea «laterale» di sviluppo delle poetiche «maggioritarie»; se invece capovolgiamo il punto di vista e la scala gerarchica dei valori assodati dalle poetiche egemoni, non possiamo non considerare la poesia dell’«inattualità» di Pontiggia come uno degli esiti più emblematici del contemporaneo. 

Al fondo della questione restava insoluta la problematica dell’oggetto, la questione della «rappresentazione» dell’oggetto e la questione dell’espressione linguistica del «nuovo oggetto». Si scopriva così che il «nuovo» oggetto di Pontiggia altri non era che la riesumazione di una parola «remota», appartenente alla civiltà dell’ermetismo e del post-ermetismo; c’era l’intuizione che quella parola «inattuale», ripescata di sana pianta dal terreno di coltura della precedente civiltà letteraria, poteva acquistare una «nuova» pregnanza e potesse fondare, se non un nuovo «canone», almeno una nuova sensibilità, ripristinare la valenza semantica orientata verso quella che mi piace designare con il termine di «inattualità». 

Posta questa doverosa premessa, dobbiamo anche dire che la poesia di Pontiggia si trovava necessariamente a dover fare i conti con la questione della temporalità e con la questione dell’Essere, problematiche estranee completamente alla poesia di stampo ermetico e post-ermetico cui quella di Pontiggia si riallaccia più per una valenza strategica e stilistica che non per una ragione di filiazione. Pontiggia elabora una poesia dal timbro dichiaratamente «arcaico», dove le parole acquistano un diverso peso specifico dentro l’ambito della «nuova» unità di misura della «nuova» sensibilità: «Usciamo, nella notte, in un albore /fiammeo, immateriato: né suoni, /né ombre, soltanto /i fissi lapilli del cielo. /S’invetra ogni pupilla a tanto / gelo», dove la terminologia modale e verbale risulta di indubbia derivazione ermetica, inequivocabilmente attestata in direzione della costruzione di una poesia post-simbolistica dopo le rovine e le macerie del simbolismo. Nella poesia di Pontiggia l’ipostatizzazione del soggetto si traduce in una poesia «astratta»,  di essenze astratte, dove l’astrazione è l’esatto e speculare contraltare di quel soggetto ipostatizzato e deterritorializzato. 

È giunto il momento di fare una digressione: se è vero che la filosofia e la poesia del Novecento si sono viste colpite a morte dalla morte, appunto, del soggetto cartesiano, ne consegue che ristabilire oggi una poesia di rifondazione del soggetto appare alquanto problematico e antinomico. Priva di fondazione, la filosofia è diventata filosofia della «prassi», dell’empiria, filosofia della scienza, filosofia dell’arte, etc.; la poesia, mutatis mutandis, si è vista deprivata del presupposto che legittimava l’interiorità: la morte del soggetto cartesiano avrebbe a decretato la fine della poesia monadologica della «bella» interiorità e dell’interiorità tout court che il romanticismo e, susseguentemente, il decadentismo avevano contribuito ad alimentare. La filosofia esperisce il suo logos impossibile quando Wittgenstein  dice di parlare di ciò che si lascia sempre vedere e non si dice. La filosofia diventa allora discorso sull’impossibile discorso (Heidegger) e la poesia diventa discorso sull’impossibile discorso, su ciò che non si vede sub specie di ciò che si vede (Trakl, Campana, Eliot, Montale, Mandel’stam, Pessoa). È paradossale che nel mentre che fiorisce durante i primi tre decenni del Novecento, la grande poesia europea, la metafisica negativa che consegue a quel non-dire, si essenzializza nelle formule scultoree della grande poesia, in cui il metafisico si enuncia come ormai logos impossibile e si annuncia la latenza ineluttabile della filosofia. Prima Heidegger, poi Sartre, da punti di vista opposti, tenteranno di leggere la poesia e la grande letteratura quale paradigma, arché, del momento del pensiero. Metafisica negativa, dunque: nichilismo.

In senso «figurale» questa poesia cerca di affermare una fedeltà assoluta alle cose del mondo e della vita, a ciò che un tempo è accaduto e che tuttora continua ad accadere. Le parole possono trovare la «giusta» distanza dalle cose del mondo e la «giusta» capacità rievocativa; le parole diventano «remote» proprio per tentare di accedere più intimamente a quelle realtà profonde della vita che altrimenti rimarrebbero non dette, precluse alla parola. Giancarlo Pontiggia crede in una poesia «evocatoria» e «incantatoria», una poesia di essenze, di aliti, di spiriti, di attanti astratti. Il problema è sempre quello: trovare una aderenza al reale, arginare il nulla che sta appena al di sotto della parola significante. Se è proprio della poesia moderna la pronuncia del «vuoto» e della «perdita», è appunto il «vuoto» e la «perdita» ciò che fa della parola umana una parola significante, una parola che non sia più soltanto comunicazione di messaggi ma che raggiunga la meta di essere una parola nominante, detonante. 

Ma qui il problema si complica: come può la parola lirica sopravvivere dopo il tramonto dell’età della lirica? Come può la parola poetica sopravvivere alla dissoluzione e alla destrutturazione del discorso lirico? Ha ancora, la parola poetica,  la capacità di rappresentare una zona significativa della nostra esperienza? La poesia di Giancarlo Pontiggia è un tentativo, ammirevole per impegno e tenacia, di offrire una risposta a questo quesito; il suo impegno di ragionare liricamente partendo dalla chiusa monadicità dell’io poetico, è un esempio di incorruttibile fedeltà nella durata del discorso lirico. Poesia che chiama a raccolta tutte le forze del discorso lirico, tutte le capacità evocatorie affinché si salvi ciò che è possibile salvare, si salvi una fetta di esperienza significativa dell’io poetico prigioniero della chiusa circolarità del canto monodico. Il vuoto esiste, ci dice Pontiggia, come debolezza dello sguardo, insufficienza della nostra capacità esperiente. Ed ecco che siamo già al di fuori e al di là dello sguardo del nichilismo contemporaneo, approdiamo, quasi per magia, sulla terraferma della parola adesiva, della parola-vestito del reale.

Luigi Celi è nato in provincia di Messina nel 1948 e vive a Roma. Ha pubblicato il saggio filosofico La poetica notte in calce al romanzo L’Uno e il suo Doppio (1977). In poesia ha pubblicato Il Centro della Rosa (Roma, Scettro del Re, 2000), I versi dell’azzurro scavato (Udine, Campanotto, 2003), Il doppio sguardo (Roma, Lepisma, 2007).

Cesare Milanese nel saggio introduttivo a Il Centro della Rosa, scriveva: «La poesia di Luigi Celi è fuori calendario», e si chiedeva: «Celi è autore postmoderno? Certamente sì. Ne condivide diverse modalità, tra cui, la principale, è la ripulsa della modernità, intesa come topos della storicità sistematica. La poesia di Celi è una conclamazione del mondo come sito astorico». Parole quanto mai opportune e centrate se pensiamo che la poesia di Celi si configura come una interpolazione di testi sacri e di classici. Celi pesca «frammenti» nel libro dei Salmi, dai Profeti, dai Testamenti, dai Veda, dai Brahmana, e ritorna ai «frammenti» di Hölderlin, Rilke, Tagore; prende spunto da alcune sentenze dei neoplatonici, di filosofi pre-socratici per edificare la sua metafisica poetica. L’aspetto apparente, fenomenico, della poesia di Celi, si presenta come un rito, un ufficio liturgico, un mistero neopagano, per poter mediante esso, pronunciare il proprio discorso poetico, che si configura come Altro. La «parola» della poesia di Celi è il vestito eidetico rispetto al corrispondente lessematico, verificazione/falsificazione della sostanzialità ontologica della «parola», che parla del proprio tramonto nel tempo, che narra lo svolgimento antihegeliano della «parola» che precipita nell’attimo, ovvero, nel nulla della contemporaneità. «Il materiato scrigno dell’impermanenza», indica, nella teosofia di Celi, la condizione spirituale della tarda modernità. Nella misura in cui questa poesia ha attraversato l’esaurimento del post-simbolismo (se consideriamo il simbolismo l’ultima casa comune della civiltà europea), sua caratteristica peculiare è l’antropocentrismo autoriflessivo della speculazione, che ricade sulla dis-locazione del soggetto, sulla dis-parizione del soggetto; come Saul che era uscito di casa alla ricerca dell’asino ed ha trovato un regno, questa poesia ha rotto i ponti con tutta la misteriosofia della poesia novecentesca pur di trovare il suo luogo, lo spazio simbolico delle sue metafore erranti. Il paroliere desueto e algido di questa poesia ha la sua giustificazione e legittimazione nella perduta fiducia verso ogni contemporaneità linguistica, verso ogni tematica o oggettistica e verso ogni «tascabilizzazione» delle tematiche metafisiche in auge nell’odierno minimalismo. Il paroliere atopico di una poesia che intende autopromuoversi intemporale, o intemporalmetne impermanente, dove l’ossimoro e la metafora dis-locata, costituiscono la trama del tessuto di questa poesia. Incipit gentilmente sgraziati come «Ai margini d’albedo», «Un sole guercio/ schiavo dell’astuto/ inaridisce/ sullo spettro d’iride»; certi intermezzi atopici: «in cieli d’ametista/ fugaci angeli s’eclissano/ in vibratili roghi»; «Nella città di perle/ e di clangore»; assiomi sapienziali («Nel centro della rosa sta il segreto del mondo»; «la poesia è orgasmo d’acqua santa/ preghiera stretta in crune di bestemmia/ pianta rovente bagnata d’illusione»; «Senza centro né margine/ tra frustapolvere/ e arbustinvento/ se potessi liberare l’ombra/ su aquiline ali archetipali»), formano la scala materica, timbrica e cromatica di un antimondo o para-mondo o inter-mondo, gli unici luoghi dove la poesia può prendere dimora. «Un vento lievombroso elusivo s’innalza /negli ampi girirami /d’erbose onde e grano /e l’interiore fiamma imbiondì /l’ermo declivio /sfiata cribrose luci /nel circolare moto degli sguardi».

 

   

la poesia lirica dopo l’età della lirica

Pietro Civitareale, Marco Onofrio

 

Pietro Civitareale è nato a Vittorio (Aquila) nel 1934 e dal 1962 risiede a Firenze. Ha pubblicato: Un modo di essere (1983), Comme nu suonne (1984), Il fumo degli anni (1989), Vecchie parole (1990), Solitudine delle parole (1995). È anche autore di critica letteraria e d’arte, ha scritto: Il romanzo della crisi (1973), Carlo Betocchi (1977), Arte, tecnica e meccanizzazione (1978), oltre a numerose traduzioni di poeti stranieri. Poeta bilingue, ha scritto anche nel dialetto del suo paese di origine, con il quale ha pubblicato nel 1998 Le miele de ju mmierne. Non c’è dubbio che Pietro Civitareale ha raggiunto con questo libro uno degli esiti più convincenti e maturi della poesia dialettale degli anni Novanta. Innanzitutto, una rastremata purezza del linguaggio poetico ottenuta mediante un rigoroso processo di depurtazione lessicale e fonologica, depurazione e rarefazione che appare immediatamente visibile se poniamo a confronto questa poesia con quella che la precede del 1984, Comme nu suonne. Altro aspetto degno di nota è l’arcaismo metafisico che qui diventa un compiuto progetto culturale. Civitareale opera una singolare saldatura tra la poesia dialettale di Vittorio Clemente e quella in lingua di Carlo Betocchi; il risultato è quello che si può definire come impressionismo paesaggistico e retinico, ovvero, trattamento delle immagini colte in un’aura di immobile trascendenza. E qui interviene il «trattamento» della memoria, intesa come funzione lalica e vocalica («È spuntate le liune arrete alle muntagne»; «La notte è nu miure/ arrete a èutre miure»), dove la corrispondenza omofonica vocalica rimanda specularmene alla corrispondenza delle immagini poste in posizione di reciprocità. Altre volte, l’esplosione cinetica delle vocali acute: le «i» e le «u» sono alternate all’incalzare delle vocali «femminili»: le «a» e le «e»: «da i titte morre de ciejje/ come na schioppettate/ Se sparpàjjene pe’ ju ciele». Operazione brillantemente definita da altri critici come «frangivento vocalico». La tradizione «nobile» dei poeti dell’area frentana (Cesare De Titta, Cesare Fagiani, Luciani, oltre il molisano Eugenio Cirese) interviene qui come alto magistero di stile; ma là dove in questi poeti la lirica rifletteva troppo dappresso il canto popolare e la cultura popolare, in Civitareale non troviamo mai il bozzetto, il poeta aquilano riutilizza il dialetto per risciacquarlo nel fiume della poesia colta, sa evitare i pericoli verso una poesia di facili effetti acustici. La mediazione dell’area culturale fiorentina si è rivelata senz’altro utile ai fini della conversione alla poesia dialettale, in particolare l’esperienza dell’ermetismo fiorentino si rivelerà fondamentale per l’economia della «nuova poesia». Se è vero che «Civitareale rappresenta la consapevolezza dello stato di precarietà storica del mondo», come scrive Bàrberi Squarotti, è altresì inconfutabile che la purezza fonica del dialetto del poeta aquilano è un prodotto del processo di osmosi con il corrispondente italiano degli ermetici, nonché di un poeta di area fiorentina come Carlo Betocchi. L’arcaica immobilità della poesia di Civitareale è sobriamente scossa dalla percussione ritmica dell’immagine costruita in funzione del ritmo: «…ju viente/ sta appeccenne tutte le stelle/ nu come se la ijje che’ la liune/ che sta facente smorfie/ da mbriache dentr’ a na pelozze». 

Protagonisti della poesia in italiano di Civitareale, Ombre disegnate (Cosenza, Orizzonti Meridionali, 2001), sono, come nella poesia dell’epoca pre-moderna: il vento, il tempo, il cielo, la notte, il mattino, la neve, le luci, l’acqua, l’aria, il sole. Elementi primordiali, attanti astratti. Il lessico rivela una particolarissima attitudine allo scavo nell’ombra pre-semantica della parola, e le parole sono entità analoghe alle «ombre disegnate», dove nulla accade tranne il trascorrere delle stagioni e il volgere del tempo. 

Se analizziamo un testo di Civitareale sotto l’aspetto stilistico («Sotto l’arcata del mattino,/ gli occhi hanno il peso/ delle stagioni, mentre/ con grandi battiti/ di ciglia la luce saluta/ l’acqua addormentata/ sulla soglia dell’anima»), ci accorgiamo che il movimento cinetico del tempo è dato dal verticale «grandi battiti di ciglia» attraverso cui «la luce saluta l’acqua addormentata»; dove? «sulla soglia dell’anima». Queste esili liriche poggiano sulla opposizione tra una situazione di immobilità e di attesa del recettore ed il cinetismo di una immagine che introduce, indirettamente, l’evento, la temporalità personificata in un attante astratto: «Interro rose in un giardino/ dove un ramo di mandorlo/ incantava gli uccelli.// Io contavo gli anni/ e la primavera/ batteva i miei orecchi/ con le sue mani.// Arco di cielo dentro gli occhi,/ il sole raccoglieva/ i miei giorni ridendo,/ facendone una verde corona». 

La fioritura di una serie concatenata di indizi fluttuanti o sussidiari sposta il senso in funzione dello smottamento-slittamento delle metafore sussidiarie e degli indizi sussidiari. Uno dei motivi che ricorre con insistenza per l’intero corpus della raccolta è sicuramente quello della «luce». Strettamente correlate a quella del «tempo», a sua volta legate alle macrometafore dell’ «acqua» e dell’ «aria», sono le immagini dell’inverno («Ma l’inverno ha posato/ il suo piede altrove,/ levando l’indice del suo rigore/ ad indicare un punto/ dove i lunghi fiati del gelo/ sono un alfabeto di silenzio»), quelle dell’estate, colte attraverso una specie di correlativo oggettivo, una sorta di immagini derivate e concatenate: «Interro rose in un giardino/ dove un ramo di mandorlo/ incantava gli uccelli.// Io contavo gli anni/ e la primavera/ batteva i miei orecchi/ con le sue mani.//Arco di cielo dentro gli occhi,/ il sole raccoglieva/ i miei giorni ridendo,/ facendone una verde corona».

Marco Onofrio è un autore della generazione degli anni Dieci: nato a Roma nel 1971, i suoi libri vedono tutti la luce nel nuovo secolo: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe - Romanzo d’amore in versi (2007), Emporium (2008), È giorno (2008). La poesia di Marco Onofrio si pone in una posizione, ad un tempo, trasversale e centrale, si ritaglia una sua «linea centrale» del Novecento, quella che fa capo a Saba-Sbarbaro-il crepuscolarismo, riletti ed assimilati attraverso la riproposizione della poesia-ragionamento di Leopardi, e di lì parte per una poesia lirica dopo l’età della lirica. Una posizione insieme provocatoria e singolare. Taglia via dal suo albero gentilizio lo sperimentalismo novecentesco, l’orfismo, il post-sperimentalismo, il post-ermetismo per riprendere dal punto in cui la poesia italiana del secondo Novecento si era incagliata e aveva preso le distanze: dalla crisi della lirica degli anni ottanta.novanta che aveva visto lo sviluppo abnorme del minimalismo. Dalla poesia italiana degli anni venti, Onofrio riprende e ristruttura il discorso lirico, evitando così di pagare alcun dazio alla riforma gradualistica del linguaggio poetico avviata da Sereni con Gli strumenti umani (1965), e riparte proprio dal punto in cui la poesia italiana aveva deviato per un’altra direzione di sviluppo. Sta di fatto che Onofrio, con questo scarto, rivitalizza quella «linea centrale» che dagli anni cinquanta in poi ha cessato di funzionare come il «regolatore» delle tensioni stilistiche che attraverseranno le linee di sviluppo della poesia italiana presa nella forbice tra la «poesia degli oggetti» e lo sperimentalismo incipiente. Se consideriamo che gli sviluppi dei decenni successivi vedranno il consolidamento del duopolio dello sperimentalismo e della Linea lombarda quale «alternativa» allo sperimentalismo, avremo ben chiara in mente la valenza strategica e l’importanza della prosecuzione della «linea centrale» del primo Novecento quale insostituibile elemento di equilibrio dialettico e di movimento dialogico nei confronti della colonna centrale della poesia italiana del novecento e, ancor più, nei confronti della attuale situazione della poesia saldamente ancorata e dipendente dalla matrice tardo novecentesca.

La poesia di Marco Onofrio salva così, stilisticamente, il suo contenuto di verità là dove, mantenendo uno stretto contatto con la tradizione neocrepuscolare, al tempo stesso la allontana da sé, come per distanziarsene o per interdizione. Onofrio non vuol tradire la felicità presunta o la promessa di felicità che la tradizione «minore» del crepuscolarismo promette, si riallaccia ad essa (alla tradizione «minore») per meglio prenderne le distanze ed avviare su questo zoccolo duro un discorso poetico modernizzato. Avviene così che il «traliccio» crepuscolare balza in autoevidenza assoluta, dal pre-moderno al post-moderno, saltando il novecento sperimentale e dimostrando una indubbia vitalità: la imagery, il sistema del verso libero di leopardiana memoria della poesia onofriana alludono ad una possibilità sepolta che si nasconde sotto le sue macerie. «La tradizione può riemergere soltanto in ciò che ad essa spietatamente si nega». 1 Così, all’amo del poeta romano, resta impigliato il «traliccio» crepuscolare per rinascere sotto nuove spoglie. Il «poemetto di civile indignazione» Emporium (2008), in versi sciolti, rappresenta il contraltare della versione crepuscolare, il suo risvolto e il suo rovesciamento: un atto di accusa a-ideologico contro i costumi del nostro tempo: volta le spalle alla tradizione (tra Parini e Ottiero Ottieni) per meglio ereditarla, utilizza quella possibilità stilistica e la sua esperienza significativa volgendola in onda sonora, fluida estensione musicale, scansione ritmica, ventaglio cromatico. Onofrio si mostra consapevole che oggi, dopo il novecento sperimentale e nel mezzo della crisi della lirica nell’epoca della stagnazione, è incalcolabilmente più complesso pensare in modo non ingenuo i problemi estetici proprio in quanto «la coscienza estetica avanzata converge con quella ingenua, la cui visione aconcettuale non si arrogava il diritto di possedere alcun significato e, proprio per questo, talvolta lo acquistava. Ma anche su questa speranza non si può più contare».2

Le poesie giovanili raccolte e pubblicate nel volume È giorno (Roma, Edilet, 2008), hanno la svagata naturalezza e la freschezza dell’incontro con uno stile personale, con la «personalizzazione dello stile» dato dalla confluenza con un crepuscolarismo interiorizzato passato al vaglio della cultura del surrealismo («Il sole è un bel veliero impavesato / di fuochi e di colori / che passa sopra i monti e sopra i tetti / (saluti di bandiere e fazzoletti) / che scorre sopra i campi e campanili / oltre gli scogli, lungo i suoi pontili / laggiù, laggiù / quando infine s’inabissa dentro il nero»).

Direi che dinanzi al Post-moderno (un’epoca di brillante  didascalismo, che vede  il discorso suasorio ed il locutorio, la poesia didascalica, quali modalità «naturali» di imbonimento e di intrattenimento del pubblico), la poesia di Onofrio si pone in rapporto di estraneità e di incomunicabilità. Il poeta romano confeziona una poesia «astratta», inorientata e inorientabile, che dimora non si sa bene in quale luogo e non si sa bene verso quale pubblico e verso la quale il lettore si arresta interdetto e ammutolito, non per mancanza di domande ma perché la poesia non intende sollevare alcuna domanda che non sia già stata posta e riproposta. E questo è il suo domandare: non chiedere nulla, appunto. Il domandare di questa poesia è tutto racchiuso nel suo ragionare monologando, nel divagare e nel ritornare ai loci deputati della poesia del ragionamento di leopardiana memoria; di qui quella patina d’antico e di nobiliare che promana dal verseggiare pallido e assorto.

 

1T.W. Adorno, Teoria estetica trad. it. Torino, Einaudi, 1975

 

 

2 Ibidem

 

 

 

LA  «LINEA MERIDIONALE» DELLA NUOVA POESIA MODERNISTA

 

 

Giovanni Occhipinti

 

Giovanni Occhipinti è nato nel 1936  in Sicilia, dove ha compiuto gli studi. È significativo che il primo libro di poesia Occhipinti lo scriva e lo pubblichi nel lontano 1967, L’arco maggiore (Rebellato), fino alla antologia uscita nel 2006 con Caramanica dal titolo programmaticamente anti-modernistico, La veggenza del verso. In tutto, diciotto pubblicazioni di poesia che coprono gli ultimi tre decenni di poesia italiana. 

Diciamo subito che la poesia di Occhipinti si pone come uno dei più significativi tentativi di sovvertire i rapporti di forza tra il linguaggio poetico del Nord, esemplificato dalla scuola lombarda, e la linea meridionale, dispersa e disarticolata in una miriade di autori non accomunati in un comune orientamento di poetica ma sicuramente impegnati in una direzione di ampliamento delle tematiche, dell’oggettistica e della molteplicità di tempi e di spazi, nonché di una stilizzazione, da un lato forse più attenta alla tenuta «conservatrice» dell’impianto lirico, dall’altro senz’altro più aperta agli spunti e alle influenze provenienti dalla poesia dei paesi che si affacciano al Mediterraneo e agli influssi della poesia dell’europa orientale.

Altro elemento non secondario per comprendere la genealogia di questa poesia è la scelta di campo dantesca dichiarata in esergo alla antologia, significativa della direzione lungo la quale è impegnata la  poesia di Occhipinti, distante dagli approdi dell’ideologismo e del minimalismo di questi ultimi lustri. La scelta di campo veniva confermata nella successiva raccolta L’agave spinosa (1970) e, soprattutto, nelle raccolte che seguiranno: Occasioni per un poemetto intorno a ipotesi di distruzione (1972), Mitogrammi (1974), Il gioco demente (1975), Agl’Inferi all’Averno (1980), qui la carica ideologica viene rivestita e incanalata nella tematica dello sdegno e dell’impegno civile intesi quali momenti ineliminabili della poesia.

Il titolo dell’antologia: La veggenza del verso, ci porta verso una visione della poesia sostanzialmente «arcaica», propria dell’età preindustriale e, al tempo stesso, ci fa capire la distanza insondabile che questa poesia frappone tra se medesima e i coevi orientamenti cinico-scettici, ironico-leggeri e disimpegnati della poesia continentale, marcando in modo sempre più vistoso e insanabile la frattura tra le due direzioni di ricerca. Nel Cantastorie dell’Apocalisse (1980), appaiono le immagini minacciose della guerra atomica, la guerra totale che infirma quel che resta dell’umanesimo progressista della cultura europea. Per il poeta siciliano non è possibile altra lettura del reale se non attraverso la introspezione della «veggenza» inscindibilmente legata al presente del discorso poetico. Ovvero, la parola poetica è considerata per le sue capacità catartiche e per le sue capacità estetico-estatiche; attraverso la catarsi e l’estasi la parola poetica di Occhipinti può accedere alla sfera della rivivibilità estetico-estatica.

Il principale procedimento retorico utilizzato dal poeta siciliano è senza dubbio la ridondanza, ossia quella peculiare metodologia della scrittura poetica che impiega la amplificazione tonale della composizione, tenuta sempre su un alto livello tonico-plastico e la implementazione delle capacità comunicative del testo. Ed ecco quanto scrive Occhipinti in una sua poesia che è anche una dichiarazione di poetica; da Dialogo con le comete (Salvatore Sciascia, 2005): «Mi riverso nel testo/ del mondo, nel garbuglio/ di pagine cifrate.// Una barriera l’orizzonte/ inviolato del pensiero». È qui chiaro il senso post-montaliano di questa poesia. A pronunciarsi è un poeta antico che parla con voce moderna, un Occhipinti che ha molto compreso durante il tragitto destinale dell’esistenza e molto ha rifiutato e macerato, ed è da una tale ricchezza di umori e di pensieri che «le memorie» rendono la sua voce colma e necessaria. La sapienza della sua scrittura in versi, la fluidità di ritmi, il disegno sicuro degli spazi interni ed interiori, la velocità anche cruda, a volte, delle immagini, degli accostamenti, la tenerezza sempre contenuta, mai dimentica della fragilità e dell’eccesso di attesa, danno a questa scrittura un vigore e una forza testimoniale indiscutibili. Ed anche là dove la spezzatura dei versi irrigidisce il sistema di attese del lettore o lo sorprende in sintagmi dove respira l’alta letteratura, resta pur sempre la sensazione di trovarci dinanzi ad una voce viva e verace, integra e onesta.

L’aspetto astratto di questa  poesia è il risultato di una lunga riflessione e maturazione stilistica. Discorso poetico che parla la lingua di post-ectoplasmi, di umani che parlano la lingua dell’umanesimo. Poesia di esperienze un tempo vive e palpitanti ed ora ridotte a bagliori di ricordi e di anamnesi. In Occhipinti non c’è mai l’urgenza di mettere in vetrina le esperienze vissute, piuttosto c’è riserbo e nostalgia del riserbo, c’è il rispetto per la privacy e rispetto per il lettore. Da La veggenza del verso:  «La tua ironia /- ma più atroce – /ben venga in questa poesia /da dessert. /Così che la tua voce /si confonda con la mia, /sprofondi nell’antico male /né mio né tuo, Montale».

 

 

Carlo Cipparrone 

 

Strategia nell’assedio (Cosenza, Orizzonti Meridionali, 1999) di Carlo Cipparrone, è un libro significativo della via meridionale alla modernizzazione del linguaggio poetico, che si pone, nell’ambito del sistema secondario di modellizzazione, in un crocevia ideologico-stilistico tra «il basso profilo delle cose» e la necessità di innalzare il parlato con inserzioni veristiche e fraseologie neoespressionistiche. Il magrellismo di certi incipit come «Osservo la confusa realtà», sconfina e tracima in espressioni iperrealistiche del tipo: «riemergono come topi di fogna/ sull’orlo dei tombini»; in altre composizioni la directdness di certe locuzioni assertivo-imperative («fiutando il marcio nelle cose/ spesso il sospetto in realtà si traduce») si trova in una posizione di frizione rispetto ai linguaggi poetici tradizionali che eleggono il quotidiano a parametro univoco di riferimento e a quelle posizioni che si pongono come «commento», «glossa» o «didascalia» di altri eventi linguistici. Nella poesia di Carlo Cipparrone il logoro luogo comune novecentesco dell’«ambiguità delle parole» si pone in linea di continuità con una certa fenomenologia novecentesca («Ciò che appare inganna»), che ha privilegiato la via probabilistico-scettica alla conoscenza. L’impiego di un certo neoverismo tipicamente «meridionale» («uso di materiali di scarto o in avaria/ e reati peggiori: corruzioni,/ sfruttamenti, morti bianche»), va di pari passo con la disseminazione di locuzioni post-espressionistiche che meglio sarebbe declinare con la dizione di iperrealismoSi può perdere la verginità/ anche andando in bicicletta/ o a cavallo…//La verità è una vulva aperta,/ slabbrata, senza fondo»). E qui si porrebbe il problema del perché mai un autore meridionale senta il bisogno di esprimersi con un linguaggio che sembrerebbe annullare la distanza tra il nome e la cosa, che sembrerebbe dirigersi «fuori» del sistema secondario di modellizzazione dei linguaggi letterari. Cipparrone scrive: «Fingono di mirare in un punto/ ma colpiscono un bersaglio diverso,/ vile certame d’uomini di merda»; non è dubbio che qui tenda ad assottigliarsi la distanza tra il sistema primario e quello secondario di modellizzazione che, propriamente, costituisce il piano della cultura, viene a cadere la fiducia nella cultura medesima, cioè in quel meccanismo modellizzante che presiede alla produzione, e alla conservazione culturale. La poesia di Cipparrone è una critica abbastanza esplicita a quella visione della poesia come modellizzazione secondaria del linguaggio primario, intende infirmare il sistema semiotico-demotico che costituisce, volens nolens, la categoria dorsale della poesia italiana del tardo Novecento, mediante l’adozione dello scorcio brevissimo e l’impiego di una fraseologia iperrealistica certamente suggestiva, certamente polemica. L’espressionismo di Cipparrone è uno stile di modellizzazione secondaria, che ha le proprie fondamenta sulla valorizzazione della tradizione del realismo e sulla liquidazione di quella sperimentale. La poesia di Cipparrone può essere letta anche come tentativo di porre un argine alla prevalenza del nuovo linguaggio petrarchesco proprio delle tendenze neometriche e neomateriche e di quelle del post-sperimentalismo. Si può anche discutere che il risultato di questo progetto può apparire non adeguato all’impegno profuso per la resistenza «detritica» dei materiali linguistici di risulta («Per poter fare il bene/ occorre avere conoscenza del male»; «La storia, barando, rimescola le carte»; «La purezza ha un passato chiacchierato»), ma ad una cognizione più attenta non si può non riconoscere l’impegno critico, la portata critica dell’operazione culturale della poesia di Cipparrone.

Nelle sezioni: «L’assedio», «Strategie» , «L’architetto – Il pellicciaio – Dora Markus» e «Nascondigli dell’anima», viene abbandonato l’impiego dello stile iperrealistico per un discorso poetico più tradizionale. Nello «Strip-tease di Dora Markus» l’autore raggiunge gli esiti più alti del libro, perché qui la corrosiva ironia del poeta può affondare i propri artigli sulla poesia «metafisica» della tradizione alta: «Vestita a tratti come una cipolla/ Dora Markus dal suo corpo/ fa cadere lentamente i veli,/ scopre le sue bellezze esotiche -/lampeggianti biancori,/ procaci sinuosità -/ sino all’estrema nudità:/ simulando malizia/ mista a geloso pudore,/ per un attimo/ lascia intravedere l’ombroso pube». In definitiva, si può affermare che l’opera di carnevalizzazione trova il proprio bersaglio preferito nella tradizione alta, riconducendola al «basso profilo delle cose».

Pino Corbo

Pino Corbo nasce a Cosenza nel 1958, è stato redattore delle riviste «Inonija», «Il rosso e il nero»,  e lo è dell’attuale «Capoverso», nell’ambito delle quali ha svolto una significativa esperienza di poesia e critica militanti, ed ha pubblicato in poesia Cerco nel vento (Schena, 1978), Il segreto del fuoco (Hellas, 1984) e In canto (Campanotto, 1995). Un percorso lungo, tortuoso e tormentato che ha avuto inizio con il lavoro critico e poetico avviato dalla rivista «Inonija», impegnata in una linea di ricerca di rinascita della poesia meridionale in un confronto serrato con la poesia nazionale ed europea del Novecento. Esperienza che ha condotto il poeta calabrese ad affinare un linguaggio poetico attento al «basso profilo delle cose», secondo la dizione di Carlo Cipparrone, ma anche ad un punto di vista sintetico, alla concisione e alla velocità indotti nel linguaggio poetico dai nuovi linguaggi mediatici. Le composizioni di Pino Corbo sono unità frastiche ad alta condensazione e compressione, constano al massimo di due strofe; i versi sono brevilinei, ricchi di sostantivi e verbi tenuti insieme da una orditura sintattica che procede per giustapposizione di brevi polinomi frastici ma più di frequente mediante una articolazione retrogrediente, che porta all’indietro lo sviluppo logico-semantico e logico-sintattico della composizione: dentro il soggetto che si ritira e si assottiglia («di noi nell’attesa/ l’aspetto più importante:/ in zone franche in terre di nessuno/ energie, corrispondenze/ nel quieto patteggiare/ di necessità, bisogni -/ ciò che chiamavi demone,/ opaco dagherrotipo»). Le composizioni sono costruite come in diagonale, procedono per incisi e tagli laterali. Direi che Pino Corbo ha saputo costruirsi un lessico e uno stile da still life, una «cornice» per eventi apparentemente minimali dove accadono smottamenti, tellurismi, defaillances, questioni di «interlinea», eventi da «dagherrotipo», eventi-intenzioni dove appena in una due parole si aprono abissi di «corrispondenze» non corrisposte, interferenze dimenticate o rimosse, «intenzioni» intermesse. Uno stile allocutorio, un lessico minimale, millimetrico, ridotto all’osso, un tono understatement, una prossimità agli oggetti quasi a volerli ghermire, stanare «d’ogni microcosmo»; la consapevolezza che la «cornice» della composizione è un «microcosmo» dove la posizione del soggetto poetante è fuori delle cose: «mi spetta l’interlinea» – scrive il poeta – al di sopra o al di sotto della registrazione linguistica delle cose. Quelle «cose» che appaiono ad intermittenze, per flash, per sentieri interrotti, per bagliori, quelle cose «che appaiono all’improvviso di corsa», in quello sguardo di corsa, gettato dal finestrino di un treno. Di qui l’impossibilità di raggiungere le cose, di possederle, neanche andando dentro, «in» la scrittura delle cose, dentro il «canto». Con questa procedura del «togliere» fino alla estrema rarefazione del lessico e della sintassi il poeta calabrese ha operato per successive semplificazioni, fino a giungere alle unità minime di senso, ai gesti, alle esperienze elementari: «Sulla mia agenda ci sono nomi /di morti, più o meno recenti /(tra gli abbonati ancora i nomi) /a occupare lo spazio /di un rigo – un’agenda /un elenco telefonico». 

Nella poesia di Pino Corbo non trovi alcuna toponomastica né alcuna topofilia come nei minimalisti, non c’è alcuna attenzione alla «visibilità» delle cose, né alcun tentennamento verso alcuna metafisica: ogni evento e ogni particolare è concreto, netto, preciso, dal profilo ben scheggiato prima di transitare oltre la «cornice» della «visibilità» linguistica e precipitare nel nulla, o dietro il nulla. Anche la stessa stringatezza delle composizioni risponde ad un eccesso di zelo (etico ed estetico), in conformità a quella filosofia del «togliere», che è anche un principio di economia ed ecologia intellettuale, che pone Pino Corbo come uno dei poeti di maggior rigore lessicale e metrico, dinanzi alle poetiche dell’elefantiasi e dell’accumulo delle parole, del tardivo sperimentalismo. Un punto e un parametro di riferimento ineludibile per i nuovi orientamenti della poesia contemporanea.

Rocco Taliano Grasso

Il calabrese Rocco Taliano Grasso con Amor de lonh (Cosenza, Edizioni del Convento, 2002), decostruisce i luoghi simbolici dell’amor cortese, operazione già avviata con la precedente raccolta Madama la Levriera (1996). Amor de lonh si presenta come rilettura e rimeditazione di uno dei testi canonici della civiltà letteraria occidentale: la poesia d’amore di Jaufré Rudel che canta «il suo amore per Melisenda, contessa di Tripoli, è l’espediente analogico che consente a Rocco Taliano Grasso di rievocare momenti di un travagliato rapporto d’amore… Melisenda è lontana, Jaufré se ne innamora per fama e per vederla affronta un lungo viaggio per mare riuscendo a raggiungerla appena prima di morire» (dalla prefazione di Gerardo Leonardis). Da questo nucleo concettuale mitopoietico, da cui è scaturita la civiltà letteraria europea e la civiltà cavalleresca (che ha trovato nell’arte stilnovistica il suo corrispondente artistico), Taliano Grasso riparte in qualche modo da zero, ritorna alle origini, saltando (tentando di saltare) la civiltà del Novecento italiano, in quanto territorio ideologico decadente, estetizzato ed anestetizzato, per approdare ad una nuova naiveté di sguardo e di stile. Operazione tipicamente post-moderna che va interpretata e valutata per quello che sono i risultati raggiunti oltre che per la capacità di interpolare e trasgredire stilisticamente il modello «maggiore». Operazione che consente al poeta calabrese di uscire dalle secche dell’antinomia di base, così come il Novecento l’aveva posta e lasciata in eredità: linguaggio petrarchesco aut linguaggio dantesco; che poi altro non sarebbe che la traduzione in altri termini dell’eterna opposizione/dualità tra linguaggio neorealista e linguaggio orfico. Insomma, il ritorno alle origini è un espediente, ben riuscito, per sottrarsi alle lusinghe ideologiche di un certo Novecentismo.

In questi testi non c’è spazio alcuno per procedure sperimentali o laboratori alchemico-orfici così come li abbiamo conosciuti nel Novecento, come non si trovano procedure estetizzanti del linguistico pur se i valori denotativi e connotativi del lessico impiegato e il ricorso alla metafora, sono elementi vivi e vivificanti del tessuto stilistico, utilizzati in funzione del gradimento estetico. L’intera operazione la si può inscrivere nella categoria del controcanto, dove il canto del poeta provenzale viene tradotto e ritradotto nel controcanto di un poeta che di quella civiltà, oggi, può solo tracciare un consuntivo, non un bilancio, come se si trattasse di un emendamento di un dispositivo normativo della Finanziaria. È ovvio che qui sia scomparsa la «temperatura» del poeta provenzale, non si trovi traccia di quella sintagmatica stilnovistica che nuocerebbe al nostro gusto postumo e post-moderno che viene recepito come «sentimentale». Dietro il gramma non c’è più una gamma «sentimentale», è un esercizio di alta retorica quello che viene posto in essere dal poeta calabrese proprio per sottrarre la poesia al pericolo di un eccesso di pathos o di intimismo fuori luogo. I vari toni stilistici, le sfumature stilistiche, soino gradienti tonali e timbrici inscritti in un pentagramma forbitamente edulcorato di intimità e di psicologismi. Poesia squisitamente post-manierista, dunque, e post-moderna, che si mantiene altera e sussiegosa non per intima ritrosia elitaria e antipopulistica ma, sarei tentato di affermare, per intimo distacco, per la presa di distanza dalla civiltà stilistica del Novecento, con i suoi cortei di vassalli e di sudditanze ed estetizzazioni coloniali così come il Sud ha conosciuto e patito: «Melisenda pietà /ebbe del suo Jaufré,/vide le membra fiacche /di remi, mare e amore,/venne a lui che l’ebbe /presente in lontananza /senza mai la veder». 

 

 

Eugenio Nastasi

 

Il Novecento ha interpretato l’estetica del Barocco come una esemplificazione della modernità incipiente ed un sintomo di quella mutazione genetica che avrebbe condotto tanta  produzione del Moderno a soffermarsi sul carattere problematico dell’esperienza artistica. Ed è stata così  avviata  una riflessione sull’opera d’arte come prodotto di transizione del post-moderno, sul suo carattere provvisorio, sulle tecniche della sospensione, sui procedimenti espressivi e comunicativi; è stata posta molta enfasi sulla parola «sovrabbondante» o «rarefatta», sulla metafora intesa nel suo valore analogico, sulla parola «oscura», sul denotatum o sulla connotazione, sul valore misterico, iniziatico, ed anche sull’esatto controllo razionale dell’operazione estetica. Nel corso del Novecento sono state scandagliate ed esplorate direzioni diversissime e, spesso, antinomiche: la poesia del quotidiano come anche la poesia dell’indicibile e dell’ineffabile, la poesia come «rappresentazione» di un oggetto e la poesia come presentificazione di una Assenza. Il Logos poetico è rimasto orfano di una qualsiasi logotimia. La disparizione di una qualsiasi mitologia sarà un evento di fondamentale importanza per poter comprendere la crisi della poesia vista nel suo statuto, nel suo luogo, nella sua legittimità di forma particolare di conoscenza. La poesia accusa questo processo di deprivazione territoriale. Conclusasi la parabola del Novecento, la poiesis è divenuta problematica. Alla scomparsa della mitologia fa da contraltare la sparizione di ogni topologia spazio-temporale; per altro verso, l’interiorità, che un tempo dimorava nell’io poetante, ora è priva di un luogo, di un recipiente. Un’antropologia fenomenologica dell’immaginario ci rivelerebbe questo aspetto con sorprendente icasticità. In verità, oggi, chi tenta una poesia dell’interiorità lo fa a ragion veduta per qualche rientro di prebenda o perché è un inguaribile sciocco, o tutt’e due le cose insieme. Si tratta di una fenomenologia ingenua che vuole offrire le condizioni posticce di un ascolto «puro» e sproblematizzato dell’interiorità! –  «Infine rimarrà un segno, il graffito/ confuso con la corteccia d’un castagno», scrive Eugenio Nastasi in Linea di confine (1989-2002), (Roma, Lepisma, 2003), libro conclusivo di un tragitto stilistico che era inizato con La scelta del silenzio (1987), cui seguiranno Lo specchio greco (1989), L’età tra tegole brune (1991), Il seme del millennio (1994) e Buona notte al libraio (1997). Linea di confine è quasi una sentenza di decesso per ogni opera che voglia interporsi quale messaggio tra autore e lettore, tra emittente e ricevente. Non rimarrà nulla di un messaggio che poggia sul nulla, è questa la desolata constatazione di Nastasi: «Non per pigrizia o per aver smarrito/ le radici: abitare oltre confine come/ donarsi nell’attimo/ che trascorre tra due sponde». Dunque non poesia di messaggio, non messaggio negativo, non diniego del messaggio; con Un sogno guidato (Roma, Lepisma, 2009) siamo nell’era del dopo-messaggio, in una zona di confine tra due territori privi di sovranità, nell’indistinto, dove non v’è luce né tenebra. È una poesia come in vitro, priva di «rumori» umani o echi di una umanità immersa nella storia, nel divenire dell’esistente: «Vedi come ogni cosa crepita al passaggio/ d’una folata di vento…». Certi affreschi naturistici sono, a guardar bene, nient’altro che miniaturizzazioni di una interiorità estenuantesi: «Dietro il vetro della finestra potano/ i vecchi rami d’ulivo, l’inverno si/ ripropone come brivido interno mentre/ il sole là fuori semina impronte/ di zafferano», dove è evidente che le «quinte» naturistiche sono in realtà proiezioni dell’io esperiente, come appare chiaro da quel «brivido interno» e dall’uso sapiente del colore e della sinestesia: «impronte di zafferano»; «Silenzio urtato al graffio di una stilo/ che accorda il muto pentagramma/ con note al fondo: ‘quel che è,/ già da tempo ha avuto un nome’»; Nastasi utilizza il traliccio della lirica senza alcuna rammemorazione elegiaca. La lirica così ristrutturata diventa stile e misura. «La storia è un elenco di frammenti» scrive Nastasi, ed è significativo di un atteggiamento, di una sensiblerie post-moderna, ma il poeta calabrese è troppo accorto, responsabilmente attento al dramma implicito in quel corteo di «maschere» per non cogliere nella storia il significato. La lirica di Nastasi è il risultato di una esperienza significativa. Il confine entro il quale si situa l’esperienza dell’io poetico è propriamente una «attesa», che è ad un tempo una condizione ontologica  ed è ciò che permette la cognizione del dolore, soltanto nell’esperienza del «confine» è dato cogliere l’esperienza del mondo e della storia. («Leggere si dilatano le nuvole e /pare ieri la stagione illusa. /Il suono di una scavatrice /disegna lembi /di povera storia. /Per credermi seme d’uomo /mi sono librato d’attesa /nell’eco vasta d’una cattedrale».

Poesia che rivela inequivocabilmente lo smottamento della civiltà stilistica novecentesca nella misura in cui sintagmi della civiltà ermetica entrano nel tessuto lessicale e nel gusto della disposizione delle parole. Trapelano ungarettismi inconsci: «mi sono librato d’attesa», «seme d’uomo», rammemorazioni cardarelliane: «Leggere si dilatano le nuvole e/ pare ieri la stagione illusa»; inserti realistici: «il suono di una scavatrice» e metafore spaziali di indubbia efficacia: «nell’eco vasta d’una cattedrale». Nastasi è ben cosciente della problematica coesistenza di linguaggi disparati, assottiglia l’attrito semantico abbassando il piano lessicale medio, evita il rischio della composizione monotonale introducendo il diapason di inserti di derivazione espressionistica e intermezzi realistici. Insomma, Nastasi è un poeta attento e consapevole di tutte le difficoltà che sottendono al fare poetico, non cerca mai scorciatoie,  non utilizza  i linguaggi del post-sperimentalismo, non si adagia mai su posizioni di mera rendita, e questo è un merito considerevole che va senza dubbio ascritto al poeta calabrese. Altro merito indiscusso di Nastasi è la sua capacità di allargare gli orizzonti, spalancare l’occhio dell’osservatorio sulle estreme periferie della civiltà occidentale con lo sguardo puntato sul medio oriente a quella che fu l’altra capitale dell’impero romano e all’attuale avamposto dell’esercito delle merci d’occidente: «Correvano vele quadre all’incontrario,/ carovane impigliavano d’oro e incenso/ le cupole al cielo, lo stesso mare/ a contenere richiami di zaffiri, di perle.» («Lettera da Bisanzio»).

 

 

Angelo Lippo

 

La poesia di Angelo Lippo (nato a Taranto nel 1939) si pone come una variante della «linea meridionale», ancorata ad un concetto di canto lirico, dopo e nonostante la crisi irreversibile della lirica dichiarata nel corso del Novecento. Già con La carne stretta (1979), il poeta di Taranto indicava una linea di demarcazione ben precisa: «Io dico di cose e di luoghi/…/vaniloqui o memorie senza cornici», impegnava tutte le sue energie nella ricerca di una oggettistica e di un «reale» diversi, più consoni alle possibilità stilistiche della linea meridionale. Ma qui l’assunto si presentava in tutta la sua problematica complessità: la mancanza di un retroterra stilistico a cui fare riferimento dopo Quasimodo e Sinisgalli e la impossibilità di procedere nella direzione della poesia di un Rocco Scotellaro e di un Danilo Dolci, troppo dipendenti da un certo tipo di stilizzazione di tipo meridionalistico. Questo complesso problematico costituiva e costituisce un problema e un limite per tutta la poesia meridionale. Recensendo nel n° 30-31 di «Poiesis» del 2004 un libro di saggi di Lippo su alcuni poeti del Novecento (Ignazio Buttitta, Corrado Calabrò, Danilo Dolci, Daniele Giancane, Vincenzo Jacovino, Carmine Lubrano, Dante Maffìa, Raffaele Nigro, Michele Pierri e Antonio Spagnuolo), Il rumore dell’erba. A sud delle incertezze (2004), scrivevo: «l’aspetto di maggior interesse del libro sta appunto in quel tentativo di individuare una mappa e un discrimine per la poesia del Sud rispetto a quella valida in ambito nazionale. In questa sede vorrei indicare alcuni distinguo… Prima di parlare di poesia del Sud dovremo cercare di individuare con sufficiente chiarezza il territorio di ciò di cui stiamo parlando. Innanzitutto, è lecito dal punto di vista critico parlare di una poesia del Sud? E se la risposta è affermativa, quali sarebbero le caratteristiche principali della poesia del Sud rispetto a quella, mettiamo, della poesia dell’area lombarda o a quella del minimalismo romano? In secondo luogo, qual è il rapporto che lega i poeti del Sud alla tradizione del Novecento italiano ed europeo? Parlare «della grande lezione pascoliana, dannunziana, gozzaniana ed ungarettiana» come fa Paolo De Stefano nella nota introduttiva al volume è, a mio avviso, eccessivamente generico; dovremmo tentare di andare più al fondo della questione per dirimere il dubbio circa l’esistenza di una poesia del Sud. Il prefatore pone il problema nei giusti termini quando afferma: «Cosa è stato quel Novecento culturale che da poco abbiamo lasciato alle spalle?». Ed è a questa istanza che dovremo tentare di rispondere. Il pensiero di chi scrive è che l’ultimo movimento culturale, in qualche modo omogeneo, che è nato nel Sud sia da individuare e delimitare a quell’area di poeti post-ermetici e proto-neorealisti che comprende nomi come Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, il secondo Quasimodo, fino a Danilo Dolci e Rocco Scotellaro. Ignazio Buttitta è un fenomeno a sé, legato alle lotte contadine per la riforma agraria e al partito comunista. Detto in termini molto crudi, l’area di cui si diceva ha cessato il proprio sviluppo culturale nel momento in cui in Italia è iniziato un processo di industrializzazione e di post-industrializzazione. Improvvisamente, il Sud cessa di produrre una poesia che possa assumere un ruolo di guida o di egemonia in ambito nazionale, con la conseguenza che precipita a rimorchio delle esperienze poetiche più avanzate e culturalmente aggiornate che operano a Roma e a Milano». 

A Lippo non restava che trarre le conseguenze da una situazione indubbiamente negativa, di qui la presa di posizione: «L’oblio è la più profonda forma di memoria», e la volontà di prendere le mosse per la rinascita della poesia meridionale, fare tabula rasa delle due generazioni di poesia meridionale precedenti e scrollarsi di dosso il problema «meridionale» come se non fosse mai esistito. Ma è con le successive raccolte, L’ape invisibile (1985) e le plaquettes A voce alta (1991) e Fragile artificio (1996),  che Angelo Lippo raggiunge una maturità stilistica mediante la stabilizzazione della sua poesia sul topos del dialogo con un interlocutore e l’adozione del parlato medio-basso; in questo modo Lippo intende affermare una fedeltà integrale alle cose del mondo e della vita, a ciò che un tempo è accaduto e che tuttora continua ad accadere, nel profondo quotidiano, senza che ce ne rendiamo conto. Così, le parole possono trovare la giusta distanza dalle «cose» del mondo e la giusta capacità rievocativa, le parole diventano remote proprio per tentare di accedere più intimamente a quelle realtà profonde della vita che altrimenti rimarrebbero non dette, precluse alla parola.

L’eloquenza della luce (Roma, Lepisma, 2007),  vuole essere una epitome ed un consuntivo della produzione precedente. La poesia di Lippo trova nella metafora e nella catacresi il respiro lungo di una dizione tesa  come la corda di un arco che fa scoccare la parola-dardo, la parola-vettore. Tentativo, ammirevole, di ragionare liricamente partendo dalla monarchia dell’io, la poesia di Lippo rimane ancora una poesia dello sguardo naturalistico-intimistico («Gabbiano di silenzi a lungo / sosto sul bagnasciuga dei pensieri, / mentre lo sciabordio delle onde / epifanizza il rumore del vento…»), le sono estranee quelle esperienze intellettuali che hanno condotto nel Novecento la forma-poesia in prossimità della prosa e del discorso narrativo, le sono estranee quelle sollecitazioni culturali che per decenni hanno tentato di indirizzare e indennizzare il discorso lirico in direzione del post-sperimentalismo, in questa poesia non rimangono neanche le scorie di uno sperimentalismo «privato», o «idioletto privato», quelle «opzioni»,  quelle «varianti» dell’idea base di una cultura che faceva del discorso lirico un discorso ideologico, un impegno ideologico-linguistico. Così, la poesia di Angelo Lippo rimane una poesia nata orfana della tradizione lirica per via dell’impossibilità di quella lirica troppo compromessa nel Novecento, restando altresì orfana di quell’altra linfa vitale che doveva coltivare un’idea di poesia come genere anti-lirico per antonomasia. E dentro questa forbice, dentro questo letto di Procuste la poesia di Lippo brucia come in fretta tutti i suoi propositi di belligeranza e di oltranza, accatasta in una grande pira chimismi lirici e oltranzismi dell’io in direzione di uno stile ultroneo, per tentare di andare oltre lo sguardo e oltre il tatto e oltre i sapori della terra del suo Mediterraneo.

 

 

Antonio Spagnuolo

 

Antonio Spagnuolo è nato a Napoli nel 1931. Sia la data di nascita che la longitudine dei suoi natali sono importanti per inquadrare la sua poesia in quel fronte di ricerca che ha tentato la costruzione di una linea meridionale, sempre attento a cogliere le novità, gli spunti e le suggestioni che provenivano dal nord di Napoli, cioè da Roma e da Milano. In questa attenzione di Spagnuolo c’era tutta l’intelligenza di voler operare una costante mediazione con gli sviluppi della poesia di area lombarda, con il minimalismo romano e con gli esiti delle esperienze post-sperimentali; il risultato sul piano stilistico e tematico era una sorta di koiné tematica e linguistica, più visibile nelle raccolte degli anni ottanta, quando ancora il processo di omogeneizzazione di tutti questi «prestiti» culturali erano visibili nell’assemblaggio e nel reclutamento stilistico. Una poesia complessa quella di Antonio Spagnuolo che si andava arricchendo, sul piano tematico, dalla assimilazione delle esperienze della psicoanalisi e delle vicende della cultura dell’esistenzialismo europeo filtrato attraverso la realtà culturale partenopea. Non disgiunta dalla attività poetica è sempre stata l’attività critica attraverso la direzione per l’editore Guida della collana l’assedio della poesia.. L’assimilazione dei linguaggio post-sperimentale si è modellata in una koiné che oscilla tra un parlato colloquiale e un neo-barocchismo ricco di dizioni  di culte, una sorta di navigazione a vista degli spezzoni dei linguaggi emergenti e dei linguaggi già sommersi e affondati; una sorta di via intermedia, stilisticamente problematica, una fragile imbarcazione lessicale dove la organizzazione frastica e metrico-sintattica rivela una «aleatorietà» di fondo, che altro non è che il riflesso dell’instabilità dei linguaggi «naturali» sottostanti. In Fugacità del tempo (Faloppio, LietoColle, 2007), Antonio Spagnuolo giunge alla maturità del suo stile: il costruttivismo degli inizi ha perduto il vigore sperimentale e lo spazio utopico che lo contrassegnava, per costituirsi in strati linguistici, in ordini tettonici, in sovrapposizioni di scarti lessicali e semantici all’interno delle sostantivazioni (astratte e concrete), delle aggettivazioni e dei tempi verbali (passato remoto e presente), nel quadro di un ordito di dissonanze, movimenti peristaltici di un tessuto linguistico in piena de-costruzione, dove una forza tellurica irraggia fosfeni semantici e timbrici che sfuggono alla forza di gravità della costruzione sintattica. Nella misura in cui la poesia di Fugacità del tempo si sottrae alla monarchia del soggetto «ordinante» e rifiuta la falsa ratio dell’autoconservazione dell’io, in tale misura, dicevo, diventa modello estetico, figuralità autoprodotta che non intende parteggiare per la soggettività egolalica. Qui la poesia della fugacità raggiunte il suo punto massimo di luminosità estetica al pari di fosfeni radiali («Festeggio la furbizia dei papaveri,/ spoglio gli orpelli, disgrego ogni pastello/ per il ventaglio dei petali,/ mentre tu nuda confondi la mia rabbia/ con le nuvole»; «Nei passi incerti /ancora una volta il sussurro della primavera /avviluppa le nostalgie, in attesa /di cambiare le impronte all’infinito. /Si sdoppia la carotide: l’insonnia,/divorando i riflessi nell’inconsulto logorio delle reni,/rimbalza a specchiarmi nei gesti /destinati a stupore, a nevrosi, a distimie,/per la spartizione improvvisa della lingua. /Sono punti di luce alle tempie /per franare /nell’autunno inaspettato»).

 

Franco Riccio

Franco Riccio è nato a Cosenza nel 1923 ma può essere considerato poeta appartenente alla variante partenopea della «linea meridionale». Il suo primo libro risale al 1945 ed ha un titolo ancora idillico: Alba, anche il secondo e il terzo titolo hanno un titolo allusivo e indiretto: Esperienze (1950) e  L’antico dolore (1961). I libri degli anni sessanta e settanta riflettono una poetica a metà strada tra la fenomenologia del quotidiano e un disilluso impegno civile: Il sole non basta (1957), L’equilibrio difficile (1965), Amor quotidiano (1969), Compagno alla prigione (1970), La vita con coraggio (1976) e Pause di eclissi (1979). Con l’ingresso negli anni ottanta e novanta la poesia di Franco Riccio acquista identità stilistica e compostezza tematica. La ricerca verterà ora sulle problematiche esistenziali: I giorni dell’ansia (1984), Lacerazioni (1989), Parole per dirsi (1994), Vita minore (1999) e Canzoniere (2003). È con gli ultimi libri che Franco Riccio si perita in una tematica «antica», direi classica: il canzoniere, con un troubar moderno, che della modernità ha ereditato il canone della leggerezza e della discorsività. La chiave filosofica sta nella Spaltung, nella scissione tra vita ed esistenza e nell’impossibilità di ancorare l’esperienza artistica entro il quadro dell’esperienza di vita. Scopo dell’opera è il narratum dell’esperienza, la scrittura della fenomenologia delle emozioni e delle vicissitudini dell’innamoramento e del disinnamoramento, del corteggiamento e delle attenzioni, con tutti i corollari dei pensieri e delle riflessioni che costeggiano in limine l’esperienza dell’incontro e dello scontro esperienziale. Tipica tematica post-moderna degli incontri e delle elusioni, delle diversioni e delle reticenze, dei retropensieri, in quel magma vischioso e contraddittorio che è la psiche degli uomini del XXI secolo. Diario di occasioni, per lo più mancate, portolano di emozioni, per lo più posticce, mappa di una geografia accidentata e frastagliata dove il riconoscersi è importante tanto quanto il disconoscersi, con il gioco sottile dell’inganno e della reticenza, del mezzo dire, delle frasi lasciate a metà e dei pensieri contraddittori. Il binario diaristico è la forma che permette al poeta di misurarsi con tutta quella vasta gamma di sentimenti e di trasalimenti, di sospensioni e di angosce, di piccoli accadimenti, di fallimenti  e di espedienti della vita quotidiana. La struttura lirico-narrativa, il tono lievemente ironico tipizzano questa poesia: «Sto sempre sul punto di partire/ /(una piccola valigia, con poche/ suppellettili – aborrisco i bagagli -)/ ed al momento giusto chiedo venia/ a me stesso se dubito./ Prefiguro/ tutte le possibili angustie di attese/ e ritardi, di nuove conoscenze/ e – male non minore – di abitudini/ cui mi è fastidioso rinunciare./ Sicché fantasticare mi è più agevole,/ propormi di seguire un itinerario,/ scoprire qualcosa che ancora/ non riesco ad avvertire». Franco Riccio non si abbandona al canto a polmoni aperti, non tende mai all’elegia, non ritorna mai al passato con intento commemorativo; il passato per Riccio è effimero tanto quanto il presente, tanto quanto la lingua che canta una materia sostanzialmente non cantabile, una materia, tanto per intendersi, non adatta alla forma lirica. Ed ecco che la lirica dismette i suoi abiti di scena, i piumacchi delle rime e i festoni delle assonanze, per adottare uno stile sobrio, prosastico, a corrente alternata, quasi che l’andamento zigzagante rifletta l’aritmia, la dissonanza della materia narrata con tutte le inconseguenze, le incongruenze, le asperità, le rugosità, in una parola l’inautenticità dell’esperienza vissuta. Come acutamente scrive nella prefazione Paolo Ruffilli, Canzoniere «segna la maturità espressiva del nostro autore, a partire da I giorni dell’ansia» del 1984, passando per Lacerazioni del 1989, fino a Parole per dirsi del 1994 e Vita minore del 1999. Opere che contrassegnano uno tra gli itinerari più interessanti  della poesia meridionale. Se poi consideriamo che Franco Riccio ha il torto di abitare nella capitale del vecchio regno delle due sicilie ed è nato in Calabria, avremo chiaro il quadro della scarsa visibilità che la poesia del sud riesce a trovare in ambito nazionale. Nel caso del poeta napoletano, è una «vita minore» quella che consente un disperato vitalismo, una «poesia esistenziale», come l’ha definita Paolo Ruffilli, una filosofia del carpe diem, dove saggezza e reminiscenza convivono nel tempo dell’attesa differita. Poesia dell’ansia, dell’insoddisfazione esistenziale. Nessuna verità, nessun apoftegma, nessuna dichiarazione degna di passare ai posteri è lecito richiedere a questa poesia. Il poeta del nostro tempo è tutto fagocitato nella fenomenologia del presente: in tono minore, in diminuendo, abbassa i toni ed il lessico fino al massimo consentito dalla sua tematica, fino a sfiorare una prosa vagamente ritmata che oscilla intorno ad un verso che un tempo fu l’endecasillabo ma che ora è anch’esso postumo, forse «superato» dal non-ascolto di un’epoca che non vuole lasciare dietro di sé traccia alcuna pur se effimera, alcuna parola pesante, quasi che la leggerezza sia diventata la legge fondamentale della nostra civiltà telematica, una leggerissima zavorra che ha liberato gli oggetti da tutti gli ormeggi del significato e le parole da qualsivoglia senso.

L’ultimo libro di Riccio Il pensiero e le immagini (Poesie 1997-2006) (Faloppio, LietoColle, 2007), è un po’ la summa dell’esperienza stilistica dell’autore e della sua esperienza umana: il pensiero ossessivo della morte permea il tessuto stilistico fin nelle più intime fibre, la dizione si fa asciutta e precisa, le parole sono prosasticametne scelte per la loro capacità denotativa, viene azzerato ogni residuo lirico, il discorso poetico è costretto a fare i conti con la dissoluzione e l’esaurimento dell’impulso vitale, la parola diventa onesta, vibrante di «verità», di ciò che è stato verificato con la vita e attraverso la vita. Il «pensiero» sta tutto dentro le «immagini» di una vita, e le parole devono tentare di rubare quelle «immagini». Probabilmente siamo giunti al punto più alto della poesia di Franco Riccio, proprio al termine di un lunghissimo tragitto umano e letterario.

 

 

Nicolino Longo

 

Nicolino Longo è nato in Calabria a Praia a Mare nel 1950 ed è autore di quattro libri di poesia: Gocce amare di pensiero (1975), Questa vita che tanto amo e tanto odio – Poesie scelte (1982), Se sto zitto ascoltatemi (1989) e Post nubila Phoebus (Foggia, Bastogi, 2003). Poesia squisitamente «sudista» quella di Nicolino Longo, che si posiziona a sud del Garigliano con una operazione costosa e rischiosa ma comunque significativa di un tentativo di ricerca di identità della poesia meridionale dopo l’esaurimento dell’ultimo modello poetico autoctono che ha conseguito una qualche visibilità continentale che si può racchiudere nella formula del  trinomio Sinisgalli-Quasimodo-Scotellaro. Da un lato, Nicolino Longo opta per una restaurazione della linea-lirica di contro ad ogni concetto di sperimentalismo novecentesco: una poesia intesa come «introiezione mnesico-matetica (e mai mnemotecnica)», linea lirica protetta e corretta da una robusta iniezione di «valenza artistica dell’epigramma» (Post nubila Phoebus, Dichiarazione di poetica); dall’altro, reinnesta, sull’impianto lirico così corretto e concentrato, un vestito nazional-popolare, rivalutando e reinventando un genere direi «colto-ingenuo», «finto-popolaresco». Come ha ben indicato Raffaele Nigro nella prefazione all’ultimo volume di Nicolino Longo «l’aspetto più eclatante di questa poesia è la descrizione del mondo alla rovescia. È una formula poetica di origine popolare che viene adottata dalla poesia comico-giocosa del Quattro e Cinquecento, dalla cultura barocca, dal divertimento letterario dell’Ottocento… Poesia giocosa dunque, ma anche poesia ironica e fantasiosa e per la carica ribelle che assume, poesia ora burlesca e ora satirica. Longo sta tutto calato nella classicità italiana, si allunga tra Duecento e Cinquecento, coglie il non-sense di Burchiello, l’esaltazione dell’effimero alla Berni e la poesia ermetico-filosofica di Campanella…». Come insegna Bachtin, rifare un mondo alla rovescia significa operare una teatralizzazione del mondo e dell’io, equivale ad una carnevalizzazione della dis-compostezza del mondo: fare «un mondo alla rovescia» equivale a ricomporre all’incontrario un mondo che si è capovolto, riproporre le cose secondo un nuovo ordine che corrisponde all’ordine precedente all’incontrario. Interviene la costruzione in forma di ballata nazional-popolare, di una salmodia para-biblica, un sermoneggiare finto-gnostico, la preferenza per la soluzione epigrammatica e aforistica. Rifare il mondo alla rovescia è sì una operazione di origine popolaresca ma è anche una opzione per desublimare la forma-lirica. Ristabilire un nuovo ordine delle cose e dell’io, pur se all’incontrario, getta una luce farsesca e ironico-giocosa sulla presunta centralità dell’io, denunciandone la modalità ideologica: «Son treno ai finestrini di me stesso affacciato// a guardare se stesso// - in stazioni - // che attende altri treni// che attende il passato// Treno da me stesso in partenza/ con in me stesso gli arrivi…» (da Post nubila Phoebus). Per un versante, la poesia di Nicolino Longo non può non seguire, a rimorchio, la perduta centralità dell’io poetico tipico delle poetiche post-moderne, dall’altro, opta per una reintroduzione «fittizia» di quella centralità reintroducendo il baricentro basso di un io carnevalizzato e sdoppiato che assiste alla messa in scena del proprio sdoppiamento («Sempre riparto/   lasciando/ me stesso a casa// per tornare poi a prendermi/ il giorno prima…»). Poesia che si richiama al genere favolistico e all’apologo quali  varianti del genere popolaresco rivisitato e ribaltato nel suo opposto, con l’inserimento di spunti lunatici e surreali («Un bimbo buttava e ributtava/ il secchio nel pozzo:// voleva ad ogni costo/ attingere la luna// Alla fine lo disseccò// E mentre l’ultimo secchio/ saliva// con dentro soltanto/ un ranocchio// il bimbo stupito e beato:// ‘E dicevano// che la luna non era abitata’».  - da Post nubila Phoebus). Grande è il ruolo svolto dal paradosso come strategia di impiego degli strumenti della retorica per mettere in evidenza e colpire con degli choc la visione stereotipata del reale. Il gusto per il paradosso che deriva dalla adesione alla cultura «bassa» che nutre avversione e sospetto per i «generi» della cultura «alta», considerata come operazione di conquista ideologica e «coloniale», come riscatto della poesia a sud del Garigliano avverso il «ricatto» della poesia egemone del nord.