Giorgio Linguaglossa
RISPOSTA AI QUESITI IMPLICITI ED ESPLICITI
Appunti Critici. La poesia italiana del tardo Moderno tra Conformismi e Nuove proposte (Roma, Coed. Libreria Croce, Scettro del Re 2003 pp. 320 E 24,00)
La nuova critica
Appunti critici raccoglie, ho scritto nella prefazione al volume, «una ampia selezione di articoli, stroncature, recensioni, spunti di riflessione pubblicati quasi integralmente sul quadrimestrale di letteratura “Poiesis” dal 1993 al 2002». Qualche altro scritto, come quello su «Dante e Petrarca», è apparso sulla rivista internazionale di letteratura «Hebenon» (n. 5, aprile 2000); così come anche il saggio «Appunti per la costruzione della nuova poesia», è apparso su Linee odierne della poesia italiana (Quaderni di Hebenon, n. 7-8 ottobre 2001). Si tratta di cavalleria leggera, azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni, condotte in solitaria esposizione e nella convinzione, un po’ donchisciottesca, di pungolare ai fianchi le istituzioni letterarie costrette e costipate in una generale epidemia di conformismo e di elefantiasi. Nella scelta ho privilegiato quegli scritti che avevano un diretto e immediato riscontro con i testi dei poeti contemporanei, e che sono stati redatti, diciamo così, nel fuoco della controversia, lasciando i saggi più propriamente speculativi ad altra più idonea occasione di pubblicità». Si tratta di un vero e proprio «bombardamento a tappeto degli adiposi conformismi che hanno intorbidato gli anni novanta».
Ovviamente, la pars destruens precede la pars construens, poiché, come ha scritto Enzensberger in un famoso saggio del 1960: «L’inverso di ogni distruzione della poesia è la costruzione di una poetica nuova». Appunti critici è «strutturato secondo due grandi categorie estetiche: a) la belligeranza del Tramonto e b) tra Modernismo e post-modernismo, precedute da un’area di conflittualità cui ho dato significativamente il titolo di tra Egemonia e isolazionismi, nella quale sono ricomprese posizioni statutarie come quelle di Eugenio Montale e di Giovanni Raboni e posizioni isolate come quelle di Amelia Rosselli, di Dante Maffìa o degli sconosciuti Maria Rosaria Madonna, Giuseppe Pedota, Lisa Stace e altri significativi poeti contemporanei come Daniela Marcheschi, Eraldo Garello e Massimo Giannotta. Segue il paragrafo L’Egemonia del conformismo, una spregiudicata serie di analisi di autori: Jolanda Insana, Bianca Maria Frabotta, Vivian Lamarque, Gianni D’Elia, Albino Pierro, Mario Lunetta, Edoardo Cacciatore, Gianni D’Elia fino ad arrivare a delle messe a punto critiche su poeti di taglio elevato come Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti e Maria Luisa Spaziani». Nominavo poi Roberto Bertoldo e Tommaso Pignatelli, personalità significative «di straordinaria densità intellettuale» da inquadrare «alla luce della categoria del Tramonto», «quali autentici messaggeri di quel climax poetico, autori tutti nelle cui poesie avverti i fruscii degli strascichi serotini di vestizioni sordidamente contro il tempo, nelle cui poesie baluginano e sferragliano le metafore della decomposizione di un’epoca e di una civiltà». (Ma oggi aggiungerei poeti come Salvatore Toma, Maria Rosaria Madonna, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Anna Ventura e, tra i giovani, indicherei Letizia Leone, Valentino Campo, Marco Onofrio e Sandro Montalto). Non è un caso – proseguivo – che i poeti dianzi citati siano tutti, in tutti questi anni, rimasti nell’ombra del loro stesso Tramonto, avviluppati nel torpore di un conformismo dilagante».
Uno dei compiti del libro è quindi quello di «rendere palese e pubblico il rischio di un autentico eccidio dei poeti contemporanei, forclusi nel forcipe del conformismo e del minimalismo» (Ibid.). «Di qui la necessità di leggere il novecento dal punto di vista di coloro che tolgono il proprio abito dall’attaccapanni; dal punto di vista di coloro che prendono congedo dal conformismo delle posizioni di rendita. L’Antinovecento è ancora tutto da scrivere» (Ibid.).
Sempre nella Avvertenza, scrivevo: «Sia il Modernismo che il Post-modernismo partono dal comune presupposto “il faut etre absolument moderne” di Rimbaud, si pongono in posizione di contiguità con il Moderno, tentando di svecchiare la forma lirica per adeguarla alla nuova sensibilità dei lettori. In questo tentativo di restituire una leggibilità e fruibilità dell’opera di poesia ad un grande pubblico, si consuma e sempre più si consumerà la possibilità stessa, della poesia, di attingere una nuova identità. Se la poesia vorrà sopravvivere alla sfida che il futuro le impone, essa dovrà assumersi tutto intero l’onere di questa sfida, pena il dissolvimento e la scomparsa della sua stessa entità di opera d’arte. Perché è ovvio che un genere artistico non può vivere né sopravvivere a lungo senza la sponda di un pubblico attento ed intellettualmente libero.
In questo cammino, il Modernismo appare più legato al paradigma della tradizione del Novecento rispetto al Post-modernismo, che invece tende a ripercorrere e leggere il secolo appena trascorso nei suoi punti di svolta contrassegnati dalle post-avanguardie della seconda metà del novecento. Altri autori sembrano muoversi in una sorta di via di mezzo tra queste due grandi correnti, oscillando tra l’una e l’altra, nel tentativo di conciliare stilisticamente le due Tradizioni. Allo stato, non sembra più ipotizzabile un poeta che fondi un nuovo linguaggio, e quindi un nuovo “traliccio” linguistico (alla maniera del Pascoli, tanto per intenderci); in questa accezione siamo tutti diventati epigonici, non c’è più una scuola di poesia che possa arrogarsi il merito di essere “in avanti”. Caduta, con la fine del Novecento, la stessa accezione di avanguardia come l’abbiamo conosciuta, penso che una nuova avanguardia di là da venire, se mai verrà, sarà del tutto diversa da quelle che abbiamo frequentato. È paradossale, ma sono convinto che una nuova vera avanguardia non potrebbe che scegliere il Silenzio compiuto piuttosto che la Parola, non potrebbe che autosuicidarsi nell’atto stesso del suo collocamento. Così, l’impossibilità di una nuova Avanguardia connota la drammatica condizione dell’artista contemporaneo. Ai posteri l’ardua sentenza.
Lo stato attuale della poesia assume dunque l’aspetto di un arcipelago, di una serie di individualità scisse e disarticolate, senza un centro e senza una periferia. Altro aspetto di questo fenomeno è, ovviamente, la scomparsa della critica militante, sostituita da una moltitudine babelica di microlinguaggi dichiarativi, epifenomeno direttamente correlato al primo ed equipollente alla scomparsa della società letteraria».
Appunti critici e il pensiero debole
Appunti critici può essere letto come un tipico prodotto della fine delle ideologie all’interno di una visione del mondo epigonica, quando siamo giunti alla conclusione di un periodo storico durato 2500 anni di cultura occidentale, da Platone ad Heidegger, che è stato definito «idealismo filosofico». Giunti alla fine del secondo millennio, oggi, converrebbe parlare di “fine di una civiltà”, citando l’ormai famosa premonizione di Paul Valéry: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di essere mortali».
Michel Foucault, Jean-Francois Lyotard, Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Gianni Vattimo sono pensatori post-moderni, epigonici nel senso più alto, derivazioni di Nietzsche e Heidegger, perché partono dalla premessa secondo la quale la tradizione razionalistica europea avrebbe finalmente affossato i suoi stessi fondamenti. Sono pensatori post-heideggeriani, traggono tutte le conseguenze dal pensiero del loro maestro. Nietzsche e Heidegger erano consapevoli che la crisi del razionalismo occidentale che professavano avrebbe finito per travolgere le stesse istituzioni politiche e democratiche dell’Occidente. I post-moderni, da Foucault a Vattimo, sono pensatori democratici e antifascisti, ma la loro impostazione coincide con la crisi delle democrazie parlamentari europee.
Appunti critici può essere letto come una diagnosi spietata ed appassionata di un naufrago che tenti di arrestare, nell’immobilità del dagherrotipo, l’immagine del pendio declinante del carattere epigonico che l’arte del nostro tempo non può non assumere. Ma può essere anche letto come l’autoritratto di un epigono della civiltà del Novecento. L’appassionata requisitoria nei confronti della civiltà poetica del tardo Novecento, è il pegno da me pagato nei confronti della cultura dalla quale sono venuto e dalla quale ho voluto prendere le distanze; ho tentato una riflessione radicale, una critica radicale di quella cultura alla quale, nonostante tutto, sono sopravvissuto. Credo che questo sia un compito che ogni intellettuale degno di questo nome deve intraprendere, almeno una volta nella vita, pena l’autoriduzione delle proprie capacità critiche e l’affievolimento delle proprie capacità creative. In fin dei conti, una nuova cultura nasce sempre dalle macerie della vecchia. Una riflessione radicale sulla fine della cultura del tardo Novecento era quindi un atto dovuto, ed è stato anche il tributo da me versato alla falsità di quella cultura, alla cattiva coscienza di quella cultura. I capitoli denominati Critica del minimalismo e L’Egemonia del conformismo, costituiscono un esempio di esame di coscienza di un intellettuale solitario, cioè non inserito in alcuna istituzione letteraria e, quindi, appassionatamente libero.
L’arte del Novecento appare sempre più chiaramente essere una manifestazione di quel processo epocale che Heidegger ha denominato oblio dell’Essere. L’arte del Novecento non ha potuto non seguire questo modo di deriva della percezione dei cinque sensi. Un’arte dell’accumulo e della rarefazione ha tentato un moto di riscatto da questa deprivazione sensoriale senza operare alcuna seria riflessione sulle cause ultime di un processo storico-epocale che indeboliva alla base non tanto la comunicabilità dell’arte, quanto la sua prensione, la sua aderenza al reale. Un epifenomeno: la caduta del tasso di comunicabilità, veniva equivocato per la causa realis: la deprivazione dell’essere.
Nella Critica del Minimalismo, scrivevo: «L’arte del Novecento vivrà sempre più neghittosamente nella forbice divaricantesi tra la deprivazione dell’essere ed il dispiegamento progressivo della tecnologia applicata all’industria. Le tarde post-avanguardie dagli anni Sessanta in poi avranno chiaroveggenza soltanto degli aspetti epifenomenici della crisi: lo strutturalismo ed il post-strutturalismo si mostreranno sempre più incapaci di fornire gli strumenti concettuali idonei ad una piena cognizione della drammaticità della crisi. Occorreva una tempestiva comprensione del moto di deriva della forma-romanzo verso la dissoluzione dei linguaggi e l’implosione delle tecniche compositive, occorreva riflettere sulla crisi di de-territorializzazione della forma-poesia che seguiva, a rimorchio, il declino del genere artistico egemone, occorreva una approfondita comprensione del concetto di forma-merce, che nelle economie di mercato globali tende a fagocitare entro i propri parametri ogni tipo di artefatto o manufatto estetico».
Il minimalismo sarebbe la tendenza stilistica dominante della nostra epoca, esso richiede la riproduzione fotografica del reale mediante la riproduzione dell’immediatezza nella coscienza estetica degli artisti, nel miraggio di riprodurre dentro il manufatto la forma-merce dominante senza una previa riflessione sulle ripercussioni che essa pone all’arte nel momento in cui in essa la riproduce già feticizzata nell’operazione estetica. L’arcaicità dell’elegia, che si ripropone come linea laterale di gran parte della poesia del tardo Novecento, non deriverebbe tanto dall’arcaicità del rammemorare, quanto dalla impossibilità di evincere dall’esperienza vissuta il quid di autenticità necessario all’arte, in quanto gli oggetti del ricordo vagano inconsapevoli nel mare della datità come astratti relitti del mondo delle cose ormai del tutto infungibili.
L’esistenza dell’opera d’arte, nell’epoca della riproduzione computerizzata dell’iperreale, è divenuta problematica. Il minimalismo è la risposta, in ambito estetico, dell’ampliamento a dismisura del mondo reale: l’iperreale ed il virtuale accrescono sì la dimensione del reale ma, ciò facendo, ne sottraggono sostrato, essenza. Poiché l’arte non può entrare in concorrenza con le smisurate capacità di creazione del reale della macchina gestaltica, essa ripiega nella tellurica micro-entità del mondo, portando alla estrema dissoluzione il fenomeno dell’aura, che costituisce l’apparizione «di una distanza quantunque vicina essa possa essere» (W. Benjamin).
Il minimalismo, come campo di forze stilistiche, resta stregato ad un’estrema prossimità al reale – il rapporto soggetto-oggetto si presenta come un reciproco star-di-fronte, fronteggiamento d’una estraneità (il magrellismo di tanti magrellisti, al di là della facile ironia, rappresenta un fait social e non soltanto una moda, e precisamente, l’impossibilità per il soggetto di com-prendere il reale, e quindi uno stallo, un alt, che è sociale e storico, prima ancora che estetico); ovvero, come una lontananza d’una autenticità posta magicamente nell’infanzia, prigione del sortilegio, anche qui della fuga dal mondo e quindi fronteggiamento-rammemorazione dell’eden, con ricaduta nell’elegia, seppur corretta, negli autori più scaltri, con inserimenti di prosasticità.
Elegia ed antielegia sarebbero i due corni d’una medesima dilemmatica problematicità che l’ambiguità concettuale del minimalismo non consente di superare.
Il solipsismo rappresenta, sul piano filosofico-concettuale, ciò che tradurrei con micrologia nell’ambito estetico. Il solipsismo è “una piccola fortezza di confine. Mai può venire espugnata ma anche le sue truppe non possono mai uscire. Perciò si può passarle vicino e lasciarsela alle spalle senza alcun pericolo (A. Schopenhauer, il mondo come volontà e rappresentazione Bari, 1970); così come la micrologia rappresenterebbe l’ultimo ricettacolo di autenticità nel mondo falso e corrotto. Ma così come stanno le cose, né la micrologia incontra il mondo, né il mondo la micrologia. L’estraneità del rapporto soggetto-oggetto rimane immutata, l’origine è uguale alla meta. Immergleiche, la dialettica del sempre uguale, è una falsa dialettica, è il rispecchiamento nel concetto, del mondo falso e nefasto. Alla base della micrologia (che porta alle estreme conseguenze i presupposti teorici del minimalismo e, in un certo senso, prefigura l’esaurimento di quel campo di forze stilistiche), v’è un rapporto di inimicizia con il «mondo», una sensiblerie piccolo-borghese e una istanza politica piccolo-borghese; si avverte al suo interno l’eclissi delle istanze radicali che ogni grande arte ha sempre tenuto ad esprimere pur contro la cultura di cui era espressione.
È ovvio che il rapporto di ostilità deriva pur sempre da una sostanziale complementarità che accomuna il soggetto al mondo: là dove finisce il mondo falso, inizia il soggetto autentico: è qui che la micrologia manifesta con crudezza le proprie antinomie: nel voler contrapporre l’autentico all’inautentico come due categorie invalicabili ed incomunicabili.
L’atomizzazione della vita quotidiana procede inarrestabile, la contemporaneità senza identità (ciò che altri ha chiamato l’eterno presente della tarda eternità) si diffonde senza soste e la micrologia diventa lo stile che corrisponde, nella posizione estetica, alla normatività afflittiva dei nuovi rapporti di produzione, assumendola quotidianità a parametro tematico e stilistico.
Esiste una Nuova critica?
Credo che non si possa mettere in discussione il fatto che una “Nuova critica” non può essere disgiunta dall’esistenza di una nuova poesia e di una nuova narrativa, a meno che non si tratti di una critica accademica, la quale è comunque altra cosa da quella di cui stiamo parlando. Quando qui si parla di Nuova critica è qualcosa di militante che si intende. Ammesso e non concesso che esista realmente una Nuova critica letteraria, sarebbe interessante vederla all’opera, esaminare come essa intenda affrontare i seguenti problemi:
- In Appunti critici mi sono posto il problema-base sul quale un pensiero critico moderno non può non indugiare se non vuole essere retrocesso a mera formulazione di quesiti retorici e a esercizio di eufuismo e di conformismo: Dante e Petrarca, quale rappresentazione?.
In Appunti critici ho tentato di rispondere ai quesiti seguenti:
- Può essere tracciata, all’interno del Novecento, una linea dantesca?
- Il petrarchismo come malattia congenita del corpo della Tradizione?
- Il petrarchismo coincide con la linea pascolinizzante della poesia italiana del Novecento?
- Il post-sperimentalismo e le poetiche neoorfiche possono essere considerate varianti dell’eterna malattia italiana del petrarchismo?
- La poesia italiana del Novecento è una poesia sostanzialmente pascolinizzante? La riprova è che deriverebbero dal Pascoli sia il crepuscolarismo, la linea «incendiaria» di Palazzeschi, l’ermetismo, lo stesso Montale pur se in modo parziale soprattutto con il primo libro, Ossi di seppia, del 1925, (pur se l’operazione del ligure è strategicamente dirompente nella misura in cui prosciuga la retorica pascoliana), il tardo-ermetismo, sia l’antilirica dell’Opposizione (vedasi la costante ricerca del padre putativo effettuata da Sanguineti nei riguardi del poeta di Romagna), sia lo sperimentalismo officinesco di Pasolini. Posto questo assunto, qual è la posizione della “Nuova critica”?
- Una delle idee-forza di Appunti critici è quella secondo cui il «traliccio» del Pascoli, lo sperimentalismo inconsapevole del poeta di Romagna, con tutto il repertorio di tecniche versificatorie che gli appartengono, sarebbe il «responsabile» della linea del riformismo moderato della poesia italiana del novecento, sulla quale sono saldamente impiantati autori anche antitetici come Pasolini e Sanguineti, fino al conformismo professionale di autori allotrii come Gianni D’Elia e Edoardo Cacciatore, ovvero, il Mitomodernismo di Giuseppe Conte come il tardo post-sperimentalismo degli «arrabbiati», i luddisti del discorso poetico del Grupo 93.
- In Appunti critici ho auspicato che la Nuova critica avvii una riflessione su quale idea di narrativa e di poesia entro il contesto europeo.
- In Appunti critici ho affrontato il problema tuttora centrale se nelle nuove condizioni della civiltà europea sia possibile, oggi, un’arte di avanguardia.
- Ho tentato altresì di chiarire il luogo e la funzione di una critica militante nel tardo-moderno.
- A questo punto mi trovo costretto a chiedere ai lettori della Vs. autorevole rivista di approfondire le ragioni che hanno condotto alla scomparsa del rapporto tra critica militante e critica della cultura.
- Ed infine, non posso fare a meno di chiedere: qual è l’antinomia-base del fare arte nel Moderno?
- In Appunti critici ho tentato di scandagliare, in modo rapsodico, leggendo i tanti autori affrontati, il problema seguente: la poesia del novecento ha subito una serie di modificazioni della forma-interna. E mi chiedo, e vi chiedo: quali sono i punti di svolta che hanno contrassegnato questi cambiamenti?
- Non potevo esimermi, infine, dall’affrontare alcune questioni tuttora aperte: è ancora possibile utilizzare il concetto di “impegno”? La poesia deve essere impegnata? E, infine, la poesia è un’arte del passato o c’è una speranza di una sua sopravvivenza nel prossimo futuro? E se c’è una modalità di sopravvivenza, quali sono le condizioni perché questo avvenga?
- Come l’ultimo degli epigoni, mi sono rivolto una domanda retorica, alla quale comunque un critico militante non può non rispondere o, in qualche modo, tentare un abbozzo di risposta: qual è la posizione della “Nuova critica” in ordine alle mode culturali del contemporaneo?
Sul concetto di Cultura critica
Non c’è dubbio alcuno che nel concetto di cultura sia implicito quello di confronto culturale, di dialettica tra posizioni diverse di pensiero, e che proprio in questo scambio di idee e in questo scambio di posizioni risieda l’elemento fondativo di una cultura ricca e viva e progressiva. Chi dichiara apertamente che «non ci sarà mai dialogo fra di noi» (Gio Ferri) commette un atto di arroganza e si pone fuori del concetto di cultura, anzi, delegittima financo se stesso. La cultura è sempre arricchimento reciproco, pur nella diversità delle reciproche posizioni, anzi, grazie alla diversità – oserei dire – delle posizioni. Chi afferma di appartenere a mondi troppo diversi («apparteniamo a mondi troppo diversi» Gio Ferri), non si accorge, invece, che un semplice sguardo ai nostri reciproci certificati di nascita rivelerebbe che entrambi abitiamo il medesimo «mondo», e che nel «mondo» ci sono, spesso contemporaneamente, cose molto diverse, e che la cultura, se vuole essere viva e progressiva, deve confrontarsi con il «mondo» e non ritrarsi inorridito dinanzi alle cose che non capiamo o che ci sembrano estranee. Accusarmi di essere berlusconiano («sembri Berlusconi che vede comunisti anche sotto il letto!» - Gio Ferri), mi sembra un atto, ancor prima che irriguardoso, sciocco. Lanciarmi l’ingiuria di essere un nipotino del presidente del consiglio, equivale a troncare sul nascere qualsiasi possibilità di comunicazione; accusarmi di essere l’aedo del “più indigente vecchissimo e nuovo romanticismo. Quello «del Sublime, o dell’Anima, o dell’inafferrabile Mito» (Gio Ferri), significa non aver letto affatto il mio libro di Appunti, in quanto le parole «Sublime», «Anima», «Mito», sono estranee completamente al mio vocabolario; inoltre, in quanto al «vecchissimo e nuovo romanticismo», dovrebbe essere Gio Ferri a chiarire il significato che egli attribuisce a queste categorie per poi confrontarle, eventualmente, con i concetti che ho tentato di sviscerare nei miei Appunti. Fatto sta che Gio Ferri appartiene a quella schiera di persone che leggono e recepiscono soltanto quanto approvano a priori, tutto ciò che non collima immediatamente con le proprie convinzioni, non può far parte del demanio di quella cultura che essi ritengono di custodire. Forse Gio Ferri è rimasto piccato per le ragioni critiche espresse nei confronti della sua poesia, ma questi sono episodi marginali e personalistici che non dovrebbero inficiare il corretto svolgimento di un confronto critico. Quello che sfugge a molti poeti, anche di rango «elevato», è che nessuno si può dichiarare depositario della cultura tout court o di una parte della cultura, chi vuole difendere la cultura dai «barbari» che si profilano all’orizzonte, diviene presto preda di quella stessa barbarie che essi vorrebbero scacciare. Se Gio Ferri ritiene che le categorie da me usate di Modernismo e Post-modernismo siano «arbitrarie», dovrebbe almeno spiegarne il perché. Sfortunatamente, per Gio Ferri e per tutti coloro che pensano «in proprio», le categorie da me usate hanno una storia pluridecennale che mi ha preceduto e sono state impiegate da altri studiosi prima di me e ben più accreditati del sottoscritto. Ciò non significa che le categorie sopra citate non abbiano bisogno di ulteriore approfondimento e magari anche di correttivi, ma bisognerebbe essere capaci di esercitare l’esercizio del pensiero, monitorare il contemporaneo e ripensare il corpo della Tradizione del Novecento poetico. La politicizzazione delle categorie estetiche operata dagli epigoni del post-sperimentalismo, conduce dritto allo stallo del pensiero, all’iconodulia dell’ortodossia. Gio Ferri è un intellettuale militante, è un militare del post-sperimentalismo, legato a doppio lucchetto alla cultura di opposizione da cui proviene. Questo è il suo credo: tutto ciò che non coincide immediatamente con la sua scuola di pensiero poetologico non ha diritto di esistenza. Gio Ferri lancia censure, divieti, appiccica etichette di «berlusconismo», e si sente galvanizzato nel suo impegno politico.
Nonostante tutto, preferisco i tipi alla Gio Ferri a quelli che stanno in silenzio e meditano nel chiostro la liturgia dell’ortodossia.
Massimiliano Testa Per una nuova glossa della lingua poetica
Giorgio Linguaglossa Appunti Critici. La poesia italiana del tardo Moderno tra Conformismi e Nuove proposte (Coed. Libreria Croce, Scettro del Re 2003 pp. 320 E 24,00)
L’edificio della poesia oggi è come uno di quei castelli fatiscenti e isolati in cima a colline aride e rocciose che ti fanno credere che un semplice alito di vento sia sufficiente a buttarlo giù. Vedi i suoi abitanti, valuti il loro comportamento e pensi che mai come oggi, la poesia, goda di così buona salute. Ma poi ti accorgi che qualcosa non quadra, che la poesia è stata bandita dalla Repubblica (grazie, Platone!) e quasi ti vergogni a parlarne. E hai voglia di dire che la poesia è cosa terribilmente seria, addirittura vitale, perché temi di essere scambiato per un alieno. Eppure, c’è tutto un sottobosco sterminato di poeti fai da te, perfino commovente per quanto resiste e non si dà per vinto. Così li leggi, finché ce la fai e trovi che quelle cose lì potresti scriverle anche tu, che la poesia l’avevi immaginata ben diversa, e ti viene il sospetto che quelli si siano incarniti in se stessi come tante monadi che odiano la vita, senza interrogarsi minimamente sulla cerebralità del loro minimalismo. Per produrre una “poesia da camera” (O. Mandel’stam) in senso deteriore. Così capita di trovare più neorealismo negli operai in tuta di Penna che in tutta la poesia detta neorealista. E allora arrivi alla conclusione che quel semplice alito di vento non serva a nulla e che occorra una tempesta vigorosa.
In questi Appunti critici Giorgio Linguaglossa seleziona una vasta gamma di articoli, interventi, recensioni apparse quasi integralmente nel quadrimestrale romano “Poiesis” nell’arco di poco meno di un decennio (1995-2002). Il criterio di scelta ha consentito di realizzare un volume ancora bruciante di quell’attualità che lo ha visto, spesso, in posizione solitaria, condurre una battaglia serrata di “azioni di guerriglia e di disturbo” contro il “conformismo delle istituzioni poetico-letterarie”, con il chiaro intento di rilanciare con più decisione la sfida.
E se era impossibile non iniziare con la pars destruens nella quale vengono ridimensionate figure di primo piano (Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi quali esponenti di quella poesia lombarda che ormai appare aver esaurito le proprie potenzialità, o Sanguineti, visto come comica verbosità della neoavanguardia) o stroncate senza mezzi termini (la Lamarque ad altissimo rischio diabetico e altri nell’esilarante capitolo intitolato l’Egemonia del conformismo); ampia e approfondita è la pars costruens, nella quale l’autore traccia la mappa di percorsi poetici altrimenti esclusi dai grandi – si fa per dire – circuiti nazionali.
Così, se nei capitoli Tra egemonia e isolazionismo e La belligeranza del tramonto vengono ridimensionati certi autori nazionali e proposti altri, anche sconosciuti, nella stessa Belligeranza e nel capitolo Tra Modernismo e Post-modernismo, Linguaglossa ci mostra i tesori di quella mappa. L’idea di fondo è che si sta vivendo una lunga fase di tramonto che ha tutte le intenzioni di protrarsi indefinitamente. Ed i fatti stanno confermando in peggio le previsioni. Occorreva e occorre intervenire prima che su scrittori di assoluto valore cada un omertoso e nefasto oblio. Un nome per tutti: Maria Rosaria Madonna. Le istituzioni letterarie pubblicano un giorno sì e l’altro pure tutto quello che passa per la mente della Merini. D’accordo, in passato ha scritto qualcosa di valido ma ora è di una fluvialità quantomeno imbarazzante. Mentre Stige (pubblicata nel 1992) della poetessa siciliana che purtroppo ci ha lasciati nell’inverno del 2000, è un libro che basterebbe da solo a riconciliare chiunque con la poesia. Provate a leggere quel suo “ritmicissimo latino inventato” (dalla prefazione di Amelia Rosselli) e diteci dove trovare una passione più ardente. Sentirete come in quelle coltissime “preghiere laiche” c’è tutto il travaglio di un’anima attraversata dalla sete di assoluto e soffocata dai limiti troppo stretti del proprio corpo. E’ grazie a lei se ho potuto capire fino in fondo Baudelaire quando scriveva di “carne spirituale”. Per me è un vero dolore sapere che non è più fra noi, ma mi rimane la piccola-grande consolazione di essere uno dei fortunati possessori del suo libro in una edizione raffinatissima. Qualcuno può suggerirne la lettura alla Merini?
Ma tacere è difficile e Linguaglossa ci propone Lisa Stace. E se l’immaginario di Madonna è quello di un medioevo viscerale e religiosissimo (ma non solo, a giudicare dagli inediti apparsi su “Poiesis”), quello della Stace trova radici in una mitica e primordiale teogonia, dove l’Essere, in chiave di Enigma, si dispiega in metafore di bellezza quasi metafisica. E tanti altri che limiti di spazio non ci permettono di approfondire ma non di segnalare: Amelia Rosselli, Daniela Marcheschi, Roberto Bertoldo, Sandro Montalto, Gino Rago, Eraldo Garello… autori tutti avviluppati nel Tramonto che nel capitolo Tra egemonia e isolazionismi troviamo stupendamente rivalutati.
Lotta senza quartiere quella di Linguaglossa, dunque, e su più fronti.
Nel capitolo Critica del minimalismo il nemico pubblico numero uno viene affrontato con tutto il dispiegamento della potenza teorica di cui dispone l’autore. Qui viene spiegato con analisi rigorosa e puntuale perché bisogna chiudere i conti con questa stagione e con la sua degenerazione “micrologica”.
Dopo una iniziale digressione che individuale cause storiche della perdita del ruolo sociale della poesia, vista come perdita delle proprie capacità rappresentative, Linguaglossa propone un ripensamento ontologico della sua forma a partire dalla “crisi” dell’anti-poesia del Gruppo ’63 alla fine degli anni Settanta si è ripiegata “sulla linea govoniana/palazzeschiana” in chiave autoironica e tardo crepuscolare, per adagiarsi in una generica area di post-sperimentalismo (e qui l’autore riutilizza genialmente una categoria individuata da Giacinto Spagnoletti). Una vera e propria resa teorica dinanzi agli inquietanti interrogativi del Moderno. E la riflessione di Linguaglossa parte proprio da qui: individuare una lingua poetica in grado di tenere il passo del Moderno.
Nell’analisi di alcune antologie e di alcuni nuovi autori, Linguaglossa constata la fine di scuole e di “tendenze” e denuncia un diffuso conformismo stilistico, dove una poesia prosodica grigia e gratuita rende la forma-poesia indistinguibile dalla stessa prosa. Con ciò dimostrando una inconsapevolezza delle ragioni che hanno condotto la poesia contemporanea alla stazione della sua crisi.. Il mondo è “divenuto prevedibile in quanto sottoposto alla legislazione della volontà di potenza, soffre la tabuizzazione dello sviluppo di una integrale umanità”, nella quale “nichilismo, volontà di potenza e dispiegamento della macchina tecnologica ci consegnano una immagine del soggetto atomizzato e del mondo stereotipato”. Il minimalismo si presenta agli occhi dello studioso come un “casellario per il protocollo di stati d’animo… un archivio di esperienze denaturate e di viandanze turisticamente attrezzate alle mondanità” che, nei momenti migliori, può esprimere al massimo un dorato esistenzialismo nutrito di un’oggettistica di interni piccolo-borghesi
Una poetica dal respiro affannoso incapace di proporre alcuna visione del mondo e dell’oggetto e che trova nell’elegia il suo naturale ripiegamento in un “fronteggiamento d’una estraneità”, come stallo individuale riflesso di quello storico-epocale; un solipsismo che, in ambito estetico, si risolve nel vagheggiamento dell’infanzia e nell’autocompiacimento della quotidianità alienata nel quale minimalismo e mondo sono destinati a non incontrarsi mai.
Uno sguardo congelato incapace di provare un vero pensiero critico e che si risolve nel suo opposto ipertrofico: il criticismo analitico del dettaglio. Come se grazie alla “distruzione sistematica del Senso” abbiano proliferato all’impazzata miriadi di microsensi.
Ad una simile analisi non poteva non seguire una spietata resa dei conti nel capitolo L’egemonia del conformismo, dove vengono liquidati lo “sciocchezzaio” di Gianni D’Elia, “l’avanspettacolo” di Zeichen i “truismi” della Insana, il “riformismo moderato” della Spaziani ed altri minori.
Il posto centrale del volume è occupato da La Nuova Poesia Metafisica con alcuni scritti di commento. Qui l’autore si propone di definire i lineamenti di una estetica “forte” che lo hanno guidato ed ispirato in quegli anni di lotte appassionate e solitarie.
Preceduto da un saggio su Dante e Petrarca in Critica del minimalismo, dove, mediante l’artificio retorico della contrapposizione Politico/estetico risolta a favore dell’impegno globale del primo a petto dell’estetismo dell’io del secondo, Linguaglossa opta per Dante quale è fautore di “un realismo integrale” e di una “rappresentazione del mondo”. Su questi capisaldi vengono stesi gli undici punti del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica (pubblicato nel n. 7 di “Poiesis” , 1995) che dovrà guidare la lingua poetica nell’attraversamento della minaccia antropologica che incombe sulla nostra civiltà. Filo conduttore è la parola poetica ripensata ontologicamente e fortemente radicata nella “legalità dell’Essere”, capace di rappresentare il mondo nella sua realtà tridimensionale. Noi, scrive Linguaglossa, siamo qui ed ora, ma siamo anche proiettati nel futuro. Occorre dunque una parola teleologicamente orientata, perché “generata dall’intelletto è generatrice di un’arte bella”. Oggi la poesia, commenta Linguaglossa, non parla più ai contemporanei, come se avesse subito una sorta di alterazione genetica o di tabuizzazione del senso; ha smesso di abitare la dimensione del presente accettandolo acriticamente. E il minimalismo trasforma il reale in micro-reale quale temporalità alienata dall’universale, con il rischio che tutto ciò “che appare trans-individuale vesta i panni della funesta epocalità”, in un momento in cui anche la filosofia rinuncia a pensare per universali. Ma per Linguaglossa niente è neutrale, neanche l’arte; e la poesia è come un ponte gettato tra il pensiero metafisico e il mondo estraniato che ha lo scopo di riportare l’Uomo al centro delle tre dimensioni.
La letteratura è, allo stesso tempo, arte del linguaggio e attività conoscitiva, perché vive nella lingua e questa nella Storia. Linguaglossa, in polemica con chi, crocianamente, si limita alla delibazione della “qualità della parola”, oppone “l’autenticità della parola”. Una parola capace di arrivare al cuore e alla mente, perché davvero autentica ed epocale e non mera accettazione del presente o semplice opinione “nel mercato-bailamme delle opinioni”. Avverso certa critica autoreferenziale, l’autore recupera il ruolo di fiancheggiatore del poeta militante, al contrario del poeta decorativo il quale officia sempre il proprio “riformismo moderato” .
La poesia è postuma? Il Manifesto ne è la presa d’atto. Ma è anche uno straordinario atto di potenza teorica, costituisce un vero e proprio dispiegamento di una artiglieria pesante
Particolarmente stimolante trovo le conclusioni cui arriva Linguaglossa sullo sperimentalismo quale “variante” del “petrarchismo”. In fin dei conti Linguaglossa appare impegnato su due fronti: la critica serrata del tardo-sperimentalismo e la critica egualmente radicale a tutte le propaggini delle poetiche post-simbolistiche (di cui varianti sono il mitomodernismo di Giuseppe Conte, le poetiche neo-gotiche ed il minimalismo). Certo, in questa operazione c’è il rischio di un accerchiamento e di un isolamento che, alla lunga, potrebbe ricompattare le forze del conformismo parlamentare. Il rischio c’è, è presente e d’altronde credo che il critico romano ne sia perfettamente a conoscenza.
Una poesia globale, dunque, questo è l’atto di coraggio cui i poeti sono chiamati a rispondere. E mai come oggi ci sono le condizioni per una sfida che, con le parole di Franco Bolelli, offre “un rischio e un’opportunità senza precedenti”. I poeti degni di questo nome dovranno farsi carico dell’onere di questa sfida, non sarà col vagheggiamento di una mitica età dell’oro, peraltro mai esistita, che ci si può illudere di trovare una via di fuga.
Ai custodi del pensiero “negativo”, Linguaglossa risponde innalzando lo sguardo sul mondo. Consapevole delle difficoltà affrontate, senza minimamente farsi disarmare dalle accuse di introdurre vecchie griglie ideologiche, egli ci invita ad una serrata critica della civiltà del tardo-moderno.
Intanto scaglia questo sasso pesantissimo nelle acque stagnanti della poesia contemporanea. E non si preoccupa affatto di nascondere la mano.