Giorgio Linguaglossa
S.P.Q.R.
ASPETTANDO I BARBARI
(la dolce vita a Roma al tempo di Attila)
Al lettore delle età future
L’Urbe?, voi mi chiedete che cosa è diventata l'Urbe?. Lo ammetto, non lo so, non lo so più. Con l'Urbe nutro un rapporto di estraneità. Estraneità per le cupole delle sue chiese, ostilità e noia per i cristiani, sordidi e finti, nostalgia per i postumi pagani che sembrano essere scomparsi, avversione per i seguaci del culto di Mitra, molli e imbelli, tedio per gli adepti del culto di Osiride; ostilità e avversione per il vescovo di Roma e la sua curia, per i palazzi del potere della Chiesa di Roma… Il vescovo di Roma, una istituzione che si è imposta nell’Urbe con la forza del denaro e della politica. Ma che cos’è questo dio unico che decide per tutti e che avrebbe già deciso la sorte di tutti noi? Una barbarie venuta dall’Oriente. Una occupazione del cuore di un Impero, decrepito ma civile, cosmopolita, che ha fatto della tolleranza di tutte le fedi la ragion d'essere del proprio imperium. Più di quattro secoli di occupazione spirituale hanno corrotto fin nelle fondamenta questa sordida feccia della plebe buona a nulla! E gli schiavi che adesso anelano alla vita eterna e alla resurrezione! E gli ottimati? Che fa il Senato dinanzi a questa iattura? Ve lo dico io: continua la sua politica della difesa dei propri interessi. Dov’è finito il Senato delle antiche tradizioni? Un Senato gretto, privo di un ceto intellettuale degno di rispettabilità. Ecco, i letterati dell'Urbe li considero privi di dignità, pronti a vendere le proprie mercanzie culturali al miglior offerente: gli Ottimati e la Chiesa (ed adesso sono rimasti i giornali e la televisione. Questo elettrodomestico infernale che considero degno del nostro tempo, veicolo della feccia e del disdoro di questa capitale che non sa di esserlo). Roma è una capitale che non sa più di esserlo, che ha perduto la memoria. E questo lo ritengo, paradossalmente, un elemento degno della mia stima e del mio munifico sarcasmo. E ciò fa sì che dimorare in questa finta e sordida capitale sia per la mia persona un salutare farmaco. La disistima e l’avversione che nutro per i Palazzi del potere curial-partitico del Senato è totale e senza appello. Considero il potere politico-partitico romano una vera e propria usucapione forzosa dell’Urbe.
Sono passati almeno quaranta anni dal Sacco dell’Urbe da parte dei Goti di Alarico. Che cosa ha fatto il Senato per fronteggiare Alarico? Nulla. Ha inviato una ciurma di sgherri per assassinare il generale Stilicone che si era ritirato a vita privata nella sua villa di campagna. Che cosa ha fatto l'imperatore per difendere la vita del suo generale? Ve lo dico io: nulla, non ha mosso un dito, ha lasciato che il più grande generale dell'impero fosse assassinato a tradimento dopo un processo farsa. Ebbene, che hanno fatto il vescovo di Roma e il Senato per difendere l'Urbe? Ve lo dico io: hanno patteggiato con Alarico il saccheggio, gli hanno detto che poteva accomodarsi, saccheggiare tutte le case e i palazzi dei romani tranne le chiese e i monasteri, perché lì c’era il loro dio che sorvegliava l’ingresso e il loro dio si sarebbe vendicato! Hanno fatto ricorso alla minaccia della maledizione del loro dio per far breccia sui goti! E Alarico ha fatto finta di stare al gioco! Ha finto di credere alla potenza numinosa di quella maledizione! E così i romani hanno aperto le porte della città e i goti l’hanno messa a saccheggio con il beneplacito del vescovo di Roma! Che vergogna. Che onta. L’Urbe è così stata violata e profanata da una massa di barbari affamati. Sarebbero bastate tre sole legioni per sgominare quella fetida marmaglia dei goti, obbligarli a piegare le ginocchia alla maestà dell’impero d’Occidente. Ma il generale Stilicone non c’era più, era stato processato e assassinato dai sicari mandati dal Senato di Roma. Un processo burla messo in piedi dal Senato! E l’imperatore Onorio, dov’era l’imperatore Onorio? Perché non ha alzato un dito per impedire l’assassinio di Stilicone? Lui se ne stava nella tranquilla Ravenna mentre correvano gli eventi. E l’impero è rimasto senza il suo maximo difensore… l’imperatore avrebbe potuto dare il comando dell’esercito al generale Saul, il romano-vandalo Saul che aveva già sconfitto i goti qualche anno addietro, ma ha preferito l’inetta strategia dell’attesa, senza rischiare il suo esercito di mercenari...
Sì, l’Urbe ha una grande «orchestra» dove brulica una plebe raffazzonata e idiotesca, un ceto mercantile idiotizzato, privo totalmente di spina dorsale; letterati e artisti di mezza tacca, uno sterminato sottobosco di aspiranti pittori e letterati, giornalisti, ministeriali, minimalisti, bottegai. Una mediocrità inaffondabile. Una dittatura della dorata medietà.
Ecco, io tutto ciò lo considero altamente degno di menzione. Dichiaro solennemente che posso sopravvivere soltanto in questa cloaca maxima, in mezzo a questa sordida ciurmaglia priva di identità. Una città senza identità. Questa è la sua grandezza, e in essa mi ci riconosco e ci posso ponzare, annichilito e rinvigorito dalla sua storia inaffondabile.
Dichiaro che non c’è farmaco più potente e salutifero della visione della cloaca maxima di Roma, della sordida feccia della sua plebe e del ceto di mercanti sordidi e insolenti, della sordida feccia della curia del vescovo di Roma che fa per conto suo la sua politica estera senza curarsi della difesa dell’impero.
Per quanto riguarda l’estensore di queste righe, non ho altro da aggiungere. I posteri, se posteri verranno, sapranno giudicare.
Voi mi chiedete «chi sono?». Beh, davvero non saprei rispondere, forse sono un pagano redivivo dopo duemila anni, cittadino dell'Urbe e dell'impero d'Occidente. Questa decaduta capitale di una entità geografica che un tempo lontano è stata un grande impero.
Gheorgopoulos
Io, Gheorgopoulos
Corre l’anno milleduecentoquattro dalla fondazione di Roma.
Io sono Gheorgopoulos e vivo nell’Urbe. Lo confesso, non capisco questi cristiani, sono degli esaltati, si umiliano davanti al loro dio, piegano le ginocchia, pregano il loro dio che, dicono, li salverà. Dicono di costruire la città di dio, del loro dio, e che lì i pagani saranno defenestrati e colpiti da terribili castighi. L'impero è in pericolo. L’imperatore Valentiniano è a Ravenna, al sicuro delle paludi e delle sue legioni di mercenari. Orde di Burgundi, Eruli, Goti, Ostrogoti scorrazzano per l’Urbe in mezzo a legionari disertori, miles gloriosus, profughi affamati, liberti imbelli, patrizi oziosi e sordidi, spintrie imbellettate e prostitute della suburra, letterati spocchiosi e insulsi retribuiti da munifici anfitrioni, postulanti disoccupati e guardie private. Su tutti sovrasta una plebe inferocita, raffazzonata e incolta, che pretende gladiatori, gramaglie e munifici doni dall’imperatore di turno.
Gli Unni sono giunti alle porte degli Appennini. Hanno espugnato la fortezza di Aquileia. Incredibile dictu, Aquileia non era mai stata conquistata da nessun esercito barbaro. È stata rasa al suolo e i suoi abitanti sono stati fatti schiavi e venduti al mercato. Non un solo edificio è rimasto in piedi. Gli Unni hanno voluto distruggere finanche il ricordo della città. Mediolanum e Ticinum hanno aperto le porte all’invasore e così hanno evitato la devastazione e il saccheggio. Ad una ad una sono cadute tutte le città al di là degli Appennini. L’imperatore Valentiniano e il generale Ezio con le ultime legioni sono fuggiti in tutta fretta e hanno lasciato campo libero all’invasione dell’Italia. E Attila? Cosa fa Attila? Il capo unno temporeggia, attende, sa che in Italia c’è una pestilenza che potrebbe contagiare le sue truppe e non vuole mettere in pericolo l’incolumità del suo esercito. La conquista dell’impero d’Occidente non vale l’incolumità dei suoi soldati. I cristiani gridano al miracolo perché il Papa Leone con l’ex prefetto Trigezio e Gennadio Avieno, l’uomo più ricco d’occidente, sì, proprio lui il console in carica, quello che è sceso a patti con i Vandali ed ha lasciato loro l’Africa settentrionale. Hanno incontrato il capo unno sul Mincio. Un fiumiciattolo torbido e limaccioso. Attila con i suoi ufficiali più stretti era a cavallo e i postulanti erano a piedi. Lo hanno scongiurato di risparmiare l’Italia, gli hanno detto che in Italia c’è pestilenza e carestia e hanno agitato davanti al capo unno la santa croce. Attila si è lasciato convincere, o almeno, ha finto di desistere dal suo proposito di devastazione e saccheggio. Che il capo unno si sia lasciato impressionare da quella imbelle delegazione? Li ha lasciati parlare stando a cavallo, lui e i suoi ufficiali, e li guardava sprezzante dall’alto. Grazie a Poseidone, ha parlato Trigezio, l’unico diplomatico presente in quella risibile delegazione. Trigezio conosce bene gli Unni. Ha rammentato ad Attila che l’Italia era stata colpita dalla carestia e dalla pestilenza che stava mietendo innumerevoli vittime. Se si fosse inoltrato a sud del Mincio, questo gli ha detto Trigezio, «anche il tuo esercito sarebbe colpito dalla pestilenza e ne verrebbe decimato». Credo che quest’argomento sia stato più eloquente della forza delle ultime legioni, che del resto sono fuggite insieme all’imperatore Valentiniano e al generale Ezio. Adesso i cristiani gridano al miracolo, sostengono che il loro dio abbia spaventato Attila con sinistri presagi, rammentandogli che anche il goto Alarico è morto subito dopo aver invaso e saccheggiato Roma. Ma è una menzogna. In verità, gli unni sono stati attaccati a sud da una armata dell’impero d’Oriente, hanno subito perdite considerevoli e si sono dovuti ritirare più a nord e lasciare tutta la Tracia a Costantinopoli. In verità, Attila è stato sconfitto dalla paura della peste e dalle armate dell'impero d'Oriente, e ha fatto marcia indietro, se ne è andato da dove era venuto e fronteggiare l’esercito imperiale d’Oriente. Non è dubbio che quando la peste passerà, Attila ritornerà con un nuovo esercito: e incontrerà il nulla, non incontrerà nessuna resistenza. Non c’è un solo soldato imperiale da Ravenna a Mediolanum fino a Boloniam È probabile che anche il prossimo imperatore se la darà a gambe con le armate superstiti. Sì, mia amata Clodia, abbiamo ancora qualche giorno per vivere e amarci. Poco tempo ma sufficiente. E l’insulso, l’inetto Gennadio Avieno, guida la politica estera e la politica interna, promuove alle alte cariche i membri della sua famiglia e della sua consorteria. La tesi di Gennadio Avieno è questa: adesso Attila rovescerà il suo esercito sull’impero d’Oriente perché l’imperatore Marciano ha osato lanciare un’armata imperiale oltre il Danubio, e che possiamo dormire sonni tranquilli. Avieno sostiene che Marciano farà la fine del topo azzannato dal cobra. Per un po’ Attila e gli unni saranno impegnati sulla frontiera orientale. Se le cose stanno così, almeno per un poco possiamo vivere tranquilli, io e la mia amata Clodia. Fin tanto che c’è Attila, i Visigoti di Teodorico stanziati a nord delle Alpi non attaccheranno. Così, tra i due vasi di ferro, il vaso di coccio dell’impero d’Occidente potrà sopravvivere e noi potremo fare la vita di sempre. Potremo amarci e odiarci, potremo godere degli agi e degli ozi del quotidiano, darci ai festini e alle libagioni alla corte di Gennadio Avieno e di Trimalcione. È una vita imbelle e sordida, finta e posticcia ma a me va bene così. La nostra età è «postuma» e chi vuol essere lieto, lo sia. L’epoca non chiede nulla a nessuno, ed io anche sono un nessuno che non ha da chiedere nulla a nessuno.
Roma è questa: non la riconosco più, una moltitudine che dà la caccia alle prebende e ai sussidi purchessia e pur tuttavia, disposta a mercanteggiare anche la propria genitrice per una borsa di sesterzi, disposta a voltar gabbana e a piegare le ginocchia davanti al padrone di turno e a incensarlo e a scriverne elogi e lodi… della razza degli adulatori, i letterati sono la cresta più rigogliosa e numerosa ma anche la più obbrobriosa e insulsa. Si affollano e sgomitano per ottenere udienza dagli ottimati, dagli editori e dai rètori, scalciano e si azzoppano a vicenda per acclamare il più potente, e digrignano i denti e fanno le corna e sputano nella scarpa del proprio simile e inneggiano all’invertito di turno. Una schiera di lestofanti e di bugiardi i quali dicono che la nostra età è «postuma» e che loro sono i «riscrittori», perché tutto è stato scritto e tutto è stato detto e che quindi non c’è nulla da dire e da scrivere, tranne le proprie ricette mediche, gli scontrini della propria banalità e codardia… e si affollano e sgomitano per un posticino alla mensa di Gennadio Avieno e dei Trimalcioni di turno. Costoro sostengono che non esiste la «storia», che esiste soltanto il «quotidiano», e intanto danno la caccia a tutte le prebende che il loro «quotidiano» assicura.
Così, è venuta una silenziosa invasione di stirpi allotrie, alla Valentinorum Zeichenem (che viene da Flumen) che gioca a dadi con le parole; alla Valerio Magrellone (che viene dai Parioli), alla Elio Pequorum (che viene dal Quirinale); al neogotico Francorum Buffonem e una miriade di altri impostori delle parole. Costoro sputano per terra per proteggersi dall’invidia degli dèi, sputano nella scarpa destra per proteggersi dalla cattiva sorte! Postini dell’aurea mediocritas chiamano «disturbi del sistema binario» i loro disturbi ornamentali e narrano di spintrie imbellettate e di matrone lascive, di Irak e di Erika, vogliono tascabilizzare la metafisica, pescando dalla loro contemporaneità chissà quali tesori di tritume e di tritame. Si tratta di sordida facezia, di insulsaggine travestita e travisata. E poi ci sono i millantatori, gli adulatori dell’imperatore con a capo il prefetto del pretorio Trigezio, e poi ci sono i dialettici ideografici, i logografi del sonno, i logologi ieratici: i ferroniani, seguaci del critico della Sapientia Pomponio Ferrone, e i tristi materialisti alla Asorre Rosam; si affollano e si alloffano i pretoriani del longobardo Diliberto, attenti alla pecunia, e poi ci sono i lotofagi della ragione: i vescovi cristiani dell’ebreo Gesù, i lotofagi dell’anima, i logologi del sesso degli angeli, che professano la verginità e il sacerdozio e invece bramano soltanto di occupare il Palazzo e scacciare i pagani dall’Urbe e perseguitarli.
Ecco, io sono un console senza esercito e senza il becco di un sesterzio, un letterato, sono tutto e niente ma non sono un codardo! E se io anche sono costretto, lo confesso, obtorto collo, a bussare alla mensa di Trimalcione e a mendicare un suo sordido versicolo se voglio ingozzarmi di fagiani e di pesci arrosto, almeno ho il buon gusto di astenermi dall’inneggiare senza remore il potente di turno! Io, Gheorgopoulos, console senza consolato, letterato senza letteratura preferisco poltrire nel mio tugurio fuori le mura piuttosto che fornicare con le troiane di Trimalcione e sorbirmi i sordidi versicoli dei suoi lustrascarpe!
Sono rimasto soltanto io e un pugno di audaci pagani a resistere alle schiere di cortellessiani, sordidi e finti, agli arnaldiani, famelici e pronubi, ai ferroniani, sordidi e posticci, ai rutelliani sordidi e basta, ai veltroniani che sembrano fatti di pergamena dipinta, agli alemanniani, fatti di terracotta, ai seguaci di un centurione di provincia, un tale Naumaco che fa il professore di etica, alle tristi schiere allobroghe di Mediolanum, i nuovi padroni dell’Urbe letteraria, che sguazzano e scorrazzano e sciorinano i loro versicoli! Un esercito di spintrie effeminate, di scrofe impomatate e di invertiti impotenti.
Ecco, questa è oggi l’Urbe. Ed io ne sono fiero e ci sguazzo e ci rantolo e mi ci rotolo. Anch’io sono forse sordido e finto? Sì, ma di un’altra stirpe e di un’altra agorà, e ponzo e pranzo alla corte dei miracoli di Gennadio Avieno. Se inneggio alle sue mirabili doti di uomo di Stato, ai sesterzi delle sue illimitate finanze, è per necessità; se strofeggio i miei versi alla corte di Trimalcione e dei nuovi proprietari terrieri, dei faccendieri, dei proprietari di flotte onerarie, dei palazzinari, dei millantatori… è per causa di forza maggiore.
Sì, questo «fradicio impero» – come lo chiamo nelle mie poesie – affonderà nella cloaca maxima, nel vizio e nella corruzione…
I cristiani dicono: «Beati gli ultimi che saranno i primi nel regno dei cieli?». Che razza di fraseologia è questa? Che inganno si cela in queste parole ambigue e sibilline? E io dico loro: «No miei sordidi contemporanei affiliati alla setta di Gesù, non voglio essere tra gli ultimi, preferisco vivere in una vera res pubblica ed essere tutti eguali di fronte alla legge, discutere con i cittadini nell’agorà piuttosto che esser costretto a servire due padroni: lo Stato e la clerocrazia di questo vescovo finto e posticcio che parla di resurrezione della carne e dello spirito santo che avrebbe ingravidato una femmina!. Prendo atto di questa follia ma preferisco restare un uomo libero, libero nella mente e nel cuore in mezzo a questo "fradicio impero" che vacilla e tracolla, piuttosto che far finta di credere alle vostre insulsaggini».
I posteri, se mai posteri verranno, dopo questo diluvio di mediocrità, di banausici, di fanatici e di arroganti, troveranno soltanto un cumulo di macerie fumanti e faranno di tutta l’erba un fascio. Diranno che fu un’epoca torbida e di transizione verso un altro mondo, che i contemporanei non seppero vederlo e che anzi lo aborrivano…
*
Era dalla disfatta della battaglia di Adrianopoli, la Canne dell’impero d’Oriente, che non arrivava una notizia così grande: ai Campi Catalaunici l’invincibile esercito di Attila ha conosciuto una disastrosa sconfitta. Avrebbe potuto essere una disfatta ben più grave se il generale Ezio l’avesse voluto.
Era intendimento di Attila limitare il conflitto ai Visigoti di Tolosa, ma, per una serie di impreviste circostanze, quella che doveva essere una guerra circoscritta si è trasformata in una campagna contro la più ampia coalizione di forze che l’occidente poteva mettere in campo. Questi gli eventi: Attila, nei primi mesi del milleduecentotre, progetta una campagna contro i Visigoti, e ciò avrebbe portato svantaggio ad Ezio che difendeva gli interessi dei proprietari terrieri della Gallia. Quando Attila afferma che egli marcia quale alleato di Valentiniano, tamquam custos Romanae amicitiae, non vi è ragione di mettere in dubbio la sua parola, è un bugiardo, intende il contrario di ciò che dicono le sue parole. Ma se egli si dichiara amico di Valentiniano, non ne consegue affatto che sia ancora amico di Ezio. È intendimento di Attila eliminare prima Ezio, quale campione dell’Occidente e di farsi attribuire la carica di «Maestro dei soldati», per poter realizzare il suo progetto di conquista. Se il governo d’Occidente avesse riconosciuto Attila, in luogo di Ezio, quale suo campione nella Gallia, l’Unno avrebbe potuto controllare l’impero d’Occidente dall’interno. Era questo il disegno di Attila!
Di fatto, una guerra di Attila contro i Visigoti di Teodorico era incoraggiata da Genserico capo dei Vandali, stanziatisi in Africa, il quale sperava in un indebolimento di entrambi i contendenti. Quando Attila manda un messaggio di pace a Valentiniano III assicurandolo di non avere contesa alcuna coi Romani d’occidente (di Ezio egli non fa menzione), e che la sua campagna è diretta esclusivamente contro i Visigoti e, contemporaneamente, dà istruzioni a Teodorico di denunciare il trattato con la Roma d’Occidente, non può sospettare che un incidente imprevedibile scombini il suo piano: Onoria, la sorella di Valentiniano III, si offre in sposa ad Attila per diventare la regina della Gallia ma Valentiniano decide di risolvere la questione affidando la principessa alla madre, Galla Placidia; di fatto una sorta di clausura. Attila non perde l’occasione di reclamare Onoria come moglie. Il reclamo resta senza risposta. Inoltre, il 28 luglio del milleduecentodue muore Teodosio e il 25 agosto Marciano viene incoronato Imperatore d’Oriente, il quale dichiara subito la sua ostilità ai tributi che ogni anno l’Impero d’Oriente dava agli unni e sospende il pagamento annuale del tributo.
Gli eventi precipitano. Di fronte a questa mutata situazione sul Danubio, che fa Attila? Quale Impero attaccare per primo, quello d’Occidente o quello d’Oriente? Gioca su due tavoli: invia due ambascerie, una a Ravenna ed una a Costantinopoli. Il governo di Occidente viene diffidato dal fare alcun torto ad Onoria: ella è la sposa di Attila, ed egli l’avrebbe vendicata se le fosse stato torto un capello e se non avesse ricevuto metà dell’impero di Occidente quale eredità di lei. A questa pretesa, Valentiniano risponde che il governo di metà dell’impero di Occidente non appartiene affatto ad Onoria e che nell’impero romano la successione avviene per via maschile e non femminile. Dal versante d’oriente, Marciano risponde che se gli Unni minacciano una guerra l’impero d’Oriente li avrebbe fronteggiati con una forza eguale alla loro. Alla fine del milleduecentotre Attila deve decidere se scatenare una campagna contro la Roma di Oriente accettando la sfida di Marciano o invadere l’impero d’Occidente. In realtà, l’impero d’Occidente è una pergamena fradicia, non ha forze sufficienti per affrontare l’esercito di Attila. Il vero obiettivo di Attila è distruggere il regno dei Visigoti, installarsi nel cuore della Gallia e diventare, di fatto, il padrone dell’Occidente per poi sistemare la faccenda con Marciano. È così che inizia la campagna contro i Visigoti. È l’inizio della primavera del milleduecentotre quando Attila si muove dai suoi alloggiamenti in Pannonia. E qui interviene l’abilità diplomatica e strategica del generale Ezio, il quale convince i Franchi e i Sassoni ad allearsi con i Visigoti per respingere la minaccia degli Unni; inoltre, Ezio conduce con sé l’esercito dell’impero d’Occidente. La campagna ben più impervia contro i Visigoti si trasforma così in una campagna contro l’Occidente: all’ultimo momento, giungono i Franchi Ripuari a sud e i Sassoni a nord della Loira. Tutte le forze dell’occidente scendono in campo per fronteggiare gli Unni di Attila.
Il 20 giugno è la data presumibile dello scontro dei Campi Catalaunici. La grande battaglia ha inizio verso l’ora nona del giorno con un tentativo di entrambe le parti di occupare una collina che dominava il campo di battaglia. La lotta rimane indecisa. Ciascun esercito riesce ad occupare parte della collina ma la sommità non viene occupata. Gli Unni iniziano la battaglia col perdere l’intera collina. Segue, dice uno storico del tempo, un bellum atrox multiplex immane pertinax, ma nulla sappiamo circa il preciso svolgersi del combattimento. Il re goto Teodorico è tra gli uccisi, ed il corpo viene rinvenuto soltanto il giorno seguente. Infine, dopo aver combattuto anche nella notte, Attila si ritira entro il cerchio dei carriaggi che si era trascinato dietro. I contemporanei parlano, con qualche esagerazione, di 165.000 caduti in tutte e due le parti. La battaglia era stata così acerrima «che nessuno sopravvisse ad eccezione dei capi di ciascuna parte e di pochi seguaci, ma i fantasmi di quelli che erano caduti continuarono la lotta per tre giorni e tre notti intere così violentemente come se fossero stati vivi; lo strepito delle loro armi era chiaramente udibile».
Il giorno seguente, i Goti infuriati per la morte del loro re vogliono riprendere la battaglia per bloccare Attila nel suo campo di carriaggi e farlo morire di fame. È proprio quello che Ezio vuole evitare: che gli Unni vengano completamente annientati. In quel caso l’Impero d’Occidente sarebbe diventato uno stato vassallo del regno di Tolosa. Ezio pertanto suggerisce al goto Torrismodo, figlio di Teodorico, di ritornare immediatamente a Tolosa per impedire ai suoi fratelli di impadronirsi del trono in sua assenza. Torrismondo accetta e lascia il campo libero. Anche al giovane re dei Franchi Ezio fa balenare il medesimo pericolo e lo convince a ritornare in patria per evitare che suo fratello, che godeva l’appoggio degli unni, fosse nominato re dei Franchi. Anche il giovane re lascia il campo di battaglia e si ritira. Ezio, di fatto, salva Attila e il suo esercito dall’annientamento totale. Ezio pensa che Attila gli sarà grato dell’aiuto ricevuto e che potrà contare nel futuro su una nuova alleanza con il capo unno per controbilanciare la forza dei Visigoti ad ovest. Ma si inganna, è la primavera del milleduecentoquattro quanto il grande esercito di Attila valica le Alpi. Ezio è colto di sorpresa, non avrebbe mai immaginato l’attacco di Attila, ritenendo che il capo unno gli dovesse una riconoscenza per quanto fatto dal generale romano subito dopo la grande battaglia. E pensare che sarebbero bastate poche guarnigioni a presidio dei passi delle Alpi per fermare tra le nevi gli unni. Ad Ezio e a Valentiniano non rimane altro da fare che fuggire precipitosamente con le residue armate di stanza a Ravenna.
Intanto, a Roma la vita continua.
La vita continua. La grande festa nella Domus dell’anfitrione Domizio Crapulone
Sentito dire dal buffone di corte Aullo che Proculina, sua amante, andava a cena dal ricco anfitrione Domizio Crapulone, il quale offriva una festa in onore della sconfitta di Attila ai campi Catalaunici, pensai bene di unirmi al corteo di Proculina, sposa di Caridemo, che era fuori dell’Urbe per affari finanziari, per mettere sotto i denti qualche buon pollame e qualche fagiano tornito e ben umettato di aromi e libare il vino numinoso di Ercolano. Durante il tragitto si unisce al seguito uno stuolo di letterati: c’è il Dantone Maffionem, largo e panciuto come un mirmillone; c’è l’ego scriptor Sabinus Caroniorum, largo, pieghevole e stucchevole come una fetta di anguria; c'è il Francescone da Tarentum il quale si è riconvertito dai cristiani ai pagani che però va a zonzo, con lo stomaco vuoto e la barba bianca di un parabolano; questo Francescone da Tarentum è famoso per un rotolo in memoria degli alberi recisi nel cimitero di Miromagnum dai quei loffi dei cristiani perché costoro, con la speculazione edilizia, ci avevano costruito sopra la catacomba una sontuosa villa da adibire a ristoro per i fedeli, e così ci avevano speculato sopra incassando grande quantità di sesterzi; poi c’è il facondo Plinio Perillorum, il quale non è né sottile né largo ma una sorta di via di mezzo, largo sopra e stretto sotto, o qualcosa del genere. Beh, Plinio è il magno cantore delle femmine lascive dell'Urbe, non è né cristiano né pagano, né carne né pesce, tiene un suo corso di poesia alle perilline, una setta credo di poetesse che lo acclama e lo osanna; poi c'è il Marco Onorio, quello che stampa i rotoli di poesia più ricercati del pretorio, il quale ha un debole per Diana la cacciatrice, la moglie del Caroniorum, infatti vorrebbe cornificarlo, dice che quella ha la faccia di drago ed è larga come lo scudo di un legionario, e per questo lo eccita; poi c'è anche Claudio de Consoli, un traditore dei pagani venuto dalla Calabria, magro come una canna e povero in canna; dice che non mangia almeno da una settimana: dice che fa il pubblicista presso «Il Messaggero» e che è a servizio di potenti faccendieri, il bello è che lo dice, e dice di sé che nell'orbe dell'Urbe è lui il più grande peota e anche romanziere. Chi ti vedo?, c'è poi il poeta di Aquileia, Luciano Notorius, lucanus che ama il vino di Ercolano e dispregia le schiere dei peoti ostrogoti, quello che ha fondato la famosa locanda letteraria «La presenza di Erato»; c’è poi il mio fedele nano Psellio, infingardo ed ambiguo, il mio faccendiere, lo schiavo Fasullo, l'indirizzo del quale è presso il mio tugurio: ecco, costui è un malvissuto perché si concede nei riguardi del suo padrone delle licenze non propriamente castigate tali da esimermi da... lasciamo perdere... e, ritardatario, ecco l’illustre Maximum Giannottonem, famoso per aver catalogato in una pubblicazione tutti i poeti dell’Urbe con a fianco i voti di preferenza, come alle elezioni. Ed ecco che arriviamo, con il ventre vuoto come la canna d’un flauto e il borsello ancor più vuoto di sesterzi. Chi c’è chi non c’è, ci guardiamo come i sopravvissuti della battaglia di Sarmizegetusa. C’è tra i presunti invitati anche quel losco tizio di Tibullo Calabrone, quello che è stato nominato a capo dell'Agenzia delle Entrate, che di recente ha comprato il bosco del Circeo, da Baia fino a Pozzuoli e oltre e ha accumulato una grandiosa ricchezza con le speculazioni sulle granaglie, con la sua flotta privata di navi onerarie e con l’ausilio degli intrallazzi del potente ministro ombra Gennadio Avieno… Chi è Tibullo Calabrone? Ebbene, come dice il suo nome, è un calabro che ha fatto carriera all'ombra di Gennadio Avieno, ha fatto il capo di gabinetto di tutti i ministri di culto dorotei della chiesa dell'Urbe. Non c’è nell’Urbe uno soltanto, dico un letterato, che non lo conosca, se non di persona, almeno di vista, eppoi è un grande giurista in grado di citare a memoria il codice augusteo… questo Tibullo Calabrone padrone del Circeo, dicevo, viaggia sempre coi suoi guardiani privati alle costole, due poderosi e fedeli schiavi batavi alti fino al soffitto, e la sua bellissima amante, l’etrusca Polla, che appare sempre discinta e sguaiata, la quale lo ha prima cornificato con un ex gladiatore trace e poi lo ha moglificato e rimmoglito: si è fatta sposare, e adesso, per via della sua scarsa potenza virile, si consola con cotale Galletta, una signora fenicia che prescrive farmaci contro la sterilità del marito. E così Polla ha spedito il Tibullo a fare il bagno alle acque di Sinuessa, che avevano fama di guarire la sterilità; il Calabrone non aveva recuperato la virilità perduta ma aveva, in compenso, acquistato l’opposto della virilità, una preferenza, diciamo, per i gladiatori e i gaglioffi loffi. E così si erano riappacificati i coniugi dopo tanto trambusto quando il suo loffo consorte, pur non recuperando la virilità, aveva almeno recuperato il gaudio della vista e, infatti, godeva nel contemplare la sua giunonica moglie alle prese con i brutti ceffi della Suburra. E andavano d’amore e d’accordo, lui faceva il guardatore, lei la ninfomane, e poi si confessavano a vicenda il piccante delle loro rispettive agnizioni. E qui chi ti incontro? Ecco che vedo il loffo Angelo Sagnellum (o Sagnellorum), un letterato gloriosus e infans con le bisacce colme di sesterzi e due guardie del corpo, a dritta Polifemo e a manca Ursus, il primo perché aveva un occhio solo (diceva che gliel’aveva divelto un mirmillone germanico in combattimento) e l’altro perché dicevano avesse un membro di proporzioni asinine che chiunque poteva prendere in affitto chiamato Usus… E così impreco agli dèi per quell’incontro nefasto e lo saluto con un ceffone sul braccione grasso come il collo di un bove… e, chi ti vedo?, ti vedo il letterato postumo Raf Vallonium o Vallonem, non ricordo bene, stretto e mingherlino come un giavellotto e la pancia vuota come le mie tasche che reclama sempre le taumaturgiche qualità del suo membro asinino. Ecco, il Vallonem, che arriva appena sopra la cintola di Sagnellorum, gli dice che è un peota da strapazzo e che con le sue poesie ci puoi coltivare l’ortica, farne cartocci per i fichi secchi d'Egitto, mattoni per gli acquedotti e altre facezie che non sto qui a ridire... È così che un corteo variegato e colorato, rumoroso e numeroso, fitto e costipato come una coorte di pretoriani, si presenta alla Domus Aurea del faccendiere Domizio Crapulone (discendente, a suo dire, dall’imperatore Domiziano, e invece adepto, a mio avviso, della smodata crapula che lo assedia), dove viene ricevuto dal suono di una suonatrice berbera armata di armille e veli, di faretra e di flauto che accompagna il corteo e da due muscolosi schiavi mori a torace nudo che impugnano le torce accese mentre una odalisca sottile come una sogliola avvolta in diafani veli ci guida, ondeggiando al suono della tuba, verso il centro della reggia che era una rotonda circondata da bianche colonne in candido marmo al centro della quale campeggiava una barca a forma di fontana dalla quale zampillava, invece che l’acqua, udite, del vino rosso cupo come il sangue di un gladiatore, e dal soffitto una apertura aggettava direttamente sul cielo azzurro… Non saprei qui ridire quante leccornie fossero adagiate sulle tavole e quante brocche d’argento stracolme di vino sui vassoi d’argento istoriato, c’erano pesci giganteschi cotti tutt’interi, avvolti in spezie ed unguenti saporiferi, c’erano triglie e merluzzi squamosi con le scaglie colorate ad arte, polipi lessi dai lunghissimi tentacoli, interi capretti con il ventre rigonfio di cibarie e di intrugli, morbidissimi fagiani cotti arrosto con spezie e aromi innumerevoli e uccellini abbronzati e infornati, piccoli e croccanti come bocconcini, e dappertutto esilissimi efebi seminudi con i piccoli glutei scoperti che riempivano crateri di vino ai commensali e musiche di cetre e zufoli si intrecciavano con il fumo di incensi siriani ed egizi… e, in fondo, su un alto piedistallo, c’era il triclinio regale addobbato di stoffe preziose e variegate e morbidi cuscini, e su di esso ponzava con tutto il suo ventre rotondo l’invertito Domizio Crapulone, il ricchissimo padrone di casa, circondato da guardie del corpo armate di gladio con il villoso torace e i pettorali bene in vista... quello mi affibbia subito il compito di leggere i suoi insulsi versicoli, al che io spaventatissimo gli rispondo: «Mi si secchi la lingua se, Crapulone, non voglio star con te giorni e notti quanti ce n’è. Ma ci separano due volte mille passi: quattromila, col ritorno. E tu, spesso, non ci sei; in processi, in baldorie immerso sei.
Fare duemila passi per vederti mi è lieve; quattromila per non vederti, No.…». E chi ti incontro nel bel mezzo del frastuono? Nientemeno che la tonitruante Ogulnia, la vedova dell’anziano console Pomponio Porfirione, il quale non è caduto nella zuffa dei campi Catalaunici ma nel letto della sua amata consorte, la quale ora è povera in canna e prende in affitto la veste, prende in affitto la scorta, la portantina, il guanciale, le amiche leggiadre, la nutrice e una biondina procace e sguaiata cui affida le commissioni (e che commissioni!). Lei stessa poi usa far dono ai levigati atleti che invita alle sue feste di tutto quel che resta dell’argenteria del marito e degli ultimi avanzi del vasellame. Ma, insomma, la tonitruante Ogulnia ormai ha terminato il lutto ed ora è giusto che ritorni alla vita di società, solo che ha un debole, e che debole!, non per gli anziani amanti ma per i corpicini depilati degli efebi virili con i quali ama intrattenersi in separata sede e stigmatizza le virtù delle matrone cristiane le quali non sanno quello che si perdono, dice la meretrice! – Dico io ad Ogulnia: «Oh, carissima, profumatissima Ogulnia!, da quando è stato sconfitto Annibale nella battaglia di Zama non vedevo nell’Urbe una festa degna del nostro imperatore e finalmente sei venuta tu a rallegrarci la vista con le tue splendide tuniche rabescate e ricamate… Non c’è dubbio alcuno, cara Ogulnia meretrix, che noi tutti subiamo i danni e gli ostracismi di una guerra troppo lunga e commendevole… e, più crudele di una guerra, c’è solo il lusso il quale è piombato su di noi e si vendica di noi che abbiamo sottomesso il mondo intero, tenendoci per la gola per i nostri vizi e per i nostri eccessi…». «Non c’è un solo delitto o misfatto - aggiunge il nano Psellio - che non sia dettato dalla libidine e dalla lussuria dacché è svanita la virilità della romana respublica… Per primo - continua l’oratore - è stato l’osceno danaro che ha introdotto i costumi stranieri e le molli ricchezze dell’oriente ed infine l’ozio che ha fiaccato le giovani generazioni con un lusso sfrenato e smodato». «Di che mai si fa scrupolo la libidine esaltata dall’ebbrezza? – lo interrompe Ogulnia - oggi non conosce più la differenza tra l’inguine e la bocca colei che, a metà della notte, prende a morsi ostriche enormi e falli in erezione dicendo che non c’è alcuna differenza tra le ostriche e i glandi…». «È una questione di gusti, una quaestio di bocche e di punti di vista», aggiunge quella spintria del parrucchiere Antioco che aveva fatto una montagna di sesterzi specializzandosi nelle acconciature femminili a forma di torre a gradini. «È una questione di poetica peotica», interloquisce il celebre letterato Dantone Maffionem, quello che la pubblicato la recentissima La biblioteca d’Alessandria, dove ha ripercorso l’incendio che devastò la grande biblioteca, e poi quell'opera gigantesca di settecento rotoli intitolata Io, poema totale della dissolvenza, dove ci sta il peota che, come Attilio Regolo, dentro una botte chiodata rotola giù per il pendio di una montagna fino a diventare una frittata di farro con cipolle. Questo Dantone Maffionem sa a memoria l’Iliade e l’Odissea e l’Eneide del sommo Virgilio e si perita di essere il campione della poesia tra il Tevere e il Garigliano, e anche a sud del Garigliano… «È anche una questione politica!», grida un mezzo giovinotto che non conoscevo. «Chi è costui?», chiedo al nano Psellio, il quale è notoriamente informato delle questioni letterarie dell’Urbe. «È quel tizio che ha pubblicato quella strana parabola del libertinaggio delle parole in libertà che si intitola Psicofantasmoni, o qualcosa del genere…»; «Uh, uh, dico io, ma quello è uno dei peoti della schiera degli antineoteroi…». «Dovrebbero essere fustigati a sangue questi scellerati!», grida Maximum Giannottonem. «È pericoloso come un terremoto», mi dice Plinio Perillorum, il quale notoriamente intratteneva buoni rapporti con tutte le fratrie letterarie, anche con la fratria che stava oltre le colonne d'Ercole; «ma bisogna fare buon viso a cattivo gioco», mi dice il Perillorum, «già il nome tonitruante incute rispetto e onore…». «E chi sarà mai costui?», ribatto io in preda ai miei fantasmi. «Ma è quello che si fa chiamare con quel nome altisonante: Faraòn Meteosès!». «Oh, per Diana cacciatrice!», grido io in preda al panico. «Questi poeti nuovi sono come le scarpe nuove, belle a vedersi e a portarsi, ma non sai mai se quando le calzerai ti faranno male!», dice Plinio Perillorum al quale non difettava la prudenza. «Sono più pericolosi i poeti dell’ultima generazione, sono degli screanzati, degli scellerati, non hanno riguardo per nessuno!», grida senza remore Maximum Giannottonem, autore della trilogia sul Ciclo della crudelitatem, dove parla di un invincibile gladiatore che mena botte erga omnes. Ora, il fatto è che Giannottone voleva intrattenere buoni rapporti con i peoti del Palazzo e con i logografi dell’Urbe: Valerio Magrellonem, Elio Pequorum e Pomponio Ferronem, con i quali aveva perso ingenti quantità di sesterzi al gioco dei dadi, ma quelli non lo consideravano più di tanto ritenendo il credito al gioco un diritto inalienabile; ora, questo Elio Pequorum aveva redatto, per i posteri, una biografia sul grande poeta Sandro Stilum e ne aveva tratto vantaggio dinanzi ai cittadini dell'Urbe in quanto lo aveva magnificato e adulato come il maggior poeta dell’età di Valentiniano I, e poi aveva anche profuso gran copia di atramentum per eternare le gesta del generale Ezio ai Campi Catalaunici e un intero calamus di inchiostro per il decennale della pubblicazione di un rotolo andato poi disperso del poeta di Mediolanum, Fabricius Cuccorum… in breve, il Pequorum aveva tessuto molteplici relazionem con la corte della Sapientia, con tale Blanca Fra Bottam e con un certo cortigiano che colà intratteneva le muse… ma, chi ti vedo? Ecco che fa ingresso, vestito con il laticlavio di porpora, il grande critico della Sapientia, Pomponio Ferronem, seguito dal peota Dario Damianorum, ecco, il Ferronem aveva pubblicato un rotolo nel quale sosteneva che non solo la nostra età è «postuma» ma che tutte le età sono state «postume» senza saperlo, a cominciare dall’età del poeta Ezio passando a quella di Virgilio dell’età augustea fino ai giorni nostri… «Ma se le età non lo sanno di essere “postume” come fa il Ferronem a saperlo? Come fa costui, che è un contemporaneo, a dichiarare "postuma" la propria epoca?», questo mi chiede, senza alcun riguardo per il mio tedio, il nano Psellio… «Ma è lui, ignorantissimo Psellio, grido io fuori dei gangheri, che dichiara “postume” le età, tutte le età!» … E qui chi ti vedo? Ti vedo il grande, il gigantesco poeta di «Poiesis»: Lucanus Pedatorium, nemico giurato dei neoteroi dell’Urbe e di Mediolanum, autodichiaratosi esponente di spicco degli antineoteroi, temutissimo per via dei suoi sproloqui letterari e per via delle sue pitture sulle pareti che rappresentavano ninfette ignude inseguite e incornate da famelici satiri… io grido ai quattro venti: «è lui il più grande peota lucano e non Vitus Rivellorum che ha la pancia piena di vento e di leccornie sbafate alle mense di Trimalcione!». In verità, il Pedatorium e il Rivellorum erano stati un tempo compagni di liceo, tuttavia Rivellorum lo aveva sempre invidiato e cornificato e così andava in giro a dire che la poesia di Borges dedicata alla pittura del Pedatorium, era stata scritta da lui medesmo con l’ausilio solerte dell’arte poetica di Vitus, e poi «che il Pedatorium continuasse a dipingere le pareti delle ville di Ercolano e di Cumae e non si dedicasse all’arte poetica che era un vanto esclusivo dei veri letterati!...», e via di questo passo… E qui chi ti vedo intenta ad inghiottire un gambero rosso ancora vivo tutto intero? Ma è quella poetessa di Baia che ha cambiato nome, che da pagana si chiamava Plautilla, e poi si era convertita a Gesù ed aveva cambiato nome in Assuntinam Finisguerram perché voleva impomatare l’anziano peota Pampallonam, il quale professava le cristiane virtù della castità e della santità, e così si era fatta intestare due appartamenti all’Aventino più un conto di sesterzi in contanti e poi aveva messo gli occhi su un anziano peota pagano, un ferroniano di ferro, un tale Enobarbo Cacciatorem, e gli aveva fatto tirare le cuoia non prima di averlo stuprato, ripudiato il cristianesimo e abbracciato la vecchia fede pagana, e così aveva ripreso l’antico nome di Plautilla… e qui erano usciti fuori altri due appartamenti al Palatino con relativo conto corrente in sesterzi… Insomma, siamo immersi in questi frangenti letterari quando viene dato l’annuncio della grande vittoria contro le armate dell’Unno con una ovazione, venti squilli di tromba e venti tamburi rullanti e fa ingresso una giunonica fanciulla ignuda distesa su una portantina issata sulle spalle da quattro ciclopici africani con le brache attorcigliate sull’inguine: è la personificazione della bizzosa Fortuna che governa gli eventi degli uomini! È la dea Fortuna che presiede anche ogni convito e ogni libagione… ed ecco che il padrone di casa, il grasso Domizio Crapulone, dà la stura all’invocazione degli dèi all’inizio della cena e al sacrificio ai Lari della casa… ed ecco che il padrone di casa apre lo sportello di un armadio istoriato nel quale c’è una scatolina d’oro massiccio con dentro una cosa preziosissima, dice Domizio, i peli della barba di quando, adolescente, è entrato nell’età adulta!... ed ecco che, portati su grandi vassoi d’argento, vengono introdotti, ma che dico, dieci, venti, cento animali con le corna e senza corna, ci sono lepri con la testa di cinghiale e cinghiali con la testa di lepre, animali con le gambe di odalische e senza gambe, cervi arrostiti, monumentali cinghiali cotti a pezzi e poi riassemblati, carne di pollame rimodellata a guisa di elefante, spaventosi coccodrilli infarciti di gustosissima cibagione di carne arrostita e profumata e, dappertutto, spandevano odori di spezie ed effluvi di salse piccanti e saporose… siamo accinti in questo miraggio bacchico quando un acutissimo squillo di tromba dà notizia dell’ingresso del celebre discobolo color oliva oscura: «Ecco a voi illustri convitati - dice un banditore - il discobolo più acclamato di Sibari, di Rodi e di Mileto, adorno di corone di lauro e di foglie di edera dipinta…». E già spumeggiano i profumi ed il miele riversati a profusione nel Falerno e noi si beve dai vasi a guisa di conchiglia e di corno quando ormai per via del capogiro il soffitto se ne va a spasso per conto suo e la tavola si solleva mentre le lucerne si raddoppiano di numero e l’ampia reggia sembra risplendere di luci e di rumori e di strida…
Siamo già nel mezzo del rumoroso convito quando viene introdotto dallo squillo di tredici stridule trombe l’ingresso del discobolo…
L'africano Adraste ha cinque orecchini e, al suo passo sontuoso, tutti insieme tintinnano scintillando sul suo collo d’ebano…
Cinque rubini ardenti oscillano ai lobi delle orecchie e cinque betulle altere sono la sua spina dorsale. Altera, eretta. I profumi di Siria respirano sulle sue spalle… i pettorali, il dorso e l’inguine del negro sono nudi e depilati ed il passo imperioso della danza fa sussultare i genitali che oscenamente sbattono sulle cosce scolpite da Fidia in persona..
Adraste ha cinque orecchini per lobo appesi a un filo sottile d’argento e, tutti insieme, tintinnano, il capo muovendo… Vedo Ogulnia con i lombi eccitati che, al suono del flauto, presa dal dio Bacco, avvicina le mani verso l’inguine del discobolo come per afferrargli lo scettro ma quello, con una piroetta, si libera e vola via leggero come una farfalla sottile… sono tutto preso dal nero discobolo quando incrocio quell’invertito del tribuno Gabirio, quello che impazziva dietro l’efebo Protalo, e gli grido: «tribuno Gabirio, non impazzire dietro quel moccioso di Protalo che vesti di seta e profumi egizi e corni di mulsum ingozza e vende il proprio corpo per pochi assi… soltanto il morso della lussuria, l’invidia, l’ebbrezza, la passione conosce e lo sterco dell’esilio dall’esistenza… ha ancora i fianchi di Artemide, il petto di Marte e le natiche di Venere callipigia ma il viso butterato ostenta il sordido vizio della sodomia (!?)…
Attendi, dunque, Gabirio con pazienza, che scenda il prezzo dei suoi sordidi piaceri e, lo prometto, il moccioso Protalo sarà tuo, finalmente!». Ho appena terminato questa esternazione quando… chi ti incontro?, incontro l’efebo Protalo in persona, al che gli dico: «dieci sordidi assi Protalo per una notte d’amore con quel fellone di un cristiano impotente, quel tal Settimio Postumo, che ansima e geme e si batte il petto per il tuo corpo eburneo e poi si pente e dice che è peccato e si straccia le vesti e grida e chiede perdono all’altissimo…», ed è proprio Postumo che incrocio adagiato sul triclinium a fagocitare tordi e fagiani come se fossero passerotti, al che gli dico: «Oh, Postumo Settimio, per il vero, io non ho mai capito chi tu preferisca se una donna bella e casta e fedele come docet la religio che professi o un moccioso efebo virile come Protalo, il quale non gode certo della protezione del tuo dio cristiano…». «Il fatto - mi risponde Postumo - è accaduto per colpa vostra di voi pagani, perché bisogna partire dai vostri dèi falsi e bugiardi... ohibò, ovvero, dal fatto che sono stati loro a inventare il matrimonio e mostrarlo agli umani: sto parlando di Zeus ed Era, che per primi hanno formato una coppia!». Al che gli risponde, in mia vece, il nano Psellio dicendogli «che il vantaggio di una unione saltuaria con il virile Protalo ha il beneficio che non c’è bisogno di ricorrere al divorzio che invece una donna che resta immacolata richiederebbe senza indugio…»; io poi, mi affretto ad aggiungere con serietà: «inoltre, il virile Protalo ha anche il vantaggio di non rimanere in cinto e di poter svolgere indifferentemente i due ruoli del maschio e della femmina!...». Insomma, il bello è che nella nostra amata Urbe ognuno fa quello che più gli piace: sia Gabirio che Protalo, sia Domizio Crapulone che Settimio Postumo, sia il Valerio Magrellone che Maximum Giannottonem, sia Dantone Maffionem che Plinio Perillorum, Marco Onorio che Sabinus Caroniorum tutti quanti fanno e disfanno quello che a loro piace, è questo il bello della nostra Urbe, ogni cosa convive con il suo contrario, tutti avverso tutti, e ciò che è diverso va insieme a ciò che è distinto… c’è chi la chiama confusione questa cosa, chi la chiama caos, chi non la chiama affatto e dice che è un prodotto della democrazia dell’Urbe… Insomma, in fin dei conti, questa è la nostra condizione. Io, per il vero, non stacco gli occhi dalla bizzosa Fortuna callipigia quando ecco che un rumore spaventoso come di tuoni, come di tempesta che si avvicina, giunge alle nostre orecchie, talché io chiedo a Marco Onorio quale sia l’origine di quel cataclisma ma quello mi risponde che a suo avviso è un rumore di carrucole e di catapulte e di tamburi come per l’assedio dei Goti di Alarico quando sfondarono le porte dell’Urbe, io replico che quel fracasso è insopportabile anche per le orecchie di un console illetterato! E così me la do a gambe nel tentativo di salvare almeno le mie trombe di Eustachio… ma non faccio a tempo a dileguarmi che, all’improvviso, in alto, sopra i nostri nasi, compaiono delle cose sospese che somigliano a delle nuvole nere, come cariche di pioggia… «Oh, per Giove pluvio questo pazzo padrone di casa non ci vorrà inzuppare fino al midollo di acqua piovana!», faccio appena in tempo a parlare che ecco che le nuvole si aprono e viene giù una pioggia fitta e sottile… «Ma è una pioggia dorata e d’argento!», gridiamo tutti in coro. Sono sesterzi che cadono dal cielo e dalle nuvole! Tanti sesterzi come mai ne ho visti in vita mia, così, tutti insieme e nuovi di conio!...E allora è tutto un fuggi fuggi e un acchiappa acchiappa, e vedo il Marco Onorio che sgambetta il Plinio Perillorum, il Dantone Maffionem, il Lucanus Pedatorium, il da Tarentum che si pongono carponi e cercano di arraffare quel ben di Giove pluvio! E ci vedo anche il Faraòn Mateosès che si striscia sul pavimento ad acchiappare quello che può, e Raf Vallone, e vedo le natiche quadrate dell’ego scriptor Sabinus Caroniorum che si è posto prono a raccogliere i sesterzi finiti sotto il triclinium… ed anche il critico-filosofo «postumo» Pomponio Ferrone… È un vero giubilo generale quello che si alza al cielo! Una ovazione di giubilo prende il posto dei lai di scorno e di sbigottimento…
«È stata una grande festa!», dico a Marco Onorio, arraffando quello che posso.
«È stata una grande festa», dice Plinio Perillorum, che ha già arraffato abbastanza.
«Davvero, è stata una grande festa», ammette Sabinus Caroniorum con le tasche piene di sonanti sesterzi mentre Luciano Notorius gli fa le corna.
*
Per il vero, narro un antefatto: la sera precedente, sul far delle tenebre, alla fioca luce delle torce, chi ti incontro che gira per la Suburra? Incontro l’efebo Protalo in persona, davanti a una fetida locanda, che sta a cavallo di una sedia con indosso una sottilissima e trasparente tunica sotto la quale si intravedeva il magnifico corpo flessuoso. Mi chiedo, che cosa sta facendo Protalo? Sta mettendo in vendita il suo corpo, i suoi sordidi approcci con clienti facoltosi, il gioco dei dadi con i ceffi della Suburra?… e gli faccio pure una lavata di testa: «Hai vent’anni, Protalo - gli dico - ancora dieci anni di questa turpe esistenza e la tua suprema bellezza ti abbandonerà… e, con il volto coperto di rughe, batterai la Suburra in lungo e in largo per uno due assi, le unghie dipinte, il belletto sul viso, dimenando le natiche come una femmina fera o una spintria… poi qualche altro anno ancora, per un soldo, un piatto di ceci, un piatto di farro con l’erba cipollina…».
La reprimenda ebbe un risultato sicuro, quello di far scomparire per un po’ Protalo dalla mia vista perché, diceva che il poeta Gheorgopoulos era uno iettatore, tal che Protalo ogni qual volta mi incrociava fuggiva a gambe levate…
Comunque, per tornare alle vicende del convito, io pensai bene di satollare lo stomaco tra le cibarie incurante delle odalische e delle danzatrici che si esibivano ondeggiando i corpi sinuosi… e qui mi viene un’idea, lì per lì, penso di indirizzare al munifico padrone di casa un ditirambo del poeta Gheorgopoulos, ma non prima di essermi accertato che i commensali non fossero completamente presi dalle nebbie di Bacco e resi ottusi dalla grande quantità di cibarie ingurgitata.
E questa è la filippica che rivolgo al padrone di casa Domizio Crapulone non prima di essermi assicurato che costui ponzava ebbro e beato in mezzo ai suoi muscolosi guardiani:
«Oh, tu Domizio Crapulone che col monopolio di fichi secchi, di datteri, di ostriche e della flotta tirrenica hai accumulato smisurate ricchezze e con gran pompa, con sonanti sesterzi, vai setacciando i mercati dell’Anatolia, circondato da sguatteri, servi e buffoni, instancabile, coricato supino sulla lettiga portata sulle spalle da possenti schiavi mori, e mercanteggi, Domizio, con le dita e le braccia impastoiate di gioielli e anelli, come una sordida spintria, il prezzo di poderosi schiavi mori, alla ricerca di soavi voluttà che mai ti sazieranno, che la tua vecchia carcassa mai potrà godere…
Guardati, Domizio: hai il ventre rigonfio come un otre colmo di vento avvolto in oli profumati ripieno di cibi sottili e vini numinosi…
E corri in lungo e in largo le pianure della Cilicia, le città dell’Illiria e le piramidi d’Egitto e vai setacciando ogni mercato, ogni rione alla ricerca di schiavi muscolosi… sei spregevole e infausto! I giovinetti più belli d’oriente e gli efebi più imberbi potrai comprare, come un’anfora o un cratere scolpito o una veste rabescata e ricamata dalle donne dell’oasi ma mai potrai avere del mio Apollo il piacere ché nasconderlo nel deserto dei Parti o sgozzarlo con la mia daga preferirei…».
Non saprei ridire se il ditirambo fosse stato accolto con ostilità o con indifferenza, sarei più propenso per questa seconda ipotesi per via del gran frastuono di suoni e di peti dei convitati i quali continuarono fino al mattino le abluzioni del nettare degli dèi, il vino di Ercolano e di Paestum, poiché le cibarie venivano continuamente rinnovellate da portentosi schiavi mori e negri che portavano su alti vassoi sempre nuovi inverosimili animali cotti ed addobbati in strane guise da renderli irriconoscibili, tal che quello che era un capretto diventava un elefante e il dolce agnellino veniva servito come un coccodrillo…
«È una grande festa», mi dice il fiuta peti Sabino Caroniorum, il quale sapeva distinguere il peto di un vescovo da quello di un liberto.
«È una grande festa», mi dice Psellio con sembianza di adulto.
«È una grande festa», dico al retore Ligurino assai noto per la sua professione di filosofo.
«È una grande festa ma non c’è festa degna di questo nome che non venga tramandata ai posteri», aggiunge quello più intento a manducare che a ciarlare.
Allora io dico: «E che bisogna fare per rendere onore alla festa del magnanimo Domizio?»
«Bisogna discutere su un tema di filosofia – interloquisce Ligurino – che rimanga negli annali della filosofia!».
«Ben detto!», esclamo eccitato e impaurito dalla tracotanza del filosofo.
E così quello tira fuori il seguente indovinello: qual è il segno distintivo di un professore di filosofia?
«Oh, bella, la sua dottrina!», dico io che ostento sorpresa per quella ingenua domanda.
«Niente affatto», risponde Ligurino il quale esterna contrarietà per la mia risposta nel mentre che numerosi convitati si facevano dappresso per partecipare al dibattito.
«E da che cosa si deduce la dottrina di un filosofo?», insinua Ligurino, visibilmente eccitato.
A quel punto io gli dico che la domanda non è una domanda ma un inganno di sofisti a buon mercato. Al che Ligurino mi risponde che sono un illetterato e un cafone. È così che, offuscato dal vino di Ercolano, prendo per il collo Ligurino e gli dico che lui è una papera che non sa fare altro che starnazzare… Al che mi interrompe Marco Onorio il quale introduce una variante alla questione iniziale: occorre decidere se un eunuco possa aspirare a una cattedra di filosofia e occupare una posizione pubblica tanto rilevante. La questione pare a tutti degna della massima attenzione. E qui interviene il poeta Elio Pequorum, quello che ha scritto il peggior libro dell’anno con il titolo altisonante di La simmetria dell’Ego scriptor, il quale afferma che un filosofo degno di questo nome deve avere anche un aspetto esteriore consono alla sua professione e, soprattutto, la barba lunga e fluente…
«Oppure, la sua faccia da lumacone culattone!», esclama quello screanzato del nano Psellio.
«Stai zitto tu!», grida il critico Pomponio Ferrone dandogli anche una pedata sulle natiche.
«Quanto deve essere lunga questa barba?», chiedo gentilmente in preda al panico ma con un volto compunto.
«Ma è ovvio - risponde Elio Pequorum - tanto lunga almeno da incutere il necessario rispetto agli studenti e al volgo!». E qui, per fortuna gli viene incontro il suo sodale, il critico più astioso dello stivale, Paolo Febbronem, il quale comincia con l’innalzare alti lai di lode per il libro del suo sodale sostenendo che tutto l’universo è un concerto di «dissimmetrie» e che la poesia è, in soldoni, nient’altro che un corpo di «dissimmetrie»… e che, insomma, il libro più bello del secolo è senza dubbio quello del suo amico e sodale Elio Pequorum il quale ha scoperto nientemeno che la legge delle «dissimmetrie»… «Ma non lo aveva già detto Pitagora mille anni fa?», lo interrompe Giannottone, che ha sempre il vizio di dire il contrario di quello che dovrebbe dire (e di quello che pensa), io però non lo ascolto più perché quando mi avvedo che il più critico dei critici, Paolo Febbronem si approssima, cedo subito terreno ed infilzo un fagianino dolce e croccante come un tordo… E chi ti incontro intento ad inforcare un pollo arrosto? Incontro nientemeno che il peota che viene dalla Sinagoga, Valerio Magrellonem intento a manducare dei morbidi passerotti e il critico «postumo» Pomponio Ferrone il quale, con grande arguzia, squittisce di goduria per i fagianini inghiottiti dinanzi al Magrellonem e poi interloquisce che se i filosofi dovessero essere giudicati dalla lunghezza della loro barba, sarebbe il caprone a vantare più diritti sul posto vacante! Al che il Magrellonem replica che il filosofo Ferrone dovrebbe essere giudicato per la sottigliezza delle sue bighe mentali per via della sua tesi sul carattere postumo della letteratura!, al che controbatte il Ferronem dicendo al peota Magrellonem che: «Parli tu che hai casa all’Esquilino, hai casa all’Aventino (Colle di Diana) e nel vico dei patrizi un tetto è tuo. Da un lato guardi il santuario di Cibele, la vedova; dall’altro quello di Vesta; di qua il nuovo Tempio di Giove. Dove ti posso trovare? Dove ti debbo cercare? Magrellone! Chi è dappertutto è un senza tetto!».
Ed io, citando Marziale, dico ex abrupto al poeta Magrellone: «Ah, di tutti gli esseri solo il caprone è ragionevole, si tiene infatti la sua barba, evitando così il filosofo Pomponio Ferrone!…». Detto e fatto e me la do a gambe levate prima che quel gran cornuto mi raggiunga.
«È una grande festa questa del grandissimo Domizio Crapulone», dice Valerio Magrellonem il quale, come è noto, amava secernere le parole come sabbia dalla clessidra. «Domizio avrebbe tutto da perdere da un’eventuale vittoria di Attila», argomenta quel sofista di Paolo Febbronem «in beneficio del quale avrebbe dovuto versare gran copia di sesterzi per il tributo!». Ora, il Febbronem argomentava in cuor suo che l’arrivo di Attila facesse piazza pulita dei suoi nemici e di quelli di Elio Pequorum e, in specie, che gli facesse fuori Valerio Magrellone… il quale ultimo, invece, stava meditando di allearsi con le orde dell’Unno per annientare le falangi letterarie del Febbronem, uno le cui arie erano più alte del Faro di Alessandria. Insomma, in città non si parla d’altro che di Attila e ciascuno lo aspetta perché spera di portarlo dalla propria parte contro la parte avversa… ma così vanno le cose di questo fradicio impero. Il Febbronem che aspetta che Attila gli spiani la strada alla sua salita al Campidoglio, chi come Magrellone, che ha fregato tutti al gioco dei dadi, che aspetta Attila e gli unni per turlupinare loro qualche sesterzio, Pomponio Ferrone che aspetta Attila alla Sapientia per conferirgli la corona di lauro… Adesso che si è instaurata una lotta senza quartiere tra Magrellone e il Febbronem, fatta a colpi di stroncature del secondo sul primo e di silenzi del laureato Magrellone, io e i miei sodali ci chiediamo: chi vincerà tra i due? È questa la grandezza dell’Urbe, che Mediolanum se la può soltanto sognare con i suoi poeti tristi e incimurriti!… Tutto ciò è l’Urbe, che resiste anche al longobardo Francorum Buffonem, un noto infiltrato nelle schiere dei finti cristiani dell’Urbe! Tutto ciò è l’Urbe, che però resiste con tutte le sue forze e non vuole tramontare, non vuole perire sotto il segno del «nuovo»… e se poi il «nuovo» è questo che abbiamo sotto gli occhi, con questa moltitudine di postulanti: letterati e filosofi rammolliti… e quegli altri, i cosiddetti cristiani, che inneggiano al loro «figlio di dio», una razza di invertebrati che adorano il loro dio unico e che inneggiano alla castità e alla verginità di Maria, la madre di quel Gesù… se il «nuovo» è questo, beh, allora penso che bisogna attaccarsi alla prima coppa di vino a guisa di conchiglia che ti capita e bere, bere il rosso vino di Tusculum e di Ardea, attaccarsi al carro di quel che resta dell’impero e fare di tutto per impedire che affondi prima che tutto affondi e salvare il salvabile prima che sia troppo tardi e il salvabile non lo salvi nessuno…
Era già mattino ed eravamo tutti ebbri e satolli come otri pieni di vento quando: chi ti incontro? Ti incontro nientemeno che il bellissimo Bupalo. Al che gli dico: «Gheorgopoulos ha sudato sette clamidi per un tuo bacio, Bupalo. Per strapparti la tunica poi ci vorrebbe Marte in assetto di guerra. Per Diana cacciatrice! Ci vorrebbero le frecce della sua faretra per convincerti ad arrenderti alle mie brame! Guarda Bupalo! Per il tuo visetto dipinto con gli smalti egizi, il poeta Gheorgopoulos maneggia un piccolo pugnale minacciando il suicidio e corre per tutto il Palatino declamando le sue oscene poesie!».
Al che, interviene a guastare la mia ipotiposi quello screanzato di Psellio il quale dice: «ti prego, Bupalo, accontenta, in qualche modo, questo sordido poetastro di Gheorgopoulos e toglicelo da davanti agli occhi, altrimenti ci ammazzerà tutti quanti con i suoi alti lai di scorno e i suoi alitacci di pessimo vino della Sabina!». Neanche a dirlo che il leggendario Bupalo mi affibbia un risolino di scherno e se ne va in compagnia di un robusto bifolco… ed io, preso dallo sgomento e dalla mestizia, innalzo alti lai di scorno avverso l’intempestiva filippica di Psellio e alti lai di giubilo per il padrone di casa… che apostrofo con questa apologia con tutto il fiato che ho in gola:
«Anche oggi, illustri convitati a questo sontuoso banchetto, il grasso Domizio Crapulone si è macchiato d’un infame delitto. Quale delitto? Presto detto: ha posposto le grazie dell’androgino Bupalo ai piaceri del ventre ed ha goduto dell’ambrosia del nero vino di Falerno e della cicciagione piccante… ma delle spezie di Afrodite di Bupalo, l’androgino, proprio nulla.
Questo – dico – è troppo per le mie vili orecchie e, con il vostro consenso, propongo di sottoporre l’imputato all’interrogatorio della docimasia, affinché vuoti il sacco, la spintria, e nulla nasconda delle sue storture e delle sue inqualificabili bisbocce…
E confessi finalmente la ragione, se ragione v’è, della sua infausta scelta. E, qualora un decreto della plebe lo scagioni, noi lo accuseremo di eisangelia… dopodichè il processo seguirà il suo corso…
E, quand’anche l’accusato venga prosciolto, noi proporremo, ci si consenta l’audacia, la messa al bando, l’atimia dalla città per l’invertito Domizio!
E così, finalmente, una volta per tutte, ci libereremo di costui e delle insulse filippiche poetiche con le quali ci guasta le trombe di Eustachio!
Così, rivolgerà le sue immonde filippiche all’imperatore di turno e lo pregherà di affidargli una provincia dell’impero, anche lontana, purché ricca di giovinetti mori affinché possa spolparla come un osso buco e pelarla come un pomodoro e svuotarla come un uovo di gallina…».
Dopo questa illustre ipotiposi le stelle sono tramontate da un pezzo e la luna se ne va a zonzo nel cielo alto. Ebbri e satolli, usciamo, io, Marco Onorio, il nano Psellio e lo schiavo Fasullo, dalla reggia di Domizio Crapulone mentre il sole comincia a sfolgorare.
Al poeta vanesio Valentinorum Zeichenem
Ero alle terme del dominus Gaio, ponzavo nel calidarium ed ero appena sortito nel frigidarium e stavo per prendermi un raffreddore, quando incrocio il famoso letterato Valentinorum Zeichenem, quello che viene da Flumen, sulle coste dell’Illiria, quello che rifà il verso alle poesie di Catullo e di Marziale dicendo che lui è il legittimo erede di quei grandi latini e vive, dicono, in una capanna sotto il ponte del Tevere, sulla via Flaminia. Cosa fatta capo ha, costui sciorina i suoi orridi versicoli con il faccione tutto impomatato e bisticciato con del rubisso sulle gote e un grembiale che gli pende attorno ai fianchi prominenti, talché un cospicuo volume della sua morbida trippa ne fuoriesce. Ebbene, senza il minimo riguardo per i timpani dei presenti e senza preamboli, che ti fa lo Zeichenem? Sciorina davanti a noi, superstiti della battaglia di Canne, i suoi orridi e noiosissimi versicoli che trattano del suo uccello floscio che sta dentro le brache e della battaglia delle Falkland, che lui asserisce esser stata combattuta dalla flotta romana contro i corsari della Numidia, e ciò senza reticenza o riverenza o timore alcuno per le gravi lacune e inesattezze storiche, perché non è vero, non è stata combattuta nessuna battaglia dalla flotta romana alle Falkland, né contro i corsari né contro i cartaginesi, tantomeno contro i numidi, sono tutte invenzioni del peota di Flumen il quale ha nientemeno che l’ardire di pavoneggiarsi a poeta dell’Urbe mentre invece è un burino dell’Illiria che è venuto nell’Urbe alla ricerca della dea Fortuna!… Inorridito dalle esternazioni del peota di Flumen me la do a gambe per tutto il frigidarium e, che ti vedo? Sui battenti della porta delle terme erano affisse due tavolette, una delle quali, se ben ricordo, diceva: «L’antivigilia e la vigilia delle calende di gennaio, il nostro Gaio (il padrone delle terme) pranza fuori», e poi «L’antivigilia e la vigilia delle calende di tutti i mesi il nostro Gaio cena dentro»; sull’altra tavoletta, invece, erano dipinti il corso della luna e le immagini dei sette pianeti e con una borchia di diverso colore i giorni fasti e nefasti… tal che io già avverto il torcicollo e il mal di stomaco per i forchettoni poetici dell’illustre ospite che dovrò tollerare e non mi so trattenere dallo scorno. In un impeto di disdoro e di tedio, così lo apostrofo nel bel mezzo della folla delle terme:
«Valentinorum Zeichenem, poeta saccente e vanesio, i tuoi versicoli ho ascoltato trepidando di tedio e di disdoro mentre durante il bagno declamavi le tue impomatate rimerie!
Rendimi, di grazia, i lacci dei miei sandali, così potrò strozzarti per avermi costretto a sorbire fino in fondo il calice dei tuoi insulsi versicoli…
Così potrò gloriarti per la tua lungimirante magnanimità e la tua facondia dinanzi ai posteri e lodarti per il tuo fiato avvinazzato e la bocca ricolma di carni di fagiano e di lamprede arrostite guarnite con il rosso vino di Ercolano!
Come un pederasta mi hai ammazzato tra un alitaccio e un verso insulso, ché la tua dabbenaggine è pari soltanto alla imperizia con cui sciorini versi liquorosi e saccenti!».
Detto fatto. Mi sono lasciato andare al primo impulso. Ho appena terminato la declamazione che mi rendo subito conto di aver così perduto per sempre l’accesso alla munifica mensa degli anfitrioni del letterato Valentinorum Zeichenem, talché ho tentato di attenuare le conseguenze della mia nefasta tirata dicendo che quella era una frecciata retorica nel solco degli epigrammi di Marziale e delle declamaziones di Giovenale, e arrivo perfino a dire che la filippica intendeva, per il vero, plaudere e esaltare il ruolo di Valentinorum nella storia letteraria… e altre amenità e corbellerie di contorno ma ormai non c’era nulla da fare, avevo riscosso le ire irrevocabili degli amici del letterato Zeichenem… e quindi per un po’ di tempo sono stato costretto a disertare i lauti banchetti della sua corte dei miracoli.
Così va il mondo. E forse è bene che vada così. Insomma, mi sono pentito amaramente di quella mia esternazione. Ma ormai ciò che è fatto capo ha.
*
Ecco, me ne andavo a zonzo per l’Emporio per favorire la digestione del giorno innanzi quando, chi ti incontro? Ti incontro il tribuno della plebe Gabirio Porfirione. Il quale non è neanche un tribuno e tantomeno della plebe ma è notoriamente prodigo con essa per via delle sue, diciamo, liberalità, per via delle sue munifiche donazioni ai diseredati. È il suo modo di fare politica, dare ai poveri quello che riesce a togliere ai ricchi, e poi ritogliere ai medesimi poveri quel poco che ha loro dato pocanzi con un di più. L’Urbe non ha più speranza. Troppi Gabirii, troppi tribuni, troppi felloni maleodoranti pullulano sui cardi e sui decumani dell’Urbe. Lo stolto, lo spergiuro Gabirio si è anche pubblicamente dichiarato demo cristiano, e così si è fatto amico di quella potente setta, ed ha spergiurato gli dèi. E così, Gabirio ha fatto carriera politica, ha anche fondato una setta che ha chiamato Forza Italia, e adesso passeggia sul Campidoglio con le sue lussuose tuniche ricamate… «Ehi, illustre Gabirio! – lo chiamo ad alta voce – “Sordido fellone!”», mormoro a voce bassa…
"C’è sempre un imperatore, un impostore, un Gabirio al quale puoi rivolgere doleances, istanze, protocolli, anfibologie…", mormoro a voce ancora più bassa.
Il tribuno Gabirio Porfirione si lima le unghie smaltate e si umetta le guance di cinabro con l’ausilio di una spugna del mar Morto assiso di scosceso sulla lettiga dalle bianche tende portata a spalle da quattro poderosi schiavi mori.
Deambula, il tribuno, a fatica con il ventre prominente e le pachidermiche natiche… dicono gli iettatori a causa di una sciatalgia… ma è una bugia buona per gli oziosi.
In verità, evita Gabirio di mostrarsi in pubblico con il purpurisso strofinato sulle labbra e imbrattato di cerusso il faccione torbido… e la culotte di trine indossa sotto la candida tunica raccolta con un nodo sulla spalla…
Ma noi, suoi commensali e compagni di prebende, che cosa sappiamo del suo sordido vizio? Dove è il flagellum per flagellare sulle natiche il sordido Gabirio? Ai posteri volentieri ne consegniamo notizia per sua imperitura nequizia…
Dicono gli iloti che il tribuno Gabirio ami il suo delirio più delle ostriche d’Egitto e del pasticcio di anguille…
Dicono le male lingue che nel bel mezzo del convito, Gabirio con la bocca infarcita di fagiani al miele e di conigli in umido, trovi la sua migliore e più imponderabile ispirazione…
Una sordida ispirazione per le sue miserabili sentenze.
Al di là del peristilio della sua villa ci sono sempre postulanti in fila ad attendere il proprio turno. Tanti, troppi postulanti. Troppi contenziosi che il tribuno deve sbrogliare…
Una folla maleodorante di eunuchi mauritani, questuanti illirici, faccendieri greci e banausici etruschi che parla lingue incomprensibili e si accalca e sgomita sulla pubblica via… (nutro dei dubbi sulla solidità della loro spina dorsale). Una schiera variegata e interminabile… che chiede udienza, presenta memorie ed istanze, reclama mercedi… che scalpita come il cavallo Incitatus e offre i propri innominabili servigi…
Venere li conduce, Mercurio li divide, e Marte, opino, farà il resto.
A bordo della trireme di Fabricius Cuccorum
Era giunta alle mie orecchie che nella trireme personale del magno poeta Fabricius Cuccorum, di Mediolanum, ormeggiata al porto di Ostia, si sarebbe tenuta una grande festa per la pubblicazione di un rotolo di poesia del padrone di casa prefato dal grande poeta gotolombardo Oldanium, e siccome la fame e il freddo pullulavano e il povero Fasullo reclamava la sua dote di cibarie giornaliera, io pensai come cosa ben fatta e buona procacciarci un invito alla grande festa dove viene sconfitta la carestia dell’impero e, per il vero, viene sconfitta anche la letteratura, e così porto con me Fasullo, che ormai aveva acquisito anche lui una certa praticaccia di letterati e di letteratura, e quella pessima linguaccia di Psellio, e mi dirigo, con il libeccio in poppa, alla volta della gigantesca nave cucchiana… Era già l’ora decima, all’imbrunire, e vedo la grande nave illuminata a giorno da un centinaio di torce, e vedo che sul ponte, in prua e in poppa, montano di guardia mercenari goti armati fino all’elmo e che sulla plancia è issata una tenda con dentro del pagliericcio come per mimare il cubicolo di una meretrice, soltanto che ai lati della tenda non v’era alcuna parete e la vista era aperta da tutt’intorno… Ed ecco che viene avanti una figura femminile ignuda con un grande mantello che la ricopre fin quasi all’inguine con un ampio cappuccio che impediva la visione del volto… «Chi è questa Venere?», dico a Fasullo che la rimirava con il naso attaccato al cielo… tutti gli astanti si chiedono chi è chi non è, ed ecco che la giunonica matrona si toglie il mantello ed appare in tutto il suo fulgore una capigliatura bionda con i capezzoli dorati e il pube anch’esso dorato e si distende a gambe divaricate e con moine invita gli astanti ad entrare nell’alcova… io me ne guardo bene dal giacere con la procace Licisca e mi precipito sulle tavole imbandite di succulenti arrosti lasciando Fasullo a godersi lo spettacolo degli ospiti che a turno fornicavano con la giunonica meretrice alla luce di due grandi lanterne che mandavano fumo nero impastato a legno di sandalo… ero così impegnato a satollarmi il ventre che ti vedo la nobile, splendida Cesennia, la sposa irreprensibile il cui marito, l’anziano Sofronio Pomponio, le ha portato in dote un milione di sesterzi… a così alto prezzo ella è disposta a definirsi pudica finché il marito, emaciato dai dardi di Venere e sull’orlo del collasso di petto, non decide di ritirarsi a più modeste pretese… fatto sta che la bellissima Cesennia adesso è sposa felice e casta, ma, mi chiedo, fino a quando potrà durare la nobile virtù della castità della nobile Cesennia? E fino a quando dovrà durare la pazienza del patrizio Sofronio Pomponio nel portare con sussiego le corna della munifica consorte? Presto detto e fatto: non credo che occorrerà molto tempo perché la nobile consorte pare che sia tutta presa dalla lettura dei bigliettini d’amore che il console poeta Marco Onorio le invia sotto gli occhi dell’anziano sposo e non c’è da sperare che duri la concordia familiare che il cornuto consorte ha comprato con sonanti sesterzi visto il grande numero di corteggiatori che circuisce la sua Cesennia… ma ecco che il padrone di casa si avvede della mia presenza e mi chiama a sé. Io avverto un subitaneo brivido perché riconosco il magno Fabricius Cuccorum, il quale ha i capelli che litigano tra di loro, osceno anfitrione e ancor più poeta legibus solutus, che si bea delle sue sopracciglia dipinte come delle sue orripilanti filastrocche e mi dice che «la scuola poetica di Mediolanum ha superato di gran lunga quella dell’Urbe e che il suo sodale Antonio Riccardonem, poeta romano-gotico, ha pubblicato un grande poema familiare sugli Impianti del dovere e del bellum che ha superato e reso obsoleti i rigurgiti della scuola dell’Urbe…». Ed io gli chiedo: «ma che Poseidone significa “Impianti” in mezzo al dovere di andare in guerra? Noi sappiamo – gli dico senza perifrasi – che è un dovere di tutti i romani, cristiani e pagani, andare alla guerra contro i barbari che infestano l’Impero!...», ma quel goto-romano non mi degna della menoma attenzione e si volge alle sue guardie del corpo chiedendo: «Chi è questo incolto che osa sbarrarmi il passo?»; lo scrivente, a costo di fare la figura del romano codardo sta per fare un passo indietro ma per la dea Fortuna ecco che interviene il poeta franco-romano Francorum Romanorum, con i capelli che saltavano da tutte le parti come bisce e salamandre, che dice «che la scuola poetica di Mediolanum non c’è, non c’è mai stata ed è un falso dichiarato e che l’unica scuola poetica in vigore è quella franco-romana degli aedi francofoni latinizzati…», e qui mi presenta il celebre peota longolombardo Oldanium, autore delle celebri poesicole sulle piccionaie di Mediolanum e sulle lavatrici e su un’opera ormai già leggendaria Il cielo di lardonem… «Ma che cos’è questo cielo di lardonem?», chiedo io rivolgendomi ad un suo lustrasandali mediolanensis, un tale Adameo Ameorum il quale gli reggeva la tunica, e quello mi dice che «è il cielo sopra Mediolanum!», e allora io gli rispondo che «il lardo quell’Oldanio ce l’ha nella zucca vuota e nel pancione a forma di pallone pieno di frittelle e vento di ponente…»; ora, sta di fatto che questo Oldanio, o Oldanium che dir si voglia, ha al seguito una caterva di sguatteri letterari, a cominciare da quell’Adameo Amedeorum, quello che aveva imparato alla perfezione la lingua degli ostrogoti e si cimentava in articoli di critica letteraria e in traduzioni dall’ostrogoto… Ora sta di fatto che questo Oldanio rischia di sopraffare e sopravanzare, in fama, lo stesso magnum Fabricius Cuccorum, il padrone assoluto della trireme mediolana… Ecco, è a questo punto del frangente che interviene a difesa dell’illustre Oldanio, e grida e strepita il suo corruccio la critico peota Adamea Miracolana la quale agita un rotolo di pergamena delle poesie del suo maestro dicendo che di lui ha scritto una monografia e che lì c’è tutto lo scibile della nuova critica… A questo punto sto per riporre nel fodero la daga della mia tenacia quando spunta, tra il lusco e il brusco, un tale grande come un armadio; «chi è?», dico io, ma è quell’etrusco di Marius Speculum, detto Porsenna per via del fatto che ama azzuffarsi con i longobardi di Mediolanum e i romanoidi dell’Urbe… Avverto un fuggi fuggi dei sodali di Adameo Amedeorum e dell’Oldanio e uno squaglia squaglia dei romanoidi, c’è il solo terrone Dantone Maffionem che ha il coraggio di opporsi al Porsenna ma quello, che lo sopravanza di tre cubiti, lo strattona e lo spintona dicendo «che i mediolani, i romanoidi e i sudisti devono fare i conti con Porsenna», e altre parole che il mio stomaco vuoto non riesce a carpire… insomma, io sto giustappunto ammirando questo corteo bacchico di poeti longobardi, goto-romani, ostrogoto-romani, quando, chi ti vedo mezzo nascosto tra le palme della nave? Ti vedo il tribuno Ebuzio Mascolorum, sì, proprio lui quello che gestisce la bisca letteraria della Fondazione dell’Urbe, proprio lui che l’altra sera mi aveva sorpreso nell’intimità di un amplesso con un certo Bagoa, un africano, un eunuco invertito che paga sonanti sesterzi chi ha l’ardire di possederlo... allora io gli vado addosso e gli dico: «Ebuzio Mascolorum, non sparlare ai quattro venti con la tua linguaccia puzzolente che mi hai colto in atti viziosi con l’eunuco Bagoa!...», mentre che scongiuro così il tribuno ecco che Luciano Notorius col faccione tondo glabro e grassottello si fa avanti tutto impomatato con la cetra mentre che dava pizzicotti sulle natiche di due procaci danzatrici: sembrava un Nerone soddisfatto che cantava mentre Roma bruciava ai suoi piedi… Ecco che il Nerone va incontro, con fare maestoso, al tribuno Ebuzio Mascolorum ma non lo morde bensì gli libera una flatulenza di proporzioni omeriche… io indietreggio ma quella ventosità mi ha già raggiunto… quando ecco che tiro addosso al tribuno e al Cuccorum una blasfema panoplia di insulti. Nel dozzinale alterco che segue io getto addosso al tribuno Mascolorum e al Cuccorum un piatto di locuste bollite con salsa al cumino e, mentre il Mascolorum se la da a gambe, il Cuccorem replica con il lancio di un tegame ripieno di carni di lepre con santoreggia, cipolla e ruta; io il rostro dei denti anneriti gli mostro e l’arco iroso del cipiglio…. Nello spareggio dell’agone entrambi cadiamo ma nessuno volendo abdicare all’orgoglio io un epigramma gli spedisco e lui un sandalo polluto… poi ecco che viene quel loffo e grasso Oldanio il quale dice che «gli uomini virili di Mediolanum non badano agli androgini di cui abbonda l’Urbe, e così conservano la loro baldanza» e altre corbellerie mediolanensis… allora io prendo la parola per rivendicare la primogenitura dell’Urbe e declamo degli emistichi in onore del Bronzeo Protalo e del bruno Bupalo. E così prendo a declamare con voce corrusca rivolto agli astanti tutti:
«Noi lo scettro di Serse il re dei re e i tesori di Babilonia ricuseremo per la mercede dei tuoi ori e dei tuoi splendori, bronzeo Protalo!
Né le ricchezze né gli onori né la gloria, né uno sterminato esercito pronto alla zuffa potranno mai eguagliare il sapore dei tuoi baci…
Il bronzeo Protalo come il tetragono Ares spenga la foia dei nemici in procellosa mischia e renda a Gheorgopoulos virtuoso il riposo lascivo…»
Come dalle porte Scee, ecco che esce di corsa il bruno Bupalo nudo su un cocchio argentato trainato da bianchi cavalli in volo precipitoso come un uccello di Stinfalo contro le schiere dei crudeli achei…
*
E poi, anche il bronzeo Protalo fa il suo ingresso trionfale sulla nave di Fabricius Cuccorum, dove quel cornuto di usuraio di Pomponio Atramentum inneggia i propri versicoli stitici e obbrobriosi e deambula con la cetra e la faretra e la clamide slacciata sul molle ventre rigonfio di flatuli e di flabelli con il capo cinto dell’alloro dei poeti… ma io non mi do per vinto: in onore di Marte, dio della guerra, strappo una cetra ad una schiava discinta e declamo con voce neroniana al suono dello strumento:
«Bupalo androgino e Arete misogino
hanno accoppato la bella Artemide
dalla rupe di Lèucade tuffandola.
Bupalo aveva le chiome sparte e il belletto polluto…
Con un sorriso, ad arte, incassava il vile metallo…
Anche il flaccido membro di Bupalo
la vista della bella Artemide ha risvegliato».
Il prodigio è compiuto: il magno Fabricius Cuccorum, tutto impomatato, che calza calzature decorate e rabescate, attorniato da queruli apprendisti poeti, si rivolge allo scrivente chiedendogli un ditirambo per gli ospiti ma io sono già preda degli effluvi di Bacco e non riesco a contenere la mia tracotanza e la mia supponenza ed intono un peana così, come mi viene, e declamo, in mezzo al frastuono e alle strida dei mediolanensi, un componimento, così, a braccio:
«Oh, magno Fabricius Cuccorum, il cui nome goto ti rende il giusto merito, a te ad Antonio Riccardorum, e all’altrettanto magno Oldanium, il cratere colmo del nero vino di Falerno che hai deglutito, d’un colpo, come ambrosia degli dèi ché sì agli dèi caelicoli lo abbiamo rubato, noi oggi lo libiamo e innalziamo alti lai di scorno e di scongiuro affinché tu ti trattenga dallo sciorinare i tuoi versi pestiferi… le corna regali con cui cinto il capo, Fabricius Cuccorum, tu che deambuli in compagnia di ingrati bifolchi che acclamano i tuoi versi osceni… le corna, Fabricius, dicevo, sono il munifico dono della tua consorte adiposa…
Oh, magno Fabricius, le corna, dicevo, cui tu tieni più che ai versi osceni sono il lustro della stirpe di spietati esattori delle tasse cui tu, magnanimo, appartieni di diritto.
Hai rimesso, lo so, a noi debitori i nostri debiti e non hai reclamato, anche questo so, ingenti crediti di bisboccia a noi che i tuoi versi e i tuoi strafalcioni ignobilmente ascoltiamo senza battere ciglio e acclamiamo battendo le mani e sorridiamo e libiamo nel convito i vini della tua riserva, a noi che mastichiamo le carni infarcite di aromi dei tuoi possedimenti, a noi che oziosi e imbelli commensali tutti insieme gridiamo:
Che Zeus ti conservi in salute e manifesti la sua potenza nella grandezza dei tuoi versi mentre noi ignobilmente acclamiamo la tua reggia, i tuoi paggi, i tuoi cibi sottili ed anche le spintrie e gli efebi e le scrofe del munifico convito…
E, certo che sbattuta da muscolosi liberti, tua moglie renderà onore ai tuoi ozi letterari, certo, ai tuoi sordidi vizi, al munifico nero vino di Paestum e alle tue sordide nequizie, Fabricius!».
Ho appena finito la filippica che vengo sollevato di peso da due poderosi naumachi mori e portato di persona di fronte al magno anfitrione Fabricius Cuccorum, il quale ponza al centro di un grande sofà con le piume di struzzo colorate con dei finti alberi di banane all’intorno e una corona di alloro sulla fronte; infatti nella sua qualità di poeta laureato, costui, contrariamente alle mie previsioni, esordisce in una polifemica risata che fuoriesce dalla sua capigliatura piena di vento in disordine e mi dà una pacca sulla spalla dicendomi che trova la mia composizione degna di stare a fronte dei versi di Lucrezio e del sommo Virgilio e altre consimili facezie che sortiscono dalla sua zucca piena di farro, di lardo e di santoreggia… e poi mi dice che però c’è un fatto: che con la nostra editoria dell’Urbe ci possiamo al massimo asciugare il deretano dopo le defecationes a fronte dei rotoli di Mediolanum, che invece rimarranno impresse negli annali della letteratura illustre… Ecco, io durante questo ditirambo penso alla mia pancia vuota… e così anche oggi, opino, me la caverò con dignità e onore se non rispondo agli insulti e alle provocazioni del mediolanense e me ne torno, con la coda tra le gambe, e obtorto collo, alle libagioni e alla cibagione… ma mi accorgo subito che mi sono ingannato, perché il centurione della nave cucchiana, un tale Titianum Broggiatum, nipote di Erato e pronipote di Apollion e cliente di Antonio Riccardorum, che assomiglia più a un contabile che a un sacerdote della ninfa Polimnia, mi fa prelevare da altri due ciclopici naumachi mori e, rivolto al conclave dei convitati presenti, dichiara che «il poeta dell’Urbe Gheorgopoulos non intratterrà gli onorevoli ospiti né con le sue esternazioni poetiche né con epitalami ma con una agnizione ben più impegnativa, dovrà - dice quel mellifluo ragioniere di Mediolanum - dimostrare la sua virilità, dovrà unirsi alla scrofa e copulare dinanzi al pubblico e onorare la virilità del dio Priapo e dell’Urbe!». Dice proprio queste parole quell’imbonitore della nostra età postuma, e mi ingiunge, «se ne sono capace di fottere la licisca del pagliericcio se non voglio essere lisciato sul dorso dagli staffili delle guardie longobarde di Mediolanum!»... E così non mi resta altro da fare che fare buon viso a cattivo gioco: mi tolgo la clamide e le brache e rimango nudo dinanzi alla tenda della meretrice ed aspetto il mio turno… tento con virulenza di agitare il mio scettro, macché! Quello non ne vuole sapere di muoversi! Tento di nuovo. Niente, è tutto inutile, allora chiamo in mio aiuto il tribuno romano Marco Onorio, quello che aveva pubblicato il flabello denominato Emporium, dove cicalava di licische e di attempate matrone allupate, e gli dico: «ti prego Marco prendi il mio posto, fammi questo dono regale e non te ne pentirai!»... faccio appena in tempo ad aggiustarmi le brache che vengo spinto dentro dai due bestioni mori... «Signori – esclamo – un momento di impotentia è concesso anche ad Ercules, anche a Scipione l’Africano prima della battaglia di Zama, può quindi essere concesso anche ad un nipote di Erato e di Polimnia!». Detto fatto, ecco che il mio Priapo rimane immobile, anzi, si assottiglia e si ritira così che quasi scompare alla vista della platea, e ciò in mezzo ai fischi, alle risa e alle strida degli astanti… sono confuso e inorridito, mi sembra di essere entrato nel lupanare di Messalina. La giunonica matrona mi urla nella tromba di Eustachio il suo disappunto con la voce tonitruante di Eolo ma non c’è niente da fare, mi devo arrendere all’evidenza, ce l’ho completamente bolso e flaccido come una saccoccia vuota e così mi ritiro dalla competizione senza alcuna gloria e senza onore…
«Chi di cibarie ferisce di cibarie perisce», mi sussurra all’orecchio un luculliano commensale.
«Guai ai vinti!», rispondo senza convinzione.
Sono ridotto a mal partito e randagio. Questa città ferale dell'Urbe mi ha divorato tutto con la sua prodiga vita. Sono ancora giovane, e d’ottima salute. Grazie agli dèi. E poi possiedo il greco a meraviglia (sulle cinque dita: Platone, Aristotele, e oratori, e poeti, e quant’altro).
Di cose militari ho qualche cognizione, ed entrature tra i capi mercenari.
Sono alquanto addentro nell’amministrazione dell'Urbe.
L’anno scorso ho abitato sei mesi ad Alessandria: sulle dita di una mano ho appreso (è sempre utile) le cose di laggiù: le canagliate, i piani del Malvissuto, le astuzie di quel MalFattore del Prefetto, etcetera.
Per tutto ciò, ritengo di essere pienamente idoneo a servire il mio Paese, la mia patria amata, l'Urbe.
Qualunque lavoro mi sia affidato offrirò i miei servigi al Paese. È questo il mio intendimento. Se m’intralciano però coi loro metodi - la conosciamo quella brava gente (sorvoliamo) - se m’intralciano, ebbene: la responsabilità non sarà mia.
Prima mi rivolgerò a Zenobia, e, se quell’imbecille non m’apprezza, andrò dal suo rivale, da Agrippa. E, se neppure lui mi vuole (quell’idiota), me ne vado subito da Ircano.
Mi vorrà pure, uno di loro tre.
La mia coscienza è tranquilla quanto alla ubiquità della scelta.
Rovinano l'Urbe tutti e tre.
Sono un povero diavolo ma la colpa non è mia. Un uomo sventurato, che cerca di sbarcare
il lunario. Ci avessero pensato, i sommi dei, a farne un quarto, onesto, magari mi mettevo con lui, con gran piacere.
Myris l’androgino e Tolomeo statuario
Myris il più bello tra gli androgini virili, il cui impareggiabile corpo è stato scolpito dalle mani di Fidia, si è convertito al dio dei cristiani. È morto da cristiano, dicono, nel suo letto. Due preti cristiani sono andati nel suo cubicolo e gli hanno impartito degli strani effluvi, hanno fatto dei suffumigi con dei turiboli che mandavano dei fumi azzurri, lo hanno bagnato con dell’olio santo toccandolo sulla pallida fronte.
Forse è meglio così, ho pensato, almeno gli è stata risparmiata la visione della nostra amata città invasa dai barbari. Depredata e saccheggiata. Viviamo come in una piscina, sotto l’acqua, in una dimensione equorea, aspettando l’arrivo dei barbari. Mentre i cristiani innalzano turiboli fumanti durante le processioni che inneggiano al loro dio onnipossente. Dicono che il loro dio li salverà. Ne sono convinti.
Sono andato al tempio di Poseidone, ho offerto un sacrificio e ho perorato per la sua anima i campi elisi. Ho detto al nostro dio: «Oh, Poseidone possente, tu che puoi, salva la sua ombra, l’ombra dell’impareggiabile Myris e, se non puoi salvarla, intercedi presso il grande Zeus, che salvi almeno la sua cerulea bellezza e la conservi, dono per gli immortali, nei campi elisi, ombra tra le ombre, orma, calco perfetto della sua perfetta, terrestre bellezza…»
*
Il bellissimo Tolomeo colore dell’oliva proviene dall’Osroene, una landa nord-occidentale della Mesopotamia, ad est della Commagene, al confine dell’impero dei Parti e qui nell’Urbe esercita, con profitto, il mestiere più antico e lucroso dell’impero: il mestiere dell’amore; egli non è simile a nessuno dei contemporanei, tanta è la proporzione e la bellezza delle sue forme che chi lo guarda per un istante non può non innamorarsene… E, quando passa per il decumano tutti lo contemplano e lo venerano come la statua di un dio… e, se accetta di svestirsi, lo fa al suono di sonanti sesterzi e anelli di auro e di argento, tant’è che viene invitato anche nelle feste dei dominus dei nuovi potenti, quei cristiani che si sono convertiti di recente al dio onnipossente che tutto vede e tutto può, che in pubblico predicano l’astinenza e in privato commerciano con gli efebi e le prostitute eleganti dell’Aventino…
Poesie per Lucrezia
Ho trascritto queste tre poesie intitolate «Poesie per Lucrezia» su della pergamena d’Egitto, una vera rarità, che mi è costata un occhio della testa al mercato nero; le ho messe ben bene infiocchettate in un rotolo con un nastro sgargiante e profumato e le ho mandate, tramite il mio schiavo, Fasullo, alla divina Lucrezia, nella speranza di conquistarla almeno con la poesia là dove fanno difetto i sesterzi. È inutile dire qual sia stato il risultato. Anzi, ritengo utile riferirlo ai lettori. Il povero Fasullo, prima è stato fatto entrare nell’atrio, poi, quando è giunta la «divina» che ha gettato uno sguardo agli scartafacci, sapete che cosa ha detto la divina Lucrezia, la regina delle prostitute dell’Aventino? «Non mi ha degnato neanche d’un insulto», questo mi ha riportato Fasullo, «ha detto soltanto di riferirmi che avrebbe gettato gli scartafacci direttamente nella cloaca!». «Davvero, che tempi sono questi - mi sono detto - quando già parlare di amore è un delitto… e le donne cristiane sono tutte intente a conservare la verginità e la castità come fosse il bene più prezioso… Mala tempora currunt. Davvero, tempi bui».
I
Le sue braccia e i polsi ingioiellati
sono viscide aspidi che sciolgono e annodano
la rete che a lei mi lega. Le sue soffici
superbe natiche e la schiena scolpita
nelle concave vertebre suscitano l’invidia di Taide
e di Aspasia che, fra tutte le eteree, svettano per bellezza
e fulgore. Le sue trecce così astute e grovigliose
sono liane di medusa o di gorgone
che impietrisce. E gli orecchini
sono tintinnanti sonagli che inseguono
l’incedere del suo corpo come un coro
di algidi putti e di amorini armati di cetre
e di faretre e di archi… e le splendide
serpentesche ciglia indugiano,
ondeggiano, a lei mi legano con la camicia di Nesso
e... sulla schiena, sotto il collo, sotto le ascelle
bruciano le torce del desiderio...
II
Mostri Lucrezia lo scudo di avorio e di ferro
che il corpo bronzeo chiude agli occhi di chi ti ammira
celato di orpelli e trine ed armille scintillanti.
Larva sei di farfalla screziata come
l’iride delle pupille che il tetragono
sguardo dell’idra racchiude tirannico nell’odio...
e l’anima, come una lucertola atterrita, fugge
dalla torre dei capelli annodati, dalle fibule
lasciando una macchia azzurra sul collo...
III
La sua bocca avida di proclami per la sua bellezza
reclama il prezzo della sua rosa.
Dal mio tugurio dell’Aventino contemplo
la sua bellezza lattea, gelatinosa…
ondeggiare dagli ampi cluni dietro il sipario…
i seni roridi di profumi d’Egitto
svettano dal suo corpo apollineo
sulla sponda del triclinio arrotolato.
Casto e algido come una sfinge eburnea.
Prima filippica del console Gheorgopoulos
Ieri, al mercato di Traiano avevo appena acquistato una triglia di due libbre che, con i prezzi alle stelle mi aveva ridotto sul lastrico, per convincere Clodia a cedere alle mie brame le ho comprato anche una clamide di seta. Poi, ho chiamato Fasullo, quel buono a niente del mio schiavo, e gli ho detto che se voleva rendersi utile e mangiare un pasto completo, avrebbe dovuto consegnare personalmente alla «divina Clodia» la poesia che avevo composto al mattino, una sontuosa filippica che ebbi il buon gusto di indirizzargliela. Eccola:
«Con le mie legioni potrei combattere le tribù della Mesia e rigettarle nel torbido Danubio, e poi potrei respingere i selvatici Burgundi al di là della Pannonia, i pirati del mar Rosso sulle veloci trireme sterminerei, potrei sconfiggere i selvaggi Sarmati e i crudeli Parti, potrei gettarmi nella mischia furiosa come fra i tuoi seni con la stessa furia marziale…
L’aquila e le legioni di Roma vengono prima delle tue braccia, divina Clodia! L’alloro della vittoria e l’arco di Costantino assisterebbero al trionfo delle mie legioni!
Ma a che pro tutto ciò? Un altro Sallustio narrerà le mie guerre, un altro Ennio canterà le mie gesta…
Tu dici che nulla resterà di noi dopo il crollo dell’impero? Davvero, tu dici che non resterà nulla delle nostre gesta?
In coscienza, ai fasti della storia antepongo il lusso delle tue vesti di seta, il damasco dell’alcova al labaro della trita cronaca…».
Finito di trascrivere la filippica su un rotolo del mar Morto, poiché ero rimasto a stomaco vuoto perché la divina Clodia aveva pensato bene di prendere per sé la triglia di due libbre e il mio Priapo mi premeva da sotto la clamide, me ne sono andato in compagnia di Venanzio, un bifolco che ha fatto i soldi con la costruzione di cocchi dipinti, appresso alle meretrici della Suburra. E là mi sono fermato davanti al negozio della bellissima Plozia, la quale se ne stava dirimpetto al suo amante, il calvo Melanzione, al quale aveva prosciugato fiumi di sesterzi, e le chiesi il prezzo di un amplesso ma visto che il mio borsello era vuoto di monete le dissi, citando il grande Marziale: «Tu vuoi, Plozia, che io sempre l’abbia dritto per servirti, ma un cazzo non è un dito, credimi. Tu l’accarezzi e gli parli fitto fitto, ma la tua scriteriata attività ti è nemica…»; l’avessi mai detto! Plozia mi invitò a chiavarmi il mare visto che non avevo il becco di una moneta, ma io di rimando le risposi sempre citando il poeta ispanico: «Dicono che ai bagni di mare io t’ho chiavata. Non so, a me par d’aver chiavato il mare». E me ne andai soddisfatto di aver salvato, se non il mio orgoglio virile, almeno la mia dignità letteraria.
Seconda filippica del console Gheorgopoulos
Dopo essere andato in bianco con Clodia, nonostante il ditirambo che le avevo indirizzato, non mi sono perso d’animo e sono ritornato all’attacco. Mi sono recato sotto la finestra della abitazione della divina Clodia e, per convincerla a cedere le sue grazie, o parte delle sue grazie alla mia persona, l’ho apostrofata, dalla pubblica via, a gran voce, così che tutti potessero udire, con queste parole che mi sono affrettato in seguito a trascrivere sulla pergamena per la sempiterna memoria dei posteri:
«Mia amata Clodia, arrossando di sangue il Tigri e l’Eufrate di cadaveri di nemici, ho impresso il sigillo di morte alla campagna partica inseguendo il nemico fin nella favolosa Mesopotamia…
Non contento di ciò, ho ricacciato le tribù dei Goti selvaggi al di là del selvoso Danubio…
Ho conosciuto, Clodia, l’asfissiante sole dell’Egitto, la calura del deserto africano e le nevi eterne e i ghiacci della algida Pannonia…
Ma adesso che sono ritornato nella nostra amata Urbe non ti riconosco…
In verità, alle tue splendide iconoclaste nequizie preferisco il buio Tartaro…».
Ma non ho ricevuto alcuna risposta. L’ingrata non mi ha degnato di alcuna risposta. Come mai, mi sono chiesto, non ho ricevuto alcuna risposta?
Intanto a Roma si discute oziosamente
Alle terme circolano le voci più strane sulla sconfitta dei Campi Catalaunici. Alcuni dicono che è stata una vittoria a metà, altri dicono che è stata una vittoria totale. Ma quest’ultima opinione è sconfessata dal fatto che adesso, a distanza di appena un anno, Attila ha rimesso in piedi un esercito numeroso e agguerrito.
Gennadio Avieno afferma che nulla ormai potrà salvare l’imperatore d’Oriente Marciano dall’invasione delle armate di Attila. Egli è convinto che già da due anni il capo unno ha rinviato la campagna d’oriente nel tentativo di sistemare le sue faccende in Occidente. Dopo la guerra contro l’Occidente finita sui Campi Catalaunici, il suo primo atto, quando ritornò alle sue capanne di tronchi d’albero nella pianura pannonica, fu quello di inviare all’imperatore d’Oriente Marciano un messaggio inequivocabile. Attila dichiarava con franchezza che, poiché non gli erano stati rimessi i tributi concordati con il precedente imperatore d’Oriente Teodosio, il suo proposito era di muovere subito guerra all’Impero d’Oriente e fare schiavi i suoi sudditi.
A questa notizia, siamo entrati tutti in una locanda e abbiamo bevuto un cratere di buon vino di Ercolano, tra grida di giubilo e alti lai di scorno. È stato un tripudio di gioia collettiva. La nostra gioia irrefrenabile è straripata come un fiume in piena: Adesso sarà l’oriente che dovrà vedersela con il barbaro Attila. Speriamo che la guerra sia lunga e dolorosa per il barbaro, almeno quanto lo è stata la guerra contro l’occidente. La sconfitta dei Campi Catalaunici non ha insegnato nulla ad Attila, crede di poter piegare alla sua volontà l’oriente per poi rivolgere il suo esercito ancora una volta contro l’occidente. Ma i Visigoti di Teodorico sono troppo forti per combatterli direttamente, l’unno preferirà prima stipulare con loro una tregua, impadronirsi dell’Italia e, in un terzo tempo, puntare dritto alla conquista della Gallia e del regno Visigoto. Di questo, soltanto di questo si discute alle terme e nelle piazze dell’Urbe. C’è chi sostiene che l’Impero d’Oriente saprà infliggere ad Attila una sanguinosa sconfitta; c’è chi, al contrario, sostiene che l’invincibile esercito di Attila risolverà in sei mesi la questione orientale. Non si fa altro che parlare in questa città. Si parla, si discute, si mangia, si copula, c’è chi prega il dio dei cristiani, chi prega il dio Mitra, chi prega la dea Iside, chi espone i Mani dinanzi alla propria casa e chi, come me, pensa che neanche gli dèi ci potranno salvare. Loro sì, i cristiani, sono convinti di farla franca. Dicono che il loro dio fermerà di nuovo Attila, che non ci saranno più guerre e che il regno dei cieli sta per arrivare…
Io credo, molto più modestamente, che questi siano gli ultimi giorni di felicità possibile per la nostra città e per l’impero d’Occidente. Chi ci potrà salvare da Attila se deciderà di scendere di nuovo in Italia con il suo spaventoso esercito? Sono in grado le ultime legioni di opporre una resistenza? Sì, forse fin tanto che il generale Ezio è vivo potremo contare sulla sua politica estera, sulla sua abilità di iniziativa politica. Ma per quanto tempo l’occidente potrà mediare tra i due giganti: gli Unni ad est e i Visigoti ad ovest? Per quanto tempo potremo tenere celata la nostra debolezza? Per quanto tempo potremo godere degli agi e degli ozi del tramonto universale? Un interminabile tramonto si avvicina… lentamente, sempre più lentamente… c’è della voluttà nel passo lento della sua tunica dorata…
Come un aroma forte passata sei nel mio letto
Nel mentre che a Roma si discute di guerre allobroghe, io invece considero prioritario temprarmi tra le braccia di una qualche cortigiana. Mentre i barbari si uccidono a vicenda noi continuiamo la nostra esistenza brillante e dispendiosa. Lusso, calma e voluttà sono le nostre tre parole segrete, le nostre parole d’ordine. Chi ci può impedire di essere lieti nel tramonto universale? Forse i cristiani che si flagellano per cagionarsi dolore e pregano la castità? Forse Attila che ha bisogno ogni giorno di nuove guerre? Forse Genserico, capo dei vandali? Fino a quando il nostro imperatore Valentiniano sarà impegnato ad evitare lo scontro con i suoi pericolosi vicini, noi potremo cullarci nella nostra allegria di un naufragio sempre più prossimo e sempre rinviato. Così, quando incontro la Plozia, l’intima amica di Clodia, faccio a Plozia questo panegirico riferendomi a Clodia: «Io non parlo ora più di quella donna: ma se un’altra ce ne fosse, diversa da questa, che si conceda a tutti; che faccia bella mostra dell’amante scelto di volta in volta; nel giardino, nella casa, nel bagno presso il quale abbiano libero ingresso le concupiscenze di tutti, che mantenga qualche giovanotto e compensi le taccagnerie paterne con qualche prodigalità; se costei, povera vedova, il cui marito è caduto in battaglia, vivesse in piena libertà, sfrontata, senza freni… ricca, con ogni sperpero, libidinosa, a modo di meretrice, dovrei io giudicare adultero colui che trattasse questa donna con qualche confidenza di troppo?».
Inutile riferire la risposta che ha dato Plozia con un’alzata di spalle al mio quesito: «Io ritengo più giusto – mi ha detto Plozia – considerare le liberalità di Clodia delle virtù piuttosto rare in un’epoca infestata da tutti quegli sciocchi pregiudizi dei cristiani che favellano di castità e di verginità e di altre consimili facezie». Al che io ribatto «che un console letterato quale io sono non può che accettare l’esclusività della relazione con la sua donna e che la magnanimità non può essere scambiata con la scipitaggine…».
Avevo raccolto una discreta somma di denaro rivendendo al mercato nero dei crateri di cristallo scolpito che avevo riscattato da un rigattiere, e così me ne ritorno al tepore del seno di Clodia, nell’alcova del mio tugurio fitto di rotoli di poesia dove, quando ho qualche denaro, lei mi rende visita.
«Come un aroma forte - le dico - sei passata nel mio letto che profuma di olio di cedro del Libano, preda di piaceri e di angosce, ebbra del nero vino di Falerno che appena ieri abbiamo libato nei crateri ricolmi…
Fremente e lussuriosa sei tornata come quando il quadrivio lasciavi pagato il massaggio al gladiatore di turno reduce dai giochi circensi.
Disfatto il trucco posticcio dagli occhi cerulei hai versato gran copia di calunnie sul mio capo dicendomi che i rotoli di papiro delle mie poesie sono buoni per il fuoco, per friggerci le anguille del Tirreno o cucinarci un beccafico impanato…».
*
«Hai la toeletta color arcobaleno alla moda egiziana, Clodia, con l’azzurro che impreziosisce la palpebre che sfumano nel cinabro delle serpentesche ciglia annerite col nero di seppia…
E le tue idee poi sono così risibili e sciocche, così sciocche e soavi che io non mi so rassegnare…
Anche le tue ire improvvise e tortuose che mi fanno sussultare sono variegate e screziate
come quelle di una tigre africana e scuoti la testa come un’idra furiosa in preda all’ira delle Erinni…
Ma io non ti ho scelta per le tue scipite idee o per le tue tuniche color cremisi né per i tuoi sandali profumati… e tantomeno per le tue ubbie, mia amata mia odiata Clodia…».
Lo sapete, miei onesti e postumi lettori, come ha commentato le mie poesie la divina Clodia? Mi ha detto, aggiustandosi la clamide trasparente sotto la quale si intravedeva il suo magnifico corpo: «Mio caro poeta, non sai che il tempo della poesia è già passato? Che nel futuro nessuno leggerà mai più neanche una poesia? E che tu sei un naufrago, un sopravvissuto di un’epoca che è scomparsa?». Questo mi ha detto la divina Clodia, lasciandomi stordito e annuvolato sul giaciglio dove ci eravamo amati.
Clodia ha gli occhi artati di cristallo
La divina Clodia ha gli occhi artati di giallo cristallo, un callo al piede sottile e canta, al suono della cetra, come un gallo arrochito e un pappagallo raffreddato la leggenda di Elena e della guerra di Troia che seguì e dei molteplici lutti….
«Non pensi, Clodia – le chiedo – che anche noi moriremo come i troiani? Non pensi che tutto questo un giorno, forse un giorno che sta per arrivare, tutto questo finirà?»; «Sì – mi ha risposto Clodia – forse tutto finirà ma noi non ci saremo, saremo già morti e qualcuno ci seppellirà sotto uno strato di soffice terra…» – «E non temi la fine che si approssima? Non avverti il morso del dolore per tutto ciò che va perduto?», le ho chiesto; «No, mio caro poeta – mi ha risposto – non ho nessuna nostalgia per questo mondo che scompare. Scompare ciò che deve scomparire. E forse è meglio così. Nessuno si ricorderà di noi, e poi perché lo dovrebbe?»; «E non ci sarà nessun Omero che canterà le nostre gesta, la fine della città eterna?», le ho chiesto con un sorriso disperato – «Oh, sì, forse… – mi ha risposto – tra duemila anni… un altro poeta, che scriverà in un’altra lingua, in un altro mondo, scriverà del nostro amore, lo reinventerà… e noi saremo vivi per sempre… per l’eternità».
«Dimmi Clodia, non pensi mai al futuro?».
« E perché mai dovrei pensare al futuro?».
«Ma… forse perché senza passato non c’è neanche un futuro».
«E tu credi realmente che i nostri progenitori abbiano mai pensato al futuro?».
«Sì, io credo che loro hanno costruito il futuro per noi, per farci vivere meglio, senza il loro operato tu non saresti qui in ozio, bella come non mai, intenta tutto il giorno a curare la tua avvenenza».
«Io mi curo per il presente, non per il futuro!».
«Ma non capisci che senza memoria del passato non ci può essere neanche l’ombra del futuro?»
«E chi l’ha detto?».
«Lo dico io».
«La vuoi sapere una cosa? Lascia dormire il futuro come merita… se si sveglia prima del tempo ne potrebbe sortire un mostro».
«Davvero?»
«Non penso mai al futuro, arriva così presto!».
Per Clodia è tutto molto semplice, le basta sapere che questi sono gli ultimi anni della sua giovinezza e gli ultimi anni dell’impero. A lei non interessa ciò che verrà dopo quest’epoca efferata. Le è sufficiente vivere il presente. Forse è la sua saggezza che io non ho che mi impedisce di godere pienamente dei frutti del presente, dimenticandomi del futuro e di ciò che c’è dopo il futuro. Ma, dopo il futuro… non c’è nulla, proprio nulla… forse ci sarà un altro mondo che non saprà nulla di noi…
Che gli dèi ci proteggano. E così, ho trascritto su un rotolo del mar Morto questi altri pensieri per i posteri. Se mai ci saranno posteri:
«Ma con chi sto parlando? Forse sto parlando con me stesso. Fingo di parlare con Clodia ma in realtà parlo a me stesso. Cos’è questa pazzia che mi rende simile a Zerco, il buffone di Attila, che non piange più nemmeno di se stesso. Che cosa spero di ottenere da una donna frivola e leggera come Clodia? Che cosa può capire Clodia di questo mondo che trascorre nel tramonto? A cosa serve tutto ciò? Se tutto crolla o è destinato al crollo, anch’io vorrei vivere un poco prima della fine. Perché è vicina, la fine, sai? Nel sorriso e nella rabbia, nell’angoscia e nel disincanto… nella solitudine di chi ha un’esistenza senza destino… perché c’è un destino soltanto se noi combattiamo per averlo. Così, imbelle, mi sento insignificante, non posso fare a meno che girovagare per l’Urbe alla ricerca continua di sensazioni illusorie, di piaceri effimeri… perché l’Urbe è la mia città, la sola nella quale potrei vivere, sospeso tra la cloaca e l’empireo…».
Ho chiamato quel fannullone di Fasullo, gli ho consegnato un biglietto dove avevo trascritto questa breve prosa e l’ho pregato di recapitarlo alla divina Clodia. Quello scansafatiche mi ha risposto che lui a stomaco vuoto non recapitava alcuna lettera a nessuno. E così gli ho dovuto dare da mangiare delle olive nere con dell’olio e del pane di farro che avevo comprato con gli ultimi denari. E così ho trascritto anche una mia poesia nel rotolo. Ecco la poesia:
«Clodia ha le unghie di metallo ed è un coltello acuminato la sua lingua priva di nequizia… e le sue braccia sono inanellate da liane sottili e numerose e le esili caviglie sono carche di brillanti ottoni che la fanno assomigliare ad un comandante di coorte e i bottoni di avorio e spille argentate che chiudono e schiudono la tunica di lino sottile…
Oh, non vorrei mai sedurla contro la sua volontà o contro la sua letizia o la sua nequizia o la sua imperizia con cui copre il corpo scolpito nel marmo di Paro, l’onore e l’alloro del mio consolato me lo impedirebbero.
In verità, un nero uccello di Stinfalo ha penne meno acuminate dei suoi nefasti iconoclasti capricci».
Tanti tentacoli ha il corpo della divina Clodia
Mi chiedo spesso che cosa è che mi lega, con questo legaccio indissolubile, ad una femmina leggera e volubile come Clodia. Forse la sua bellezza? Sì, certo, Clodia è la matrona più bella dell’Aventino e del Palatino ma non è questo soltanto che mi attrae in lei. Forse la sua leggerezza? Sì, certo, siamo in un’epoca terribile, ma tutti sembrano comportarsi come se tutto ciò che accade sia normale, sia la naturale conseguenza di eventi naturali. È il senso di decadenza che leggo nel volto di Clodia, nelle pieghe delle rughe sottili del suo volto che mi seduce segretamente… la sua lascivia, che indovino nelle minime movenze del suo corpo, la lussuria dei suoi baci, il lusso delle sue vesti così ricche e sfarzose, la nequizia della sua bifide, appuntita lingua, il nepente del piacere, che riversa, in ondate successive, sul mio corpo esausto. Quando sto con lei tocco con mano la spossatezza, la fiacchezza della mia volontà. Come riflesso in uno specchio di lucido bronzo riconosco in lei la spossatezza di questo stanco impero che non vuole finire. Forse, Clodia ha compreso meglio di tutti noi il tempo in cui viviamo, il terribile battito cardiaco di questa epoca instabile, dove tutto è mutevole e fuggevole, dove nulla è come ci avevano insegnato i nostri padri. Non abbiamo più i doveri del giorno, nulla è oggi come credevamo ieri. Ogni giorno si diffondono nuove deità che il giorno seguente vengono abbandonate. Ogni giorno si annunciano terribili invasioni, che poi, per miracolo, non avvengono. Non abbiamo più i doveri del giorno, innanzitutto verso i nostri dèi. Ad ogni nuovo giorno vige una nuova legge che entra subito in vigore e subito si estingue. È l’ignoto che si avvicina con passi da ciclope…
«Tanti tentacoli ha il corpo della divina Clodia che si torce e si avviluppa in mille spire e tintinnanti armille e gioielli triviali.
Non si illuda Clodia, se è questo che crede, ch’io sia facile preda delle sue lascivie né schiavo dei volubili sensi…
Epicureo e stoico al ginnasio di Edessa e nelle arti della guerra e della retorica versato, sarò un osso indigesto alle sue brame e nel luteo fango le tuniche di seta e la clamide di lino getterò, con cui scopre discinta la sua impareggiabile bellezza…».
*
Ho fatto seguire Clodia dal fedele schiavo Fasullo ed ho saputo tutto. Ho saputo del suo tradimento con un ricco patrizio: il pomposo critico Vario Cortellone e con il ricco e vanaglorioso letterato Tibullo Calabrone. Non ci ho visto più. Mi sono precipitato nella sua alcova che era notte fonda e l’ho presa a schiaffi. Due schiaffi soltanto sul suo bel viso ovale e me ne sono andato. Non le ho detto nulla. Non ho pronunciato una parola.
Adesso Clodia vive per vendicarsi. Dice che vive per vendicarsi dell’oltraggio subito dal console Gheorgopoulos. Ormai il suo volto ovale non reca più traccia dei miei schiaffi… le ho detto: «Ti prego, Clodia, perdonami, ero fuori di me, come posseduto dal fuoco di Poseidone in persona!...», ma non c’è stato niente da fare…
Ma io non sono un geloso ciarlatano come lei impunemente afferma che non capisce un’acca di arte poetica e gioca nelle vesti del poeta archeologico e va a dire in giro che le mie poesie sono melense e scipite ed elegiache e che fanno venire sonno…
In realtà, archeologica è soltanto la sua testa grovigliosa, con tutti quegli sciocchi pregiudizi ché ad estirparli ci vorrebbe una catapulta, una trivella e un pozzo artesiano…
Ho scritto a Clodia questo breve biglietto
Appena ripresomi da un sonno agitato, stamane ho scritto a Clodia questo biglietto. Ho preferito la forma vergata a quella verbale per evitare equivoci. In modo che le parole restino almeno il tempo della loro effimera durata sulla pergamena. Del resto, non è questo il metro per giudicare la nostra transitorietà? E l’infinito? Non è forse la pergamena l’unità di misura dell’infinito? Ciò che supera la durata della pergamena è al di là del nostro concetto di finito. Al di là del limitato finito c’è l’infinito… ma dove c’è l’infinito non ci siamo più noi, l'infinito è un concetto barbaro venuto dall'oriente…
«Come Mitridate mi dai un pizzico di veleno ogni giorno ed ogni notte. Mi instilli di nascosto il nepente nell’orecchio profondo mentre dormo preda di Morfeo. Mi vuoi mitridatizzare, in realtà mi avveleni la vita con atti di sabotaggio e di scherno…
Ho saputo che sei stata finanche con l’invertito Domizio, il macellaio arricchito, il poeta da strapazzo, colui che si fa chiamare «il divino» dai suoi impronunciabili ospiti …
Umiliarmi vorresti con le tue pretese di gran patrizia dicendo che le mie poesie neanche sotto l’ombrellone le leggeresti, ché sono leziose, noiose, stucchevoli…
Che sono un poeta da strapazzo, che nessun editore mai mi pubblicherà un rigo!
Gettami pure nel pattume, Clodia, sai che sono debole e forse mediocre poeta lo sono davvero… mediocre e querulo…»
Non ho ricevuto risposta al biglietto. Clodia sta pregustando il sapore della vendetta per averla percossa. Sa che mi sto torcendo dal dolore, sa che mi tormento dal desiderio, sa che non posso stare un solo giorno senza almeno vederla. E così se ne approfitta, mi fa pagare un prezzo ben alto per la mia impudenza. Dovevo saperlo, dovevo immaginarmelo che mi avrebbe punito negandosi al mio desiderio ma non potevo incassare il suo insulto senza reagire. Dovevo almeno tentare una qualche reazione, se non altro per dimostrarle che sono ancora un uomo. Ma è stato tutto inutile. Questa mia concupiscenza è senza senso. È assurda questa mia testardaggine. È assurda questa mia passione. A cosa serve tutto ciò? Non lo so, non so nulla.
*
Qui alle terme dicono che schiere di sanguinari Burgundi e di selvaggi Eruli saccheggiano nei dintorni di Roma le ville di campagna seminando terrore e sgomento.
Indarno mi consolo con i baci di Clodia. Finché sulla zattera di questo fradicio impero non ci sarà altro che l’isola pagana del nostro amore, mi consumeranno le vampe, gli ardori osceni… ho scritto a Clodia un altro biglietto d’amore. Ho chiamato Fasullo e gli ho ingiunto di recapitarlo subito alla divina Clodia. Sì, ho detto proprio così: la divina Clodia… e Fasullo mi ha gettato un’occhiata incredula. Ecco il biglietto:
«Ah, Clodia, vorrei non più vivere questa vita adiposa, oziosa che consuma ogni cosa, ogni torcia, ogni freccia del mio stolido arco…
Mi dicono che schiere di sanguinari Burgundi e di selvaggi Eruli siano in marcia verso la nostra amata Urbe… Chi ci salverà, Clodia? Chi prenderà le nostre difese? O forse anche tu pensi che ci salverà il dio dei cristiani? Anche tu, mia Clodia, credi a queste insulse menzogne?
I barbari sono già alle porte della città mentre io, imbelle e debole, non so fare altro che trastullarmi tra le tue braccia inanellate da ottoni lucenti e osservo la tua splendida treccia corvina che oscilla al tuo passo imperiale…
Il quadruplice barbaglio del tuo volto ovale scintilla riflesso dai quattro specchi di lucido bronzo che tieni accanto al giaciglio…».
*
Mi chiedo se esista un filtro incantatorio. Mi hanno detto che sì, che c’è un filtro, distillato, sottilissimo, tratto da un’erba misteriosa, chiamata «reggia di Dioniso», o che altro, che ha straordinari poteri sovrannaturali, preparato secondo la formula di antichi magi siriaci che per un giorno solo, o anche per poche ore, dona a chi lo assume poteri e voglie straordinarie, insaziabili…
Oh, se c’è una goccia soltanto di tale filtro per tutta l’Urbe, vi prego amici di dirmelo, ché darei tutta la mia restante vita per quel solo giorno di ebbrezza e di gioia…
Da Balatrone sulla Nomentana
Devo confessare che non riesco proprio a stare a lungo senza una gruccia dove appendere il mio Priapo. Dal mio tugurio all’Aventino, disteso sul giaciglio, in preda al tedio e all’angoscia, bramo la bellezza lattea, gelatinosa di Clodia dagli ampi morbidi cluni che ondeggiano al suo passo imperiale…
Detto fatto, neanche se l’avesse convocato Giunone, ha bussato alla porta del mio tugurio il discobolo color oliva, Antioco il barbiere, l’efebo virile più effeminato dell’Aventino al quale dovevo saldare un debito di gioco, e così siamo andati insieme alla Suburra a trovare la nostra amica Marcia per farci passare il tedio. Lei stava lavorando un cliente facoltoso, un coltivatore di erbe di Lavinio. Dopo inrumato io dico alla mia amica che «Il mio Priapo, la verga avida di proclami e di scontri furiosi, reclama il prezzo della sua rosa, il fiore di Clodia…»; e poi ho seguitato recitando i versi di un ignoto poeta: «La mia bocca avida di profumi e di proclami anela i suoi baci e il suo corpo d’avorio cosparso di olio di palma d’Egitto sulla sponda del triclinio arrotolato… casto, come una sfinge eburnea…». E così Marcia, donna intelligente e di spirito, ha capito che doveva in qualche modo far contento anche il poeta: me lo ha preso in bocca e me lo ha succhiato… sì, miei onorevoli posteri, mi sono dichiarato soddisfatto e, con la coda tra le gambe, me ne sono tornato nel mio tugurio a studiare i poeti dell’età di Augusto…
Sto per entrare nel mio tugurio quando ti incontro il poligrafo Plinio Perillorum, sì, proprio lui, quello che ha scritto un’opera di trecentosessantacinque epigrammi, un epigramma al giorno, confessando tutti i suoi peccati di gola e di Priapo e poi si è convertito al dio dei cristiani… In un orecchio mi ha confidato che lo ha fatto per non perdere il posto di bibliotecario… Detto fatto, mi saluta e mi dice che c’è una festa da Balatrone sulla Nomentana. E così andiamo, io, il nano Psellio e il fidato Fasullo che non mangiava da alcuni giorni un pasto completo, e ci incamminiamo alla volta della munifica villa di Balatrone. Però c’è un fatto, mi dice Plinio, dovremo lodare i versi del padrone di casa se vogliamo mangiare a sazietà.
«Plinio - dico io - il fatto che tu sia un gaudente non basta; se vuoi chiamarti tale, devi anche sembrarlo!».
«Che cosa intendi?», mi chiede il finto ingenuo Plinio.
«Nient’altro che questo: sarai tu a lodare le sue poesie, mio caro Plinio e le loderai anche per me, per interposta persona!».
«Sarò io a lodare i versi del padrone di casa, per tutti e due!», ci fa eco Fasullo che non mangiava un pasto decente dalle idi di marzo.
Così, arriviamo alla villa di Balatrone culattone, proprio quello che pubblicava quel famoso rotolo intitolato «Poeti e Poesia», prefato dal magno Elio Pequorum dove ci pubblicavano tutti i dilettanti e i postulanti dell’Urbe ed anche quelli al di fuori dell’Urbe… Ora, dicevo che la villa è tanto grande che non potevi abbracciarla tutta intera con uno sguardo solo ma ci dovevi camminare almeno per mezza clessidra: le colonne in marmo del peristilio sono così numerose che, contandole, dimenticavi il loro numero, e il giardino è tanto vasto che, si narra, quando i vandali di Alarico arrivarono alle sue mura, si arrestarono ammirati e si ritirarono sbigottiti e conquistati da tale magnificenza. Insomma, Balatrone aveva aperto il triclinio estivo e il banchetto veniva offerto sia nelle sale interne della villa che all’interno dello smisurato giardino, popolato da una sterminata quantità di statue di satiri che rincorrevano ignare ninfe, di dee e dèi, da Venere callipigia a Marte in assetto di guerra, e poi c’erano busti di Giulio Cesare, di Germanico e di Scipione l’Africano, e poi c’erano le statue delle Grazie ignude e quelle delle Muse con la cetra, c’era il dio Pan con il piffero e le Driadi e le Amadriadi che fuggivano sollevando al vento le candide vesti… c’era il dio Priapo con un enorme fallo colorato che guardava il cielo… insomma, c’era di tutto e il contrario di tutto, mancava soltanto la statua di Gesù, e nessuno si sarebbe meravigliato se davvero ci fosse stata.
Appena il padrone di casa mi vede, mi viene incontro con quel faccione più largo delle sue natiche e mi chiede di illustrare i suoi versi con un arguto commento critico, io cerco di svignarmela ma non c’è niente da fare, il figuro mi ha braccato, mi dà una pacca sulle spalle e mi estorce un cenno sibillino: «E va bene - gli dico - Balatrone, non soltanto mi impegnerò in una critica accurata e dettagliata ma ti prometto molto di più, non reciterò niente!». Poi, quando il padrone di casa si accorge di quel tanghero del poeta dei Parioli, quel Valerio Magrellone il quale ha dichiarato pubblicamente che lui ha letto più di ottomila rotoli, ecco che si precipita subito dal nuovo venuto lodando le sue ultime pubblicazioni, in particolare quella dei «disturbi del sistema trinitario» e poi anche gli «exercitii di tiptoplogia»… ma che bella trovata quella dei «disturbi», dice Balatrone al tanghero impomatato, e che ipotesi circensi quegli esercizi di tiptoplogia! «Ma no – gli risponde il peota dei Parioli - quella è una trovata per gli incolti che chissà che cosa si figurano davanti a quei paroloni! In realtà è tutto inventato, dice il Magrellone, non c’è alcun "disturbo" né "binario" né "terziario"! Io sono uno che si fa i fatti suoi!...» Uh, uh… e qui interviene il critico Sabino Caroniorum il quale aveva redatto una monografia sul «Gattopardo», un rotolo di romanzo dell'epoca dei Severi, ecco, costui prende la parola dicendo che il gattopardo è un incrocio tra un gatto e un leopardo ma che non è né l’uno né l’altro e che il critico è come il gattopardo, né carne né pesce, né acqua né vino e che nessuno sa che cosa sia… «Il critico è come l’arbitro in un combattimento di gladiatori - dice Maximum Giannottonem - che fa vincere sempre il più forte!». Sono immerso in questi frangenti letterari quando il Plinio Perillorum mi dice, dandomi un pizzicotto sulla tunica: «guarda quel fellone di Magrellone! È venuto pure lui a satollarsi ora che ha perso la cattedra di istitutore presso la famiglia di Scribonia!», e poi, rivolto al peota dei Parioli gli dice: «che gli dèi ti diano tutto ciò che desideri di buono!». E quello, con lo stesso faccione sublime e fasullo: «Che gli dèi proteggano anche te, caro Plinio e i tuoi versi immortali!». Al che il critico Vario Cortellone replica ad entrambi: «Che gli ozi letterari proteggano Voi sacri poeti dell’Urbe capitolina!», mentre vedo Maximum Giannottone che fa le corna da sotto la tunica…
Io, invece, volto le spalle al peota Magrellone, più lungo che largo, e al critico Vario Cortellone, più largo che lungo, agguanto un braccio di Marco Onorio che colà verseggiava, e mi dirigo la dove mi porta il mio Priapo avido di proclami e il mio stomaco vuoto; così, senza tante cerimonie, mi avvio verso una tavola sontuosamente imbandita. Durante il tortuoso tragitto inciampo nel nano Psellio intento a dare pizzicotti sulle natiche di una odalisca armata di cetra, e così lo rimprovero, gli rivolgo un improperio, gli tiro un fulmine di Zeus e riprendo il cammino.
Il dado è tratto, ma il dado si è presto rivelato improvvido per via del Fato perché mi imbatto nel retore Nasidieno Muzziolo, noto ferroniano di ferro, il quale discettava sull’argomento delle corna dei più famosi cittadini romani sostenendo la tesi che tutto cambia nella vita, dagli amici ai nemici, dalla moda agli affari, tranne le corna, l’unico trofeo che rimane sempre eguale a se medesimo…
«Quale nume, o Fortuna, incrudelisce su di noi più di te? Che ti diverti a farti gioco degli umani propositi!»; Vario Cortellone stentava a soffocare le risa nel tovagliolo pensando alle liberalità della giunonica consorte di Nasidieno Muzziolo, quando interviene Rufo Rufone, il gaudente, quello tutto impomatato con i capelli ricci che gli ricadono sulle tempie come un invertito, che prende a piangere, così, di punto in bianco, perché, dice, è stato abbandonato dalla timorata consorte la quale ha abbracciato la fede dei cristiani e si è promessa alla castità eterna e alla ritrovata virgineità… io non voglio credere alle mie orecchie… e me la do a gambe con tutta la forza dei miei sandali…
«Che gli dèi ti diano tutto quanto di meglio desideri, virile Rufo!», gli dico senza ambascia «vedi? Fai come me che non ho il becco di un sesterzio ma vivo alla grande senza le preoccupazioni di una moglie!».
«Ben detto, caro Gheorghopoulos, spesso sono proprio le avversità a rivelare le qualità di un anfitrione come quelle di un condottiero, mentre se tutto va bene esse rimangono nascoste». Al che Nasidieno Muzziolo: «Si vede che sei un cittadino costumato e un uomo di garbo!». Che è che non è, in mezzo a questa vocabologia ecco che il dotto Nasidieno riprende la parola: «Silla - dice il ferroniano - sposò Cecilia Metella esponendosi a critiche vivaci, Pompeo mentre era impegnato nella guerra piratesca e mitridatica fu disonorato a Roma dall’infedeltà della moglie Mucia, Cesare fu costretto a divorziare dalla moglie Pompea, Cicerone si separò da Terenzia che gli dilapidava le sostanze, Augusto dovette scacciare Scribonia per la grave sregolatezza dei suoi costumi, Tiberio fu obbligato da Augusto a sposare la corrotta e dissoluta figlia Giulia, e che dire di Caligola il quale sposò, tra le altre, Cesonia, dedita ad ogni eccesso e a ogni vizio, e Claudio ebbe per mogli Messalina e Agrippina, due delle più sfrenate matrone della storia di Roma… e che dire di Nerone il quale si attirò una pessima fama anche per i suoi matrimoni… e che dire di Domiziano il quale sposò Domizia Longina dopo averla strappata al legittimo marito, fu da lei tradito, la ripudiò e poi se la riprese e infine la ebbe partecipe della congiura che l’assassinò…».
Avrebbe continuato, il dotto Nasidieno Muzziolo, a tediarci con il racconto delle corna più famose se non fossero sbucati dal nulla un gran numero di buffoni e di giullari con nacchere e campanelli alle caviglie, vestiti in strane fogge che se la prendevano con le scimmie ammaestrate che portavano sulle spalle e con dei corvi, anch'essi ammaestrati, che sostavano sulle loro scapole, e danzatrici discinte che dimenavano i fianchi al suono delle nacchere e dei tamburi e poi delle finte odalische siriache che facevano la danza del ventre al suono del flauto che avrebbero fatto eccitare il Priapo anche di un morto…
«Non mi resta altro da fare che darti il mio dispregio vergato su una pergamena della Commagene! (dico a Zerco, il nano di Balatrone) tu che mi scorreggi sul davanti con tanta disinvoltura!». E così prendo il largo da quel maleodorante nanerottolo.
«Non vorrei essere nei panni di Nasidieno Muzziolo se sapesse dove si trova la sua giovanissima e piacente consorte», sento dire da un convitato all’orecchio di Marco Onorio, e questi lo ridice subito ad un altro intruso. Avevo appena allungato l’orecchio per carpire altre amenità quando, preceduto da tredici squilli di tromba, fa il suo ingresso un gigantesco crupellarius tutto ricoperto da piastre di ferro, indossa un elmo cilindrico armato di scudo rettangolare che lo copre dalle ginocchia al collo e di una spada lunga e gira intorno, allorché un banditore invita eventuali sfidanti a farsi avanti. Il gladiatore è talmente imponente che, così coperto di ferro, appare invulnerabile come il dio Marte … marcia lentamente e ad ogni suo passo emette un tinnire sinistro di metalli… c’è come un’orgia di strida e di grida… c’è il vino che cade a fiotti dai calici a forma di conchiglia e da corni ricurvi… il gladiatore si piazza al centro della sala delle trenta colonne di marmo rivestite di capitelli in oro e chiede se c’è uno sfidante… subito un silenzio di spavento e di ammirazione si diffonde tra i presenti, quando ecco che il nano Zerco, il buffone del padrone di casa, dà una spinta sulle spalle al letterato Sabino Caroniorum, il quale fa un passo avanti e rimbalza sul pavimento e lì resta impietrito dalla paura; il gladiatore appena lo vede grida meravigliato: «Chi è questo sacco di farro?», e gli sferra un poderoso calcione sulla groppa che lo fa starnutire e rotolare di paura sul pavimento... e giù le risa del pubblico per l’inatteso interludio… ma ecco che da una delle colonne appare un gigantesco africano con la pelle più nera che abbia mai visto, è un hoplomacus, che combatte con il possente dorso nudo e le brache attorcigliate attorno all’inguine con alti schinieri di metallo che coprono le gambe fino alle ginocchia… impugna una lancia e un piccolo scudo con una piccola spada infilata… gira attorno al crupellarius con un alto elmo ad ampia visiera che reca in cima una spazzola rossa… è molto più agile dell’avversario perché non indossa armatura… l’hoplomacus lo colpisce subito con la lancia ma il colpo si infrange sul grande scudo del crupellarius, il quale, a sua volta risponde con un terribile fendente della sua spada lunga, vibrata dall’alto al basso, che avrebbe annichilito chiunque tranne l’africano col piccolo scudo rotondo il quale risponde con un allungo diretto che si arresta contro lo scudo del crupellarius… vanno avanti così per un bel po’, un colpo l’uno e un colpo l’altro, tra grida di giubilo e di goduria degli spettatori quando il nano Zerco trova modo di intrufolarsi, come una palla, tra le gambe dei combattenti, e fa dei saltelli di giubilo, di qua e di là, finché un calcio sul di dietro del gladiatore negro non lo fa rotolare fino ai bordi della sala: un coro di ilarità lo accoglie… È già un primo quarto di clessidra che i due gladiatori combattono quando, all’improvviso, tutt’intorno si sprigiona un densissimo fumo azzurro mentre squillano all’unisono trombe di guerra con un sottofondo di dolci flauti che emettono musiche lidie… E che succede? Succede che i gladiatori scompaiono in un fulmine e prendono il loro posto due giovanissime danzatrici di Cadice che ondeggiano e occhieggiano al suono di nacchere e tamburi e saltano avvolte in veli trasparenti, e poi, all’improvviso, scende dall’alto un cocchio sul quale si issano le danzatrici che scompaiono nel nulla… Hai appena il tempo di respirare dallo stupore che ecco che arrivano, rotolandosi sul pavimento, i mangiatori di fuoco che lanciano lunghe lingue di fiamme dalle fauci… Hai appena il tempo di raccapezzarti che sei ancora vivo ed ecco che arrivano gli equilibristi che salgono su una corda stesa da una estremità all’altra della grande sala e si mettono a camminare tranquilli mentre lanciano in aria delle palle di pergamena colorate… E poi altro fumo, altra musica assordante di trombe e tamburi di guerra e ricompare il nano Zerco che fa dei saltelli e declama ad alta voce: «Attila, Attila sposa la bellissima Ildico!». E giù starnuti e sberleffi da tutti i presenti…
Quando ecco che tre squilli di tromba introducono il banditore il quale proclama: «Tre inni in onore di Protalo!». È il divino androgino Protalo che fa il suo ingresso trionfale, al suono dei flauti e buccine e al battito dei tamburi, nella grande sala delle colonne… sull’inguine e sul collo reca delle collane di fiori di gelsomino e nient’altro…
«Il supplizio di Tantalo e il clangore delle armi di Ares, dio della guerra - dico a Marco Onorio - vorrei patire per il corpo bronzeo di Protalo! Talmente è bello il suo corpo da far impallidire noi mortali…».
Come l’invincibile Ares non conosce alcuna Themis, anche Protalo tradisce e non conosce fronesis. Gheorgopoulos lo sa e con pazienza attende il suo turno mentre i rissosi Plinio Perillorum, Maximum Giannottone, Marco Onorio e Vario Cortellonem si affollano attorno al bruno corpo del dio mortale come i proci affollavano la corte di Penelope.
Come un guitto da teatro indossa, Protalo, una maschera che gli copre il volto. Altri tre squilli di tromba ed ecco che arriva Asdrubale, un negrone con la faccia truccata da satiro con le orecchie asinine, la barbetta grigia da caprone e le corna dell’animale. È tutto nudo e non nasconde il suo mostruoso Priapo in erezione! È la fine di Protalo, pensano gli astanti… E così io sciolgo le briglie di alcuni miei versi caduchi e declamo la bellezza oscena di Protalo dal bronzeo corpo incornato dal sesso uncinato del satiro Asdrubale.
Protalo androgino danza nudo fra la turba di postulanti e di invertiti che affolla la reggia di Balatrone culattone… tocca il petto glabro di quell’invertito del Chiavardone, un macellaio arricchito con la speculazione edilizia e l’usura, ma quello non batte ciglio perché è completamente femmina. È una spintria nata. E allora ecco che fa il suo ingresso un ciclopico africano che prende a sculacciate le natiche della Chiavardona la quale squittisce come un pappagallo giallo della Numidia…
Simile all’efebo di Pergamo dipinto, entra Bupalo l’androgino ornato di edera e gelsomini che inarca le reni sulla sabbia il velo discinto sollevando e i lunghi capelli quando fa ingresso lo scettro d’avorio di Olimpiodoro il discobolo color oliva…
Mio caro spettatore, ti confesso che non era così ardente lo scettro di Teseo quando abbattè il Minotauro.
«È stata una grande festa», dico al peota Plinio Perillorum.
«È stata una grande festa», dice Plinio al critico Vario Cortellone.
«Anche oggi si è mangiato», dice Marco Onorio.
«È stata una grande festa», replica il letterato Sabino Caroniorum al peota Plinio e al critico Vario Cortellonem che aveva il grasso del pancione al di fuori della clamide.
«Sì, è stata proprio una grande festa», ripete Marco Onorio.
E così ci dileguiamo, quando già la notte senza stelle volge le spalle all’aurora, io, il letterato Sabino Caroniorum, il poeta Marco Onorio, Luciano Notorius, il peota Plinio Perillorum il peota del Garigliano Dantone Maffionem e il critico Vario Cortellonem in compagnia di ingrati bifolchi, del nano Psellio e dello schiavo Fasullo, ebbri di vino numinoso e satolli di vento e di cibarie…
Mi fai davvero così codardo?
Devo ammettere che ho avuto una brillante idea: per farmi perdonare le mie numerose intemperanze ho scritto a Clodia un’altra poesia. Ritengo, spero, opino che passerà ai posteri. Una poesia! Uh, chi mai legge più le poesie? Ma non ha importanza. Forse, in un’altra epoca, magari tra duemila anni, come dice Clodia, ci saranno persone che leggeranno le poesie della nostra epoca. Detto fatto. Una poesia in cui ci siamo io e lei e la nostra epoca efferata e scellerata. In cui c’è tutto il mio disappunto, il mio amore per lei, il mio tormento per il desiderio frustrato, per le vane attese, il tedio per il tempo non goduto, l’angoscia per le terribili notizie che arrivano dai quattro angoli del mondo. La poesia è intitolata: « Mi fai davvero così codardo?», e parla di noi come soltanto può parlare una poesia, dove chiamo Clodia «la mia amante africana, la Elena di ebano». Ma è di lei che parlo. Lei lo capirà. Ecco la poesia:
«Tu, Scirocco odoroso del miele e dei baci della mia amante africana
fa ch’io non pianga la lebbra dei suoi morsi sul mio collo…
su, portale questa notizia: ho impugnato la spada per la difesa della Città Eterna!
Vola tu Zefiro ardente sulla sua scarmigliata capigliatura
e sulle sue sottili braccia cinte da innumerevoli lucide
armille serpentesche e sui draghi d’avorio che porta
ai lobi degli orecchi che oscillano ad ogni movenza
del volto ovale…
Vola tu mio messaggero, mio auriga più rapido dell’alipede Hermes
più ilare di Marte in assetto di guerra…
più potente di Zeus che scuote la terra con terremoti e fulmini
più veloce delle notizie di sventure che ascolto
girando per le taberne e le locande dell’Aventino…
Tu dici che sono impotente e imbelle, arrogante e codardo?
ma come puoi credere che non sappia difenderti
dalle orde di Eruli e di Goti
quando irromperanno nella nostra amata Urbe?
Mi fai davvero così codardo da darmela a gambe
davanti ai selvaggi Eruli?
Davvero, tu pensi questo?
Non sai che sono un console pagano che ha combattuto
nella lontana Pannonia
che senza pietà ha rigettato nelle acque del Danubio
i selvaggi Burgundi?
Come posso temere la morte io che non ho più nulla di cui morire?
Ormai non ho nulla da temere perché con Roma
morirà anche la mia amante africana, la Elena di ebano
e tutte le ancelle e le odalische e gli efebi e gli ermafroditi della Suburra
e tutto ciò per cui ho vissuto, ho creduto ed ho combattuto
nella lontana, algida Pannonia…».
Soltanto per un suo bacio
Nel sonno non mi sono dato pace. Sono stato con gli occhi aperti per tutta la notte. Erano già le prime luci dell’alba quando finalmente ho chiuso fessure degli occhi. È stato un sonno fugace. Ho sognato che c’erano cavalli veloci al galoppo e molti cavalieri barbari armati con lunghe spade ed io li colpivo, con il mio scorpio, lanciavo le frecce, una dopo l’altra, e i cavalieri cadevano… Ho aperto gli occhi cisposi e subito il pensiero di Clodia è ritornato, veloce come un fulmine di Zeus…
«Soltanto per un suo bacio mi arruolerei nella legione Felix contro i selvaggi Burgundi…
Per possederla poi… spazzerei tutto il pattume dell’Aventino!», ho confessato all’efebo Antioco che ancora dormiva felice accanto a me come un’ombra dei campi elisi e non mi dava alcuna retta. E giù lamenti e singulti e singhiozzi… ma Antioco non dava segni di risveglio, e così decido di continuare: «È una Chimera che fa male al cuore, un morbido balocco che fa le fusa… i monsoni delle sue ire, come uccelli di Stinfalo, la rendono più bella e terribile come un mal di denti e aggiungono frenesia alla sua chioma scarmigliata che come un mal di pancia mi becca il fegato come un uccello di Stinfalo…».
Visto che quell’avanzo di Suburra del parrucchiere Antioco non mostrava alcun segno di interesse per le mie ambasce, decido di chiudere un occhio e poi anche l’altro e, di nuovo, mi addormento finalmente, spossato dagli eccessi della sera del giorno prima.
Ieri una meretrice scaltra e incolta…
Ieri una meretrice scaltra e incolta con cui mi sono coricato, approfittando del mio sonno profondo, mi ha derubato degli ultimi sesterzi che tenevo nascosti in un borsello sotto la tunica. Quando mi sono svegliato avevo la clamide più leggera e la testa pesante come se avessi bevuto dieci crateri di pessimo vino della Sabina.
La plebea Ottavia, invece, l’altra notte mi ha sfasciato l’udito con i suoi urli da beccaccia e le sue contumelie per averle dato soltanto due assi…
«Sai una cosa? – le ho detto – faccio fagotto e me ne vado a caccia di guai con un’altra fottuta bagascia della tua risma!». Detto fatto. Con gli ultimi sesterzi, ho comprato del fango bituminoso del mar Morto, la nobile asphaltite, e l’ho portata in dono alla divina Clodia dicendole che la sua suprema, impareggiabile bellezza deve essere protetta dal rigore dell’inverno e dai gelidi venti che vengono dall’est e dall’ovest e dal nord e da tutte le direzioni del nostro fradicio impero…
*
Con gli occhi ancora instrutti di bistro, retaggio della notte precedente, sono ritornato tra le braccia della disfatta meretrice callipigia che mi aveva derubato l’altra notte e l’ho trovata mentre si imbrattava le rosse labbra con del cinabro delle Indie… il seno, copioso e flaccido di Medusa, pendeva come due bolsi meloni del mercato… la chioma inalberata e scompigliata di Gorgone spandeva un odore di pesce bollito e di formaggi fritti… il ventre madreperlaceo e ributtante di Ecate mi venne incontro dalle profondità dell’Erebo e mi scosse tutto dallo spavento…
…poi, dopo inrumato, ho deposto due o tre assi sul piatto, all’ingresso, accanto alla statuetta di Priapo e sono fuggito via a gambe levate…
Arrivano i barbari
Dicono che hanno avvistato orde di Eruli e disertori Unni sulla via Cassia, orribili a vedersi, armati di lunghe falci e ricoperti di pelli puzzolenti. Che hanno depredato le ville dei patrizi e le case del contado, saccheggiato impunemente i templi e violato le dimore e passato a fil di spada chiunque osasse opporre resistenza.
Depredano, uccidono senza timore, saccheggiano, mettono a ferro e a fuoco tutto ciò che può essere messo a ferro e a fuoco. Che tempi sono questi, Clodia! L’avresti detto? L’avresti mai pensato? E le legioni? Che fine hanno fatto le nostre legioni? Si sono dileguate come foglie al vento…
Siamo soli, Clodia, nessuno ci potrà difendere, e neanche gli dèi possono più far nulla.
E quei codardi dei cristiani si rifiutano di combattere, dicono che il loro dio fermerà i barbari! Li farà annegare nel biondo Tevere prima che raggiungano la città!
Tu lo sai, Clodia, non sono stato ingrato né vile né meschino mai, neanche tra le risse e gli insulti della plebe della Suburra sono fuggito mai come tu vai dicendo ai quattro venti spargendo sul mio conto calunnie ed infamie e sordide dicerie, dicendo che sono un sodomita, un bifolco, un gradasso, un insulso letterato venuto dalla Trinacria!
Ed adesso come sandalo vecchio mi hai gettato nel pattume.
Anche questo, credimi, è umano… anche l’angoscia, la denigrazione, la derisione, il disprezzo.
Ah, Clodia, non sono una cloaca né un vulture né un leggendario eroe, sono un semplice console senza esercito. Imbelle ma non codardo. Ma io ti difenderò, Clodia, con la spada nel pugno affronterò i barbari a costo della vita, sì, a costo della mia vita…
Ma tu sei un rospo o un uccello nero di Stinfalo che alzi le spalle e mi neghi le tue grazie!
*
Sono tempi avversi per i pagani. Vengono scacciati da tutte le cariche pubbliche. Se non proclamano la loro fede in Gesù vengono rimossi dalle cariche e sostituiti con dei cristiani. Ormai la più parte si professa cristiano anche se non lo è. È una corsa generale all’abiura. Ah, beati i tempi di Giuliano l’Apostata! I templi pagani vengono chiusi, ad uno ad uno, e vengono edificate sempre nuove chiese cristiane. I cristiani dicono che il loro dio è più potente di Giove ed è capace di incredibili miracoli. Hanno sparso la notizia che il loro dio ha fermato Attila, sul Mincio, e lo ha convinto a tornarsene nella sua gelida Pannonia. Quel mentitore di Gennadio Avieno ha sparso un’altra notizia: dice che Attila è morto, che è stato colpito dalla vendetta divina del dio dei cristiani. Dapprima la notizia è stata accolta con incredulità e sarcasmo ma poi tutti gli increduli si sono dovuti ricredere. Sì, Attila è morto veramente. Ed ora l’impero d’Occidente può dormire sonni tranquilli. Almeno per un po’. Ed ora i cristiani si sono scatenati, si sentono i padroni della città e perseguitano i pagani e chiunque non segua il culto di Gesù, il figlio del loro dio. Tra essi c’è chi pensa che si tratti di un figlio in carne e ossa, che dietro la sembianza umana si celi la sua divinità; altri credono invece che Gesù sia un’essenza divina rivestita però di carne e di ossa a guisa di finzione. Che assurdità, che follia, penso io. Questi cristiani credono nelle cose più astruse, ad esempio credono nella resurrezione della carne! Accorrono in massa a farsi battezzare, dicono per mondarsi dai peccati! E battezzano anche i neonati! Ma quale peccato può mai avere un neonato?, dico loro, e questi folli mi rispondono che il loro peccato è originale, che c’è un peccato che ci precede da prima della nostra nascita!? (...) I cristiani anelano il «regno di dio», attendono con fiducia al futuro, anzi, la fine del futuro, dicono che presto ci sarà una cosa chiamata «paradiso» dove tutti vivranno in eterno e felici! Io invece mi convinco sempre di più di essere un sopravvissuto, un postumo, un uomo senza futuro. Io, per il vero, non riesco a comprendere che cosa vogliano dire i cristiani quando affermano che i pagani non entreranno mai nel loro «paradiso», che noi pagani non vediamo la trave che è nel nostro occhio mentre distinguiamo benissimo la pagliuzza che sta nell’occhio altrui. Ed io rispondo loro che, quando sarò morto, abiterò i campi elisi... e che non avrò bisogno di attendere la loro assurda resurrezione della carne e che mi accontenterò della mia condizione di ombra. Che ciò mi è sufficiente.
Stamane ho bussato a casa della bella Giulia, la plebea callidrome, dai rotondi glutei. Per arrotondare le magre entrate, delizia gli amici generosi con le sue arti amatorie. Io l’ho presa forse in un momento di bollore perché quando le ho posato la mano sul pube lei non ha opposto resistenza… lì per lì sono stato colto dall’ispirazione e le ho recitato questa breve poesia:
«Dai cocchi dei tuoi occhi
scendo fin sotto i ginocchi
dalla cocca della chioma
che riposa sul crinale del tuo viso
scendo sotto il tuo zinale
per guardare il tuo viso
quello vero che fa male
che sta sotto il tuo grembiale…»
Ma quella non ha battuto ciglio e mi ha detto che per il poeta senza sesterzi non si facevano sconti. E mi ha sbattuto la porta in faccia.
È stato allora che ho vergato queste due brevi poesie… non da consegnare ai posteri ma per mio mero diletto:
«Se non fosse per Giulia la formosa lavandaia
non starei qui, nella Suburra, a menar il can per l’aia
tra odori di formaggi e uova fritte…»
*
«E tu, invece, Clodia sei una sciocca guerrafondaia…
che mi neghi le tue grazie e i tuoi orpelli…
La grondaia della luna ti guarda
e imbratta di luce la notte stellata…»
Non demordere Gheorgopoulos, non abbassare la guardia
Davanti al suo ultimo, ripetuto e immotivato rifiuto, mi sono detto: non demordere Gheorgopoulos, non abbassare la guardia, se sei un uomo non cedere alle sue lusinghe… Quanto più ti negherà le sue grazie tanto più dovrai resistere! Comportati come un vero console, come se dovessi affrontare sulla via Cassia orde di Eruli e di selvaggi Burgundi dalle lunghe spade, a costo della tua stessa vita e del tuo onore!
Così, la licisca non potrà cantare vittoria e rimarrà con la clamide slacciata e un pugno di mosche… sì, sono rimasto senza un asse, neanche per pagare a quello scansafatiche di Fasullo un pasto giornaliero! E così, quello se ne approfitta per non fare niente, perché, dice, a pancia vuota non si può lavorare! E va bene, dico io, che colpa ne ho se la divina Clodia mi asciuga tutte le finanze? - Ho avuto un’idea: andrò da Clodia impugnando una coppa di pessimo vino della Sabina dicendo che c’è della cicuta al suo interno: e resterò con la coppa di cicuta in mano, pronto a bere senza remore il suo contenuto se…
*
Anche il turpiloquio è utile per comunicarle il mio pensiero… anche le strida, le sberle, anche pestarle i piedi e saltare di rabbia, urlare, sbraitare come una Menade capricciosa…
Ma lei, come una perla rara, sta racchiusa nella pancia della conchiglia, nel suo silenzio e, attraverso il mare della sua noia, la mia stizza non la raggiunge e non la morde…
Un tumulto di stelle il suo volto ovale e armille e gemme
Stamane Clodia ha rovesciato sulle mie pergamene un calice di vino. «Solo tu ci potevi riuscire, quanto sei sbadata!», le ho gridato in preda al furore. Mentre si stendeva sopra di me in cerca di baci ha sfiorato con il gomito il bicchiere e il liquido rosso ha imbevuto di sé un intero rotolo pieno di mie scritture che avevo posto accanto al letto. Ho pensato al dramma, a una catastrofe. Tutte quelle pagine vergate, riga per riga, studiate e sudate, limate per anni con pazienza infinita. Ed ora sono completamente illeggibili!… ma, in compenso odorano di vino della Sabina. «Ti dovrei odiare - le ho detto - per quello che hai fatto. E adesso come faranno i posteri senza le mie poesie? Senza la testimonianza delle mie poesie?», «ma quali poesie e poesie! - mi ha gridato Clodia - anzi mi dovresti ringraziare, tu ed i posteri, perché vi risparmierò la fatica di leggerle!».
Questo mi ha detto la divina Clodia…
Sono caduto in ambascia. Mi sono gettato bocconi sul letto. Forse Clodia ha ragione… forse è tutto inutile… e i posteri avranno ben altro da fare che non leggere delle insulse poesie…
Un tumulto di stelle il suo volto ovale e serpentesche armille e cerulee gemme e fermagli smaltati sorreggono la torre screziata dei suoi capelli in liane sottili e trecce euclidee e onde sinuose e numerose come le onde del mare….
Ci sono cinque punte in una stella e sono cinque le stelle che brillano nella stella del suo volto ovale e dieci accecanti stelle sono i suoi piedini smaltati e cento brucianti rubini sono il carminio della sua bocca e mille lapislazzuli notturni la sua capigliatura variegata…
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La scarmigliata chioma di Clodia, sontuosamente scomposta, inghirlanda il suo volto eburneo che mosto ed essenza di timo emana ed essenza di papavero e di cedro del Libano e fiori ed essenze che in tracce parmenidee racchiude numerose e sottili come spole di telaio…
Amo il trucco del volto disfatto e le sue labbra tumefatte da straripanti baci quando, colmo di ebbrezza, la inrumo nella bocca…
I veli e le armille d’argento degne della divina Cleopatra ora le cingono il collo sottile e oscillano sulla clamide slacciata…
E la noia stride nei suoi piccoli occhi assonnati…
*
Al mercato del pesce e al mercato di Traiano non si parla d’altro. I mercanti che vengono dal nord portano una notizia strabiliante: dicono che Attila è morto e condiscono la notizia con i commenti più impensati. C’è chi sostiene la tesi del complotto e dell’assassinio del capo unno; c’è chi dice che sia stata la novella moglie, la bellissima Ildico, che l’ha assassinato la notte delle nozze. C’è, infine, chi afferma che siano stati degli emissari dell’imperatore d’Oriente ad ucciderlo con uno stratagemma. Ma io non credo a quest’ultima ipotesi. E poi, come farebbero degli emissari dell’imperatore ad insinuarsi e a mescolarsi agli unni e arrivare fino alla capanna di legno del grande Unno? È una tesi inverosimile. E i cristiani già cantano alleluia e innalzano alti lai di ringraziamento al loro dio onnipossente. Dicono che il loro dio ha compiuto un altro miracolo. Io la penso diversamente, penso che il miracolo l’abbiano fatto i nostri dèi. O meglio, la mano del Fato. Insomma, chiunque l’abbia fatto, ben vengano questi e altri miracoli. Ma io non credo che Attila sia stato assassinato dalla germanica Ildico, la più bella principessa delle sue genti. In realtà, si è trattato di un matrimonio politico. Attila ha sposato Ildico per tenersi buoni i germani a nord e poter attaccare l’imperatore Marciano a sud. L’imperatore d’Occidente è troppo debole per impensierire il capo unno e Teodorico, il capo dei goti, è lontano dai suoi alloggiamenti…
La notizia ufficiale è la seguente: pare che le cose siano andate così: che dopo il matrimonio con Ildico, Attila ha bevuto copiosamente per tutta la notte, in modo sregolato, in onore della sposa ed è caduto preda di un sonno profondo. Alle luci del giorno seguente i suoi servi lo hanno chiamato inutilmente a gran voce fuori della porta della sua camera da letto, senza ottenere alcuna risposta. Presi dal panico hanno chiamato le guardie che hanno fatto irruzione all’interno e hanno trovato il loro padrone morto e la bellissima sposa che piangeva con il volto coperto dal velo. Che cos’era avvenuto? Era avvenuto che Attila aveva perso sangue in gran copia dal naso durante la notte (come in realtà gli era accaduto spesso in precedenza), ed essendo ubriaco fradicio, era rimasto soffocato nel sonno. Il suo corpo non recava alcuna traccia di ferite. Gli unni sono rimasti esterrefatti. Dal dolore si sono tagliati i capelli e si sono sfregiati il volto con le spade, affinché il più grande di tutti i guerrieri venisse compianto, non con lamenti femminili e con lacrime, ma col sangue di uomini. Poi, il corpo di Attila è stato deposto in una tenda piantata su quelle pianure sulle quali egli tanto spesso aveva guidato alla guerra i suoi uomini… e, mentre il grosso dei suoi seguaci lo guardava attonito, dei cavalieri scelti hanno galoppato selvaggiamente intorno a lui in modum circensium, per rallegrare il cuore del capo defunto. Nel frattempo, il suo tumulo era stato eretto e, quando cessarono i lamenti, gli unni hanno celebrato il funerale con selvaggia baldoria. Quando cadde la notte la salma venne rimossa dalla tenda e adagiata sul tumulo. Gli unni hanno coperto Attila d’oro e d’argento e quindi di ferro. Si disse in seguito che i metalli preziosi indicavano che il capo aveva ricevuto il tributo di entrambi gli Imperi e il ferro che aveva conquistato tutte le nazioni. Le armi che il capo aveva strappato ai suoi nemici assieme alle gemme e ad altri tesori sono state poste sul tumulo, e coloro che lo avevano adagiato per l’ultimo riposo sono stati uccisi sul suo corpo e sono caduti al suo fianco. Ecco, così è morto il grande capo unno… e i popoli degli imperi d’occidente e d’oriente esultano e si rallegrano…
In verità, anch’io esulto e mi rallegro. Potremo godere qualche tempo di agi senza guerre e saccheggi. E questo è già un grande risultato. Per il futuro si vedrà. Chi vivrà vedrà…
*
In questi frangenti, visto che il pericolo unno si è allontanato, l’imperatore Valentiniano e il generale Ezio sono tornati a Ravenna con le ultime legioni. Hanno ripreso il comando dell’impero. O meglio, di ciò che rimane dell’impero: con i Vandali in Africa, i Visigoti nella Gallia, i Franchi a sud della Gallia e i Sassoni a nord. Soltanto ora è giunta notizia che un’armata dell’impero d’Oriente ha passato il Danubio approfittando dell’assenza di Attila e ha attaccato le forze unne che erano state lasciate indietro a salvaguardia dei territori dell’est, ed ha inflitto gravi perdite agli unni costringendoli a ritirarsi. E guarda la bizzarria del fato: chi comandava l’armata romana? Un generale di nome Ezio, un omonimo del nostro grande generale. Così, Attila e i suoi figli sono stati sconfitti: ad ovest e ad est da due generali che si chiamano con lo stesso nome!
Ma io non mi fido di Valentiniano. È un incapace, privo di spina dorsale, infido, sordido. E per di più, invidioso di chiunque gli possa fare ombra. E adesso che non c’è più Attila che cosa crede di fare? Dovrà vedersela con i Vandali di Genserico. Prima o poi il goto Teodorico attaccherà a sud. Alla prima occasione. È per questo motivo che Ezio punta ad una nuova alleanza con l’ex nemico, con gli Unni dei figli di Attila, per controbilanciare la forza dei Visigoti. Così la pax romana dipende più dall’equilibrio delle forze in campo che non dalla forza delle nostre armi. È una pace incerta ed instabile, che durerà lo spazio di alcuni mattini, fin quando non si sgretolerà l’impero degli Unni. In fin dei conti, la nostra salvezza dipende ancora dalla forza degli Unni…
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Avevo sognato che stavo in una grande stanza e alle pareti vi erano raffigurati pesci dalle squame colorate ed agnelli bianchissimi e vivande saporite e gustose erano sparse sul pavimento e d’ogni dove e convitati mangiavano soffici carni di fagiano, leccornie varie e deglutivano vini numinosi… quando ecco uno strepito di corazze e baluginii di spade e guerrieri con bizzarre armature irrompevano all’interno con grande strepito di corazze…
Mi sono appena svegliato dal sonno ed esco sulla via per fare quattro passi… in questo frangente, ecco che mi compare davanti la bellissima Clodia abbracciata al suo ricco nuovo amante: il critico letterario Vario Cortellone!… non ci ho visto più, accecato dall’ira, l’ho presa da parte dando uno spintone al suo ricco e influente amante e l’ho apostrofata nel modo seguente:
«Come colta da scabbia o leptospirosi, Clodia, ti rivolti nella sabbia del biondo Tevere dove sei solita prendere il sole, discinta, in compagnia di insolenti plebei e ingrati bifolchi venuti dalla Sabina e dalla Tuscia, accecata dall’ira ché tagliarmi la gola vorresti se soltanto lo potessi…
Come morsa da topo di fogna vorresti la mia vita tramutare in gogna eterna, come rogna mi tormenteresti senza requie, senza ombra di dubbio alcuno…
Con zanne di elefante vorresti ghermirmi, tu che non infirmi la mia esistenza più di tanto e non vuoi trangugiare lo scorno del mio disdegno…
Non attendere, Clodia, l’ombra del mio tracollo perché non ci sarà, benché la colla del tuo corpo come una spugna il sangue mi risucchi fino all’ultima stilla…
Non mi spezzerai né mi piegherai mai Clodia e, come un dardo avvelenato, ti colpirà la punta del mio disdoro…».
Ma è stato un sogno. Un vile e inglorioso sogno. Non è accaduto nulla di tutto ciò, ed in verità io sono sempre più schiavo della mia passione per Clodia.
Come Mitridate, lentamente
Come Mitridate, lentamente, giorno dopo giorno, Clodia mi instilla nel sangue una minuscola pozione di veleno con atti di sabotaggio e di scherno…
Umiliarmi vorrebbe ed infiacchirmi con le sue pentole e i suoi alambicchi con cui distilla le essenze d’oriente e sfoggia le pretese da gran patrizia… E va in giro dicendo che le mie poesie neanche sotto l’ombrellone le leggerebbe, ché sono leziose e noiose, stucchevoli e astruse, che sono un poeta da strapazzo, che nessun editore mai mi pubblicherà un rigo…
Gettami pure nel pattume, Clodia, sai che sono debole, forse mediocre poeta lo sono davvero… mediocre e querulo…
*
Ora si sente più bella per avermi gettato in ambasce e avermi tradito con un campione di lotta grecoromana.
È il gladiatore macedone Agar nato sotto un vulcano dei Carpazi, dicono, ma io sulle spiagge del biondo Tevere sono nato, nelle arti della retorica e della guerra versato… e presto, molto presto, avrò la mia vendetta…
E, se non potrò affrontarlo con le armi, sappia, Agar, che la mia lingua ha mille linfe vitali, mille velenosi serpenti che nessuno mai potrà eguagliare…
*
In verità, non sono aduso alle sue scostumatezze. E va bene, fallo con chi vuoi, Clodia, ma non dinanzi ai miei occhi. Non sono un eunuco e neanche una spintria sono da trattare con le ciabatte…
*
Clodia, sappi che del sordido macedone mi sono vendicato con le parole ma con il campione germanico regolerò i conti con i sandali e con i pugni…
I capelli come schiuma selvaggia
I capelli attorcigliati, rossi di purpurisso come schiuma selvaggia di Menade, gli occhi d’avorio splendente come torce incendiarie, le unghie appuntite e smaltate sono simili ad artigli di arpia o di idra, e le braccia sono liane cerulee di Medusa, e la bocca dipinta di cinabro come fossa di Ecate mi appaiono nel sonno…
Oh, Clodia, anche nel sogno mi sconvolgi la mente e mi guasti la pace dei sensi!
*
Scampato ad una rissa nella Suburra, ferito ad un braccio dal pugnale di uno zotico plebeo, torno fra le braccia di Clodia come un cane che sbatte la coda.
Proprio come un cane scodinzolante salta sul petto della sua padrona, il collo le vorrei mordere screziato di armille…
*
«Chi semina vento raccoglie tempesta», recita un vecchio adagio. Ma tu che quotidie spandi essenze letali, tredici volte tempesta raccoglierai e la zizzania seminata ti si rivolterà contro come un dardo avvelenato…
Un altro rotolo per la divina Clodia
Negli ultimi tempi ho scritto soltanto frammenti. Non posso scrivere nient’altro che frammenti. Non riesco neanche a mettere insieme questi frammenti per costruire una composizione più lunga e che abbia un senso compiuto. Mi sfugge il senso del tutto, l’intero. Ma che cos’è il tutto? Esiste veramente il tutto o è una invenzione delle nostre menti confuse? E cosa può importare a me di una questione così oziosa come il tutto ed il senso del tutto? Pensiamo alle cose importanti. Clodia, per tenermi alla larga da lei, ha pubblicato la notizia del suo concubinaggio con il grasso Trasibulo Costantinescu, un ricco mercante di Costantinopoli. E così, per vendicarmi dell'affronto, ho vergato questi epigrammi e li ho trascritti su un rotolo. Poi, ho convocato Fasullo e gli ho ingiunto di recapitare subito il rotolo alla divina Clodia. Ed ecco qui gli epigrammi, per i posteri:
«Se non vuoi essere irrorata da una pioggia di contumelie e di insulti, promettimi, ingrata, di essermi fedele almeno fino al prossimo gladiatore vittorioso o finché il prossimo liberto non ti travolga con depravata passione…
Ma, se promettere non vuoi o se giurare non puoi eterno amore, dimmi almeno che tra i tanti io non sia stato soltanto un ciottolo del biondo Tevere trascinato dalla corrente…
Hai pubblicato la notizia del tuo concubinaggio con il ricco Trasibulo ai quattro venti, dalla salaria alla laurentina, quasi fosse l’anniversario della conquista di Cartagine…
Ma io sono paziente, sulla riva del Tevere mi siederò ed attenderò che passi il cadavere del mio rivale…
Non mi hai degnato di uno sguardo, neanche d’un insulto mi hai degnato… così indifferente ti sono diventato come lo stipite di una porta o un battente da non meritare neanche l’ombra d’una bugia?
Parliamo la stessa lingua e non ci comprendiamo. Il dio ignoto e bendato con i chiodi e il martello ha attaccato la tua immagine alla mia anima.
In verità, con il martello e la tenaglia la ridurrò in mille pezzi».
Tra la ostile gente sono andato
Tra la ostile gente sono andato elemosinando, mendicando notizie di Clodia… e tutti mi prendevano in giro, mi dicevano: «Guardate il letterato mancato, quello che si fa chiamare console, è pazzo da legare da quando la sua bagascia l’ha mollato!»…
Ovunque sono andato beffe e lazzi ho trovato, ché ormai più alcuno mi bada quasi fossi un tegame o una stoviglia da cucina…
La ostile gente talmente ha sparlato di Clodia che nulla ho creduto, nulla ho voluto ascoltare.
Dicono i faziosi che adesso lei ha un amante ricco e grasso che le riempie la casa di doni costosi e di vestiti sfarzosi…
«Dimmi, Clodia, se tutto questo è vero. Dimmi soltanto una parola: se tutto questo è vero… ed io, lo prometto, non ti molesterò, non insidierò più la tua bellezza inospitale…»
*
Si dice, Clodia, che soltanto chi ha amato può odiare intensamente. Ebbene, io ti ho amata come forse nessuno mai potrà amarti in questo fradicio impero, all’ombra del mio tugurio all’Aventino, con i miei scartafacci, con le mie poesie vergate sul papiro.
Ma, com’è vero che Zeus, il demiurgo, esiste, ti odierò con tutta la forza degli uragani, con la forza centuplicata del mio disprezzo, con l’impeto selvaggio del vento ti seppellirò in una montagna di indifferenza…
E così, stringendoti a me con tutta la forza del mio disdoro, mi resterai eternamente impressa nell’anima.
Lettera a Luciano Notorius
Abate postumo (lo dice il suo nomen) quel filosofo che per le vie del Foro si pavoneggia da cinico scettico dialettico e si spaccia per rivoluzionario, in realtà non è altro che un eclettico eidetico che bacia la croce dei cristiani e si genuflette nel mentre che professa il suo falso paganesimo…
Nella contesa tra Celso e Tertulliano prende le parti di entrambi i filosofi ma in realtà vuole farsi i fatti propri dando ragione ad entrambi i contendenti. Che vuoi, mio caro Luciano, da che il mondo è il mondo così va l'impero.
Che non è un girotondo ma è più simile a un combattimento di galli in un pollaio.
Tutti alla Domus di Tibullo Calabrone
Quel giorno andiamo tutti insieme, io, Fasullo, il nano Psellio, ad ascoltare un discorso che Metello Numidico, personaggio cristiano di grande serietà ed eloquenza, teneva durante la censura al popolo in esortazione a contrarre matrimonio. Così terminava la filippica dello stolto Metello: «Se potessimo, Quiriti, vivere senza mogli, noi tutti faremmo a meno di un tale fastidio; ma poiché la natura ha disposto le cose in modo che non si può né vivere abbastanza bene con una donna, né in alcun modo senza di essa, è da pensare piuttosto al benessere durevole che non a un breve piacere».
Ad avviso di Psellio il console Metello si era proposto di esortare il popolo a prender moglie e che lo scopo del suo apologo fosse quello di invitare i romani a riconoscere e accettare i fastidi e gli inconvenienti dello stato matrimoniale; io invece, insieme a Fasullo, sono dell’opinione che le parole del console hanno l’aria di dissuadere e distogliere il nostro pensiero dal contrarre il contratto nuziale; altri, tra gli astanti, sono di opinione ancora diversa presumendo che il console volesse intendere che nei matrimoni non vi sono fastidi di sorta, e che se tuttavia qualche fastidio può verificarsi, si tratta di cose da poco, senza conseguenza e facili da essere tollerati, che i ben maggiori vantaggi e i godimenti li facevano presto dimenticare… e che quindi non vi sono difetti intrinseci al matrimonio, ché eventuali fastidi non derivano da essi quanto dalla ingiustizia e dalla ostinazione di qualche cocciuto e antiquato marito. Tito Raf Castricio Vallone (quel neghittoso infido) viene in aiuto al sordido Metello e dice che questi ha parlato in modo giusto e con dignità… A quel punto, prendo io la parola e dico che il console Metello ha detto il falso e che aveva mentito spudoratamente perché le donne sono una impostura e un danno innanzitutto per le finanze del marito, e quindi dell’erario, e poi anche per i pericoli della cornificazione cui quest’ultimo va incontro, e quindi meglio sarebbe non possedere nessuno nessuna donna ma tutti insieme tutte le donne, e chi più ne ha più ne metta a dispositivo di tutti… ma qui mi interrompe Psellio il quale invece dichiara che lui accetterebbe ben volentieri una donna, fastidiosa sì ma anche necessaria, purché fosse di bell’aspetto e giunonica, anche se costei si prendesse delle libertà con dei gladiatori da circo, perché a causa del suo aspetto repellente e della sua statura infima aveva dovuto subire un numero considerevole di rifiuti… Infine, come è come non è, la questione, invece di chiudersi, viene discussa da molteplici oratori che la pensano in modi completamente diversi gli uni dagli altri di modo che si addiviene ad una grande confusione… ed io termino in litigio con Psellio per quel suo intervento in favore delle presenze muliebri dicendogli che era un illetterato, che non capiva un’acca di niente e che voleva sempre dire la sua stolida opinione qualunque fosse la materia trattata… In quel frangente interviene un panciuto cliente di Metello il quale chiede chi siano quegli screanzati che osano contraddire l’illustre opinione del console Metello, ed ecco che alcuni melliflui letterati gli dicono che io sono io, quell’inetto che si fa chiamare console e invece è un peota di mezza tacca… E così scende la sera con la sua tunica nera e torniamo tutti a casa sul far delle tenebre quando incrociamo la Domus di Tibullo Calabrone il cui portone spalancato è guardato a vista da due enormi guardie batave che sostengono grandi torce ad olio.
Lungo la strada si erano aggiunti allo scrivente, a Psellio e a Dantone Maffionem anche i poeti di «Poiesis», gli antinoeroteroi, Lucanus Pedatorium, Marco Onorio e Sabino Caroniorum.
«Questo Calabrone ha fatto carriera!» esclamo agli amici di ventura.
«È un colpo della dea Fortuna essere capitati qua all’ora di cena!» dice Sabino il quale ha sempre lo stomaco vuoto.
«Adesso gliene dico io quattro a quel calandrone di Tibullo Calabrone!» interloquisce Lucanus Pedatorium il quale ce l’aveva a morte con il peota Pampallonam il quale aveva l’unico torto di aver lasciato in eredità, invece che a lui, a Santina Finisterram, nota poetessa della landa a sud di Baia, due appartamenti ammobiliati più un salato conto corrente di sesterzi.
È così che facciamo ingresso nella Domus aurea del Calabrone come Cesare faceva ingresso al Senato. E chi ti incontriamo? Incrociamo la megera che ha nome Calandronam, brutta come l'acroterio di una trireme, e allora tutti quanti, compreso Luciano Notorius, ce la diamo a gambe, si salvi chi può...
«Non riporre, Gheorgopoulos, tutte le tue speranze nell’antipasto», mi dichiara Dantone «io ho smesso di farlo, perché prima mi rovinavo sempre l’appetito a forza di sardine sott’olio, salamini lucani e caciocavalli dell'Irpinia, l’importante è che non manchi mai della ricotta fresca e del cacio ben stagionato!». «Sì, ma vuoi mettere un bel contorno di formaggio con olive bianche, nere e screziate!», ribatto senza tema al panzone Dantonem.
«Devi togliere il nocciolo alle olive bianche nere e screziate e poi falle a pezzetti. Aggiungi dell’olio, aceto, coriandolo, cumino, finocchio, ruta, menta e poi mettile in una ciotola di terracotta. Agita il tutto come Giove comanda! Devono essere coperte dall’olio. Gustale così…», mi dice un convitato che non conosco… Fatto sta che quando arriviamo, io, Dantone Maffionem, Lucanus Pedatorium, Luciano Notorius e Marco Onorio spalleggiati dall’infido Sabino Caroniorum, troviamo dall’altra parte del convito i poeti goto-romani Oldanium, Francorum Romanorum e Antonio Riccardorum i quali stavano ricevendo la salutatio serotina da una folla rumorosa di clienti... costoro, vestiti di tutto punto e azzimati, applaudivano e gridavano «bravo!», «vale!», «magnum!» e segni di approvazione e di giubilo rivolti ai loro patrones. Fatto è che questi letterati nordici hanno l’abitudine di declamare a voce alta le proprie opere, perché, dicono, la parola viva, detta da una viva voce, risulta più efficace e vissuta in maniera più intensa. Noi dell’Urbe, al contrario, siamo dell’opinione che le due attività debbano rimanere severamente distinte, per il bene della mente e dello stomaco. Insomma, c’era l’Oldanium il quale con il faccione largo come una botte e bolso come una tasca vuota stava intonando una sua poesiola sulla lavatrice e sui piccioni appollaiati sulle piccionaie di Mediolanum, c’era il Riccardorum con le gote ben nutrite del colore dei vespasiani il quale faceva ampi gesti di gradimento accompagnati da risolini stitici, ed io grido: «Mamma mia fammi scappare da questa coscrizione pretoriana, preferisco affrontare i Burgundi in campo aperto piuttosto che ascoltare le elegie sui piccioni!»; «Maledicano gli dèi – impreca Lucanus Pedatorium – colui che per primo inventò la poesia e vergò il primo verso. Costui ha mandato in frantumi il mio giorno di povero diavolo. In particolare, lo stomaco soffre i versi come un coccodrillo soffre le spintrie!, infatti, non riesco a digerire neanche un’anguilla arrosto se mentre mangio quello mi declama una poesia!». Detto fatto, ce la diamo a gambe, io, Dantone, il Lucanus, Luciano, Marco Onorio e il sospettato Sabino Caroniorum il quale di recente aveva abiurato il paganesimo per abbracciare la fede cristiana per via di un impiego che gli era stato offerto all’Osservatore Romanorum; Dantone invece aveva pessimi rapporti con tutte e due le parti, sia con i cristiani che con gli ultimi pagani per via del fatto di quell'opera magna di circa settecento rotoli rilegati… e poi dell'altra opera magna di cinquecento rotoli... Insomma, tutti noi, chi per un verso, chi per un altro, ce ne andiamo scodinzolando di qua e di là, con i timpani percossi brutalmente dai versicoli dell’Oldanio e dei suoi sodali, alla ricerca di un po’ di sollievo quando ecco che, altissimo, giunge alle nostre orecchie un fragore di carri da guerra e di spade che percuotono scudi. È l’assalto dei Burgundi all’Urbe?… No, è il fracasso dell’orchestra che suona l’ingresso degli attori… Per primi fanno ingresso gli eunuchi Bagoa e Megabizo, i più belli d’oriente, completamente ignudi, che non sai se siano usciti dallo scalpello di Fidia o dalla mano di Pallade, e non sai se le loro carni siano simili al candido marmo di Paro o direttamente provengano dal tempio di Afrodite, così, i due efebi iniziano a dimenare le natiche al suono dell’orchestra mentre il pubblico va in giubilo… è qui che Dantone Maffionem si rivolge a Lucanus Pedatorium dicendogli che la sua virilità è superiore di cento volte dirimpetto a quella dei poeti goto-romani di Mediolanum e di andare a riferire loro che il campione della poesia a sud del Garigliano accetta eventuali sfidanti che volessero rivaleggiare con il suo membro taurino… E così, Pedatorium non perde tempo, si reca subito dai goto-romani e riferisce loro la provocazione, quelli non muovono ciglio e rispediscono il latore del messaggio dallo sfidante dicendo che non possono accettare la sfida di un terronem, il quale si potrà rivolgere più convenientemente ai poeti dell’Urbe… Ed è adesso che interviene il noto poeta del Palatino, Elio Pequorum il quale, visto che c’è in gioco un membro taurino, si offre quale mediatore tra i contendenti… Ora, sta di fatto che i pensierini stitici del Pequorum avevano dato allo stomaco al poeta di «Poiesis», Lucanus Pedatorium, il quale non riusciva neanche a ascoltare due monosillabi del Pequorum che subito ne indovinava l’autore e si metteva a gridare come un ossesso e a battere i piedi come Laomedonte alle prese con i serpenti che vengono dal mare, quando ecco che i due efebi vanno verso Dantone Maffionem dimenando le natiche come le Menadi affamate di Priapo, toccano il basso ventre del poeta del Garigliano e lo circuiscono di baci e di abbracci chiamandolo «loro fratellone», e così le sirocchie lo percuotono dove lui si sente meglio e lo allettano oscillando le copiose natiche al canto lieve delle cetre e dei flauti… E sarebbe accaduto l’irreparabile se non fosse intervenuto il padrone di casa, il magno Tibullo Calabrone, quel saccente, il quale aveva libero accesso alla corte di Valentiniano ed era diventato il giurista dell’imperatore e così aveva assunto al suo servizio proprio quell’Eraclio che avrebbe pugnalato alle spalle il generale Ezio, e così il Calabrone aveva consolidato una via privilegiata con Ravenna ed era diventato il padrone, di fatto, dell’Urbe letteraria e si era fatto redigere una interminabile prefazione al suo libercolo di versi edito a Mediolanum dal grande Dantone Maffionem il quale aveva superato ogni limite talché la prefazione risultava più lunga dei versi allocati nel rotolo… Ma non è questo il punto, è che Tibullo Calabrone con il monopolio degli unguenti e dei gioielli d’Arabia e grazie ad un interventismo finanziario che definire allegro sarebbe un eufemismo, è diventato il personaggio più influente dell’Urbe letteraria e può permettersi anche delle, diciamo, liberalità, e così, ha dato libertà a Dantone Maffionem a sud del Garigliano e si è appropriato delle posizioni di spicco dell’Urbe letteraria, poi si è alleato ai peoti goto-longobardi di Mediolanum in modo da fronteggiare le schiere dei poeti goto-romani dall’alto della sua posizione politica e strategica… e però, mentre ero immerso in queste cogitationibus, i flauti hanno eccitato i lombi della danzatrice di Cadice, Medullina, la quale fa roteare il ventre con un moto ondoso e sinuoso vestita soltanto dei lunghissimi neri capelli che si sollevavano e si riadagiavano sul delta di Venere e sui glutei come tanti tentacoli di una Menade… a quel punto Medullina lancia l’assalto ai due eunuchi, Bagoa e Megabizo, sfiorando i corpi privi quasi di scettro dei due doriferi, ed è stata davvero una grande quaestio tentare di risolverla per l’una o per gli altri, ché avrebbero formato un trittico assolutamente impareggiabile…
«Ormai è lecito che si dia accesso ai maschi!», grida il padrone di casa, e subito fanno ingresso due giganteschi germanici che indossano un perizoma di cuoio dal quale trapelano impareggiabili scettri di Priapo… stiamo tutti là con la bocca aperta dallo sbigottimento e dall’appetito quando ecco che ad uno squillo delle trombe in mezzo ad una nuvola azzurra scompaiono la danzatrice di Cadice e i due efebi quasi eunuchi ed ecco che compare il padrone di casa avvolto in una tunica di porpora che imbraccia un enorme volumen… «Oh, no!», grida Lucanus Pedatorium, «Oh, no!», gridiamo insieme io, Marco Onorio e Dantone Maffione, ma non c’è niente da fare, mentre aspettiamo il primo piatto quel malintenzionato riesce a leggere alcune composizioni, poi, non contento di averci inflitto un tale tedioso disdoro, ancora prima dell’arrivo del secondo piatto, ce ne legge altre di un secondo rotolo che teneva sotto il braccio… attende il Tibullo Calabrone che stia per giungere il terzo piatto e ci ammannisce altre poesie di un terzo rotolo che uno schiavo si era premurato di offrirgli…
«E così, Tibullo, sei stato capace di disgustarci anche del prelibato cinghiale, che hai fatto servire tante volte quante sono state le tue insulse letture!», esclamo ad alta voce mentre Lucanus Pedatorium gli indirizza un severo ammonimento: «se con questi poemi scellerati non ci incarti gli sgombri, Tibullo Calabrone, tu cenerai da solo a casa tua per il resto della tua vita!». Ma tanto era il frastuono che il padrone di casa ha continuato a ponzare, insieme ai poeti di Mediolanum, in mezzo alle lattughe e alla salsa di pesce, con le sue posticce insulsaggini poetiche…
Ecco, di fatto, io non ricordo più oltre ciò che è accaduto, perché ebbro di mulsum e satollo di fagiani arrosto e di croccanti uccellini, mi ero coricato sul triclinio ed ivi giacqui fino al mattino quando vengo scosso da Psellio il quale mi dice che è stata una grande battaglia ma che alla fine Bagoa e Megabizo hanno conquistato l’alloro della vittoria e della gloria!
Non ci sarà un dopo
Ho vergato in tutta fretta questa breve missiva, ci ho fatto un rotolo e l'ho mandato, tramite il fidato Fasullo, alla bellissima Clodia:
«Non ci sarà un dopo. Siamo già nel dopo. Siamo immersi fino al collo in qualcosa che non conosciamo, Clodia.
Non ci sarà nessun’epoca dopo la nostra. Siamo postumi, dei sopravvissuti a noi stessi.
A che pro parlare di poetica e di poesia in un’epoca efferata come la nostra dove a parlare sono i sesterzi e la tosse delle spade e i templi pagani cadono ad uno ad uno per mano di una setta segreta che incensa un dio più grande di Giove!
Siamo già stranieri in patria, Clodia, non lo capisci? Tu ti comporti come se dovessi vivere in eterno, come se la tua bellezza potesse durare in eterno!
Indossi i tuoi splendenti monili e gli orecchini con gli elefanti d’avorio che tintinnano come se avessimo ancora un futuro davanti a noi, per noi e per i nostri figli e per i nostri nipoti…
Non c’è più un futuro, Clodia, e forse neanche un presente. Viviamo aspettando la tosse metallica delle spade.
Che verrà, verrà…
E allora, come Dioscoride morire in un bagno di sangue fra le mollezze dell’Oriente tra schiave lascive ed ebbri eunuchi, oppure, al pari di Vercingetorige, nel fragore della guerra, trascinato in catene, nel carro, portato come trofeo di guerra dal grande Cesare fra i lazzi e le beffe della plebe di Roma…».
La meretrice Faustilla
La meretrice Faustilla, è larga come il deretano di un cavallo di bronzo, veloce come una trottola zoppa ed ha alle orecchie degli orecchini che fanno un fracasso di dieci Menadi… È bolsa e grassa come il cerchio immobile sulla testa dell’equilibrista che cammina sul filo, come una scarpa vecchia a mollo in un’acqua di balera, come le reti rade che aspettano i tordi vaganti, come il tendone ammainato del teatro di Pompeo, come il braccialetto scivolato a un culattone tisico, come un materasso orbato dell’imbottitura, come le brache usate di un mendicante bretone…
Ebbene, sono andato via con la Faustilla per dimostrare a Clodia che sono indifferente alle sue arti amatorie. E tra me e me ripetevo:
«Comprenderai che cosa significa la mia rabbia quando ti calpesterò crudelmente e sul delta di Venere del tuo ventre e sui tuoi seni d’avorio premerò il piede del mio cavallo ispanico con l’indolenza e l’indifferenza d’un cavaliere germanico…
E ti renderò schiava in una gabbia di ferro come una leonessa da circo…».
A volte, come un turbine passa la rabbia e l’ira come un vento, e l’invidia come pioggia, e l’accidia come grandine, e la superbia come folgore. E tutto ciò per Clodia che mi tratta come un letterato cialtrone… Poi, basta un suo bacio e la quiete imperversa come una tormenta nel mio cuore. Allora, sì, il talismano del viso di Clodia nella mano vorrei tenere…
Di frequente, tra me e me, come un ossesso toccato dal caduceo di Mercurio, mi dico:
«Sì Clodia, sono iroso e infido come una spintria, mercanteggio il prezzo delle mie poesie come un vile mercenario o una mezzana fa con i clienti che vende i piaceri dei suoi androgini ma non sono una "latrina maleodorante" come tu mi hai chiamato!
Sì, è vero, sono incallito e callido perché nell’Urbe non v’è più spazio per i poeti e la vile cloaca della plebe osanna soltanto i cantatori di cetra, i gladiatori del circo e gli altari delle nuove deità corrotte…
Le mie ire hanno zampilli brucianti come gli effluvi dell’Etna. Come schiocchi di frusta lingueggiano, come vampe di torcia serpeggiano, come slitte selvagge schiumeggiano nella neve del tuo cuore temprato nelle tundre dell’Asia, algido come il carro notturno dell’Orsa…».
Trasibulo fu Pritano, Ortagora, Polemarco
Da Ravenna, corre voce che l’eunuco Eraclio abbia assassinato il generale Ezio mentre questi si recava in udienza dall’imperatore Valentiniano per aggiornarlo sulle questioni politiche e strategiche dell’impero. Pare che sia stato lo stesso imperatore ad ordinare all’eunuco di pugnalare alle spalle il generale Ezio. E così, il generale che ha combattuto e sconfitto Attila, è morto per mano di un eunuco e del suo vile imperatore. Sì, adesso l’impero è rimasto privo del suo più grande generale. Chi ci difenderà? Che cosa sarà di noi?
Si dice che Trasibulo fu Pritano, Ortagora, Polemarco, Cipselos, Basileus. La più parte dei tiranni greci furono Strateghi.
E l’invertito Gabirio? L’istrione arricchitosi con il monopolio delle spezie e l’inflazione? Gabirio si è fatto eleggere tribuno della plebe ed ha abbracciato, dicono, la fede cristiana. Ed ora dice di amare un solo dio, un dio più grande e potente di Zeus! Che vergogna… in realtà Gabirio è un imbonitore, un demagogo, un populista, si accompagna con quell'altro demagogo cristiano, quel tale Rondonem... Gabirio va a zonzo per l’Urbe con il ventre prominente, con la carcassa gonfia di oli profumati recando in spalla un giallo pappagallo africano e si trastulla con il nano Pollio, minuscolo e invertito, il buffone di corte della sua variegata corte dei miracoli…
E adesso plaude all’imperatore di turno, Valentiniano e al suo valente ministro degli esteri, l’eunuco Eraclio, sì, proprio lui, l’assassino del generale Ezio…
E pubblica su pregiati rotoli di papiro i suoi immondi versicoli, non sai se insulse facezie o ludiche strofette che recita ispirato come posseduto dal gladiatore Ursus…
Per non essere da meno, mia amata Clodia, anch’io sarò stratega e con astuzia, valendomi delle arti del nano Psellio, del pappagallo africano Gaboa e dei raggiri di Fasullo, ti ridurrò alla resa, dovessi anche ricorrere ad altri nani immondi e a pappagalli somali, dovessi reclutare mercenari traci e mezzani moreschi da gettare nella mischia della tua camera da letto…
Per il dio Mitra, Clodia, giuro che prenderò il tuo corpo e, quale trofeo di guerra, ai viziosi di Naxos lo renderò in dono…
*
Tu dici che sono crudele? Sì, mia amata Clodia, Sono crudele come il ghiaccio del lago di Mediolanum, sentimentale come un golfo del mar Mediterraneo, l’accidia mi ricopre come una tundra asiatica, puro come un cantatore dell’Epiro, perfido e manierato come un mercante siriaco…
Tutte queste cose sono, ed altre ancora… mirabili e mirifiche…
Veneria commessa in un gran bazar
Veneria, commessa in un gran bazar, mostra i ginocchi al gran vizir siriaco assisa esausta in un sofà di seta azzurra… ah, sì, Veneria conosce l’arte della seduzione e la sfoggia con indubbia perizia…
Veneria ha tredici sgargianti anelli alle dita e due sigarette profumate alle labbra orpellate di purpurisso e proclama la sua fede ininterrotta agli dèi dell’Urbe e alle sue nobili tradizioni... e si vanta di discendere direttamente dalla gens Julia! E non arrossisce per la magnitudo delle sue fandonie e la bellezza del suo corpo eburneo che ama mostrare ai ricchi mercanti dell’Asia… e non conosce l’àlea del peccato o il rimorso del pentimento dei cristiani…
Una fanciulla della Suburra non sarebbe meno degna di menzione e di memoria se non fosse per quella tunica stretta ai fianchi che si apre in uno spiraglio sulle sue cosce immortali che mi rende debole e inetto…
Un ippogrifo scatenato, il desiderio...
Un ippogrifo scatenato, il desiderio, preme le pendici del mio Priapo mentre un ombroso tedio mi trascina nella pioggia che scroscia dal soffitto del mio tugurio all’Aventino…
Ah, Clodia, della castità professata dai cristiani me ne fotto e del loro unico dio non me ne frega proprio nulla…
Sai che cosa penso del loro dio? Il loro dio dell’amore è una iattura e una fregatura, Clodia! Loro dicono: «beati gli ultimi che saranno i primi nel regno dei cieli?», ebbene, Clodia questa è una menzogna grande come il loro regno dei cieli!
Al loro dio della castità (ma di quale castità parlano?) antepongo il culto di Priapo virile, Venere androgina e le candide vestali del tempio di Vesta…
Tu mi chiedi dell’impero? È un sarcofago vuoto, Clodia, fradicio come un fondale di teatro e i pagani superstiti ormai si nascondono nelle loro case e fingono di adorare un dio venuto dall’oriente…
Che cosa orribile, Clodia! Siamo costretti a nasconderci nei nostri tuguri! Orde di Eruli e di Goti sono alle porte dell’Urbe mentre i cristiani dicono che il loro dio ci salverà!…
Che orribile menzogna! Che tempi sono questi quando anche parlare di orecchini sembra un delitto!
Ed io cincischio con gli orpelli dei tuoi capelli composti a torre alla guisa della moda egiziana, con i serpenti smaltati attorcigliati che porti al collo, con le fibule e gli scudi sottili di metallo che porti ai lobi degli orecchi come ornamenti di una guerra dimenticata, la nostra guerra, Clodia, che forse non combatteremo mai più…
La schiava Plautilla
Stanotte la schiava Plautilla mi ha versato nel sonno, in un orecchio, il sesamo ardente dei suoi baci e dei suoi morbidi seni… e mi ha sussurrato: «Godi adesso o mai più, prima che giungano i selvaggi Eruli e gli iconoclasti Burgundi…».
Dalla paura ho acchiappato in fretta e furia la clamide e le mutande per darmela a gambe, dato che nella veemenza dell’amplesso la sera innanzi le avevo abbandonate per terra. Resomi conto che era soltanto uno scherzo, mi sono ricomposto, con un minimo di dignità, sulla sedia accanto allo scrittoio ed ho detto a Plautilla che il suo comportamento era inqualificabile. Poi, ho subito vergato per la amata Clodia questa lettera: «Mia amata Clodia, quando irromperanno i barbari, io starò qui, nel mio tugurio, immerso nei miei pensieri a scrivere l’ultimo carme, in tuo amore, per Clodia, sì, l’immortale Clodia, l’unica femmina che forse ho amato in tutta la mia vita… l’unica che può eguagliare le grazie immortali di Elena di Troia… mi troveranno così i barbari, come il soldato romano che assassinò Archimede chiuso nella sua stanza, nella sua Siracusa in fiamme… così mi troveranno i barbari, immerso nei miei scartafacci… tra le poesie di Catullo, Marziale, Lucrezio…».
E sapete qual è stata la risposta della negra Plautilla? Si è fatta una gran risata… e, come fiala avvelenata, m’è apparso il suo sguardo screziato di notturno avorio e il chiostro bianchissimo dei suoi denti… mi ha detto che sono un letterato illuso, che i barbari non saranno diversi dai romani, che il mondo si ripete, che la storia si divide in cicli che si ripetono per l’eternità e che dobbiamo aspettare che si compia il tempo… che i cristiani non sono diversi dai pagani… che anche loro fanno l’amore, come i pagani, magari di nascosto… che invece di rendere onore a più dèi vorrà dire che renderemo onore a un dio unico… e quant’altro…
Plautilla non può capire le mie ambasce. E forse non le deve neanche capire. Forse, in mezzo a questa plebe sordida e ilota, sono rimasto il solo che intuisca una scintilla di questa terribile epoca, di questo incendio universale… come un legionario mi pesano sul collo i baci di Plautilla e le tante lance da lei scagliate prima della battaglia e gli scudi sollevati dopo la pugna in segno di vittoria o di resa e i tamburi percossi e le trombe soffiate dai trombettieri sul mio petto spossato…
*
Biliare, rissosa, acida, sgualdrina… no, non è una scrofa è Plautilla, una bambina nera con le trecce euclidee e lo sguardo d’avorio, capricciosa e volubile che mi tradisce con un suo sodale, un muscoloso schiavo scita talmente bianco che ha il colore di una lumaca…
Giuro che dieci volte triplicando tre volte per tre renderò onore al disonore con ferite brucianti. Fuoco, fuoco ardente invoco per il suo tradimento!
E mi chiedo se in questo tramonto universale sia un’arte o una finzione letteraria la mia stessa ira...
I ninnoli, i veli trasparenti, la fascia pettorale, le trine, i merletti, gli oggetti osceni della vita quotidiana della negra Plautilla sono per me un mistero, il mistero del dio Priapo…
A volte mi prudono le mani dalla voglia di prenderla a schiaffi… poi, una noia profondissima mi morde e lo sconforto mi acceca.
Che mai ho fatto di male per meritare una simile gogna?
*
Avara, inquieta, impura, leziosa, irascibile, ribelle, invidiosa, biliosa. Plautilla non sembra neanche una donna. È un felino, una tigre con la pelle striata, una androgina, o forse è una monaca delle catacombe cristiane con quelle orribili tonache tutte nere… sembra fatta di una materia gommosa, scivolosa, non ispira poesia e neanche prosa, tantomeno lussuria… esprime frastuono e fobia in chi la guarda, goduria in chi la fugge.
Ringhiosa e irascibile come una belva da posa.
Appunti di un archeologo sul poeta tardo latino Gheorgopoulos
Noi non sappiamo come ha vissuto e sia morto il poeta Gheorgopoulos, se sia morto sul suo letto mentre vagheggiava la sua amata Clodia, o su un campo di battaglia, come soleva ripetere ai contemporanei, o dopo una cena smodata come forse è più attendibile. Come sia scoccata la sua ultima ora e quali siano state le ultime parole del poeta del tardo impero o i suoi ultimi pensieri non ci è dato sapere e, forse, in fondo, neanche ci interessa, troppi secoli sono trascorsi tra noi e quell’evento. Ma non è questo il punto. Per il vero, noi non sappiamo nulla neanche della reale esistenza di un poeta di nome Gheorgopoulos, se sia veramente vissuto un poeta di tal nome al tempo di Attila, se siano veramente esistiti i suoi compagni di viaggio, il nano Psellio, Dantonem Maffionem, Lucanus Pedatorium, Luciano, Marco Onorio e Sabino Caroniorum e tutti gli altri, se sia veramente esistita la sua Musa, la divina Clodia… forse non c’è stato nulla di tutti costoro sulla faccia della storia, sono personaggi di fantasia; o forse sì, sono veramente esistiti e nessuno di loro ha bucato la coltre dell’oblio e del tempo per raggiungere noi, qui ed ora, abitanti del presente. Ma che cos’è il presente? Che cosa significa «qui ed ora?», siamo sicuri che tra duemila anni qualcuno e qualcosa di noi attraverserà il muro dell’oblio e del tempo? Che cos’è il «qui ed ora»? Forse, Clodia, la divina Clodia, diceva il vero quando ricordava a Gheorgopoulos che non resterà nulla della loro vicenda e del loro amore... e che forse un altro poeta, a duemila anni di distanza, scrivendo in una lingua incomprensibile, parlerà del loro amore e della loro storia disperata. Forse è giusto così. La nostra immortalità è nelle mani di un poeta. Che verrà, che forse verrà.
Questi che seguono sono la traduzione di frammenti che sono stati trovati nei pressi di quella che può essere stata l’abitazione privata di un poeta tardo latino, di cui conosciamo il nome, Gheorgopoulos, sotto una coltre di torba e di detriti inceneriti, prodotto di incendi e di devastazioni che si sono susseguite nel tempo… i resti di alcuni rotoli di poesie scritte da un poeta che, verosimilmente, visse al tempo di Attila e che uno studioso ha intitolato: «In onore dell’eros androgino». Trattasi verosimilmente di un poeta pagano, questo non è dubbio, a giudicare dall’argomento scabroso delle sue poesie. Di lui non abbiamo altro, perché degli altri rotoli c’è rimasto soltanto un mucchietto di cenere.
Frammenti «in onore dell’eros androgino»
Come un mosto il succo dei baci di Protalo carico di aromi pungenti…
Come un frutto acerbo la conchiglia del suo sesso e i magnifici glutei che il maglio di Efesto non saprebbe eguagliare…
Per Gheorgopoulos non vale un asse il suo corpo bruno senz’anima.
*
Mi ruppe il sonno l’offerta callipigia del marziale Arete.
E adesso, spenga l’acqua della fonte Aretusa il fiume delle mie brame.
*
I veli sollevando, scartando le infule e le armille numerose, raggiunsi il dorso di Olimpiodoro nel marmo di Paro scolpito…
In onore di Arete
Il biondo talismano del sesso del marziale Arete
vidi nell’oscuro cesso del mattatoio
brillare come il caducèo di Ermete.
*
Sapevano d’elleboro e di verdi pruni i suoi denti
bianchissimi, la lingua vorticosa, la bocca luccicante
quando il mio labbro il suo morso mordeva…
E vibrava la mia spada se la daga del mio amante
armato di vendetta colpiva…
*
Odore di mentuccia e di Suburra
la bocca di Olimpiodoro carca di vizi
ché tante volte ho baciato
piena di schiuma…
Bupalo ha per amante Agar l’invincibile gladiatore macedone
Il bruno Bupalo ha per amante Agar, l’invincibile gladiatore macedone e, ad ogni combattimento, trema come una foglia d’elleboro per il timore di vederlo trafitto da una spada…
Ma, quando coperto di sangue il torace e il volto, Agar il macedone ritorna vittorioso dalla arena, ricco di gloria, il corpo del bruno Bupalo attende nello spogliatoio del circo…
Ed io di Agar son divenuto ebbro di invidia e di torbido vino.
*
Bupalo non battè ciglio e il membro asinino di Aspar, il gladiatore trace, accolse nel sacro tempio dei suoi glutei…
Arcieri di Priapo faretrato, scagliate le frecce dell’Eros
Arcieri di Priapo faretrato, scagliate le frecce dell’eros sul campo di battaglia, numerose come una nuvola!
Il corpo depilato del bruno Bupalo coperto di lorica e scudo troverete e una raggiera di frecce intorno alla sua schiena inarcata…
*
Quando mi truciderai Bupalo, mira al petto, non fallire! Altrimenti, nel duello la mia daga potrebbe colpirti.
Come Perseo sanguinoso, d’un colpo, la tua testa grovigliosa spiccata dal collo e la daga oscillante brandendo…