Sinossi del romanzo
La lavagna nera e la scatola vuota
È un romanzo dello sguardo. Una telecamera nascosta spia e origlia nella mente di un personaggio femminile (dalla pubertà alla maturità), nei lati reconditi della relazione tra Pentesilea e Massimo, il suo coniuge. Anche lo stile segue la direzionalità dello sguardo. Un romanzo di formazione all’erotismo. Fine anni Sessanta: una bellissima fanciulla che si accoppia con un vecchio operaio e poi con il suo professore di latino; un salotto borghese con bigotte incartapecorite che applaudono la recitazione della loro figlia; padri bigotti e incestuosi; salme in doppiopetto e baffetti neri; le feste in una villa rinascimentale fiorentina; cene trimalcioniche; morti che non sanno di esserlo; battaglie contro una presunta invasione di marziani in una stazione ferroviaria bombardata; vedove smaniose; vecchio marito libidinoso; l’innamoramento per un bellissimo transgender, e l’esperienza della «scatola vuota», del nulla.
Si alternano flashback e “scene” surreali, che si sviluppano in una serie di tappe (tra docente ed allieva, l’invasione dei marziani, etc). L’illustrazione del «detto» e del «non-detto» è il segreto che si instaura tra i due personaggi. È la storia di un rapporto erotico e fantasmatico, paradigmatico di due intellettuali, che vivono al di là del bene e del male.
Pentesilea scopre che all’interno della sua psiche (la scatola vuota) convivono una pluralità di individui: il prodotto di ciò che abbiamo fatto e pensato ma anche di tutto quello che non siamo mai diventati… ecco la storia del romanzo. Il romanzo di ciò che è stato è anche il romanzo di tutto ciò che non è stato. Fino all’esito finale: l’innamoramento di Pentesilea per Théodore, un transessuale che unisce la bellezza muliebre alla bellezza virile.
È un romanzo del genere erotico-esistenziale, non frequente nella tradizione del romanzo italiano del Novecento; la mia scommessa per una narrazione intelligente, moderna, fruibile, che ha scelto di non inseguire il lettore ma di sedurlo.
Giorgio Linguaglossa
Hanska E. Scardanelli
LA LAVAGNA NERA E LA SCATOLA VUOTA
LA MIA PREISTORIA. MIA MADRE
Ho un ricordo di me bambina: la lavagna nera e la scatola vuota.
Da bambina mia madre mi proibiva l’uso di determinate parole. Le scriveva sulla lavagna che teneva appesa al muro in bella vista appena si entrava in cucina e poi mi ingiungeva l’assoluto divieto di pronunciarle. Io iniziai a chiedermi perché mai mia madre mi proibisse di pronunciare proprio quelle parole, e non altre. Ma mia madre si esimeva dal fornirmi una qualsiasi spiegazione, diceva che le ragioni delle cose erano in re e che null’altro mi era dovuto. A quel tempo pensavo che quelle parole possedessero una forza particolare, un mana, un potere sinistro e terribile e che un misfatto innominabile si sarebbe verificato non appena le avessi pronunciate.
Sulla lavagna nera passavano le parole bianche. Sempre più numerose. Sempre più numerose.
Mia madre mi ingiungeva di scrivere le parole proibite su un piccolo pezzetto di carta che dovevo arrotolare e gettare dentro una piccola scatola vuota che stava ai piedi della lavagna.
Sotto alla lavagna c’era una piccola scatola vuota. E dentro c’erano tanti cartoccetti di carta: le parole proibite. Pian piano, la scatola venne a riempirsi di pezzettini di carta arrotolata. Tanti, tanti pezzettini di vari colori, ed ogni colore corrispondeva ad una precisa categoria di peccati innominabili. Il colore giallo corrispondeva alle parole afferenti al peccato di lussuria; il colore rosso corrispondeva alle parole afferenti al peccato della politica (per mia madre le donne non dovevano occuparsi di politica, che era una cosa riservata ai maschi); il colore bleu invece comunicava con le parole, che corrispondevano a concetti astratti (che secondo mia madre non appartenevano al mondo femminile). Poi c’erano le parole che corrispondevano alle cose che mia madre aveva messo all’indice: in primis cera il perizoma, seguito da scarpe con i tacchi a spillo, e poi minigonna, corsetto, corpetto, pantacollant, giarrettiera, autoreggenti e così via. Dentro quella scatola c’era tutto un universo che mi era proibito.
Man mano che diventavo grande ed entravo nella prima adolescenza i divieti cominciarono ad infittirsi e a moltiplicarsi.
Ed io cominciai a credere che quelle parole fossero in congiunzione diretta con le cose, e che bastasse pronunciarle per modificare il comportamento delle cose. Lo so, era un pensiero elementare, primordiale, quasi folle, al limite della paranoia. A quel tempo, passavo intere ore a guardare la lavagna nera con su scritte le parole bianche, e poi la scatola con dentro tutti quei rotoli accartocciati. Quando guardavo quella scatola con tutti i pezzi di carta arrotolati mi venivano i brividi. Avveniva che mi sorprendevo sempre più spesso, anche contro la mia volontà, a scandire con le labbra le parole proibite, stando bene attenta a non pronunciarle ad alta voce; mi sorprendevo, sempre più spesso, a dar voce all’impronunciabile. Lentamente, ad una ad una, le parole proibite fuoriuscivano silenziose dalle mie labbra come bolle di sapone. Erano leggere e immateriali, mi sembrava che volassero nell’aria, che volteggiassero come ali di farfalla. Stavo bene attenta a scandire in modo corretto la loro pronuncia, cercando la dizione più chiara e forbita, direi edulcorata, come se quelle parole fossero state ricoperte da una sottile pellicola di sporcizia, come se una polvere maligna e mucillaginosa si fosse posata su di esse. Mi prese il dubbio che, una volta depositatasi sulle parole quel sottile strato di polvere, quella sottile pellicola, e una volta pronunciate, le parole, pensavo si sarebbero depositate sulle mie labbra imprimendo su di esse un marchio funesto e indicibile.
Ad un certo punto della mia incauta ed ingenua adolescenza scoprii, con sorpresa, che mia madre mi ripugnava, che mi aveva sempre ripugnato, mi ripugnava dal profondo dell’anima ma mi guardavo bene dal manifestarle questa mia emozione, anzi, tentavo in tutti i modi di nascondere a me stessa quel mio sentimento.
Sedeva, mia madre, con le gambe composte e i ginocchi serrati davanti alla lavagna con la sua faccia color pesce bollito e mi teneva delle vere e proprie lezioni. Mi ingiungeva con voce stentorea e stridula di stare composta, seduta con i ginocchi uniti, ben serrati come una principessa di sangue reale. La folle (così nella mia mente denominavo la mia genitrice) mi ripeteva che questo era il comportamento che una ragazza di buona famiglia doveva tenere per guadagnarsi il plauso, la stima e l’approvazione della buona società. Che dovevo imparare a stare seduta con la schiena ben diritta e le gambe ben composte e guardare sempre negli occhi l’interlocutore quando questi mi rivolgeva la parola. Durante tutto il tempo della lezione dovevo stare con le gambe serrate, i ginocchi ermeticamente uniti e la gonna sospinta sotto il ginocchio.
*
«Perché il ventesimo secolo è un prodotto della degenerazione!».
(...)
«Perché gli uomini sono tutti falsi!».
(...)
«Perché gli uomini sono tutti bugiardi e corrotti!».
(...)
«Perché gli uomini sono una razza degenerata!».
(...)
Con queste parole, ogni mattina la voce acidula di mia madre mi dava il benvenuto all’atto della prima colazione.
«Perché mai gli uomini sono tutti falsi e bugiardi, mamma?», mormorava la mia vocina gentile e remissiva.
«Perché gli uomini sono codardi e subdoli!», usava interloquire mia madre senza capo né coda mentre seguiva mentalmente un suo pensiero ossessivo.
«Ma perché mai gli uomini sarebbero codardi e subdoli?», ribattevo timidamente cercando inutilmente di capire.
«Non “sarebbero”, lo sono!», ripeteva con un suono stridulo della voce mia madre. A questo punto della lezione mattutina, di solito io non tentavo più alcuna replica e mi rinserravo nella trincea del silenzio.
«Perché gli uomini hanno la pessima abitudine di guardare le gambe delle donne e sbirciare sopra il ginocchio!ۚ».
Udivo la voce asessuata e ossessiva di mia madre che sembrava uscita da un vecchio grammofono, con quel fondo graffiato e perturbato dalla sua ira incomprensibile.
«E perché gli uomini guardano le gambe delle donne?», tentavo a volte di interloquire più spaventata che soggiogata, ma in realtà sempre meno convinta della bontà delle risposte di mia madre.
Ma mia madre non mi rispondeva, preferiva passare sotto silenzio certe risposte. Così come passava sotto l’interdizione del silenzio le implicazioni che comportavano certe mie domande. Il silenzio avvolgeva come una materia grigia di ovatta sia le mie domande che le sue mancate risposte. Mia madre mi aveva affibbiato il nomignolo di Pentesilea, la regina delle amazzoni, perché, secondo la sua folle logica, era la più alta personificazione della resistenza femminile al mondo dominato dalla sessualità maschile. Il mito di Pentesilea doveva reincarnarsi nel mio corpo e nella mia vita. Era questo il progetto folle e assurdo di mia madre. Dovevo diventare la regina guerriera delle amazzoni!
«Vedi Pente, certe domande non si devono porre, e basta. Non c’è alcun bisogno di porle», replicava asettica e asessuata con una voce stentorea, acidula e graffiata.
«Ma perché certe domande non si devono porre, che male c’è?», tentava di eccepire la mia vocina apparentemente indifesa ma in realtà sempre meno convinta della bontà delle sue risposte.
«Certe domande non si devono porre e basta!», replicava mia madre visibilmente stizzita, con la voce graffiata che preannunciava procella.
Ed io continuavo a non capire. Da bambina usavo obbedire e basta. Preferivo compiacerla piuttosto che contrastarla. Era la mia strategia, la strategia della ritirata lenta e progressiva, quella che almeno in apparenza sembra compiacere il nemico nella misura in cui gli cedi il terreno man mano che questi avanza, ma in realtà era l’unica difesa possibile dinanzi alle potenti falangi macedoni dei suoi divieti.
Ricordo che con le ospiti che il venerdì sera frequentavano il suo circolo culturale, mia madre aveva un volto dolce e gentile. Era gentile ed amabile con tutti, d’una gentilezza che a me sembrava affettata e manierata. Ma era pazza. Io lo so. L’ho capito più tardi, quando ormai era troppo tardi. Era completamente pazza. Osservavo allibita vibrare le pagliuzze gialle dei suoi occhi, e mi chiedevo come mai le zitelle che frequentavano il suo salotto non se ne fossero mai accorte.
Ogni qual volta sbagliavo la pronuncia di una parola-chiave, di una parola che mia madre considerava importante o fondamentale, oppure, un giro di frase che la folle mi aveva insegnato come particolarmente significativo o particolarmente elegante, il castigo mi raggiungeva feroce ed implacabile. La folle mi legava le mani dietro la schiena e, sovente, mi bendava anche gli occhi e mi ordinava di andare a nascondermi dietro il tramezzo dello studio. Dovevo stare così per un tempo immemorabile dietro il tramezzo, al buio.
Tutti i giorni di tutti gli anni della mia pubertà e della mia adolescenza sono stati un lungo interminabile tunnel nella camera di tortura dello studiolo. Oh, che orribile ricordo abita la mia mente alla parola studiolo. Un lungo e interminabile calvario. Un interminabile tragitto nella tenebra con il sole degli occhi di mia madre puntati dritto, come un fucile, sulla mia schiena.
Da bambina ero educatissima e buonissima. Le amiche di mia madre mi elogiavano per la mia gentilezza e la mia avvenenza. Dalle mie labbra fluivano parole fiorite come da un libro di poesia. Leggevo assiduamente, in specie le poesie del Pascoli e del dolce stil novo ma anche quelle del Canzoniere del Petrarca. Imparavo a memoria interi brani di quelle opere letterarie, che poi recitavo, in piedi, durante i lunghissimi, angosciosi monologhi che dovevo tenere dinanzi alle amiche zitelle e bigotte di mia madre, sotto il vigile controllo inquisitorio della mia genitrice seduta nella poltrona del salotto che pontificava con i ginocchi impermeabilmente serrati.
«Com’è brava la mia piccola bambina», sussurrava con uno squittio acidulo la mia genitrice visibilmente eccitata e compiaciuta mentre agitava i riccioli della sua ridicola acconciatura. E giù le ovazioni delle sue amiche attempate con risolini asessuati e ambigui ammiccamenti. Posso dire che per tutti quegli anni mi sono sottoposta consapevolmente alla camera di tortura di quelle ipotiposi, dinanzi alle sue amiche bigotte, meditando una segreta vendetta. Ho meditato per anni quale vendetta avrei scelto per punirla nel modo più doloroso. Per tutti quegli anni sono stata abitata da un irresistibile desiderio di vendetta, da una pulsione di vendetta.
Organizzare dei the pomeridiani con tutte le sue amiche bigotte e acidule rientrava nel bon ton della borghesia finanziaria e parassitaria che a quell’epoca, nei lontani anni Sessanta, votava scudo crociato e partito liberale di Malagodi; rientrava in una certa idea della Modernità che si aveva in un ceto che quella Modernità aveva avversato con tutte le proprie forze. E vi rientrava anche l’abitudine di organizzare una sfilata di moda piuttosto contrita nell’ampio salotto della nostra villa al mare a Fregene. Il che, a quel tempo, faceva molto in.
Blumenbilder, ovvero, in italiano: natura morta con fiori, potrei definire la mia esistenza sotto l’ala protettrice della mia genitrice, prima del collasso finanziario nel quale l’incuria e l’incapacità di mio padre fece precipitare la mia famiglia.
«Lei sarebbe potuta diventare qualsiasi cosa Signorina, una pianista, una scrittrice, una segretaria d’azienda, una ballerina, un’attrice... vi sono in lei tante di quelle possibilità!», mi disse una volta la zia Berte. Che cosa aveva voluto dire?, che cosa intendeva?
«Ma via, lei così bella e seducente, e così intelligente che avrà sempre nugoli di uomini intorno!» soleva proseguire la zia.
A quel tempo credevo che la zia sopravvalutasse le mie capacità. Non capivo esattamente che cosa volesse dirmi. «Arrivare dove?», mi chiedevo «in realtà, io non ho nessun talento in nessuna delle cose che lei mi aveva indicato. Diventare un’attrice?, non ci pensavo nemmeno!, dover imparare a memoria tutte le parole di quegli insulsi copioni per poi ripeterle davanti ad un pubblico, per lo più ottuso?, diventare una segretaria d’azienda?, mi sarei sentita oltremodo ridicola: una ballerina?, dover imparare a memoria tutte quelle giravolte e capriole per sfoggiarle davanti al pubblico?; sì, avevo una certa abilità nel mandare a memoria delle poesie e recitarle, ma questo sarebbe stato sufficiente per fare di me un’attrice?; in fin dei conti, ero una ragazza di buona famiglia, con un’ottima educazione, ma che me ne facevo della mia ottima educazione, come diceva mia madre?. Magari, andrà a vivere in campagna, lontano dall’odiosa città Sposerà un proprietario terriero e avrà dei bambini», ripetevo con sempre minore convinzione le parole di mia madre. Che orribile prospettiva!, per una ragazza delle mie qualità sarebbe stata una esistenza scialba o noiosa. «Quante stelle ci saranno in campagna?», mi chiedevo; «non lo so», mi rispondevo, «e non lo voglio neanche sapere». «La campagna è fatta per gli agricoltori!, il mio futuro?, quale futuro?, esiste un futuro?». Erano le domande che mi ponevo allora. Quando mia madre mi ricordava che intenzioni avessi per il mio futuro rimanevo interdetta. E rispondevo: «Quale futuro?, perché, esiste il futuro?».
A queste mie risposte provocatorie mia madre restava inorridita. E tornava dalla zia Berte a lamentarsi del cinismo di sua figlia che non ne voleva sapere né di lavorare né di sposarsi. Per mia madre esistevano soltanto due possibilità: lavorare o sposarsi.
«Il lavoro è come la psoriasi, mi spaventa e mi fa ribrezzo», ribattevo in preda alla stizza.
«Ma tuo padre non potrà mantenerti a lungo, ormai siamo diventati poveri, non te ne sei accorta?».
«No, non me ne sono accorta», rispondevo stizzita.
«Devi pensare al tuo futuro!», replicava mia madre in preda a un’ossessione.
Che cosa squallida dover pensare al futuro. Io invece pensavo al presente. Mia madre pensava al futuro per assicurarsi il presente. Io invece pensavo il presente per assicurarmi il futuro. E nel futuro c’era anche la vita eterna. A lei interessava la vita eterna? A me non importava un fico secco!
All’improvviso, non vidi più la bella Mercedes cabrio metallizzata parcheggiata nel garage. Non vidi più la Maserati sportiva colore fumo di Londra.
«Abbiamo comprato una macchina nuova?», chiesi a mia madre.
«Abbiamo venduto la Mercedes e la Maserati», disse mia madre come se le fosse piovuto addosso il cielo con tutte le sue nuvole.
«Tuo padre è rovinato!, quel buono a nulla tra poco si troverà sul lastrico senza neanche sapere come c’è caduto».
«Papà ci tirerà fuori dai guai», rispondevo senza convinzione. In realtà, ero quasi contenta di quella situazione di disastro finanziario. Finalmente, vedevo mia madre in preda al panico. Quella sua folle sicurezza era scomparsa dai suoi occhi giallini. Era il mio personale lusso quello di vedere la bigotta tremare di paura.
«Che problema c’è?, ci tireremo su le maniche e troveremo una via di uscita».
Dicevo queste parole ben sapendo che l’avrei spaventata a morte. La spaventava la prospettiva di dover lavorare come tutte le persone normali, lei che si era sempre rifugiata dietro il parafulmine, il paravento dell’ipocrisia, della ricchezza, della menzogna, della vita eterna nell’aldilà e del voto di castità. Cominciai a pensare che era lei la peggior prostituta. Aveva vissuto sulle spalle del marito tutta la vita, e adesso che il pavimento le crollava sotto i piedi, temeva per il suo presente e per il suo futuro. Dal profondo del mio cuore iniziai a disprezzare mia madre, il suo modo di vivere, o meglio, di non vivere, la sua concezione del mondo, il concetto corrivo di valore che dava alle cose e alle persone del mondo. Del suo mondo.
Ora sono adulta. Dicono che sia bellissima. Sono diventata una famosa modella, ammirata e desiderata da tutti gli uomini. E adesso sono regolarmente sposata come una signora borghese. Svolgo (!?) il più antico mestiere del mondo, sono una libertina, si dice così? Vivo tra Londra e la nostra capitale, lontano dagli occhi impassibili di mia madre che mi scrutano e mi sorvegliano da una sponda del mar Mediterraneo.
Quando mi incontro con i miei amanti, provo un’eccitazione incontenibile nel farmi spogliare ed eseguire, senza reticenze, l’ordine impartitomi. Sono supina ad ogni loro desiderio. Solo a queste condizioni raggiungo l’orgasmo. Supina ad ogni desiderio, anche il più astruso, anche il più umiliante e pusillanime. Tantopiù gli ordini sono perentori quantopiù provo piacere nell’eseguirli. Che strano, in verità, non so dire no ad alcun uomo. Non sono capace di opporre un rifiuto o un diniego alle loro voglie. È sufficiente che un uomo mi corteggi e mi rivolga un desiderio ed io cedo, non so opporre alcun rifiuto alle richieste degli uomini. Infine, la mia più grande eccitazione la raggiungo con uomini sconosciuti, con uomini maturi. È sufficiente uno schiocco delle dita, un ordine perentorio. All’inizio mi piace apparire altera, irraggiungibile e sexy. Poi, non appena un uomo maturo mi abborda con un linguaggio da marinaio mi offro, mi offro senza reticenze.
Sì, ora che sono adulta, ho la certezza scientifica che mia madre fosse del tutto pazza. Inguaribilmente pazza. Ma io invece di maledirla per tutte le sue crudeltà, la ringrazio, quelle crudeltà non sono state inutili. Io che ho vissuto per tutti gli anni della pubertà e dell’adolescenza senza mai poter guardare dritto negli occhi un uomo, adesso, invece, quando mi ci trovo davanti, provo una fortissima eccitazione. Se sono seduta davanti ad un uomo, mi basta divaricare leggermente i ginocchi o accavallare le gambe e raggiungo l’eccitazione. È sufficiente che un uomo mi tocchi casualmente, che mi sfiori i capelli o mi tratti con modi autoritari e attingo il più alto grado dell’esaltazione. Non mi resta che obbedire. Del resto, so solo obbedire. E lo faccio volentieri. Mi procura un orgasmo dietro l’altro. Senza fine. Un imbuto. Spaventoso.
*
A dodici anni ero già una donna sviluppata. Già a quell’epoca ero alta un metro e settanta. Da alcune rarissime fotografie dell’epoca, si evince che ero bellissima con il corpo da silfide e gli occhi, lunghi e sottili, da cinese. Alcune fotografie mi ritraggono con indosso un vestito a righe da collegiale che arrivava sotto il ginocchio. Apparentemente, la divisa da collegiale avrebbe dovuto emendarmi da ogni pericolo di sensualità, ed invece, paradossalmente, quella divisa anodina e asessuata addosso al mio corpo, si animava, e una voluttà segreta sembrava scorrere nelle pieghe del vestito. Ancora oggi mi meraviglio per la delicata bellezza dei miei lineamenti di allora. Mi restano così poche fotografie di quell’epoca perché la mia genitrice era assolutamente contraria alla fotografia. Nella sua folle ideologia oscurantista considerava la fotografia un prodotto deturpato della modernità che doveva essere bandito dal demanio degli oggetti cosiddetti leciti, con i quali non dovevo instaurare nessun contatto o rapporto. So che tutto ciò oggi potrebbe apparire assurdo ma la pura e semplice verità.
«Questa bambina è un vulcano in procinto di eruttare, ha una libido incandescente e l’anima di una santa!», sentenziava mia madre mentre mio padre diceva: «gli uomini si accendono come le lampadine, in un attimo vanno a fuoco per tornare allo stato normale un istante dopo mentre le donne, invece, si scaldano a fuoco lento, a poco a poco, come un termosifone, Ma una volta che si sono scaldate non le ferma più nessuno».
Mi sono sempre chiesta come mai un tipo come mio padre stesse con una puritana come mia madre. Il motivo molto semplice mio padre era uno spiantato, avevo perduto al gioco una fortuna, in pratica tutti i suoi cinque appartamenti, e non gli era rimasto altro da fare che accasarsi con quella bigotta di mia madre.
Di quell’epoca lontana mi restano soltanto poche fotografie scattate dalle mie compagne di scuola che poi, da grande, trafugai con una serie di scuse e una buona dose di astuzia. In realtà, non volevo che restasse alcuna testimonianza della mia persona da bambina. Ho cancellato per sempre dalla mia memoria quell’epoca.
*
Ho adorato i tacchi alti fin da quando ero una bambina. Mia zia Berte mi acquistò il primo tacco 12 che non avevo ancora imparato a camminare come una signorina. Stavo intere ore a guardare estasiata quelle scarpe con la zeppa di 12 centimetri; ma quanto erano fantastiche!
A dodici anni ne ho avute un altro paio, questa volta con i tacchi di plastica comprate in un negozio di giocattoli sempre dalla zia Berte. Presi ad indossarle tutto il tempo che potevo e in qualunque occasione; alle feste di compleanno delle mie amichette allo “Studio 54” completamente vestita di Lycra nera, oppure mentre mi esercitavo andando dalla cucina al salotto, imitando la falcata di Marilyn Monroe sulla passerella (e per completezza mi cotonavo anche i capelli secondo la moda di allora) che la portava su un set cinematografico.
Ricordo ancora quando, quasi adolescente, mi preparavo per una serata, le mie scarpe preferite erano un paio di peep toe pumps con tacchi e suole di camoscio blu. Nessuna delle mie compagne aveva il coraggio di indossarle. Ma io sì. Ero giovanissima ma avevo già imparato quanto i tacchi alti siano magici. E che potere ti danno sugli uomini. A una donna che li indossa succede come a Cenerentola. Ricordo quando un mio corteggiatore mi comprò, su mio suggerimento, delle scarpette con la zeppa di cristallo, che poi non era altro che una plastica trasparente: mi sentii subito straordinaria. Come dice Manolo Blahnikle le scarpe sono il modo più veloce per una donna di ottenere una trasformazione istantanea: allunga le gambe, alza il sedere, valorizza il polpaccio, amplia l’ancheggio sexy dei fianchi: quale altro accessorio ha questo potere?. Non si trattava solo di apparenza ma di sostanza: il tacco alto mi dava energia, mi faceva sentire sicura, forte, sensuale. E non c’è da meravigliarsi se le femmine di tutto il mondo ne siano ossessionate. Ma ammettiamolo, le scarpe sono un vizio costoso. Per chi, come me, non poteva permettersi tutte quelle che avrebbe voluto, non cera altra soluzione che procurarmele, comprarle oppure farmele regalare...
*
Durante l’estate andavamo con mia madre nella villa di montagna dei miei genitori a Tolfa. Era una villa a tre piani immersa in un bosco di castagni. Le farfalle si aggiravano tranquille con quel loro volo instabile e aleatorio. Ricordo con angoscia la terribile noia di quelle interminabili vacanze dove trascorrevo il tempo in completa solitudine ascoltando il frinire dei grilli ed il tinnire dei passeri sugli alberi, lo schiocco dei merli e il sibilo delle cicale. Mia madre mi teneva accuratamente separata dalle altre ragazze della mia età, perché era convinta che le ragazzine del luogo fossero tutte volgari e gelose della mia bellezza e che sarei stata danneggiata da un qualunque contatto con quella specie inferiore. E poi c’erano sempre i maschietti nei dintorni e poi quelle ragazzine erano così sboccate, così maleducate, quante parolacce sulle loro bocche!
La mia vita dell’epoca era caratterizzata da una, per così dire, tellurica stabilità. Gli inverni erano assolutamente insopportabili con tutta quella neve che si ammucchiava tra gli alberi e il sottobosco. Una silenziosa solitudine, o una rumorosa solitudine, a secondo dei punti di vista, abitava la mia esistenza malinconica durante i lunghi soggiorni nella grande villa di Tolfa.
*
La villa era tenuta in ordine durante l’inverno da un vecchio guardiano dai capelli bianchi che fungeva anche da muratore e provvedeva a tutte le necessità dell’edificio. Si chiamava Arturo ed era un vecchio taciturno dall’aspetto ripugnante. Quando rideva notavo con orrore che la sua bocca era quasi priva di denti. Era ancora un uomo robusto ma io lo avevo considerato sino ad allora come un vecchio ripugnante e niente più. Lo consideravo un fedele stipendiato della famiglia, un operaio al servizio dei miei genitori. Un adepto della classe inferiore, uno di quei bastardi che devi tenere sempre nello scantinato del palazzo, uno stipendiato adibito ai lavori umili e pesanti.
Una mattina lo sorpresi in maniche di camicia, con la camicia sbottonata sul petto villoso, nella cantina mentre stava sistemando alcune bottiglie di barolo. Appena mi vide, disse delle parole gentili, di circostanza, si alzò e mi venne incontro dicendomi di non aver paura, di entrare. Io dapprima fui titubante ma poi mi lasciai convincere dal tono sicuro, quasi stentoreo con cui pronunciava le parole distanziandole le une dalle altre mentre parlava; era il tono affettato di un uomo rozzo che vuole apparire di rango superiore o il tono di chi ha commercio con persone di rango superiore e vuole imitare le loro abitudini linguistiche. Io, in verità, lo disprezzavo, avevo orrore del suo aspetto trascurato, della sua barba incolta. Mi invitò ad entrare ed io, non so come né perché, mi lasciai convincere, titubante, o piuttosto mi lasciai tentare ed entrai, camuffando la mia insicurezza con un eccesso di altezzosità; avanzavo con passo sicuro oscillando sugli alti tacchi a spillo, che avevo comprato di nascosto della mia genitrice, e lui mi sfiorò i capelli. Era la prima volta che un uomo mi sfiorava i capelli. Rimasi inorridita e sbigottita delle immediate conseguenze di quel contatto, ricordo che ne provai una eccitazione incontenibile. L’uomo forse si accorse del mio turbamento, perché con delicatezza mi attirò a sé cinturandomi per la vita esile e mi baciò sul collo. Io, non so come, mi trovai faccia a faccia con l’alito puzzolente di quell’uomo, ma, strano a dirsi, invece di provarne disgusto ebbi una seconda incontenibile eccitazione. L’uomo prese a baciarmi sul collo e sulle guance con una foga e una passione improvvise. Sì, io non so come sia potuto avvenire, forse a causa di un improvviso mancamento delle mie facoltà razionali o del piacere eccessivo che i suoi baci mi procuravano, mi ritrovai inginocchiata davanti a lui, forse. Il vecchio comprese immediatamente che ero ormai senza difese. Si sbottonò i pantaloni e ne fece sortire un membro che a me sembrò di dimensioni assolutamente sproporzionate. In verità, non avevo mai visto un membro virile in vita mia, nemmeno in quelle fotografie dei giornaletti erotici di mio padre, e tantomeno da distanza così ravvicinata, e così, quello che era un pene di dimensioni assolutamente normali mi parve invece gigantesco. Mi afferrò per la testa e mi costrinse ad aprire la bocca. Tutto avvenne in modo così rapido, senza che me ne rendessi conto, Ero china davanti a lui. E lui spadroneggiava con urticante impertinenza nella mia bocca. Soltanto alla fine di quell’atto obbrobrioso presi coscienza di ciò che stava accadendo: l’uomo ebbe una abbondante polluzione sulle mie labbra. Scappai subito via da quel luogo spaventatissima ed eccitatissima come non lo ero mai stata. Non avrei mai pensato che un uomo potesse fare certe cose innominabili e che fosse così piacevole, tremendamente piacevole eseguire certe pratiche abominevoli. Allora, non avrei saputo spiegare che cosa avessi trovato di così piacevole nel compiere quell’atto che la mia educazione mi faceva considerare sordido e degradante. Ovviamente, mi guardai bene dal riferire il fatto alla mia genitrice, mi accontentavo di vivere il mio segreto in completa solitudine, e scoprii che era tanto più eccitante quanto più certe pratiche venivano eseguite nell’ombra e all’ombra della legislazione interdittiva che la mia genitrice aveva promulgato. Un atto così abominevole e degradante era semplicemente inesistente nel quadro di vita di relazione familiare instaurato da mia madre.
Quando, allo scoccare dell’ora di pranzo, l’uomo venne a servirci nella sala da pranzo, a me batteva fortissimo il cuore. Pensavo ingenuamente che mia madre avrebbe udito i battiti del mio cuore e si sarebbe accorta senza fallo del mio turbamento, che avrebbe subito indovinato la nostra relazione di poche ore prima. Credevo ingenuamente che mia madre mi avrebbe letto nel pensiero e che avrebbe scoperto il misfatto. E invece non avvenne niente di tutto ciò. Con mia meraviglia, mia madre non si accorse del mio turbamento, del mio tambureggiante battito cardiaco, rimase tranquilla e in silenzio per tutto il pranzo. Giunti al dessert, con voce chiara e netta in modo da farmi udire da Arturo, chiesi il permesso di recarmi in bagno, permesso che mi fu subito concesso. Arrivata nel bagno, aprii la porta e trovai il vecchio che mi attendeva: stava di schiena, con le mani appoggiate al lavabo. Non so bene riferire quello che avvenne nei miei pensieri. Forse, qualcosa avvenne, ma si trattava di retro pensieri più che di pensieri veri e propri. Mi comportai in un modo che non avevo minimamente preventivato o immaginato. Mi diressi silenziosamente verso il servitore e, sempre in silenzio, mi inginocchiai davanti a lui. Tutto avvenne apparentemente in modo spontaneo e irriflessivo: gli sbottonai i pantaloni e lo soddisfai ancora una volta con la bocca, e non smisi fino a quando non sentii quel liquido caldo che mi scivolava lentamente nel palato.
Da allora, Arturo divenne il mio primo amante segreto e il mio primo iniziatore alle pratiche erotiche. Ci incontravamo dappertutto, ogni occasione e ogni circostanza era buona per appartarci e fare le nostre pratiche segrete. Bastavano pochi minuti per dare fondo alla nostra eccitazione.
*
Improvvisamente, un giorno Arturo venne licenziato. Mia madre aveva intuito qualcosa? Questo terribile sospetto mi angosciò per mesi ma venne fugato non appena mi accorsi che era stato ingaggiato un nuovo muratore, giovane e forte. “Se la mia genitrice avesse soltanto sospettato la nostra relazione non avrebbe certo assunto un operaio giovane!”, pensai non senza ragione.
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Confesso di esser diventata l’amante del nuovo guardiano muratore e giardiniere della casa di mia madre all’età di dodici anni. Era un uomo molto robusto, muscoloso e peloso che girava, anche d’inverno, sempre con una specie di canottiera. Si vantava della sua mascolinità dicendo che il freddo faceva bene ai suoi muscoli. E poi era rozzo, straordinariamente rozzo. La classica rozzezza della classe operaia. Un giorno che ero capitata in cantina per errore, lo vidi che sistemava alcuni scatoloni pieni di oggetti che mia madre aveva dichiarato fuori uso; mi arrestai sulla soglia e mi ritrassi chiedendo scusa. Ero un poco intimidita da quell’uomo così rozzo ed elementare, ma quello non si accorse neanche del mio imbarazzo. Era troppo rozzo per accorgersi dei turbamenti dell’animo femminile.
Un giorno che capitai in giardino mentre stava potando una siepe di bosso, mi salutò e mi disse di avvicinarmi. Alla mia esitazione, mi chiese se fossi timida. Alla mia risposta negativa mi chiese, così senza convenevoli, se avessi mai fatto sesso con i miei coetanei o con gli uomini adulti. Ed io gli risposi, con mia assoluta sorpresa, che avevo fatto sesso soltanto con il precedente operaio. Sì, gli dissi la verità con assoluta noncuranza, quella verità che non avrei mai confessato a mia madre neanche sotto tortura. «Ah, con quel vecchio!», rispose l’operaio con un tono di evidente disprezzo; poi mi prese la mano e se la portò al centro dei pantaloni. Così, semplicemente, senza complicazione e con una directdness che mi sorprende anche adesso che ci ripenso. Con mia meraviglia scoprii così che in quel luogo gli uomini avevano un oggetto particolarmente bizzarro, voluminoso e terribilmente eccitante. Il muratore tirò fuori un membro di proporzioni assolutamente fuori del comune, o almeno così mi parve. Mentalmente paragonai il suo oggetto a quello del precedente guardiano ma non ebbi né modo né tempo di riavermi dalla sorpresa e dalla meraviglia che quel tanghero mi disse di prenderglielo in bocca come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Io non feci altro che obbedire. Avvertii un insolente e improvviso piacere nell’obbedire. Il termine oggi in voga per questo genere di pratiche: pedofilia. Ma io sono piuttosto del parere che si sia trattato di un vero e proprio avviamento all’erotismo. Non a tutte le ragazze è concesso di poter frequentare un corso di avviamento così precoce all’erotismo, ed io sono convinta che molte infelicità coniugali derivino appunto da un incompleto o infelice processo di acquisizione della pratica erotica, processo che deve avvenire, a mio modesto avviso, insindacabilmente fin dalla più tenera età, fin dalla pubertà, se possibile. Devo confessare, inoltre, che ho avuto la ventura di essere stata allevata in questo, diciamo, magistero e di aver perfezionata l’arte delle mie prestazioni: all’età dell’adolescenza avevo raggiunto la perizia di una professionista. All’università presi l’abitudine di scegliermi gli amanti tra i professori più maturi e rispettabili. Almeno in apparenza. Con il senno di poi, posso affermare e confermare che mi sono unita ad uomini di tutte le età, anche con uomini obesi e ripugnanti, nient’affatto rispettabili e di dubbia moralità. Mi sono unita con uomini di ogni genere e di ogni censo, di ogni latitudine e di ogni longitudine, al di là dei limiti di classe, di censo e di educazione.
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Diventata donna adulta, mi sono unita in matrimonio con il più illustre dei miei innumerevoli amanti, scegliendolo accuratamente tra i più facoltosi. Ho scelto quello rigorosamente impotente, facoltoso ed ambiguo.
Gli uomini dicono che sono molto bella e sensuale. Che ho un corpo nervoso. Ed affusolato. Sulle gambe magrissime e snelle, un corpo con la vita esilissima e un seno straordinariamente copioso. Biondissima, mi rado accuratamente il vello, affinché cresca sempre più lussureggiante.
All’età di sedici anni avevo già un corpo di donna esile e affusolato con un seno già sviluppato e sodo. Gli uomini facevano a gara nel corteggiarmi ma io non comprendevo ancora quale fosse il segreto del mio fascino, quali parti del mio corpo piacessero agli uomini. Il mio fascino era nella folle solitudine nella quale avevo vissuto fino ad allora. Avevo imparato a vivere delle mie fantasticherie. Nel mio immaginario gli uomini erano degli alieni venuti da qualche altro pianeta. Non so perché, mi sentivo attirata dagli uomini maturi, dal loro modo elegante con cui aprivano lo sportello dell’automobile.
Misi delle inserzioni su un quotidiano della capitale molto letto, così per gioco, nelle quali mi offrivo a domicilio: spogliarelli per uomini anziani, preferibilmente ultracinquantenni, purché facoltosi e generosi; mi offrivo per accompagnamento di imprenditori durante i fine settimana. Mi spogliavo dinanzi al loro sguardo ebete di lussuria e mi pavoneggiavo sugli alti tacchi a spillo. Rigorosamente nuda, mi offrivo anche ai loro piaceri con solerte impudicizia. Mi concedevo sempre, con voluttà, dietro lauto compenso, ai loro amplessi.
Mi piace essere pagata ma non lo faccio per amore di lucro quanto per desiderio di trasgressione, nell’essere pagata provo una eccitazione ancora più grande. Se ritenete discutibile tale comportamento penso che sia però perfettamente comprensibile. Questa professione, peraltro ben remunerata, costituisce l’hobby della mia vita. L’altro lato della medaglia della mia esistenza. Questo è tutto. Non c’è altro. Non c’è altro?
L’APPRENDISTATO DI PENTESILEA
Pieno e vuoto, vuoto e pieno. Se si potesse riassumere la storia della mia vita, essa sarebbe costellata dal susseguirsi e dall’accavallarsi di questa dualità: pieno e vuoto, vuoto e pieno. Qui, in questo semplice punto, è racchiusa la storia della mia vita. La sua indecifrabilità, o la sua inafferrabilità, se si preferisce. Adesso che sono adulta, ad un’occhiata retrospettiva, tutto mi appare chiaro e conseguente, addirittura inevitabile. Adesso sì, la luce del futuro rischiara il buio del passato.
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Nel Simposio di Platone, il generale ateniese Alcibiade espone la tesi secondo cui ciascuno di noi è una mela divisa a metà, e che quella metà sarà sempre alla ricerca dell’altra metà da cui è stata divisa, e la ricerca finirà soltanto quando una metà incontrerà l’altra metà e verrà così ricostituita l’unità primigenia, la monade che non conosce la dualità di pieno e di vuoto.
Alcibiade è un generale, un uomo abituato a trovare soluzioni semplici a problemi complessi, ed inoltre un uomo intelligente e audace, vede oltre, molto oltre il limitato orizzonte dei suoi contemporanei. Alcibiade sa che dietro il nostro orizzonte c’è sempre un altro orizzonte che lo racchiude, e che quindi tutto è relativo, sa che bisogna gettare uno sguardo oltre il nostro limitato orizzonte per poter comprendere le cose, sa che bisogna osare, e che bisogna immaginare, sognare, e che il sogno costituisce la vera natura delle cose, e che nel sogno si rivela la vera essenza delle cose. Ma forse Alcibiade ha gettato lo sguardo troppo oltre l’orizzonte dei suoi contemporanei, molto al di là dell’orizzonte degli ateniesi del suo tempo. Egli fu il primo ad aver inventato la guerra imperialistica. Progettò la spedizione militare in Sicilia per la conquista della maggiore isola del Mediterraneo e, di qui, gettare le fondamenta dell’egemonia di Atene su tutto il Mediterraneo. Il progetto non andò in porto e si rivelò un completo disastro per l’esercito ateniese; ciò nondimeno, l’audacia dell’idea ha qualcosa di grande, dimostra il possesso di una grande visione. Se il generale ateniese fosse riuscito nell’impresa noi avremmo avuto un impero su tutta l’area del mar Mediterraneo guidato dalla più civile e democratica nazione del mondo: la città-stato di Atene. Ma il progetto non riuscì. Perché non riuscì?. Qualcuno ha detto che la vita un sonno profondo e che l’amore ne è il sogno. Oh, chi ha scritto una cosa simile non può che essere un poeta, ed i poeti, si sa, sono i più vicini al sogno, al senso delle cose, all’essenza delle cose.
Azzardo una congettura: forse per i soldati ateniesi era più importante l’eros che il polemos, la guerra. Essi non potevano combattere lontano dalle mura della propria città. Fu per questo che, lontano da Atene, sperduti in un territorio ostile e straniero, essi furono sconfitti. Perché Eros è più potente di Ares. Eros sovrasta Ares.
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Ritengo di essere stata una donna fortunata, non a tutte è stato dato incontrare un uomo come Massimo. Devo a lui la mia educazione estetica. E per me l’educazione estetica è sempre stata tutt’uno con l’educazione al piacere sensoriale. I tedeschi hanno un’unica parola per indicare la sensorietà e la sensualità, ed è Sinnlichkeit. In italiano, invece, le parole sono due: ciò vuol dire che una delle due non dice la verità. Prima di incontrare Massimo ero una donna sui vent’anni che era passata tra le braccia di semplici amanti che mi avevano iniziata alla sessualità. Per i più, gli amplessi erano un susseguirsi di violenti arrembaggi al corpo femminile pur di dimostrare la propria forza virile. Per costoro la sessualità si identificava con una dimostrazione della propria potenza virile, della supremazia del loro membro virile.
La prima volta che incontrai Massimo avevo ventidue anni e lui quaranta. Con i suoi vestiti di tweed grigio di ottima fattura e il foulard pastello appeso al collo come un segmento dell’ignoto che mi si annunciava, possedeva l’attrattiva magnetica che a volte hanno nella nostra vita, a nostra insaputa, gli eventi inevitabili. Fui subito affascinata dal suo stile, dal suo modo di argomentare, dal suo impareggiabile lessico. Insomma, per la prima volta mi trovavo dinanzi ad un uomo di conio nuovo, complesso, colto, raffinato e straordinariamente maschile ma di una virilità del tutto singolare. Fu lui che mi avviò al culto del membro virile. Voi vi chiederete in che cosa consista l’iconodulia del membro virile. Ebbene, vi dirò che la prima fase dell’insegnamento si incentrò unicamente sui divieti. Per prima cosa mi impose il divieto di indossare il collant.
«Mia cara, sai che odio il collant perché nessun indumento femminile è meno femminile di questo, più asessuato e asessuale», usava dire con l’aria più annoiata del mondo.
«Ma che cosa avrà mai di strano il collant? In fin dei conti è comodo, è più rapido da indossare, economico», osavo interloquire durante le lezioni.
«È del tutto probabile che il collant sia stato inventato da un pazzo misogino, da un asceta, da un nemico della specie femminile, da un impotente, da un frustrato rancoroso», mi rispondeva Massimo adirato e indispettito per quelle che considerava delle eccezioni non pertinenti.
Io eccepivo che non riuscivo a capire che cosa ci fosse di così negativo nel bistrattato collant ma Massimo non accettava la minima replica, si limitava ad ingiungermi che sarebbe venuto il tempo in cui avrei finalmente capito. Teneva spesso di queste filippiche, che finivano invariabilmente con una tirata retorica del tipo: «il collant e le mutande normali devono essere inesorabilmente e inappellabilmente bruciati in un pubblico rogo, archiviati nel dimenticatoio, dannati per l’eternità, consegnati all’oblio!».
Invariabilmente, l’audizione terminava con un invito ad indossare un reggicalze di pizzo nero o bianco, dal quale pendevano delle sottilissime ed aderenti calze. La lezione continuava con delle prove di passeggio. Massimo stendeva un tappeto rosso sul pavimento del salone e, con un ordine perentorio, mi ingiungeva di camminare in avanti e indietro. Dopo di che mi impartiva delle severe reprimende sugli errori di locomozione appena compiuti e mi obbligava a correggerli subito, ad eseguire il movimento appropriato e corretto delle anche, mi invitava ad eseguire il movimento corretto dei passi. Mi diceva che dovevo accentuare quel caratteristico dondolio delle gambe sulle caviglie che accentuava la sensualità dell’andatura a “S”; Massimo era molto severo, esigente, non ammetteva il minimo errore. Durante la locomozione mi guidava con una bacchetta, una di quelle in uso ai direttori d’orchestra. Non si stancava di ripetermi che ad ogni passo le gambe dovevano essere innalzate leggermente, in modo da accentuare il moto ondulatorio del corpo e che occorreva correggere con l’oscillazione del bacino avanti/indietro quella orizzontale delle anche. Io mi sottoponevo malvolentieri a quelle lezioni: volevo bruciare le tappe, volevo imparare in fretta l’arte della sensualità e della femminilità, volevo riparare al tempo perduto appresso ai ragazzotti della mia età. Ora lo so, ho capito quanto male ha fatto e fa all’amore il collant e la mutanda tradizionale e le calze scure, fatte apposta per nascondere l’incarnato femminile, fatte apposta per affievolire l’attrazione verso la femminilità. Ora so di quanti amplessi mancati o mal riusciti siano responsabili tutti quegli indumenti misogini. E quanta infelicità di coppia! Quanti uomini veri, quanti maschi sani, alla vista di quella orrenda guaina, dello scudo di quelle mutande orripilanti, hanno visto assottigliarsi e annichilirsi il fuoco sacro e profano delle loro voglie ed hanno gettato la spugna!. Prigioniera di questa barbara e medioevale armatura, l’altra metà del cielo perde, agli occhi degli uomini, ogni fascino, soffoca ogni desiderio, anche il più incoercibile.
«Ti ricordo che stai parlando con un professionista della seduzione...» diceva mio marito «baciarsi al primo incontro è da dilettanti. Le vere donne si conquistano a poco a poco. È una tattica psicologica».
Colui che divenne in seguito il mio legittimo consorte, mi ha raccontato di quando, da studente, fu adescato da una signora dell’alta borghesia. «Costei indossava una mutanda alta che la ricopriva là dove avrebbe invece dovuto scoprire!». Quale non fu lo stupore del giovane studente, di più, il suo orrore, dinanzi ad un tale manufatto indossato dalla signora borghese che voleva cornificare il marito con il baldanzoso studente di filosofia.
«Provai sconforto e sgomento, addirittura panico. Non capivo, non volevo capire. Mai nella mia lunga carriera di libertino senza macchia e senza paura, mai mi ero trovato di fronte ad uno spettacolo così desolante, ad un quadro così ostico!», mi diceva con voce querula e chioccia colui che in seguito diventò il mio legittimo consorte.
«Cos’era successo in fin dei conti?», chiedevo fingendo stupefazione.
«Come osi chiedermi che cosa era successo?», replicava visibilmente stizzito il mio futuro consorte.
«Ma sì, voglio sapere che cos’era successo di tanto orribile!», ripetevo allarmata e incuriosita.
«È successo che quel corpo femminile giaceva sul letto incartato e inguainato come una mummia nelle sacre bende! Nulla era visibile tranne un colore sciropposo e stopposo attraverso quei panni così opachi e desolanti. Avrei voluto fuggire, ma come potevo farlo senza prima capire? Volevo capire cosa mai fosse questa corazza di nylon, che lì per lì mi sembrò una cintura di castità, meno complicata e più maneggevole di quella in auge nel medioevo, ma pur sempre detestabile e deprecabile: non c’era la serratura, non cera bisogno di un chiavistello per rimuoverla. Ma, in fin dei conti, perché rimuoverla? Chi la indossava, se anche se la fosse tolta, si sarebbe vista rifiutare. Per me, quella sera, il trauma fu terribile. E la partita fu chiusa per sempre. Giurai da allora che mai e poi mai avrei avuto un coito con una donna avvolta in tali scellerate guaine!».
«E tu che cosa hai fatto?», interloquivo sempre più curiosa e stupefatta.
«Come cosa ho fatto? Sono fuggito a gambe levate!», mi rispondeva Massimo ancora in preda a un sacro furore mentre agitava le braccia come davanti ad un fuoco sacro.
«Come un codardo?», chiedevo divertita tentando di stuzzicarlo.
«No, come un soldato spaventato da tanto scempio!», ripeteva costernato il mio fido maestro.
Fu così che colui che in seguito divenne mio marito visse per lunghi mesi in completa solitudine a meditare il perché di tanto scempio, sulla follia femminile, sulla misoginia maschile, sul disfattismo di chi, in nome della comodità e del progresso, rifiuta il più delizioso e sfizioso degli accessori intimi, il divino e mai abbastanza celebrato reggicalze, il divino minutissimo lembo di stoffa denominato, con una parola che solo un poeta poteva coniare: perizoma
La seconda fase dell’apprendistato si incentrò, come ho detto, sull’iconodulia del membro virile. Massimo mi spiegò che una vera femmina doveva concentrare l’arte della seduzione sulla adorazione del membro maschile. Io chiedevo spiegazioni sul concetto di seduzione e lui, con molta pazienza, mi spiegava che senza l’adorazione di Priapo non si poteva parlare di eccitazione del membro maschile e che essa si verificava soltanto in presenza del culto del dio Priapo.
Fu così che Massimo mi iniziò alla frequentazione di un circolo di idroterapia. Ci si liberava degli abiti, li si riponeva in un armadietto e, prima dell’ingresso, ci si faceva la doccia. Dopodiché, i clienti facevano la loro comparsa nel reparto sauna. Dalla sauna, attraverso uno stretto corridoio, si transitava in attigui locali refrigerati che conducevano ad un bar fornito di ogni bevanda dove gli astanti, tutti rigorosamente nudi, si attardavano a dissetarsi. Io mi sedevo, accavallavo le gambe sorseggiando un’acqua minerale ed osservavo gli avventori i quali erano tutti molto gentili. Dopo alcuni preamboli, mi prendevano per mano e mi invitavano a seguirli nelle stanze privè dove un monitor trasmetteva filmini porno. Io li seguivo docilmente, mi inginocchiavo in adorazione davanti alla erezione del dio Priapo e mi concedevo alla fellatio. A volte, soddisfacevo contemporaneamente anche due, tre ed anche quattro uomini alla volta. Acconsentivo a lasciare la porta semiaperta per favorire l’osservazione della scena da parte degli occasionali esclusi. Ero sempre accompagnata da Massimo: lui sedeva sulla panca e controllava l’esatta esecuzione delle mie prestazioni. Il circolo era frequentato da molti uomini soli e da qualche coppia alla ricerca di trasgressione, ma il nostro intento era ben altro: Massimo mi concedeva una completa libertà di azione ed io potevo dare libero sfogo alla mia carica di narcisismo e di esibizionismo. Mi diceva che dovevo ancora imparare a disporre del mio libero arbitrio. Calzavo degli alti zoccoli di legno sui quali amavo passeggiare per i locali del club. Divenni ben presto una diva del locale e i maschi facevano la fila per ottenere i favori delle mie prestazioni.
Certo, ora che ci penso, noi donne dovremmo erigere, in tutte le piazze delle nostre città, un bel monumento a quel Signore che, verso la seconda metà del secolo scorso (indiscutibilmente un grand’uomo, uno dei più grandi del suo tempo), ha escogitato il perizoma, un congegno così semplice e, allo stesso tempo, sofisticato!, un moltiplicatore dell’eccitazione e del desiderio. Un uomo di cui, in questo momento ho un’imperdonabile amnesia. Un nome ed un cognome caduti inopinatamente ed ingloriosamente nell’oblio. Perché ricordare Pericle e Alessandro Magno, Giulio Cesare e Napoleone, Fidia e Michelangelo e non invece questo benefattore dell’umanità femminile, al quale, come al Milite Ignoto andrebbe innalzato un monumento, un’Ara pacis, un Partenone sormontati da schiere di Cupidi con turcasso, faretra e frecce.
Massimo riteneva che di simili indumenti non si tesserà mai abbastanza l’elogio. Avrebbe voluto essere Pindaro o Catullo, Ovidio o Properzio, Boccaccio o l’Aretino per cantarlo in esametri latini e in endecasillabi del nostro volgare.
«Quale visione più inebriante di un reggicalze che sostiene un paio di calze, meglio se rigorosamente nere, fascianti due lunghe e sottili gambe femminili? Quale afrodisiaco più potente, quale più irresistibile invito al brindisi con Eros e al duello con Venere?», soleva interloquire il mio docente invaso da una divina ispirazione.
Il mio amato consorte sosteneva che quel niveo lembo di coscia che sortiva dal reggicalze suscitava più fantasie di quelle contenute nel celebre romanzo arabo Mille e una notte, faceva divampare nell’inguine maschile incendi superiori a quello suscitato dal pazzo imperatore Nerone con l’incendio della caput mundi. Era convinto che il tacco a spillo e il reggicalze fossero gli araldi della vera rivoluzione, che avrebbero respinto nell’orrore della inappetenza dei numismatici il detestabile collant e la scarpa dal tacco tozzo e pesante. «Ricordi la divina Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro seduta con in testa un cilindro e le splendide gambe impreziosite dal reggicalze e da una sottilissima guaina di stoffa trasparente?, quanti cuori quell’immagine fece palpitare e quanti sensi riscaldò?, donne, che cosa aspettate?, torniamo al reggicalze, dopo aver dato alle fiamme gli odiosi collant!, cupido ve ne sarà grato e noi ritroveremo finalmente quella gioia di vivere e di amare perduta tanti anni fa: davanti al collant della signora borghese che voleva tradire il marito!».
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«Sai chi è stata Paolina Bonaparte?», mi ha chiesto oggi a bruciapelo il mio coniuge.
«Certo che lo so», ho risposto senza esitazione.
«Non avevo dubbi», è stata la replica serafica di Massimo.
«Allora, perché me lo chiedi?», ho provato a esordire.
«Perché d’ora in avanti dovrai tenere a mente il paradigma di Paolina Bonaparte quale uno dei modelli di massima consapevolezza in materia di erotismo».
Il tono e le parole di Massimo non lasciano margini a dubbi di interpretazione. Lui non è il tipo che getta una provocazione soltanto per il gusto della provocazione. In lui prevale sempre il lato didattico ed estetico-didattico. Mi dicevo: «ci deve essere una ragione se Massimo mi dice questo e quello, qualcosa che mi sfugge; devo imparare ciò che mi sfugge».
«A venticinque anni, Paolina dai piccoli seni, protetta dal suo cognome e dall’età dei Lumi, si atteggia ad Afrodite per lo scalpello dello scultore più in voga dell’epoca: Antonio Canova».
«I costumi di Paolina erano sufficientemente liberi?», chiedo con una punta di malizia.
«Quello che vorrei comunicarti è che non i costumi ma la sensibilità con cui Paolina vive il suo tempo profondamente trasgressivo. È corteggiata, concupita, spiata da amici e nemici, da imbonitori e patrioti da strapazzo, da vecchi e nuovi cortigiani, da tutta una corte di apprendisti stregoni. Dopo la caduta del potente fratello, si ritira nella sua villa di Viareggio, dove Paolina vive la sua ultima storia d’amore con il giovane musicista Giovanni Pacini. Tra il 1823 e il 1825 si consuma la breve ed intensa storia d’amore, prima di ritirarsi, abbandonata dall’amato, a Firenze, a villa Montughi, dove muore a soli quarantacinque anni».
«E credi che io non potrei fare altrettanto?».
«Vedi, mia cara Pente, Paolina era figlia del suo tempo. Donna di classe, in possesso di una vasta cultura, era anche frivola e spendacciona, era una donna fragile che portava al collo un pendente con dentro una ciocca di capelli del fratello. Questa donna regala al suo ultimo mediocre e giovane amante un anello che portava inciso sulla pietra il motto: ma hardiesse vient de mon ardeur. L’unica donna del suo tempo che sapesse indossare con disinvoltura principesca il prezioso manto in velluto, ricamato doro a foglie d’ulivo, documentato da mille ritratti; la donna che scriveva appunti e brevi pensieri su un tenero taccuino in marocchino rosso e oro. La sua toeletta, manifattura Biennais-Parigi, ci racconta i segreti di una mai sfiorita bellezza. Le lettere che scrive a Camillo Borghese, suo marito, ci raccontano la civiltà di un rapporto coniugale costruito e sviluppato secondo canoni di indipendenza reciproca, come l’epoca consentiva a uomini e donne di classe elevata.
«Vuoi che anch’io appunti sul mio taccuino il ricordo delle mie stravaganze?», interloquisco intimidita da quel parametro di erotismo che Massimo mi suggeriva.
«Certo, potrebbe essere una buona idea».
«E magari un giorno dare alle stampe il mio taccuino di appunti per il divertimento dei posteri!».
«Sarebbe un’ottima idea», aggiunge con una punta di ironia il mio maestro.
«Non è detto che non lo abbia già iniziato», rispondo con malizia.
«E magari un giorno, a mia insaputa, troverei il libricino in libreria».
«E perché no?», replico divertita al mio consorte.
«Sai cosa ha scritto il biografo della Venere Vincitrice sugli ultimi istanti della sua vita?», mi chiede Massimo con una punta di superiorità.
«No che non lo so», rispondo imbarazzata dalla sua superiorità culturale.
Vedo che mio marito va alla libreria, preleva un piccolo libro e comincia a leggere.
«Il giugno 1825, sentendosi vicina a morire, si fece abbigliare nel suo splendido vestito di corte. La chioma venne acconciata come per un ballo imperiale alle Tuileries e la cipria e il rossetto colorirono il suo viso che aveva perduto il bell’incarnato naturale. Le braccia, il collo e il petto, erano coperti di perle e diamanti. Un’ultima offerta votiva al corpo tanto adorato? O forse un altro pensiero le attraversò la mente capricciosa? Ricorda Paolina le personificazioni della morte che le arti e le lettere ci offrono? Pensa dunque di affrontarla come aveva sempre affrontato e vinto gli uomini nella vita, con le armi della bellezza. Chiese uno specchio ed osservò la sua immagine per l’ultima volta. Quando la morte sopraggiunse, lo specchio lo stringeva in pugno».
«Una bella storia, non c’è che dire. Una bella storia davvero», mormoro in preda all’ammirazione.
LA MIA IDENTITÀ, UNA PAGINA CHE DEVO ANCORA SCRIVERE
Com’è accaduto che ciò che io ero sia diventato ciò che io sono adesso? Com’è accaduto che la mia unica preoccupazione sia diventata l’occupazione erotica?. Ecco, non faccio che domandarmi dove e quando si è manifestata per la prima volta quella forma di patologia da cui sono affetta, quella voracità che fin da bambina mi perseguita e mi assilla. Credo di essere afflitta da una particolare forma di patologia: la iconodulia del membro virile.
È incredibile quante signore borghesi che conosco hanno invece una sorta di quasi neutralità per tutto quanto concerne il sesso.
I miei ricordi sono lontani e confusi. Non saprei dire quando esattamente si sia manifestata quella mia segreta tendenza ricordo invece molto bene quando al primo anno di liceo mi recai a ripetizione di latino da un professore che a me apparve, o almeno così lo giudicai, anziano e rispettabile. Doveva avere circa cinquant’anni. Il professore era una persona molto distinta. La prima volta che mi recai a casa sua per prendere lezioni di latino, si presentò con una lunga vestaglia aperta sul petto da cui spuntava una fitta peluria. Mi colpì il fatto che il professore mi fece accomodare accanto a lui e non di fronte, come sarebbe stato ovvio tra un docente e una discente. Era un modo come un altro per pressare l’attenzione di una studentessa svogliata e indisciplinata? Nonostante la mia giovanissima età dimostravo molti anni di più di quelli che in realtà avessi. A quel tempo indossavo una minigonna di jeans plissettata con una maglietta molto corta che lasciava scoperto l’ombelico. Rammento lo sguardo severo e il volto paonazzo del professore mentre esaminava i miei indumenti scuotendo il capo in senso di dissenso e di diniego. Ricordo anche il mio muto divertimento per il contegno del professore che ritenevo antiquato e un po’ parruccone. Non osavo certo contraddire il professore, né censurare le sue opinioni e tantomeno mostrare irrisione per il suo disappunto.
Ecco, i miei ricordi sono piuttosto confusi. Tranne che ricordo che il mio sguardo indugiava sul petto villoso del professore che traspariva in modo inconsueto dalla vestaglia aperta. Ne provavo turbamento, mi distraevo e non riuscivo a concentrarmi su quelle detestate declinazioni del latino. Il professore mi appariva imperturbabile e severo. Forse faceva di tutto per apparire tale. Forse, si trattava di una sua precisa strategia per incutermi timore e rimarcare la differente posizione che intercorreva tra me e lui e il mio ruolo di remissiva subordinazione dinanzi alla sua manifesta superiorità culturale. O forse, era soltanto una messinscena. Il professore recitava il ruolo che più si addiceva alla sua posizione di docente, era il suo modo per insegnare a una aspirante signorina le severe regole della sintassi latina.
Dopo che numerosi tentativi del professore di insegnarmi i rudimenti del latino si rivelarono vani, cominciò a redarguirmi, dapprima flebilmente e, in seguito, in modo sempre più deciso e traumatico. Una mattina, dopo l’ennesima dimostrazione della mia impreparazione nel latino, mi inflisse una punizione che non scorderò mai. Mi ingiunse di piegarmi con il ventre appoggiato sul tavolo poi, con la bacchetta con cui impartiva le lezioni, mi sollevò il lembo di stoffa della gonna lasciandomi scoperto il sedere e mi colpì severamente e ripetutamente le natiche per punirmi della mia manifesta svogliatezza. Da quel giorno, tale rito divenne di ordinaria amministrazione ogni qual volta la mia scarsa dedizione agli studi ne richiedesse l’esatta applicazione. E così, il professore sempre più spesso mi ordinava di piegarmi sul tavolo, di abbassare il perizoma e di mostragli le terga denudate sulle quali applicava dei severi buffetti con le dita, ovvero, degli schiaffi, che erano non soltanto dolorosi quanto li ritenevo iniqui e ingiusti. La mia sensibilità li percepiva iniqui e umilianti. E lo riferii anche al professore, gli dissi che non potevo permettere che mi si trattasse così. Ma quale non fu la mia sorpresa nell’esperire che la sanzione comminata non era in fin dei conti disdicevole affatto ma che anzi, in un certo senso, la desideravo e l’attendevo nella misura in cui la mia futile applicazione agli studi ne giustificasse l’adozione. L’ora di lezione trascorreva così in una specie di attesa della punizione che, invariabilmente, arrivava senza indugio e senza remore al mio primo svarione grammaticale o sintattico.
Un giorno il professore mi disse che ulteriori negligenze negli studi lo avrebbero costretto ad aggravare la sanzione, e che non avrebbe indugiato un solo istante nel comminare una più grave sanzione nella misura massima se lo avesse ritenuto equo ed educativo. Io non osai profferire parola e mi limitai a chinare la testa in atto di assenso e di umile sottomissione.
Ormai ero pronta.
Al mio ennesimo svarione grammaticale, il professore si mostrò adirato come non l’avevo mai visto prima, si mise all’in piedi davanti a me e mi ordinò di slacciargli la vestaglia. Con mia sorpresa e costernazione mi affrettai ad ubbidire. Non osai contraddirlo. Gli sbottonai la vestaglia finché mi apparve davanti agli occhi un grande membro avvolto in un nero e fitto bosco che si diramava in tutte le direzioni. Era visibilmente eccitato. La parte cuspidale terminava con una escrescenza carnosa di colore roseo, rotonda e compatta, che contrastava singolarmente con il colore brunito della verga, il cui volume verso il basso mostrava una severa accentuazione della circonferenza. Assomigliava ad una quercia che getta le radici possenti e profonde nella terra per trarne linfa e vigore. Provai una sensazione di sorpresa e di languore, sentii risvegliarsi in me una curiosità tutta femminile per la strana apparizione, il desiderio di protezione e di sottomissione dinanzi alla manifestazione di quella che in seguito compresi essere la deità maschile: il membro virile in piena erezione. Com’era diverso e ben più potente del sesso acerbo dei miei coetanei!. Per la prima volta mi trovavo al cospetto del membro virile di un uomo maturo. Restai immobile per alcuni lunghissimi istanti sbigottita e ammirata, fino a quando il professore mi appoggiò una mano sui capelli ed avvertii una pressione sulla mia testa: l’ingiunzione ad avvicinare il viso alla sua virilità. Obbedii istintivamente e mi ritrovai all’improvviso a leccare e a baciare la verga del professore, il quale continuava ad operare una leggerissima pressione sulla mia nuca in modo da guidare le mie evoluzioni. Questa agnizione avvenne in un silenzio tombale. Dopo un primo momento di nausea dovuta alla pressione del membro nella mia gola, avvertii un languore ed un piacere sempre più distinto e invasivo che si diffondeva dalle tempie, giù fino ai capezzoli e poi più giù, come un solletico erotico, nel basso ventre, e di lì il piacere si propagava come per contagio per tutto il corpo come quando stai mangiando una pietanza succulenta ed hai voglia che il pasto non finisca mai. Mi vergognavo un poco per la mia inesperienza e, nel tentativo di dissimulare la mia manifesta incompetenza erotica, imprimevo alla bocca tutta l’energia e la foga di cui ero capace. Il risultato fu che il professore si liberò quasi subito del suo piacere nella mia bocca, contagiandomi di quel diletto del quale si era impetuosamente privato.
Dopo di allora, il rito si replicò una infinità di volte, ed ogni volta la mia accondiscendenza non finiva di sorprendermi. Ad ogni mio svarione di latino il professore mi gettava una occhiata severa, talmente severa che io intuivo immediatamente quale sarebbe stata la punizione esemplare che avrei dovuto subire. Mi inginocchiavo davanti alla poltrona nella quale il professore amava sprofondare, gli slacciavo la vestaglia e gli prendevo il pene in bocca e non smettevo prima che il professore non si fosse liberato dentro di me.
Devo al mio professore di latino e al suo metodo se da allora ho appreso i sacri rudimenti della lingua latina insieme al sacro piacere e al furore che provavo per il suo membro virile; il professore ebbe il merito di rendermi consapevole della mia femminilità. Dopo quella prima sanzione, tutte le volte che mi recavo a lezione, al primo errore il professore mi faceva interrompere lo studio e passava immediatamente alla irrogazione della piacevole punizione. È per questo che sono diventata una donna dotta e versata nella cultura. Ed oggi non me ne rammarico.
Il professore mi interrogava spesso.
«Che cos’è la fede?», mi chiedeva.
«Non saprei definirla con esattezza», rispondevo un poco perplessa. Ma quello lì insisteva:
«La fede è un dono, una grazia!».
«Un dono che mi è sempre stato negato», replicavo battendo un poco in ritirata.
«Con i tuoi costumi corrotti, rischi di infettare qualunque cosa tocchi», insisteva il professore.
«Ma io non intendo offendere né infettare nessuno e nessuna Chiesa, quale che essa sia», rispondevo in tono conciliante.
«Con il tuo comportamento libertino sei la riprova della disonestà delle femmine!».
«Ma io non ho scelto di fare la monaca».
«E allora?».
«E allora, i preti fanno il loro mestiere ed io faccio il mio, signor professore!».
«Senza Dio è senza morale, vero? Così ti ritieni libera per qualsiasi perversione?».
«Professore, io rendo conto soltanto alla mia coscienza», tentavo di dire per tagliare la testa al toro di una discussione che rischiava di dilungarsi all’infinito.
«Di questo passo finirai condannata al libertinaggio per tutta la vita, e dopo?».
«E dopo, cosa?».
«Vivrai una vita nel peccato!».
«Io non so che cosa sia questo “peccato”, professore, io so soltanto di avere un corpo e che questo corpo pensa, mi ordina di fare certe cose, ed io obbedisco, non posso non obbedire al mio corpo…».
«Il corpo è materia».
«E allora sono una materialista».
«Un giorno dovrai fare i conti con la tua esistenza»
«I conti li faccio ogni giorno alla fine della giornata come li far alla fine della mia vita, professore…».
«E la tua coscienza?».
«Io rispondo soltanto alla mia coscienza».
«E che cosa ti dice la tua coscienza?».
«Mi dice che è bene ciò che è fatto bene e che è male ciò che è fatto male».
«E la tua coscienza non sbaglia mai?»
«No, professore, la mia coscienza non sbaglia mai. Io rispondo a lei, soltanto a lei».
«Vuoi dire che la tua coscienza conosce la verità e l’errore?».
«Dico soltanto, professore, che la mia coscienza sa guidarmi tra gli scogli della verità e dell’errore».
«Dunque, tu affermi che la tua coscienza, che non conosce la distinzione tra la verità e l’errore, sia in grado di guidarti?».
«Dico soltanto che rispondo dei miei atti dinanzi al tribunale della mia coscienza».
«E chi dà le leggi al tribunale della tua coscienza?».
«Questo non lo so professore ma so che la mia coscienza non può sbagliare. Se ho un corpo, perché non usarlo?, questo mi dice la mia coscienza la quale non si fa sviare né da superstizioni né da pregiudizi. È la parte migliore di me, il mio tribunale interiore i cui verdetti sono insindacabili. A tutto si può mentire meno che alla propria coscienza».
«La coscienza di cui parli è una maschera di comodo che ti sei costruita nel peccato!».
«La mia coscienza, signor professore, è un’interlocutrice che non si farebbe mai intimidire, che non perde mai la pazienza, che conosce il valore della tenacia».
«La tua coscienza è falsa!».
«La mia coscienza, signor professore, non conosce il pentimento, se ho sbagliato mi dice di pagare subito, in contanti… a tutti potrei mentire ma non alla mia coscienza, la quale subito mi smaschererebbe».
«La coscienza di cui parli è una illusione, una maschera che non può smascherarti perché, appunto, è una tua maschera!».
«Se sbaglio, la mia coscienza mi richiede il tributo e pago con il rimorso. E non c’è una via del ritorno dal rimorso…»
«Ti morderà un angolo dello stomaco, anche a distanza di anni».
«Ma il mio stomaco è a posto!».
«E non provi rimorso per i tuoi peccati sessuali?».
«No, professore».
«Non ti vergogni?».
«Perché dovrei vergognarmi?».
«La tua coscienza non ti rimorde?».
«No, la mia coscienza è la mia migliore amica».
«La tua coscienza?».
«Nella buona... e nella cattiva sorte».
*
C’era una volta. Tutte le storie vere cominciano come le favole: c’era una volta. Ed adesso che il mondo è diventato una favola, nessuno racconta più favole e tutti raccontano storie vere. Dunque, possiamo parafrasare così: questa che racconto è la vera storia della mia vita favolosa.
C’era una volta una ragazzina timida di buona famiglia di origine inglese, tedesca e scandinava. Quella ragazzina sono io? Sì, quella ragazzina sono io. Suo padre era abbonato a tutte le migliori riviste erotiche. Quando mia madre era presente le nascondeva chissà dove, in un luogo segreto che non sono ancora riuscita a scoprire; invece, quando la mia genitrice era assente, ne dimenticava qualcuna sul tavolo del soggiorno. Ed io mi chiedevo perché mai mio padre nascondesse nei posti impensati quelle riviste con il rischio di venire scoperto dalla mia genitrice, la quale si comportava come una suora della confraternita delle carmelitane scalze, e sbandierava ai quattro venti la sua castità, la sua onestà, la sua fedeltà… io invece quando potevo mi precipitavo a cercare nei posti più impensati quelle riviste proibite e, quando scoprivo un nascondiglio, le aprivo: guardavo trafelata e incuriosita le illustrazioni con tutte quelle donne in disabbigliè che mi apparivano oltremodo belle e favolose.... mi chiedevo come mai mio padre, quando mia madre era assente, lasciasse quelle riviste nel salotto; e presto venni ad una conclusione, che fossi io, proprio io la destinataria di quelle riviste. Ero io, sissignore, proprio io la destinataria di quei messaggi in codice. Quanto più mia madre era puritana e intollerante, tanto più mio padre mi lanciava quei segnali misteriosi ed equivoci.
Un giorno decisi di setacciare la casa alla ricerca del nascondiglio segreto di quelle riviste. Le trovai, seppellite in una botola, rigorosamente ordinate in fascicoli. Cominciai a sfogliarle e ne fui conquistata per sempre. Ciò avvenne in modo assolutamente inconsapevole. Quella ragazzina sono io e non ho mai capito bene perché mio padre lasciasse per casa, nei posti più impensati, quelle riviste con tutte quelle illustrazioni proibite e accattivanti. Probabilmente, perché mia madre era puritana e non ne voleva più sapere di lui?, non aveva più bisogno di un maschio e aveva rinunciato a qualsiasi attività sessuale?. Probabilmente, le cose stavano così. Sono giunta alla conclusione che mio padre cercasse in qualche modo dei surrogati, cercasse di condividere i suoi interessi e i suoi bisogni con qualcuno della famiglia ma non aveva il coraggio di venire allo scoperto, di affrontare la calvizie sessuale della mia genitrice. Il suo modo di trasgredire era un affronto che lui rivolgeva a mia madre, in modo indiretto, corrompendole segretamente la figlia
Il risultato fu che per tutta la mia adolescenza il mio sogno era di diventare una delle modelle di quelle riviste e posare nuda per la curiosità dei soli uomini.
Il lettore può immaginare quale è stata la mia sorpresa quando ho visto su una di quelle riviste una illustrazione che ritraeva una mia fotografia dove comparivo nuda con gli autoreggenti e una mascherina nera sul volto. E quale è stato il mio inimmaginabile piacere nell’immaginare mio padre sbirciare eccitato quella fotografia senza sapere che quella donna poco più che adolescente che posava nuda era sua figlia!. Ho provato per lunghi mesi una eccitazione incontenibile nell’immaginare mio padre che, inconsapevole, guarda la fotografia di sua figlia nuda con la mascherina nera sul volto!.
Da allora, la mia eccitazione non ha più trovato requie, era diventata una febbre, dovevo posare nuda, e posavo nuda per quelle riviste di soli uomini nella speranza che mio padre le sbirciasse e si accorgesse che quella avvenente donna che compariva nelle foto era nientemeno che sua figlia!. Era un gioco eccitante e scottante che mi induceva ad osare sempre di più, sempre di più, finché un giorno posai nuda senza mascherina per una rivista prestigiosa. Speravo che mio padre comprasse proprio quel numero di quella rivista dove io posavo nuda senza la mascherina. Pensavo con languore a mio padre che poteva finalmente assaporare il gusto della trasgressione senza sospettare che il coautore di quelle mie esibizioni era anche lui!.
Tuttavia, con mia sorpresa, mio padre non mi accennò mai nulla per quelle mie foto apparse sulla rivista per soli uomini. Mi venne il sospetto che non avesse avuto contezza delle mie foto o magari che in un momento di distrazione non si fosse accorto di quelle foto. Allora, mi feci coraggio e andai a cercare tra le sue segrete cose i numeri della rivista che aveva pubblicato le mie foto e, quale non fu la mia sorpresa nell’apprendere che non soltanto mio padre possedeva tutti i numeri di quella rivista, ma che aveva anche diligentemente tracciato un cerchietto attorno alle foto che mi ritraevano nuda. Era la conferma che cercavo. Adesso sapevo che mio padre sapeva. Adesso sapevo che mio padre era mio connivente e complice, e che non avrebbe mai tradito quel vincolo che silenziosamente univa la mia reticenza alla sua, il suo riserbo al mio, il suo segreto al mio. È stato magnifico scoprire che avevo un padre che non soltanto non avversava le mie inclinazioni ma che, invece, segretamente le condivideva e le apprezzava.
LA CITTÀ DEL SOLE
Stanotte ho fatto un sogno. Ho vissuto quel sogno più di una storia vera. Ho sognato la Città del Sole, una città tutta di cristallo trasparente e che io ero la sola abitante di quella bizzarra città. Ecco, il mio coniuge ha costruito per me una città tutta trasparente. I muri che suddividono le varie stanze sono di cristallo trasparente. Le stanze sono così numerose che non sono mai riuscita a contarle. Una sorta di Labirinto trasparente. Il mio coniuge una volta si è lasciato sfuggire il numero segreto, ha detto «tre volte trenta». Ma c’è un trucco che non sono mai riuscita a capire: all’interno e all’esterno delle pareti i muri sono rivestiti di specchi, sì, un susseguirsi ininterrotto di specchi. I muri, e con essi gli specchi, sono leggermente incurvati, ragione che mi ha indotto a credere che il palazzo sia di forma rotonda. Il cristallo dei muri è così spesso da risultare quasi infrangibile; anzi, non si tratta di una semplice villa di campagna ma di una vera e propria dimora principesca, una costruzione che vuole sconfiggere il vuoto e l’opaco, una forzosa e sfarzosa residenza principesca situata in un luogo lontano dagli sguardi indiscreti dei curiosi, dei vagabondi e di quella razza di curiosi tutta moderna che sono oggigiorno i turisti. Un peristilio in finto marmo trasparente e un verde prato all’inglese circonda la costruzione fino ad un muro alto, molto alto, anch’esso di materia trasparente, tal che sia assicurata la difesa della privacy dalle incursioni dei curiosi e di quella risma di curiosi di professione costituita dai giornalisti in cerca di scoop per i rotocalchi scandalistici della nostra epoca villana.
Vista da lontano, in pieno giorno, si nota uno sfolgorio di luci; di notte, quando la villa è illuminata in occasione di festeggiamenti, i turisti restano sbalorditi dal tripudio di luci che vengono riflettute dalla Città del Sole che sollevano l’oscurità, ma non è affatto agevole avvicinarsi all’abitazione dato che vi si accede per un tratturo lungo, polveroso ed accidentato.
Massimo ha denominato questo palazzo la Città del Sole. Ma più che una città è una prigione del sole, una prigione fatta di luce, luce, luce. Sì, devo confessare che c’è stato un tempo in cui questo palazzo mi incuteva spavento. Avrei voluto fuggire, ma non sapevo in che modo attuare la fuga. Adesso non provo più alcuno spavento; piuttosto, mi emoziono quando entro nel palazzo della luce trasparente, provo una eccitazione in tutto il corpo, percepisco l’acutizzarsi dei sensi fino all’estremo della tollerabilità. Certo, non è agevole nemmeno per me fuggire da questa Città del Sole: la civiltà con tutto ciò che ne consegue mi è sideralmente estranea e lontana, come se la contemplassi da un altro pianeta. Ormai, mi sono abituata a vivere in questo labirinto di specchi trasparenti che clonano la mia immagine all’infinito. Ritengo che il mio coniuge mi debba amare alla follia. A suo modo, mi dimostra così la sua adorazione, in un modo incondizionato e universale. Attraverso la moltiplicazione della mia immagine, moltiplica anche gli universi della mia esistenza virtuale. Ciò mi ingenera un brivido di inessenza e inesistenza.
Mi chiedo: «ma io esisto?. Esisto veramente?».
Il mio coniuge ha promulgato una legge di un unico articolo che all’interno del palazzo io stia completamente nuda. Posso calzare unicamente scarpe con i tacchi a spillo, occhiali da sole e dei cappelli di paglia dalle larghe tese, come quelle bizzarre turiste americane che a volte si notano a Parigi o a Roma, un po’ fuori moda e un po’ bigotte; in realtà, il cappello è uno strumento indispensabile per difendermi dai raggi solari che, specialmente durante l’estate, raggiungono una intensità intollerabile.
A volte, presa tra la rifrazione di questi specchi, ho la sensazione che io stia per scomparire; ho come la sensazione della mia progressiva disparizione. E non è affatto una sensazione piacevole.
Questa trasparenza universale è la norma base o Grundnorm della legislazione della città trasparente. Una legislazione non scritta, ovviamente, una legislazione della libertà. Perché, oso affermare, la libertà è possibile soltanto nella luce. L’oscurità deve essere bandita dal palazzo. Nascosta, esautorata.
Dicevo dunque che questa trasparenza universale ingenera in me una strana corrispondenza fra il reale e il non reale, tra i realia e gli irrealia. E così, avviene che ogni volta che sono reduce da un lungo soggiorno nel palazzo trasparente, la mia psiche fatichi non poco a ristabilire la linea di demarcazione tra ciò che è reale e ciò che è irreale.
Come dicevo, il mio coniuge mi ha impartito l’ingiunzione cogente di soggiornare rigorosamente nuda all’interno della città di cristallo. Ed io credo di aver finalmente compreso il perché. Ecco, io credo che nell’economia, per così dire, della sua filosofia, i vestiti appartengano alla stessa natura dei muri e del tetto fatto di mattoni: sono di materia grigia, sono ciò che è fatto di opacità e di oscurità. Lui afferma che tutto ciò che costituisce ostacolo alla trasparenza universale è irrimediabilmente nocivo e va confutato, distrutto, soppresso, abrogato. La sua utopia della trasparenza universale e della luce non si coniuga, non può convivere né coniugarsi con alcuna forma di ombra e di opacità. La mia presenza nella città del sole deve quindi rispettare i postulati fondamentali di questa utopia, anzi, la ragione fondante di questa utopia.
Il principio filosofico che sta al fondo di questa sinallagmatica e paradigmatica costruzione è il seguente: all’interno della Città del Sole il reale viene progressivamente ad assottigliarsi. Fino a scomparire del tutto. un processo lento, impercettibile ma inesorabile, che si insinua in maniera subdola e sottile nella mia psiche fino ad adulterarla e renderla, per così dire, invulnerabile (invulnerabile!?). Dicevo che tutte le stanze di questa sontuosa e singolare dimora rispettano la forma circolare, sono tutte rotonde, anzi concentriche. Ma dal centro del sistema di stanze non si dirama alcun decumano, alcuna direttrice, le stanze sono tutte spostate, l’una rispetto all’altra, di un clinamen, di una ypsilon, di una frazione di numero che rende tutto ciò che appare, simmetrico e asimmetrico, regolare e irregolare, razionale e irrazionale. Si direbbe che per percorrerle fino in fondo si finisca inevitabilmente col perdere l’orientamento. Inoltrarsi in questi penetrali significa perdere inevitabilmente l’orientamento. Di frequente, ma non ho mai capito con quale ripetitività, le stanze si intersecano in un punto, diciamo così, di tangenza, quasi a formare degli “8” eguali e simmetrici. Ma è un inganno. Un ambulante che si avventurasse in quei corridoi potrebbe scorgere la propria immagine moltiplicata e diffratta all’infinito attraverso le trasparenze e le diffrazioni di tutti quei muri di specchi di cristallo. Inoltre, tutta l’impalcatura della Città del Sole è straordinariamente fragile, ed a volte ho la netta percezione della sua evanescenza, della sua inesistenza, come se l’ingente investimento utopico che l’ha generata dovesse risolversi nel nulla, tornare nel nulla dal quale ogni cosa umana proviene. Vanitas vanitatum.
Ecco, dopo lunghe e assidue riflessioni ho finalmente compreso l’intuizione fondamentale che sta alla base di questa stravagante costruzione utopica: l’idea di un impulso erotico-estetico che muove l’universo. Un eros solare, un dio solare, senza ombre e senza dubbi, senza perversioni e senza peccato, un eros meramente ottico, senza opacità ed oscurità, che non conosce ombra, che non conosce il regno dell’ombra.
Singolari scale elicoidali, anch’esse di cristallo trasparente, conducono ai piani superiori. Pavimenti in purissimo cristallo aggettano su altre adiacenze che la luce irradia immediatamente ed equamente ai quattro punti cardinali. Una rete concentrica ed eccentrica di pareti cristalliche instrada dall’esterno la luce convogliandola verso l’interno, verso un punto centrale. Se il viandante che vi si avventurasse volesse seguire il flusso della luce trasparente, sarebbe condotto, a sua insaputa, al centro di questa smisurata ed orgogliosa costruzione, dove un prisma perfettamente trasparente scalfito da una moltitudine di sfaccettature rifrange e riflette ab aeterno la luce del sole e delle stelle.
Ed io divento sempre più pallida. E la mia nudità, avvolta dagli scialli di luminose rifrangenze, dimora sulla superficie del nulla. Esito ed esisto. Dubito ed esisto. Dietro di me non c’è ombra. Davanti a me non ci sono ombre. Forse che il futuro sarà privo di ombre?
I MIEI INCUBI NOTTURNI
I miei incubi sono sempre stati molto esplicativi. C’è una chiave che mi consente di penetrare in essi?
Stanotte ho fatto un sogno: ci sono io che mi vedo come una terza persona.
Ecco Pentesilea che cammina su di una scala mobile. Il nastro corre sempre più velocemente, addirittura vorticosamente. Il nastro sprofonda giù in un tunnel di buio. Pentesilea teme di precipitare in un abisso. Alla fine, Pentesilea sprofonda rovinosamente. La scala mobile la inghiotte dentro un imbuto infinito.
Pentesilea cammina in un viale alberato, al tramonto. Ci sono dei fiori sugli alberi. Percepisce dei passi dietro di lei. Sempre più distinti, sempre più vicini, serrati e trafelati. Pente accelera il passo e guarda con la coda dell’occhio dietro di lei. Un uomo in nero la segue. Sul volto dell’uomo pende un cappello a tese larghe egualmente nero. Pente è spaventata, terrorizzata. Affretta il passo, ma l’uomo non desiste si avvicina sempre più. Pente non ha il coraggio di voltarsi, ormai attende soltanto che l’uomo la ghermisca. Pente accelera il passo, quasi corre. Finalmente, l’uomo con una mano callosa le immobilizza la nuca, con l’altra le solleva le vesti e le denuda la parte inferiore del corpo. La spinge per le spalle in una cunetta del viale. Pente cade rovinosamente... e l’uomo è già dietro di lei e la penetra furiosamente.
Pentesilea entra in un ascensore degli anni Quaranta di un palazzo sconosciuto. Un palazzo del quartiere dei Parioli, abitato dalla rispettabile e reazionaria borghesia della capitale. Vede la sua immagine premere il bottone che indica il piano trentesimo. L’ascensore, con un balzo improvviso, si mette in moto. Corre sempre più velocemente. Infine, precipita dentro un abisso di buio intervallato da lamine trasversali di luce accecante. Pentesilea vede se stessa precipitare in quell’abisso. «Ma, è un abisso?», si chiede.
Pentesilea cammina in un bosco frondoso. È nuda. Gli uccelli cinguettano, i ruscelli ridono con un suono argentino, le farfalle volteggiano. Pentesilea è una ninfa che si bagna nelle acque di un placido laghetto. Quando esce dall’acqua stillante di rugiada, un brivido le percorre la schiena. E qui, dal fogliame, compare un satiro ignudo: il corpo è coperto da una folta peluria nerognola dal quale svetta il sesso rigonfio. Pentesilea si guarda attorno, pensa di fuggire, fugge, leggera come una silfide, ma il satiro la raggiunge in un battibaleno, la ghermisce, la immobilizza, le apre le gambe e la penetra nelle profondità del ventre.
Pentesilea respira sempre più affannosamente. Soffoca. Si porta le mani alla gola e si sveglia con un urlo lacerante.
Pentesilea guida un aeroplano ad elica. Un velivolo d’altri tempi. È un monoplano. Lei siede nell’abitacolo accanto al pilota: guarda l’elica che gira vorticosamente davanti a sé. Pentesilea percepisce distintamente il ronzio che sovrasta la carlinga. È un ronzio assordante. Si accorge con raccapriccio che il pilota si è addormentato, o almeno così sembra. La sua testa è reclinata su una spalla, gli occhi sono chiusi. Tenta di scuoterlo, di svegliarlo. Ma è tutto inutile. Non resta altro da fare che prendere possesso in prima persona della guida del velivolo, ma Pente è confusa, aziona a caso alcuni bottoni luminosi, afferra il volano non rammenta nient’altro; il velivolo sobbalza con un rumore sinistro. L’elica s’inceppa. Il ronzio del motore s’interrompe, tossisce. Pentesilea precipita insieme al velivolo dentro il buio di una luce accecante. Si accorge che il tempo si allunga smisuratamente, come un elastico. Adesso, può vedere tutta la sua vita come una serie interminabile di fotogrammi che si srotolano davanti ai suoi occhi a velocità caleidoscopica. Adesso, finalmente Pentesilea vive. Per la prima volta, sente di essere viva. Nel breve istante della caduta c’è tutto il senso della sua vita. Adesso, finalmente, Pente sa. Forse, anche Icaro ha esperito durante la caduta dal sole un orgasmo simile al suo.
Adesso, Pentesilea è vecchia. Ha cent’anni. Il volto è ricoperto da una ragnatela di fittissime rughe. Il velivolo continua nella sua rapidissima caduta; è trascorso un secolo. Finalmente, Pente è morta mentre l’aereo precipita rovinosamente nell’abisso.
Pentesilea è nuda sotto un vestito di organza, seduta su un divano di una anonima stanza d’albergo con le gambe accavallate. Uno sconosciuto le si avvicina, le si siede accanto, l’abbraccia da tergo e la tocca sul seno in modo sconcio. La bacia in bocca, la sua lingua penetra profondamente nella sua bocca. Un secondo sconosciuto insinua le mani sotto il vestito, esplora il suo corpo. Con mossa decisa ed esperta, l’uomo l’afferra per le anche, la capovolge con il ventre verso il basso, le apre i glutei e la penetra nel punto più recondito e proibito. Un terzo uomo, anch’esso sconosciuto, la bacia sul davanti, le titilla la clitoride con la punta della lingua. Un quarto venuto succhia i suoi seni, passa dall’uno all’altro con indifferenza e burocratica competenza. Con le mani Pente accarezza le verghe di altri due uomini posti ai suoi lati. Si sente ottusa e ottenebrata dal piacere. Avverte un martellio alle tempie. Lo sconosciuto che la stava baciando si allontana all’improvviso e le insinua tra le labbra la sua verga rigogliosa. Pente inizia la suzione del fallo in stato di ipnosi, senza piacere né trasporto. Il glande la soffoca, le impedisce il respiro. L’uomo che le sta di sotto le procura un dolore lancinante, la penetra contro natura, senza alcuna passione o partecipazione, con burocratica precisione. Pentesilea avverte all’inizio un dolore lancinante seguito da un senso di sollievo. Analogamente, l’uomo che le sta davanti introduce di colpo il suo membro nel suo ventre ed inizia lo squartamento. L’uomo che le baciava con libido i capezzoli, ora le sbatte il pene sui seni. Tutti gli uomini raggiungono l’orgasmo contemporaneamente. Pente ha nella bocca lo sperma dei due uomini, un rivolo di umori le cola giù dal viso mentre l’uomo che si occupava dei suoi seni, adesso impugna il fallo e le versa il seme sul volto. Quasi all’unisono, i due uomini che Pentesilea stava masturbando raggiungono l’orgasmo e le versano abbondante seme sul volto. Sferzanti fiocchi di schiuma la colpiscono in modo sconveniente ed indecente.
Ora, Pentesilea si può alzare, si dirige allo specchio che sormonta una toeletta; si osserva allo specchio: è irriconoscibile: ha il volto e i seni macchiati dalle tracce delle abbondanti polluzioni.
Al risveglio, Pentesilea si guarda attorno con aria attonita e smarrita; immobile nel suo letto. È sola e con sollievo pensa che è stato un sogno, soltanto un lungo impronunciabile, lunghissimo, tortuoso sogno.
CHI È KONY?
Pentesilea ha sognato e bramato per tante notti con tutte le forze di diventare l’amante di Kony.
Chi è Kony?, Kony è il comandante supremo degli olum, una tribù del centro Africa. Ha il potere di vita e di morte su ciascuno dei membri del suo esercito privato e della sua tribù.
Indossa una mimetica dell’esercito americano, due cartucciere che scendono dalle spalle fino al cinturone che gli stringe la vita dal quale oscillano due pistole tipo Magnum.
Kony ha la pelle nera come il carbone ma anche il suo cuore è più nero della pece per via del grande numero di omicidi che ha commesso. Kony uccide con il machete per risparmiare le pallottole. Dice che uccidere con il machete aiuta, ti fa diventare più crudele; Kony afferma di essere come il sole che al mattino quando si alza illumina tutto ciò che c’è sulla terra, compresi i vermi e i coccodrilli e tutto ciò che si muove sulle fronde degli alberi.
Pente ha ascoltato i racconti orribili dei sopravvissuti alle sue stragi. Sì, è vero, ha amato Kony alla pazzia. Ha sognato di diventare la sua concubina.
Questo l’ha narrato un efebo di ebano scampato alla morte grazie alla sua bellezza: gli olum vennero di notte nel mio villaggio, distrussero tutte le capanne e le diedero alle fiamme. Mia madre fu massacrata a colpi di panga e tre dei miei fratellini furono bruciati vivi. Io sono stato catturato con una decina di miei coetanei e condotti in un recinto guardato a vista da soldati olum con i fucili spianati. Poi ci hanno obbligato a camminare notte e giorno per sei mesi interi nudi sotto il sole, che loro chiamavano Kony, e la sera sotto le stelle, che loro chiamavano Kony. Siamo stati sottoposti a un crudele indottrinamento: dovevamo cancellare dalla mente tutti i nostri ricordi e affetti per rinascere nella comunità degli eletti.
Gli olum usavano la frusta per tutti coloro che titubavano o esitavano. Ci interrogavano con le lunghe fruste di cuoio ai piedi dei nostri giacigli di letame. Raramente si sopravviveva alle frustate.
La disciplina era ferrea e l’addestramento principale consisteva nel correre per ore intere nei campi con un sacco di pietre sulle spalle. Chi mollava era spacciato. Le ragazze più belle che facevano parte del mio gruppo furono subito costrette a prostituirsi per i capi. Di notte le sentivo squittire di piacere nelle tende dei capi.
Ho vissuto per quasi tre anni nella reggia di Kony, ho condiviso il suo letto e ho dovuto accoppiarmi con colui che ha sterminato la mia famiglia e il mio clan. Ho avuto la ventura di essere scelto dal capo come schiavo-soldato addetto alla sua persona, probabilmente perché sono un efebo ed ho il corpo completamente depilato e adiposo, una sorta di incrocio tra il lato maschile della mia natura mancata e quello femminile della mia natura inseguita. A quel tempo parlavo soltanto lacholi, la lingua della mia etnia, ma ora parlo anche la lingua degli olum, anzi soltanto la lingua degli olum, la mia l’ho dimenticata da tempo.
Kony è un sodomita. Tiene la notizia segreta per mantenere la supremazia del gruppo. Tutti gli schiavi sono assoggettati alla sua volontà e alla sua lussuria. Chi tentenna viene subito sgozzato ed il corpo dato in pasto ai cani.
Kony afferma che dobbiamo risparmiare i proiettili e che per uccidere dobbiamo usare il machete. Vive nella sua reggia, una casa fatta di mattoni e fango, presidiata da guardie del corpo di provata fiducia.
Fu così che sono diventato il suo attendente e il suo sodomita preferito. Quando di notte aveva le visioni, mi svegliava a colpi di bastone per possedermi o costringerlo a possederlo. Era il Tipuò Maleng (lo Spirito Santo), diceva, che gli suggeriva le scelte da compiere dove andare per le razzie, quando e come uccidere, depredare...
Adesso ho imparato tutto ciò che dovevo apprendere: gli olum sono la razza eletta e Kony è il loro capo. So chi è Kony, quello che brama in segreto; so indovinare i suoi desideri più intimi, conosco la mappa della sua smodata lussuria ma non so più chi sono io. Chi sono io che cammino sotto il sole-Kony e le stelle-Kony?
Pente ha sognato e bramato per anni, durante le notti, di fornicare con Kony, lo psicopatico assassino di migliaia di indigeni africani e della sua stessa tribù, gli olum; sa che non c’è nessuna spiegazione in tutto ciò; una eccitazione incontenibile le sale dal basso ventre ogni volta che ascolta la storia dello psicopatico Kony, il sanguinario.
LETTERA DI UN GUERRIERO SPARTANO CADUTO ALLE TERMOPILI
Davvero, è stato uno strano sogno quello di stanotte. Pentesilea ha sognato di essere una giovane spartana, una moglie il cui marito è partito con quel pazzo vecchio di Leonida alla volta delle Termopili. Vogliono fermare l’immenso esercito di Dario alle Termopili. Sono pazzi. L’ha scongiurato di fermarsi, di non andare con quel pazzo di Leonida ma tutto è stato inutile. Adesso sono sola nel mio letto, sento ancora il tepore del corpo di mio marito sono già quindici giorni che è partito; dove sarà adesso il mio Liside?; ma lui l’ha rassicurata che sarebbe tornato vivo da quella gola maledetta.
«Ti sei mai chiesta - le ha detto il marito prima della partenza - che ne sarebbe di te e della tua famiglia, delle tue amiche e della casa che abiti, delle tue cose, delle suppellettili del tuo focolare, dello specchio dove ti pettini i capelli e contempli la tua bellezza, delle fibule e delle spille luminose, del chitone dall’ampio panneggio senza il mio sacrificio?, ti sei mai chiesta che cosa diventeresti se i persiani entrassero in città, la saccheggiassero e la distruggessero?, te lo dico io: Sparta sarebbe un cumulo di cenere fumanti!.Ti farebbero schiava e la tua bellezza sarebbe al servizio di un satrapo orientale, crudele e dissoluto. Proveresti l'umiliazione e la vergogna per la patria perduta e la libertà soppressa nel sangue!».
Pentesilea è rimasta in silenzio, immobile, dinanzi al suo sposo perché ad una donna spartana non è lecito mostrare sgomento e dolore.
«La gola delle Termopili è così angusta che, serrati l’uno accanto all’altro, copriamo interamente il passo ai persiani. Abbiamo provato più volte lo schieramento in battaglia. Le spade e gli scudi brillavano al sole di una luce accecante.
Prima di vedere i persiani abbiamo udito il rumore cupo e ossessivo dei passi di decine di migliaia di soldati. Le frecce, tante da oscurare il cielo... e poi altre frecce poi i giavellotti, fitti come chicchi di grandine. I persiani, con urli bestiali, si sono abbattuti su di noi. Le frecce dei persiani, come una nube di vespe sibilanti si schiantava sui nostri scudi».
«È stata la mia spada a difendermi. Io non so chi mi abbia dato tanta forza. Ho ucciso tanti nemici che non li ricordo più. Ho immerso ripetutamente la mia spada nel loro tenero petto. La mischia era fumante e furiosa. Ricordo soltanto le strida selvagge dei soldati nel clangore del cozzo delle spade e il rumore soffice delle nostre spade che entrano dentro le loro armature.
Ad un tratto, i persiani si sono arrestati. Retrocedevano, passo dopo passo mentre noi li incalzavamo, serrati, con scudo e spada in pugno.
Sono tornati all’assalto più furiosi di prima. Gridavano come cornacchie. E noi calpestavamo i cadaveri dei nostri nemici e dei nostri fratelli. Avanzavamo, tracotanti e imperiosi con l’elmo calzato sul volto trucidando i soldati persiani alle spalle mentre fuggivano.
E poi un nuovo assalto sanguinoso. Ed io avanzavo, bagnato di sangue, sopra i cadaveri dei nemici trucidati...
Eravamo ebbri del dio Bacco e di Dioniso, ed Ares ci conduceva...
Non saprei ridire quanto tempo è durata la battaglia, mia cara Pente. Il tempo mi è apparso immensamente lungo... forse, ci sono stato dieci anni in quella gola maledetta, o forse no.
E poi, durante un ultimo assalto un persiano mi ha colpito sulla spalla e la mia spada è caduta. Così, disarmato, ho continuato a combattere con lo scudo... e poi... anch’io sono caduto insieme ai miei fratelli, in un lago di sangue... non ricordo altro».
«Vedi, mia amata Pente, ci sono dei momenti in cui non puoi fare altro che tenere il punto. Non puoi retrocedere. E il mio punto era alle Termopili.
Era già stato scritto dagli dèi che dovessi soccombere alle Termopili.
Potevo oppormi al fato?, dimmi, mia cara Pente, potevo rischiare la vendetta delle Erinni?, no, mia amata Pente, non avevo scampo».
«Cosa dici? Tu mi dici che avrei potuto chiedere un suffragio ad Atena, implorare l'intervento di Afrodite per il nostro amore? E quand'anche Afrodite avesse interceduto per chiedere a Zeus di risparmiarmi, poteva Zeus liberarmi dal mio fato?, ha Zeus queste facoltà?; e se anche le avesse non potrebbe egli disporre la mia resurrezione?; no, mia amata Pente. Nulla di tutto ciò. Neanche Zeus avrebbe potuto intercedere dinanzi al fato. Il fato, Pente, è al di sopra di Zeus!».
«E ora dimmi. Che ne è dei miei cari amici, di Gitone, di Aristo, di Pentaclio, di Aristide?, sono essi tra i vivi o sono caduti per mano dei barbari?, e dei miei vecchi genitori?, e che ne è della mia bella città?, e il mio nome scolpito sulla soglia del tempio di Zeus in ricordo del nostro sacrificio?.
Dimmi, mia amata Pente, ora sei di un altro?, ami un altro uomo e ne sei riamata?, beata te Pente, vivi il tuo amore come fosse l’unico e l’ultimo; vivilo intensamente come se fosse l’ultimo, mia amata Pente, perché noi non sappiamo quando giungeremo alle Termopili e quando la spada di un persiano ci colpirà...».
CHE COS’È IL REALE?
Ho sempre avuto difficoltà a distinguere il reale dall’irreale. Che cos’è il reale?, c’è un medesimo reale per tutti?, o non è piuttosto vero che ciascuno ha il reale che preferisce?; e qual è il mio reale?
«Vedi, il silenzio è soltanto la mancanza di parola», mi dice Massimo risvegliandomi dalle mie fantasticherie.
«Vuoi dire che il silenzio è soltanto un vuoto tra le parole?».
«No, quello è un certo tipo di silenzio, ma un silenzio che fa parte della lingua, quello che sta tra le parole, e quindi si tratta di un silenzio semantico. No, mia cara Pente, sto parlando di un altro tipo di silenzio che soltanto i poeti e i mistici hanno attinto; è un’esperienza elitaria, molto rara, antidemotica, che soltanto pochi eletti possono attingere».
«Vuoi dire che quando non abbiamo la parola per designare la cosa, quello è il silenzio?».
«No mia cara Pente, voglio dire che se non c’è la cosa non si dà neanche la parola. Questo è il vero silenzio».
«Allora, eliminando le cose, cancellando il mondo, tutto diventa silenzio?».
«Sì».
«È per questo che sono sbarcati i marziani sulla terra?».
«Sì, sono venuti i marziani per farla finita con la civiltà umana e per instaurare il silenzio».
«Ma è folle!».
«Sì, un progetto folle».
«Che però si è scontrato con un piccolo problema: la bellezza del corpo umano».
«La vista di un corpo femminile perfetto li ha sconfitti. Quei piccoli orribili rettili verdi non avevano mai conosciuto la Bellezza, e ne sono rimasti abbagliati, ridotti al silenzio e all’immobilità. Così che li abbiamo potuti schiacciare come vermi».
«Possiamo allora affermare che la Bellezza ha sconfitto i marziani e salvato il mondo?».
«Sì, la profezia di Breton si è avverata: la Bellezza ha salvato il mondo».
La mia testa! La mia testa è una strana caverna aperta al mondo esterno attraverso due finestre, due aperture, ne sono sicura, perché le vedo riflesse in quella superficie riflettente che chiamiamo specchio. Posso chiudere (o aprire) l’una o l’altra finestra, congiuntamente o alternativamente. Fin da bambina ho sempre sospettato che quelle due finestre dei miei occhi (così grandi e smarriti) in realtà non fossero altro che due aperture attraverso le quali chiunque vi guardasse avrebbe potuto rovistare all’interno della mia anima. “Penetrare dagli occhi dentro la mia anima, come fa il diavolo, nella mia anima”: un pensiero folle, lo so, ma a quel tempo la mia testolina era attraversata da un fiume di pensieri bizzarri Così, senza capo né coda.
Tuttavia, ce n’è due sole di queste aperture perché vedo davanti a me due paesaggi che si uniscono spettroscopicamente e diventano uno solo, senza divisori o interruzioni. E, come avvengono le cose nella mia testa?, beh, diciamo che le cose abitano dentro di lei. Ci entrano, e sono sicura che le cose mi entrano in testa soltanto quando le guardo; e se non le guardo non ci entrano. Perché il sole quando è troppo forte mi abbaglia?, e penetra dentro la mia mente e lacera il mio cervello?; tuttavia, queste cose che mi entrano nella testa dall’esterno, in qualche modo restano all’esterno, dato che posso vederle, raggiungerle, agguantarle, ghermirle. Quelle cose sono all’esterno del mio Corpo, sono a me estranee. Corpo-cosa incomprensibile. Corpo-cosa penetrabile. Corpo-cosa lucido e morbido. Corpo opaco. Corpo aperto e chiuso. Corpo come utopia. Corpo assolutamente irraggiungibile e invisibile, in un certo senso. Posso io vedere il mio corpo se non allo specchio?. Vi siete mai chiesti perché voi potete guardare il vostro corpo soltanto quando è riflesso in uno specchio? Ed è quello che vedo veramente il mio corpo?, o è un altro corpo?, so bene che cosa significa essere squadrata, da capo a piedi da qualcun altro che ti osserva e ti desidera. So bene che cosa significa essere spiata da dietro dallo sguardo degli uomini: spiata e sorvegliata dai fianchi, di dietro, davanti; so bene che cosa vuol dire essere nuda, nuda allo sguardo altrui; conosco bene il piacere sottile e recondito che si prova alla ricezione dello sguardo altrui. Eppure, il mio corpo-cosa è a me stessa invisibile, irriconoscibile. Il mio corpo è un estraneo.
Questo corpo, questa nuca che posso tastare con le dita, ma vedere mai. Questa schiena che avverto appoggiata contro il rigonfio dell’imbottitura del divano quando sono sdraiata e che riesco a catturare soltanto con l’ausilio dello specchio. E che cos’è questa spalla di cui conosco con precisione i movimenti e le posizioni ma che non potrei mai vedere senza orribili contorcimenti?. Sono giunta alla convinzione che il mio corpo sia un fantasma che appare soltanto nel miraggio dello specchio o nello sguardo altrui, e anche lì in modo frammentario e discontinuo.
E poi, questo corpo leggero, trasparente, imponderabile. Ma davvero questo è il mio corpo?; lui ha una vita propria: corre, agisce, vive, desidera. Si lascia attraversare da tutte le tensioni, avverte tutte le intenzioni.
No, davvero, non c’è bisogno di magia, né di incantesimi, non abbiamo un’anima. E che cos’è l’anima? Non abbiamo bisogno della morte, perché finché non c’è la morte ci siamo noi. E viceversa. Il mio corpo è la mia utopia, tutte le altre utopie sono il surrogato dell’utopia del mio corpo. Ma tutte le utopie religiose sono rivolte contro il corpo, semplicemente perché il corpo è il ricettacolo di ogni nostra emozione. Penso che le religioni, tutte le religioni, abbiano origine dal nostro corpo e sono rivolte contro il nostro corpo.
Comunque, non è vero che una delle più vecchie utopie che gli uomini si sono raccontati non sono altro che un corpo immenso che distrugge gli altri corpi?; l’antica leggenda dei giganti che si ritrova, tale e quale, in tutte le culture primitive e che prosegue fino ai giorni nostri nei racconti romanzati di Prometeo e Gulliver.
Mascherarsi, truccarsi, tatuarsi significa far entrare il corpo in comunicazione con i poteri inferi, segreti, con forze invisibili che lo possiedono e lo dirigono. La maschera, il tatuaggio, il trucco adagiano sul corpo il codice di un linguaggio enigmatico, cifrato, sacro che allontana e scaccia da sé la potenza di un dio straniero ed ostile. La maschera e il tatuaggio fanno entrare il corpo in un underworld, in uno spazio immaginario abitato dalla immaginazione: il desiderio. E il desiderio fa di questo corpo molliccio un frammento, un frammento di un tutto che da tempo immemorabile si è disperso e disarticolato ma che adesso può rimettersi in comunicazione con le potenze ctonie e segrete. È questo il corpo dei posseduti, il cui corpo diventa un inferno, o un paradiso, a seconda dei punti di vista.
Il mio corpo?, il mio corpo è sempre altrove.
L’INVASIONE DEI MARZIANI
Non saprei dire se sia stato un sogno misterioso o se quello che racconterò sia veramente accaduto. In qualche modo è accaduto davvero. Ho fatto un sogno incredibile: la terra era stata invasa dai marziani. Ma, mi chiedo, è accaduto veramente?; l’ho subito raccontato a Massimo e, caso davvero bizarro, anche lui aveva fatto lo stesso sogno, per filo e per segno. E allora, questo che significa?, non so ma ho il sospetto che in qualche modo quello che è accaduto sia per qualche verso in rapporto con il mio corpo-soma. Ecco il sogno che abbiamo sognato:
Mi trovavo in macchina con mio marito e mi ero addormentata. Quando mi sveglio gli chiedo: «dove diavolo siamo, Massimo?», ma lui non mi degna di alcuna risposta. A giudicare dal suo pessimo umore doveva aver sbagliato strada. Aveva probabilmente preso una strada laterale ed eravamo finiti in un paesaggio diroccato e deturpato: c’erano rovine di edifici dappertutto, carcasse di autoblindo e di carri armati. “Forse – penso - la vita è davvero un sogno ed il sogno non è nient’altro che un prodotto, una proiezione del nostro corpo. Forse i sogni sono tessuti con la stessa stoffa del nostro corpo”. Vorrei trascrivere la storia di quel viaggio così come lo ricordo, come una serie di fotogrammi recuperati dopo un disastro nucleare e appiccicati l’un l’altro, con mezzi di fortuna, così.
Viaggiavamo nell’apice. Era come stare sulla sommità di una lama e da lì scivolavamo lungo la direttrice della lama affilatissima. Ma l’apice di dove?, di che cosa?; non saprei dirlo. Posso soltanto affermare che avevo la sensazione di viaggiare sull’apice di qualcosa. Mi sentivo elettrica, con la mente come annebbiata, offuscata, una strana sensazione da descrivere. Ad un tratto, l’automobile cominciò a tossire, andava a scatti e a sobbalzi fin quando non si arrestò del tutto e si spense il quadro elettrico. Massimo cercò inutilmente di rimetterla in moto. «Maledizione - disse - deve esser finita la benzina!», e mi aprì la portiera. Io pensai che Massimo era davvero ancora un gentleman se si premuniva di aprirmi la portiera per farmi scendere. Saltellavo con i tacchi a spillo tra le pozzanghere, tentando di evitare le buche più profonde, Massimo, invece, indossava un perfetto completo fumo di Londra e scarpe di vernice. Un papillon giallo à pois splendeva sulla sua candida camicia bianca inamidata. Era davvero bizzarro quel contrasto tra il nostro abbigliamento elegante e la visione delle macerie fumanti che stavano dappertutto.
Sul terreno c’erano buche, crateri fumanti, macerie fumanti, frigoriferi abbandonati, lavatrici, resti di televisori, radioline portatili, o meglio, ciò che restava degli odierni strumenti tecnologici oggi in auge ridotti in mille pezzi: transistor, rottami di semiconduttori, frammenti di monitor, fili elettrici spezzati e tazze di water, mucchi di immondizia maleodoranti, carcasse di automobili depredate; più in là c’erano cadaveri di soldati abbandonati con le loro armi ancora fumanti; a giudicare dall’entità del disastro, doveva appena esserci stata una battaglia, i nemici dovevano aver attaccato con armi pesanti e con l’appoggio di carri armati, o qualcosa di simile, a giudicare dai palazzi demoliti e dalle profonde buche fumanti nel terreno. La nostra guarnigione doveva essere stata rapidamente decimata e spazzata via. Questo mi disse Massimo: «i nostri soldati sono stati spazzati via come fuscelli!», e lo potevo dedurre dai cadaveri dei soldati in divisa grigioverde del nostro esercito che giacevano sul terreno. Mi attraversò il pensiero che ormai per noi non ci fosse più scampo.
«Massimo, come diavolo siamo finiti in questo calvario?», gridai con quanto fiato avevo in gola, ma mio marito non mi rispose affatto.
Sì, c’era stato uno scontro armato finito rovinosamente per i nostri. Mi meravigliò la nostra duplice inerzia. Stavamo a due passi dall’ecatombe e dalla nostra fine, e ci comportavamo come due estranei, come se la cosa non ci riguardasse affatto. “O, forse, è la nostra salvezza questa nostra sconsiderata spensieratezza”, pensai. Avevamo smarrito l’indice del nostro orgoglio. Eravamo stati attaccati da una potenza militare molto superiore a quella della nostra civiltà. Non eravamo più né disperati né allegri, eravamo soltanto spaventati; tutti fuggivano in tutte le direzioni. Ero immersa in questi pensieri quando vidi Massimo esultare. C’era una utilitaria mezza sventrata e rivoltata su un fianco. Massimo stappò il serbatoio della benzina e versò il prezioso liquido in un contenitore di plastica che giaceva lì accanto.
«Siamo salvi», gridò Massimo.
E così tornammo verso la nostra automobile, mettemmo la benzina e ripartimmo a tutto gas. Viaggiavamo in mezzo ad un paesaggio disseminato di crateri fumanti, di cadaveri e di carcasse di mezzi blindati.
«Dobbiamo fare presto, prima che tornino i nemici!», mormorava Massimo.
«Ma chi sono i nemici?», gli chiesi presa improvvisamente dal panico. Ma lui non mi rispondeva; probabilmente non riteneva degna di risposta quella mia insulsa domanda.
Improvvisamente, la carlinga della nostra automobile ebbe uno schianto, un sussulto, e l’autovettura, dopo molti sobbalzi, si arrestò definitivamente. L’uomo che sedeva sul lato guida dell’’autovettura emise una maledizione opinai che quell’uomo dovesse essere mio marito; la figura maschile in completo fumo di Londra interruppe il silenzio e disse con perfetta padronanza delle sue emozioni:
«Scendi, non c’è tempo da perdere, prima che arrivino i marziani!».
Fissai Massimo in viso: ebbi la chiara sensazione che fosse diventato pazzo. La sua voce non aveva più nulla di umano. Era come priva di emozioni, metallica, sembrava provenire da un computer. Io, non so perché, obbedii più per inerzia che per convinzione. Aprii la portiera della macchina e feci la mossa di uscire dall’abitacolo: ebbi la netta percezione di un presagio di sventura.... feci questa congettura così, senza una ragione plausibile e si accentuò in me una sensazione di disagio e di angoscia: camminavo sugli alti tacchi a spillo con il tailleur fasciato alla vita in mezzo a quella strada fangosa e dissestata tentando di non sporcarmi le scarpe di vernice; pensavo che avrei dovuto comprarmene delle altre e che in tempo di guerra non era poi così semplice perché i negozi e gli empori erano tutti crivellati dai colpi delle armi al laser... seguivo automaticamente, con l’occhio, mio marito, che mi teneva per mano come una bambina, o come una bambola: di frequente mi dava dei spintoni e mi faceva dei vistosi cenni che non comprendevo: guardavo il suo volto immerso in un silenzio minaccioso, forse foriero di gravidi eventi. Non sapevo se ridere o disperarmi. O entrambe le cose insieme.
«Possono tornare i marziani da un momento all’altro. Sbrigati!», esclamò mio marito senza alcuna convinzione, come se si fosse ormai rassegnato all’idea di veder spuntare i marziani dagli angoli dei palazzi sventrati.
Mi affrettai a seguire mio marito più per abitudine che per convinzione, come un topo che segua un altro topo, o un insetto che segua un altro insetto, meccanicamente, automaticamente in mezzo ai fumi delle recenti esplosioni. D’un tratto, prese a piovere. Una pioggia polverosa e silenziosa. Elettrica, radioattiva. Io guardavo gli alveoli che le gocce di pioggia scavavano nella polvere del terreno mentre mio marito mi strattonava in modo sempre più autoritario e spavaldo man mano che le nostre speranze svanivano, si affievolivano, finché non sbucammo in uno spiazzo di quella che un tempo doveva essere stata una stazione ferroviaria: c’erano i binari divelti come coriandoli che disegnavano bizzarre figure nell’aria; molti vagoni erano sfondati e fumanti, lasciati lì a dormire un loro sonno irreale e spettrale. Inutilizzati ed inutilizzabili. Io mi fermai, confusa, sorpresa e spaventata.
«Non voglio fuggire. Dove mi porti?», mormorai in preda ad un lucido panico.
«Sei soltanto una stupida bambola», mi rispose l’uomo che mi precedeva.
Massimo mi afferrò per un polso e mi strattonava mentre correvo dietro a lui cercando di evitare barattoli sfondati, rifiuti e cianfrusaglie che giacevano sul terreno. Arrivammo nei pressi di un vagone ferroviario ancora fumante, abbandonato e semidiroccato dalle recenti bombe.
«Non crederai di farmi salire su una di queste topaie, spero!», dissi in preda ad un panico immotivato, ma mio marito non mi degnò della minima considerazione. Impugnava quella minuscola ridicola pistola tenendola alta davanti al viso forse con l’intento di sparare addosso ai marziani che si fossero avventurati allo scoperto. Con modi inurbani mi obbligò a salire sul vagone. Dovette prendermi con la forza, sollevarmi di peso e scaraventarmi all’interno, tutta intera, tacchi a spillo e corpetto bianco rabescato con ricami. Appena entrati, sentimmo un forte rumore come di tralci di carta vetrata strofinata sul vetro dei finestrini del vagone semidistrutto.
«Sss… il rumore delle armi al laser!», sussurrò visibilmente preoccupato Massimo che impugnava quella ridicola pistola.
«Spogliati!», mi ordinò Massimo come sopra pensiero, ma non diedi importanza a quella parola.
«Spogliati!, così distrarremo i marziani e potrò impallinarli!».
Il rumore di uno schianto gigantesco ci colse impreparati e, di colpo, con un rinculo, il vagone partì interrompendo il nostro silenzio. Dal finestrino del vagone in corsa vidi trascorrere segnali stradali semidivelti, tralicci tranciati di netto, muretti fumanti, palazzi sfondati illuminati dal bagliore delle bombe e, dietro il retropensiero, c’era la mia angoscia; una sottile acquerugiola si incollava alla polvere dei finestrini. Lui mi osservò con un occhio solo.
«Hai annaffiato gli asparagi?», mi chiese Massimo, ex abrupto, quasi fosse la cosa più normale del mondo.
«Credo che la cresta di gallo non sia commestibile», replicai distrattamente in tono neutro pensando che mio marito fosse impazzito... cercavo di assecondarlo.
«Credi che sia un epilogo?», chiesi in tono ancora più neutro e distratto.
«Credo che sia soltanto un prologo», replicò mio marito senza convinzione con gli occhi pieni di spazio.
Mentre correvo in silenzio con quei ridicoli tacchi a spillo dietro a mio marito, un colpo di cannone, o una granata o qualcosa del genere esplose accanto alle nostre gambe e le schegge si innalzarono a raggiera come i fiocchi di un fuoco d’artificio. Improvvisamente, mi raggiunse il pensiero soccorrevole di essere ancora in vita e me ne meravigliai non poco. Mi chiedevo: «ma dove mi sta conducendo quel pazzo di mio marito?», ma non osai profferire ad alta voce quei dubbi... così, seguivo istintivamente con gli occhi quella minuscola pistola che impugnava mio marito.
«Cosa hai intenzione di fare con quella ridicola pistola?», chiesi a Massimo come si chiede una sigaretta a un corteggiatore.
«Sei una stupida bambola!», esclamò Massimo, ma senza convinzione.
All’improvviso, udimmo distintamente un: «Rauschhh!!».
«È la fine», pensai, «la fine dei miei giorni». E invece, Massimo, con una destrezza che non avrei mai creduto, puntò contro l’omino verde la sua ridicola pistola ed esplose dei colpi, uno di seguito all’altro, e vedemmo l’omino che si afflosciava al suolo come un pupazzo di stoffa.
«Bravo, hai fatto centro!», gli dissi per ringraziarlo.
«Sei sempre la stupida bambola che ho sposato», disse di nuovo mio marito che continuava ad agitare nell’aria la piccola pistola fumante.
«Ce ne saranno degli altri di questi stupidi marziani in giro!», dissi in preda ad una specie di panico. Ma non era panico, era l’indifferenza di chi ormai non ha nulla da perdere.
«Sbrigati, adesso arriveranno i suoi compagni!», mormorò mio marito visibilmente corrucciato. Mi diede uno strattone al braccio che quasi cadevo in una pozzanghera,
E, infatti udimmo di nuovo quel sinistro ordine che proveniva da dietro un muro sbrindellato: «Rauschhh!!».
Sbucarono da sotto un camion bruciato degli altri omini verdi. Una decina in tutto. Erano lunghi e sottili. Direi orribili. Massimo non si perse d’animo. Mi gettò a terra con un violento colpo alle spalle, ed io caddi in avanti infangandomi tutto il corpetto bianco delle Fiandre che teneva serrati i miei seni. “Che sciocca!” feci appena a tempo a pensare e mi avvidi che lo strattone aveva liberato i miei seni dal corpetto, ed ora oscillavano allegramente... E udimmo di nuovo quell’orribile grido soffocato: «Rauschhh!!».
Sbirciai attraverso una fessura del muretto con la coda dell’occhio; il muretto era sbrindellato dai colpi. Era un avvertimento a gettare le armi, probabilmente.
«Non c’è tempo da perdere!», disse Massimo.
«Che cosa vuoi fare?», chiesi senza speranza.
«Dobbiamo fuggire, e al più presto prima che arrivino altri marziani!».
«Ma tu sei pazzo!, ci impallineranno come fagiani!», strillai senza divincolarmi dalla stretta di mio marito.
«Rauschhh!», gridò il piccolo omino verde che sortì fuori dalla carcassa fumante di una jeep con quella loro caratteristica arma al laser giallo-trasparente mentre la puntava contro di noi. Camminava, o meglio saltellava, a piccoli passetti, verso di noi con l’arma spianata che emanava un odore di borotalco.
«Spogliati!», gridò mio marito; ma io feci finta di non capire.
«Spogliati ed esci nuda!», insistette quello lì.
«Esci!», ordinò mio marito, e ripetè l’ordine folle: « Esci!».
«Tu sei pazzo!», esclamai mentre uscivo dal muretto sbrindellato aggiustandomi la gonna e il reggiseno infangato, con il seno che debordava al di fuori del corpetto.
«Ma insomma, questi marziani non hanno nient’altro di meglio da fare?», dissi con evidente esasperazione mentre Massimo mi strattonava un polso con violenza. In quel mentre, mi toglievo la gonna e le mutandine; rimasi così mezza nuda con i seni che si erano liberati dalla chiusura del corpetto.
Beh, non ci crederete!, alla vista di me mezza nuda, il marziano cadde istantaneamente in un sonno profondo. Arrivò subito Massimo che gli sparò mezzo caricatore in testa gridando: «bastardo!», ed altre ingiurie non proprio signorili.
«Insomma, mi vuoi spiegare che è successo?», chiesi a Massimo sbigottita mentre maneggiava quella pistola fumante come fosse una sigaretta.
«Non capisci?», mi rispose l’uomo al mio fianco.
«No che non capisco!», gridai esterrefatta.
«È il loro modo di reagire alla bellezza femminile! Appena vedono una donna nuda, cadono in deliquio per l’ammirazione. Ridicolo, no?».
Io per tutta risposta stetti in silenzio. Pensavo che Massimo fosse completamente impazzito se credeva di darmi a bere quella panzana grande come un grattacielo di New York.
«Non l'hai capito?, il sonno è l’equivalente del nostro orgasmo!», mi gridò Massimo all’orecchio come per forarmi i timpani, «e quando questi mostriciattoli vedono una donna nuda sono accecati dall’orgasmo e vengono istantaneamente colti dal sonno!».
Pensai che Massimo stesse farneticando ma non opposi altre obiezioni per non farlo alterare: con quella pistola fumante era un pericolo pubblico e non mi sentivo affatto tranquilla; intanto, mi guidava tra le macerie e le masserizie delle case sventrate spingendomi alle spalle. Arrivati ad un muretto diroccato mi intimò senza mezzi termini:
«Spogliati!».
«Ma se sono già seminuda!», gli dissi rassettandomi il corpetto dal quale usciva il seno copioso.
«Devi spogliarti tutta!, non l’hai capito?, è la sola via di scampo che ci resta!», gridò Massimo con la giugulare che palpitava. A me sembrava assolutamente folle.
A un tratto, udimmo di nuovo quell’orribile soffocato singulto: «Rauschhh!!».
Vedemmo un nugolo di omini verdi all’in piedi che impugnavano quella loro arma giallo-trasparente che spandeva un nauseante odore di borotalco. Gli omini improvvisamente si arrestarono: avevano individuato la nostra presenza dietro il muretto. Guardai mio marito con evidente apprensione ma lui si limitò a dirmi soltanto:
«Spogliati nuda ed esci, stupida bambola!».
Così, senza pensarci, mi liberai della gonna e del corpetto. Rimasi nuda con le giarrettiere, le calze e il perizoma ma Massimo mi disse di togliermi anche quello. Uscii nuda e andai incontro agli omini verdi pensando «è finita», ma con mia sorpresa, non soltanto quelli là non mi spararono addosso ma rimasero immobili a contemplarmi con le loro ridicole armi al borotalco sotto una musichetta come di violini sgraziati in concerto, senza profferire un singulto. Fu allora che Massimo uscì da dietro il muretto ed esplose comodamente tutto il caricatore della pistola sui piccoli corpi verdi che caddero a terra ad uno ad uno come sacchetti di plastica rotti. Poi, con calma, ricaricò la pistola, si avvicinò ai corpicini caduti e gli sparò a ciascuno un colpo alla testa. Finito il lavoro, disse semplicemente.
«Il più è fatto. Hai visto bambola?».
«Che cosa devo aver visto?», chiesi stordita e spaventata.
«Cadono subito nel sonno e poi li puoi schiacciare come scarafaggi»; e riprese subito dopo: «dobbiamo spargere la notizia, dobbiamo dire a tutte le donne avvenenti di spogliarsi nude davanti a questi rettili verdi che poi li accoppiamo!».
Qui c’è un vuoto. Uno spazio bianco. Non ricordo altro. Massimo restò un lungo quarto d’ora come imbambolato in un suo pensiero ossessivo. Poi mi chiese:
«Hai visto Xavier ieri sera?».
«Chi è Xavier?».
«Intendo il tuo ultimo amante».
Mi parve che quella domanda così insensata e fuori dal contesto indicasse con chiarezza la sua follia. Allora, intuii che egli sapeva chi era Xavier e che me lo chiedeva soltanto per avere conferma di una sua supposizione o intuizione. Io avrei voluto dirglielo (forse avrei dovuto), avrei potuto smentire quel frutto di un suo pensiero assurdo e ossessivo quando gli dissi:
«Sì, Xavier è un mio amante».
Lui rise con ferocia mostrandomi tutti i denti bianchi e puntò l’indice verso di me, e aggiunse con fare minaccioso: «Xavier non esiste è solo un fantasma!».
«Il mio e il tuo fantasma, quello che ha ridotto questa città in un lago di sangue e di cenere, non lo vedi?». Risposi proprio così, in modo del tutto irragionevole e irreale per non inimicarmi la sua pazzia. Ma lui replicò in un modo che mi sorprese e mi meravigliò.
«Siamo tutti morti, non l’hai ancora capito?. Io sono morto, tu sei morta. E questa città è morta. E la battaglia che si è consumata, il sangue versato, il sudore, le distruzioni, la gloria e la viltà della guerra, ecco, tutto ciò è morto. Niente è servito a niente. O meglio, non è niente».
«No, non siamo morti», risposi, «semplicemente, quello che è accaduto è accaduto fuori cornice. Sta in un altro quadro. Dal nostro quadro, cioè dal nostro punto di vista, non lo possiamo comprendere. Ma di sicuro non siamo morti». Davvero, mi stupii della freddezza e della lucidità del mio ragionamento in quelle circostanze disperate.
Rammento soltanto quella minuscola, ridicola pistola che tracciava cerchi concentrici nell’aria... Massimo che agitava il braccio con la pistola in cima ed io con il naso all’in su che guardavo la canna di quella ridicola pistola
Adesso tutto è chiaro: pioggia, vagoni, viaggio, fili del telefono, fili del teatro, fuga e ritorno, invasione di marziani, il bombardamento, etcetera. Tutto è chiaro. Tutto è in ordine. Sì, tutto è chiaro, finalmente.
IL MAGGIORDOMO BRUIT
Stamane eravamo in soggiorno a consumare la colazione, Massimo mi ha preso per le spalle e mi ha detto che presto ci sarebbero state delle novità nel nostro ménage.
«Che tipo di novità?», ho chiesto un poco incuriosita.
«Una novità che non ti aspetti e che farai fatica ad accettare», mi ha risposto Massimo con aria saccente e pensierosa passeggiando su e giù per il corridoio.
«E perché mai dovrei fare fatica ad accettare questa presunta novità?», ho risposto piccata.
«Perché ancora non sei pronta a fare il balzo decisivo verso la tua completa liberazione dai tabù», ha replicato senza esitazione mio marito.
«Se è questo che pensi, ti sbagli, sono disposta a sfidarti sul tuo terreno», ho contro replicato a mia volta con una punta di disappunto guardandolo dal di sotto in su con un accenno di malizia.
«Ti porterò un ospite e tu dovrai essere gentile con lui, molto gentile».
«E se non accettassi di essere gentile?».
«Puoi sempre rifiutarti di essere gentile, ma in quel caso...».
«In quel caso?».
«In quel caso dovrai accontentarti di restare sul piano del plausibile e dell’ovvio».
«Vuoi dire che il mio eros finora è rimasto sul piano del plausibile e dell’ovvio?».
«Finora i tuoi amanti li hai accettati perché avevano una bella presenza o un certo ascendente ma ora vorrei sottoporti ad una nuova prova: sei finalmente matura per accingerti alla prova decisiva», disse con fare mellifluo e misterioso mio marito.
«Di quale nuova prova stai parlando?», chiesi in preda alla più vivace ed inutile delle curiosità».
«Ho deciso di assegnarti un fedele servitore».
«Ma io non ho bisogno di nessun servitore», esclamai vivamente indispettita.
«Un servitore che ti aiuti nella vita quotidiana», replicò in tono serafico il mio istruttore.
«Sono più che sufficiente a me stessa», gridai quasi ma lui mi interruppe.
«Sto parlando di una prova assolutamente impegnativa: un servitore che non avrà alcun elemento di avvenenza».
«Hai pensato ad un eunuco?».
«Troppo facile».
«Allora, dimmi di che si tratta!».
«Un elemento che ti potrà mettere alla prova, che impegnerà il tuo eros a fare un salto di qualità, il decisivo salto di qualità. Perché, tienilo bene a mente - aggiunse Massimo in tono didattico - i più grandi orgasmi li abbiamo unendoci con degli esseri spregevoli piuttosto che con dei bronzi di Riace». Massimo pronunciò queste parole lasciandole cadere dall’alto, come un maestro che voglia preparare il discente alla lezione ma che si rende conto che l’allievo non è ancora pronto ad apprendere.
Il mio istruttore non è il tipo che lascia cadere le parole a caso. Intuisco che ha un progetto in mente, ma so anche che avrà pensato e soppesato mille volte la prova cui intende sottopormi. Probabilmente, non mi ritiene ancora pronta. Ho un rispetto incondizionato dei suoi pensieri, pur se estremi. Del resto, che cos’è un pensiero non estremo?, è un pensiero interrotto. Ricordo che un filosofo del Novecento ha scritto:«vuoi l’incondizionato?, ti sia concesso l’irriconoscibile». Ebbene sì, veleggiamo verso l’irriconoscibile, il nostro limite è l’ignoto, cioè l’irriconoscibile. Il nostro limite sono le colonne d’Ercole. Avanti a prua, barra a dritta!.
Massimo è stato gentile, mi ha concesso una settimana per prepararmi all’incontro.
Ho trascorso questo tempo in preda ad una eccitazione crescente. Giorno dopo giorno la mia sete di conoscere l’identità del nuovo servitore è cresciuta a dismisura fino a diventare intollerabile. Ho chiesto inutilmente a Massimo di darmi delle, per così dire, anticipazioni, ma è stato inutile, ha mantenuto un riserbo assoluto.
Finalmente è arrivato il giorno dell’appuntamento. Massimo mi ha suggerito di indossare un cortissimo e costosissimo vestito di pizzo nero trasparente. Un perizoma nero, appena una fettuccia, termina nella parte anteriore con un francobollo di stoffa. Un corto impermeabile di latex nero dalle ampie spalline e una alta cintura mi serra la vita. Con i tacchi a spillo raggiungo in altezza il metro e novanta. Da quell’altezza posso dominare gli uomini. Così in alto, mi sento irraggiungibile, invulnerabile. Percepisco l’imbarazzo degli uomini che mi incontrano. Mi desiderano e mi guardano dal di sotto all’in su.
Siedo dietro una pesante scrivania ottocentesca. Le luci della sera raggiungono a stento il mio studio. Tra poco sarà notte. La villa si trova in un luogo deserto della città che confina su un lato con un parco pubblico immerso nell’oscurità. Una via alberata e scarsamente illuminata conduce dalla città alla villa. Dalla finestra dello studio scorgo un signore alla guida di una automobile di piccola cilindrata. L’automobile ferma nel cortile. Fumo nervosamente. È strano, non scorgo nessuno all’interno dell’abitacolo. Che sia abitata da un fantasma?. Ma no, ecco che la portiera si apre e scende una figura che non saprei definire: un omino piccolo piccolo. Un nano(!!). Poco dopo il nano si presenta nel mio studio preceduto dal suono argentino di un campanello. Ha un aspetto raccapricciante. Adesso che sono seduta, arriva all’altezza del mio viso. L’omino appare manifestamente emozionato e sorpreso di trovarsi di fronte ad un manager così provocante. L’omino è all’in piedi e mi tende la mano. Si presenta. Si chiama Bruit ed è francese, mi sembra di capire. Sono allibita. Il volto dell’omino resta per metà nell’ombra. C’è soltanto la pallida luce della luna che illumina i nostri movimenti. Nell’atto di alzarmi dalla poltrona, sposto le gambe ma mi arresto subito perché mi accorgo che l’omino con la sua presenza mi ingombra involontariamente lo spazio; durante questo movimento l’impermeabile di vernice si apre: compaiono le mie gambe inguainate negli autoreggenti di pizzo. Massimo sta al di là del muro, invisibile e inaccessibile; osserva con attenzione la scena. Io sono sorpresa e imbarazzata dalla presenza di quel piccolo ed abietto essere; lui fa un salto lesto ed imprevedibile all’indietro: si arresta come incantato a contemplarmi. L’omino mi guarda con la bocca spalancata. Sono sbigottita (ed anche eccitata!). La luce lunare illumina dritto il suo volto. Adesso posso osservarlo bene. Riesco a distinguere con precisione la sua fisionomia di una bruttezza raccapricciante: il volto rugoso come un’arancia vizza, due occhietti piccoli e strabici nuotano sotto una fronte pallida che sembra quella di un malato terminale. Un essere schifoso. «Repellente», mormoro tra me e me ma, nel momento stesso in cui elaboro questo pensiero, mi rendo conto di essere eccitata allo spasimo. Sono irritatissima nei confronti di Massimo. Che gioco è questo?, che razza di tiro mancino mi ha preparato mio marito?, l’omino è talmente orrido che non posso far altro che voltarmi involontariamente dall’altra parte; mi accorgo del suo sguardo posato sulle mie gambe. Le chiudo d’istinto. Mi siedo di nuovo dietro la scrivania. Improvvisamente, con sorpresa e raccapriccio, mi accorgo di essere tutta bagnata come non lo sono stata mai. Provo un piacere improvviso ed acuto. Come paralizzata nella posizione di chi sta per uscire soprapensiero da una automobile. Il nano deve aver percepito qualcosa del mio stato confusionale; il visetto vispo e vizzo dell’omino diventa sempre più paonazzo. Penso che anche lui sia giunto all’eccitazione.
*
Siamo appena tornati alla villa e quel che segue la si può considerare come la registrazione stenografica della mia conversazione con Massimo.
«Senti, Massimo, esigo una esauriente spiegazione», esordisco con voce stentorea, fumando nervosamente una sigaretta.
«Quale spiegazione?», mi chiede Massimo con l’aria più candida del mondo inghiottendo un cioccolatino.
«Vorrei sapere perché mi hai condotto in casa un essere così ributtante e repellente?», replico con voce ancora più stentorea ed acuta.
«Considero opportuno, al grado in cui siamo arrivati nella introduzione all’eros, che tu abbia commercio anche con un tale genere di esseri», ribadisce Massimo con voce ancora più candida.
«Perché?».
«Perché il Bello, per essere tale deve essere accompagnato dal suo contrario».
«Tutto qui?», la mia domanda cela un timore incoffessato.
«Tutto qui». La risposta di mio marito svela alla piena luce del sole i miei dubbi reconditi.
«Volevi sapere se un nano fosse capace di farmi eccitare?», gli chiedo fingendo un dubbio che non ho.
«Facile eccitarsi con degli uomini di bell’aspetto», risponde Massimo con l’aria professorale del docente che vuole dirimere una questione un po’ controversa. Ma io decido di venire allo scoperto:
«E allora, sei soddisfatto di aver constatato che mi eccito anche con degli esseri ripugnanti?»
«Sì, sono soddisfatto di te».
(...)
«Sei una femmina naturalmente sensuale, ma devi perfezionare il tuo stile».
«E allora, quali sono le tue proposte?».
«Condurrò qui da noi il signor Bruit. Sarà il nostro maggiordomo».
«Sei pazzo?».
«Questi sono i miei desideri».
«Vuoi ficcarmi in casa un essere così ripugnante?».
«Sì, e tu ti dovrai comportare come se lui non esistesse».
«Cosa vuoi dire?».
«Intendo dire che tu dovrai continuare a vivere secondo le tue abitudini, come se lui fosse trasparente».
«E se intendessi disobbedire?».
«E perché mai dovresti disobbedire?».
«Perché non intendo avere tra le gambe quel nano repellente!».
«Non piace anche a te l’idea di avere attorno un nano repellente?».
«No, l’idea non mi piace affatto».
«Vedrai che un giorno mi darai ragione».
*
Dopo un primo momento di sbigottimento, ho capito che Massimo vuole introdurre nella mia quotidianità una sorta di specchio, uno specchio deformante nel quale potermi osservare. Vuole dirmi che soltanto attraversando uno specchio noi riusciamo a penetrare nelle profondità del nostro io, a crescere e a superare le nostre crisi e le nostre momentanee difficoltà. Soltanto attraverso lo specchio possiamo acquisire una cognizione più vera della nostra identità.
*
La storia col signor Bruit comincia da qui. In verità, posso affermare che dal giorno della sua assunzione il signor Bruit è stato il nostro più fedele servitore e che tutte le mie ansie e le mie inquietudini non avevano ragione di essere. Del resto, indossa la livrea con accuratezza e rigore impeccabile. Con gli ospiti si comporta in modo inappuntabile, sempre cortese ed educato, ed io non ho nulla, veramente nulla da eccepire.
Massimo ha assegnato al servitore una stanza con bagno all’altra estremità della villa. I mobili sono stati fatti costruire su misura dell’omino che non supera il metro e venti di altezza. Insomma, devo dire che mio marito non ha lasciato nulla d’intentato ed ha fatto di tutto per mettere a proprio agio il domestico, il quale del resto deve occuparsi soltanto delle faccende domestiche: indossare la livrea, accogliere gli ospiti, disporre la compera dei generi alimentari e far cucinare i cibi del giorno.
*
Stamattina il signor Bruit ha bussato alla porta della mia camera da letto. Un portavivande quasi più alto di lui è entrato nella stanza seguito dalla livrea a strisce. Sopra il portavivande a rotelle c'era un vassoio con del caffè bollente, il the fumante con le brioches, il miele, la marmellata. Noto con soddisfazione che la colazione è di ottima qualità e che il servizio è stato eseguito a puntino.
«Buongiorno signora, la colazione è pronta», mi dice il signor Bruit senza enfasi.
«Oh, accomodati pure», mormoro nel dormiveglia.
Probabilmente, nel momento del risveglio il lenzuolo che mi copre è scivolato di lato lasciando il mio corpo nudo dinanzi allo sguardo dell’omino. Percepisco lo sbigottimento del domestico più dalla sua immobilità che da movimenti inconsulti.
«Dai, aiutami a svegliarmi», mormoro in preda ad una sottile vena di umorismo.
«Sono qui per aiutare la signora», profferisce la voce dell’omino.
«Non essere imbarazzato, massaggiami la schiena», gli dico più per noia che per divertimento.
L’omino obbedisce senza fiatare e si mette al lavoro sulle mie spalle.
«Vai un po’ più giù, per favore », aggiungo indispettita.
«Sissignora», risponde l’omino.
«Ma che hai capito?, ti ho detto più giù!», esclamo palesemente annoiata.
«Sissignora!», risponde l’omino con fare ubbidiente e ossequioso.
Bruit ha ripreso il massaggio lì dove l’aveva interrotto, con burocratica servile efficienza e precisione. Ha appoggiato le sue minuscole mani sul mio sedere e ha cominciato a strizzarlo. Ma io volevo soltanto divertirmi. Volevo vedere fino a quale punto di subordinazione si sarebbe spinto il domestico. Non c’è dubbio che ha svolto il servizio a puntino, come un bravo subordinato, senza sbavature e con apparente burocratica efficienza. Non c’è dubbio che non ha mai visto prima d’ora una donna della mia avvenenza, completamente nuda, con il corpo sui guanciali in attesa del massaggio, e non c’è dubbio che sia stato piuttosto abile nel reprimere ogni gesto che potesse apparire sconveniente o minimamente fuori luogo.
L’ho congedato all’improvviso e senza alcuna ragione proprio quando il suo massaggio stava per diventare troppo intimo.
*
Ho chiamato l’omino mentre mi facevo il maquillage. Sono nuda davanti alla toeletta. Mi trucco gli occhi e mi passo il rossetto sulle labbra. Bruit è dietro di me, a distanza di sicurezza. Di tanto in tanto, gli ordino di passarmi la spazzola per i capelli o il rimmel per gli occhi, la matita per le labbra o qualsiasi altro strumento di cui ho bisogno. Lo sbircio attraverso lo specchio: lui obbedisce senza riserve e senza la minima remora. Sempre dietro di me, in attesa di un nuovo ordine; imperturbabile e preciso, quasi severo, direi.
«Ascolta, Bruit, sei mai stato prima d’ora in intimità con una donna?», gli chiedo a bruciapelo.
«Cosa intende dire, signora?», mi risponde l’omino sempre più intimidito.
«Intendo dire semplicemente quello che ho detto. Sei mai stato così vicino a una donna nuda?» ripeto con finta negligenza ma con accento più autoritario.
«Oh, no signora, non mi è mai capitato», risponde semplicemente Bruit mentre lo guardo negli occhi.
«E non ti senti in imbarazzo?», chiedo con una punta di malizia.
«No, signora; veramente un poco, signora», risponde il piccolo uomo con palese goffaggine.
«E perché mai ti senti in imbarazzo?», insisto modulando un tono sensuale e finto ingenuo.
«La signora è talmente bella che sono un po’ intimidito».
(...)
«Non c’è dubbio», rispondo dopo un intervallo di silenzio prendendo in giro l’omino.
«Intimidito perché sono bella o perché sono nuda?», chiedo con una punta di civetteria.
«Per tutte e due le cose, signora», replica sempre più in imbarazzo l’omino.
«Ma tu sei il mio servitore, non dovresti sentirti in imbarazzo», rispondo con una sottile ironia.
«Lo so, non dovrei sentirmi in imbarazzo, ma non posso farci niente», replica l’omino in preda alla confusione più grande.
«Il mio servitore non dovrebbe mai sentirsi in imbarazzo!», esclamo con finta negligenza, inchinandomi sulla toletta.
Osservo di tra lo specchio il volto corrugato e corrucciato del domestico che mi guarda con i suoi occhietti piccoli e vispi. È visibilmente eccitato. Lo guardo attraverso lo specchio: è veramente un essere ributtante. Al tempo stesso paralizzato dall’eccitazione e dall’inibizione di trovarsi davanti alla nudità della sua Padrona. Ma non osa profferire alcuna parola che potrebbe apparire fuori luogo o inopportuna... come un cagnolino fedele, attende la prima mossa della Padrona.
Prima che il piccolo maggiordomo potesse recuperare la lucidità, lo congedo con un gesto della mano. Con negligente altezzosità. Il suo imbarazzo mi diverte e mi annoia. Sì, è così. Oscillo, in un istante, dall’eccitazione alla noia più profonda.
*
Stamane Bruit si è presentato per la solita colazione mattutina con dei pantaloni bianchi e una giacca corta a strisce azzurre che terminava appena sotto l’ombelico. Sono rimasta sorpresa dal gonfiore dei suoi pantaloni sotto la cintola. Colta da improvvisa curiosità, gli chiedo di avvicinarsi alla toilette dove stavo passando del fard sul viso e «di mostrarmi il contenuto dei suoi pantaloni». Gli dico proprio così, senza mezzi termini, affettando l’aria più normale del mondo:
«Mostrami il contenuto dei tuoi pantaloni!».
Prendo atto con soddisfazione che l’omino, dopo un primo momento di smarrimento, obbedisce, si sbottona i pantaloni e ne fa sortire un membro di dimensioni taurine che contrasta singolarmente con la sua statura.
«E che fai lì con quell’oggetto tra le mani?», gli chiedo con finta negligenza.
«Ma, non so, Signora, mi sono limitato ad obbedire».
«Beh, fai almeno qualcosa con quell’aggeggio!», insisto allargando le braccia.
«Ma io non so proprio cosa dovrei fare davanti alla mia Signora!», risponde il servitore manifestamente interdetto e intimidito.
«Sei proprio un imbranato!», esclamo con finta negligenza spolverandomi del fard sul viso.
È in questo frangente che mentre con una mano impugno la matita per il trucco degli occhi, con l’altra tocco il membro dell’omino. È talmente eccitato che il suo orribile visetto è diventato paonazzo. Ho appena sfiorato il suo membro, lo tocco tra le dita quando mi accorgo che un liquido caldo mi bagna la mano... la mia accondiscendenza lo ha colto di sorpresa. Mi volto lentamente, meravigliata da quell’insolito spettacolo.
«Vieni qui, Sali sullo sgabello!», gli dico voltandomi verso lo specchio della toilette. Con la coda dell’occhio vedo Bruit che sale sullo sgabello con il membro in piena eccitazione. Io fingo affettazione e indifferenza.
Con la coda degli occhi adesso posso guardare il suo Priapo posizionato davanti al mio volto. Sul visetto vizzo e rugoso di Bruit passano una miriade di sensazioni diverse l’eccitazione, la sorpresa, la perversione, la percezione della trasgressione… il minuscolo domestico respira a fatica, rantola ed ansima come preso da un attacco di angina. Io non so se ridere o eccitarmi. Provo una strana sensazione: tanto più chiaro alla mia coscienza emerge il pensiero che sto guardando un essere ributtante che sta davanti a me con il membro fuori dai pantaloni, quanto più il piacere si fa intenso e avverto un languore al basso ventre.
È sempre la Padrona a condurre il gioco. In fin dei conti è un gioco. Soltanto a quel punto mi è venuta un’idea in testa: mi sono slacciata il baby doll trasparente: sono completamente nuda davanti alla toilette. Guardando la mia immagine riflessa nello specchio posso vedere l’omino con il membro in piena esposizione. Non saprei riferire quanto tempo sia durata quella scena; quella singolare posizione reciproca aveva stabilito una intimità tra di noi all’improvviso; senza una ragione apparente, decido di porre termine a quell’interludio; all’improvviso allungo una mano gli tengo il membro stretto nel palmo con pochi rapidi e ripetuti gesti lo porto subito all’orgasmo.
«Ma hai sporcato tutto il pavimento!», grido visibilmente contrariata. «Ed ora pulisci bene con lo strofinaccio per terra... subito!».
Osservo con distacco e ribrezzo il Signor Bruit che fa la pulizia del pavimento.
*
Tutte le mattine il Signor Bruit mi dà il buon mattino con una abbondante colazione di the e brioches. Mi sono ormai abituata alla presenza di Bruit che considero alla stregua di un cagnolino. Ormai Bruit si è abituato a vedermi nuda mentre svolgo i miei ozi e negozi nell’ala femminile dell’appartamento che mi è riservato. Al signor Bruit spetta l’«onere» di praticarmi il massaggio quotidiano. «Onere», se così possiamo chiamarlo.
*
Ho ordinato all’omino di praticarmi un massaggio profondo, la sua specialità. Ormai, ha imparato. Lui capisce subito. Si arrampica come un ragno sul mio corpo, mi sfila il soprabito, l’abito, mi denuda completamente: mi afferra i seni prende a succhiarmeli e a leccarli con una passione che mi lascia sbigottita e perplessa. Sono in uno stato di eccitazione e di esaltazione come non avevo mai provato prima. Quell’orribile omino mi ispira sensazioni indefinibili, contraddittorie, malsane.
È trascorso un tempo immemorabile che non saprei quantificare: lo osservo con attenzione mentre mi bacia i capezzoli; non posso fare a meno di constatare, per l’ennesima volta, il suo aspetto repellente. Con un movimento agile e leggero, Bruit sale con i ginocchi sopra di me che sto supina, sulle spalle, si abbassa i pantaloni sui piccoli ginocchi... oh, strano!, “non ha mai osato tanto prima d’ora!”, non posso fare a meno di pensare; mi afferra in modo inequivoco per i capelli obbligandomi alla fellatio. Mi diverto a farlo andare avanti, farlo osare sempre di più accetto, con curiosità e consapevolezza, di fare quel sacrificio per il quale nutro un misto di piacere e di ribrezzo.
Un contagio, come una malattia, anzi, una vera e propria malattia, qualcosa di assolutamente inspiegabile e indicibile che mai prima di allora avevo previsto e che mai avrei osato pensare fosse possibile; è con questa chiara consapevolezza nella mente che, con ribrezzo misto a piacere, continuo la fellatio fino a condurlo al piacere.
*
Il poeta francese Paul Valéry ha riassunto la questione del superuomo o della superdonna in questi termini: «nient’altro che i nostri cedimenti intellettuali sono il regno delle potenze del caso, degli dèi e del destino. Se possedessimo una risposta a tutto (voglio dire una risposta esatta), queste potenze non esisterebbero. E ce ne accorgiamo perfettamente: è questa la ragione per cui alla fine ci rivolgiamo contro le nostre proprie domande. Ma questo dovrebbe rappresentare solo l’inizio. Bisogna formare, dentro di sé, una domanda che preceda tutte le altre e domandi a ciascuna di esse qual è la sua validità».
Bene, adesso è tutto molto chiaro: soltanto i nostri "cedimenti intellettuali" aprono la porta al baratro dell’irrazionale e del negativo. L’eros è il polo positivo della vita. Senza l’erotismo la vita muore. L’antieros è la pornologia del conformismo, la monogamia, l’endogamia.
Ho finalmente scoperto la necessità di fare della mia esistenza un’opera d’arte. Io sono l’opera d’arte di me stessa. E qui il problema si sposta: che cos’è l’opera d’arte?; ma a questo punto viene in nostro aiuto sempre Valéry, quando scrive che «l’opera d’arte non è una creazione è una costruzione in cui l’analisi, il calcolo, la pianificazione svolgono il ruolo principale».
Un pensiero davvero brillante, non c’è che dire.
Dunque, è mio intendimento attingere uno stato in cui nessun cedimento intellettuale possa attecchire la mia persona. Uno stato di completa pienezza e autocoscienza.
*
È trascorsa la mezzanotte; nella mia camera da letto cala un lungo silenzio. Lo percepisco in tutte le sue sfumature. Il silenzio è come la nebbia, che si alza, lievita sempre di più e non sai dove va o che cosa significhi; non siamo più abituati al silenzio, esso ci è estraneo, ha cessato da tempo di essere il nostro familiare compagno di vita; è diventato il nostro persecutore, oggi noi viviamo nel rumore e del rumore. Insomma, bando alle ciance: mi accorgo che in un angolo della mia stanza c’è il nano in livrea. Non riesco a far altro che pensare a Lui. Ma è un Lui diversissimo da il Lui reale. Non ho dubbi: Lui è entrato nella mia esistenza come un chiodo nel legno di cedro. È il suo modo di prendere possesso della mia psiche. Forse pensa di potermi condizionare, io invece ritengo che se volessi potrei sottrarmi alla influenza del suo orripilante fascino. Ma come, io, la Bellezza della Città del Sole, costretta ad assecondare i reconditi desideri di quell’ignobile nano!
Quando ci penso, vado fuori di me dall’ira: vedo nitidamente che non potrò mai dimenticare quell’omino, che mi avrebbe reso infelice fino all’epilogo della mia esistenza!. So che ormai non potrei mai vivere senza di Lui!
Insomma, è mezzanotte, nella stanza si è diffuso il riverbero dell’oscurità che proviene dalle stelle semispente; avresti detto che uno spettro si aggira nei meandri, uno spettro che mi avvince e mi inquieta. Rimango sveglia tutta la notte fino al primo mattino. Al mattino, Lui si presenta con il vassoio di calde brioches e caffè; dichiara che ha molto gradito la mia storia (“quale storia?”, penso tra me e me) e che non intende sollevare alcune obiezione; (“forse sta barando”, penso, “o forse non sa quello che dice e straparla”); intanto, lo ascolto con interesse: ed ecco che il nano mi slaccia con un gesto pragmatico il baby doll e rimango nuda. Poi mi ordina di slacciargli i pantaloni. "È incredibile - penso - lui che mi dà un ordine!". Non batto ciglio e gli tiro giù la chiusura lampo dei pantaloni. «Ed ora tirami fuori il cazzo!»; ha detto proprio così: «cazzo», ma io non ho fiatato, mi sono limitata ad eseguire il suo volere. «E adesso?», gli chiedo. «Adesso mi masturbi, poi, quando diventa duro me lo prendi in bocca». "È inaudito - penso in un mio pensiero interno - ancora un ordine perentorio!", ma non oso fiatare, lo masturbo a lungo e, quando vedo il che suo glande sta per scoppiare, lo lecco con perizia. Lo guardo dal di sotto in su: vedo il suo visetto vizzo e paonazzo, ha gli occhi chiusi in un'estasi di piacere, allora non mi trattengo più, sono sopraffatta da un assalto di lussuria, perdo ogni controllo, gli succhio il sesso con passione... finché lui me lo toglie dalla bocca e mi ordina di tenerla aperta. «Apri la bocca!», urla; ed io obbedisco, metto il viso sotto la sua verga eccitatissima e apro la bocca: un primo fiotto di sperma mi raggiunge la gola, deglutisco automaticamente quel liquido caldo e acidulo; un secondo fiotto mi raggiunge tra i denti serrati mentre sto ancora inghiottendo il liquido, un terzo schizzo mi riempie la bocca, e poi un quarto, un quinto... sono stravolta dal ribrezzo e dalla lussuria, mi si annebbia il cervello ed emetto un mugolio di piacere... e poi un sesto flusso di sperma mi bagna il viso, sento un rivolo che mi scende dal naso e mi cola sul mento. "Finalmente è finita", penso con sollievo mentre apro gli occhi e vedo il suo grosso membro sopra il mio viso.
*
In quegli anni appresi che non nell’attesa consiste il senso dell’esistenza, che essa può essere qualcosa di assai più piccante ed esilarante (...) A quel tempo mio marito prese ad organizzare, cogliendo al volo ogni occasione, cerimonie e festeggiamenti invitando tutta l’alta società di sfaccendati, di oziosi, di viziosi, di capitani d’industria, di politicanti di cortile etc.. Un giorno, dicevo, c’era da festeggiare il matrimonio dei nostri vicini di villa, un altro la nascita di un nuovo erede dei nostri ricchi amici, un altro ancora c’era da onorare le dissolutezze fedifraghe della consorte di un nostro conoscente, un altro per festeggiare la riuscita di una operazione di borsa nella quale erano stati gabbati centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori, un altro ancora per festeggiare… ma sì, un bel niente, era soltanto l’occasione quella che dovevasi festeggiare, e niente più, si festeggiava per vanità, si festeggiava per vacuità, per orgoglio e pregiudizio. In breve tempo ingrassai, perché in tali fasti, che spesso si protraevano per giorni e notti, fagocitavo a dismisura carni profumate e grassi risotti, divoravo le leccornie più disparate, dolci a forma di sirene, pistacchi e croccanti uccelli di cacciagione al forno, trascorrevo le mie giornate assistendo agli spettacoli di lottatori dai muscoli oliati che combattevano fino al soffocamento, di saltimbanchi che in cima ad un’asta saltavano con la naturalezza di uno stambecco, giocolieri che facevano roteare nell’aria le spade prendendole per l’impugnatura, trapezisti che oscillavano su una fune tirata da una estremità all’altra del giardino, di giocolieri che estraevano dalla giubba velenosi serpenti multicolori e scimmie che saltavano al suono di bizzarri strumenti musicali, nani dall’aspetto ripugnante che saltavano e si rotolavano al suono di pifferi assordanti. Il programma prevedeva, immancabilmente, fuochi d’artificio. E di notte, completamente nuda ma con una membrana a forma di foglia di fico sul pube, avanzavo sugli alti tacchi a spillo tra il tripudio di inconcludenti fuochi coloratissimi mentre tutti gli invitati si disperdevano, chi qua chi là, nel giardino e nelle innumerevoli stanze della nostra villa al tintinnio delle coppe di vino e di champagne in mezzo a danzatrici discinte.
Era in quei frangenti che ripensavo a mia madre avvolta nel suo abito nero e nello scialle, egualmente nero, e a me bambina accanto alla lavagna nera e alla scatola vuota.
*
Stamane mi sono svegliata da un sonno profondo e turbolento. Sulla toeletta c’è una busta bianca e, all’interno, una lettera del mio coniuge.
«Cara Pentesilea - mi scrive Massimo - ti volevo dire che tua madre, paradossalmente, ha indovinato il soprannome, e sai perché te l’ha dato?, te l’ha dato perché tu diventassi una regina, apprendessi l’arte di essere una regina, affinché il nome ti sia di guida e fonte di ispirazione. Pentesilea era il valoroso capo delle amazzoni, le donne guerriere che contesero agli uomini il dominio sul mondo allora conosciuto. Il suo scacco e la sua sconfitta sono stati lo scacco e la sconfitta di tutte le donne, destinate ad essere confinate tra le mura domestiche o, al massimo, tra le pareti di un tempio come le pagane vestali, costrette ad officiare la quotidianità del focolare, il culto del focolare, costrette ad alimentare il fuoco eterno del focolare domestico. Io invece auspico per te e per tutte le donne a venire un destino numinoso, che tu sia destinata ad alimentare incessantemente il fuoco dell’eros, il fuoco immateriale e astratto che d’ora in poi dovrà guidare la tua esistenza.
Cara Pente, hai le ali?, dispiegale in alto, vola, fatti trascinare sempre più in alto, più in alto degli altri. Ama la grande visione e inseguila come fa l’aquila che insegue il profondo blu del cielo. Non temere di precipitare al suolo come Icaro. Dipende da te, solo da te vincere le battaglie della vita, affrontare con successo le sfide che senza tregua la vita ci lancia. Saranno sfide severe, spietate, ma tu non dovrai farti trovare impreparata.
La vita è piena di vuoti. Sta a noi, solo a noi riempirli. Ed è anche piena di momenti bui che ci gettano nell’angoscia e c’incupiscono. L’importante è non arrendersi, non cedere mai, a nessuno. Affrontare i nemici con la forza e il coraggio di una Pentesilea.
Sappi che se vuoi raggiungere una meta, anche la più lontana, tagliare un traguardo, anche il più difficile ed impervio, occorrerà rimboccarti le maniche, non ti dovrai risparmiare, non dovrai scegliere la strada più facile o quella che ti permetterà di evitare il conflitto. Sappi che certe battaglie non sono evitabili, che non ti sarà concesso retrocedere spaventata o intimidita dinanzi alle sfide che la vita ti porrà davanti. La vita è piena di vuoti, sta solo a te riempirli, nessuno verrà per colmare il vuoto della tua angoscia, nessuno combatterà per te le battaglie che tu non vorrai combattere. Dovrai cercare di evitare le battaglie a cui ti sentirai impreparata, dovrai cercare di ritardarle, rinviarle a quando avrai con te un esercito convinto e deciso ad ingaggiare lo scontro decisivo, lo scontro finale. E ricordati che nessuna vittoria è definitiva e che nessuna sconfitta è definitiva, e che è meglio una sconfitta onorevole ad una vittoria disonorevole, che è preferibile la sconfitta di Canne a una vittoria di Pirro. Dalla sconfitta risorgerai più temprata e più vigorosa. Dalla sconfitta dovrai imparare l’arte della riscossa piuttosto che la pessima scuola della rinuncia.
Sii sempre te stessa e non barattare per nessun motivo e per nessun beneficio o privilegio la tua dignità. Non scendere mai a compromessi disonorevoli di cui ti pentiresti con rammarico e rimorso per non averli rifiutati. Giudica gli altri per quello che sono, dopo aver capito che cosa sono. Non farti illusioni su nessuno. Dai la tua fiducia a chi con le azioni, non con le parole, l’ha meritata e negala a chi non riscuote la tua stima. Frequenta soltanto chi condivide i tuoi sentimenti, i tuoi aneliti, chi condivide la tua vocazione. Rispondi alla chiamata della tua vocazione e seguila dovunque ti condurrà, senza farti intimidire dalle rampogne degli imbonitori, dei preti e dei conformisti. Sappi che la tua vocazione è sacra, e chiunque violerà il sacro recinto della tua vocatio dovrà subire gli strali e i colpi del tuo disdegno e del tuo disprezzo.
Non ingannare nessuno, anche quando ti sarebbe facile ingannarlo e potresti ricavarne un utile senza incorrere in censure e sanzioni. Tutto ciò che fai, fallo bene ed esigi che gli altri ti emulino. Non lasciare le cose a metà, denunciano una incompletezza, un fallimento. E i fallimenti, quando ne siamo noi i responsabili, ci mortificano, ci indeboliscono, impoveriscono quei succhi vitali che sono la fonte, la linfa creativa della nostra esistenza. Affronta sempre il dolore senza imprecare contro il destino avverso e beffardo che te l’ha riservato, ma stringi i denti, serra i pugni, perché solo così lo si domina e lo si sconfigge.
Scegli la tua strada, quella più congeniale alla tua natura, al tuo spirito, alle tue inclinazioni e percorrila sino in fondo, senza esitazioni, senza fermarti se non per ritemprare le forze, ricaricare le batterie, aggiornarti alle circostanze che mutano e ai tempi che cambiano.
Ama soltanto le cose belle. Cimentati soltanto con le cose grandi, con i grandi progetti anche se dovessero condurti contro la dittatura della maggioranza, anche se ti si coalizzerà contro la moltitudine dei mediocri e dei conformisti. Non prenderti mai sul serio, ma non prendere le cose alla leggera, perché ogni conquista ha un prezzo. Un prezzo salato e amaro, che prima o poi tutti dobbiamo pagare. Leggi i classici perché ti aiuterà a capire gli uomini, perché in quelle pagine c’è la saggezza della vita e la complessità della vita. E soprattutto, continua a sognare, fa che i tuoi sogni siano i tuoi padroni. Un bel sogno ci serve da sprone nella vita, ci sollecita ad uscire fuori da noi stessi, dal piccolo e asfittico demanio della monarchia dell’io. I sogni che non si realizzano sono destinati a restare soltanto dei sogni, e inquineranno inevitabilmente la nostra vita. Il tuo sogno non deve essere soltanto un frammento dorato della tua esistenza, una pausa di libertà nel mezzo della illibertà e della servitù della vita quotidiana. Il tuo sogno deve essere la tua utopia quotidiana.
La vita di tutti i giorni incombe implacabile su di noi, ci costringe a pagare un dazio alle sue richieste, alle sue pretese, ai suoi capricci, che capricci non sono, ma limiti, ostacoli per tutto ciò che non abbiamo voluto ascoltare, per tutto ciò per cui non abbiamo avuto il coraggio di impegnarci.
Conoscerai momenti difficili, morderai il freno amaro della disperazione, dell’angoscia e dell’impotenza. Metti anche questo nel conto e battiti sempre con coraggio e lealtà. Quel coraggio e quella lealtà che ti garantiranno il rispetto del nemico e, ciò che più vale, ti confermeranno nella bontà della tua causa. Perderai qualche battaglia?, sì, forse perderai anche la guerra ma era una guerra che andava combattuta in ogni caso.
Ed ora, addio mia cara, la piccola e fragile imbarcazione della tua bellezza ti sia di viatico e ti accompagni nel viaggio che stai per intraprendere, con il conforto che il Bello trionferà sul Brutto e l’Armonia dissiperà la Discordia che è in noi e fuori di noi... e attorno a noi.
La Bellezza ti renderà invulnerabile.
Il tuo coniuge, Massimo».
*
Non so che cosa abbia voluto intendere Massimo con questa lettera. Mi vuole spingere ad una maggiore licenza? O forse no. Forse, vuole soltanto che io prenda possesso del mio libero arbitrio. Ho la sensazione che questa, diciamo così, licenza, o licenziosità che dir si voglia, sia simile alla inclinazione dell’ipotenusa nel triangolo rettangolo: quanto più ti ci inoltri tanto più scivoli in basso, quanto più cerchi un appiglio da afferrare per aggrappartici, tanto più il terreno si fa sdrucciolevole Massimo mi ripete spesso che «l’ipotenusa è assai più interessante dei cateti, l’ipotenusa è un segmento in posizione inclinata, va verso il basso, conduce in giù mentre i cateti sono stupidi, ottusi, se ne stanno sempre lì fermi, immobili qualunque cosa accada, accada anche un terremoto, loro sono lì immobili, ben piantati sulla madre Gaia».
SIR ALEX FERGUSON
«Chi è questo Sir Alex Ferguson?», chiedo un po’ stizzita ad un marito alquanto annoiato.
«Lo vedrai da te stessa», si limita a rispondermi dalla poltrona sulla quale legge il giornale.
Erede e bardo di una civiltà colta e preziosa, scettica ed epicurea, decadente ed estetizzante, Sir Alex Ferguson mi accoglie nell’atrio contornato da bianche statue della sua villa fiorentina e mi conduce nel tepidarium sfavillante di arazzi fiamminghi con fondi in oro dal quale risaltano le figure di filosofi dalla barba bianca, nudi o coperti da una leggera tunica che mette in risalto le sottostanti forme dei loro corpi. La villa è una autentica gemma rinascimentale incastonata nell’incomparabile diadema dei colli fiorentini, dai declivi dolci e gentili. Il clima in questa interminabile primavera è mite e temperato, ed è un piacere passeggiare con un Signore dai modi così squisitamente urbani.
Alto, quasi calvo, la fronte picchiettata di lentiggini, la pelle bianca e levigata, gli occhi a spillo, il naso un po’ sporgente, divaricato in due narici leggermente strabiche, le mani affusolate e lunghissime, la bocca ammiccante come di chi stia sempre per sorridere, il sorriso indulgente ed altezzoso ad un tempo, l’ultimo principe pagano di una civiltà decadente, indossa un abito di shantung di gran fattura. Mi accoglie con un largo sorriso e ci saluta come se ci conoscessimo da sempre e in punta di piedi, quasi sfiorando il pavimento con una leggerezza che mi stupisce. Ci invita a seguirlo nel giardino. Alla vista del giardino, rimango meravigliata e sorpresa dalla munificenza e dalla lussureggiante varietà delle piante. Mi viene spontaneo il pensiero che forse nelle intenzioni del demiurgo che lo ha creato doveva essere ad un tempo un eden e un museo. costellato di erme, tritoni, statue palladiane, popolato di bossi, ligustri, acanti, querce, cipressi, gorgogliante di fontane che si aprono all’improvviso, rutilante di serre e di nicchie, di fondali verdeggianti che, improvvisamente, aggettano su spiazzi ombrosi. Penso che l’architetto che lo ha creato sia stato colto da mille trasalimenti e da mille ripensamenti mentre lo produceva, e così abbia introdotto una serie imprevedibile di varianti e di imprevedibili agnizioni, tali da sgomentare qualsiasi visitatore che volesse esaurire la sua lussureggiante imprevedibilità. Una estetica del gioco?, o qualcosa di più e di più complesso. Una estetica della meraviglia?, o qualcosa di più e di più complesso, indefinito e indefinibile?.
A questo punto è bene dire subito due parole sul nostro anfitrione: Sir Alex Ferguson nacque nella città del giglio da una miliardaria americana e da un celebre antiquario inglese, discendente diretto di John Ferguson, ammiraglio borbonico e ministro degli esteri dell’ultimo re di Napoli. Da ragazzo e da adolescente usava trascorrere le vacanze dopo le fatiche dell’anno scolastico a Elton e a Oxford, in questa villa palladiana immersa nel verde dei giardini all’italiana e studiava il russo, perché, affermava, voleva leggere Puškin nella sua lingua originale.
«Ma perché voleva leggere proprio Puškin nella lingua originale e non Dostojevskij?», esordisco in modo sconsiderato e inappropriato.
«Mia cara dea bionda - interloquisce con tatto e discrezione Sir Alex - non sa che Puškin morto in duello, colpito dalla sciabola di un pedestre ufficiale russo per difendere l’onore di sua moglie? Quella moglie che lo aveva svergognato in pubblico cinguettando e, probabilmente, copulando con un bell’ufficiale?; vede, mia cara Pente, la signora Puškin era la donna più bella di Russia, ed era adulata e corteggiata da tutti gli uomini che incontrava. In un certo senso, la sua bellezza è stata la sua dannazione. La sua bellezza era il suo destino. E al suo destino, purtroppo, era legato quello del suo geniale marito, del più grande poeta di tutti i tempi della letteratura russa!».
Sir Alex aggrotta per un momento le lunghe sopracciglia, quasi per scacciare un pensiero negativo e prosegue la sua narrazione:
«Si dice che durante l’ultima guerra i tedeschi adibirono la villa a loro quartier generale, a stalla e bivacco per i loro cavalli facendo scempio di molti tesori. Fu allora che mio padre, Elton Ferguson, fuggì in Inghilterra dove si arruolò nella marina britannica come ufficiale di bordo e, quale non fu la sua gioia quando potè sparare i primi colpi di cannone contro le navi tedesche che tentavano di mettersi in salvo dandosi alla fuga dappertutto nel Mediterraneo. Poi avvenne che nel 45, dopo la fine della guerra, Sir Elton tornò a Firenze e, con certosina pazienza, rimise insieme i cocci delle distruzioni fatte dai tedeschi, restaurò le celebri statue del giardino e gli arazzi con fondo oro e restituì la villa alla antica magnificenza».
«Che storia sensazionale!», esclamo senza una vera vocazione. Ma il gentiluomo continua come se la mia esclamazione non fosse mai stata pronunciata.
«Nell’ottobre del 1969, all’età di 6 anni, si ammalò d’un male incurabile, vegliato e vezzeggiato da uno stuolo di camerieri e maggiordomi e di amanti, lo proteggeva una muta di cani famelici, lo circondavano gli amici, colti e raffinati che riuniva, di quando in quando, da ogni parte del mondo per celebrare le feste in onore di Ares dio della guerra, di Dioniso, dio dell’eccitazione e del desiderio e di Priapo, re del membro virile.
Sir Alex Ferguson ci parla degli antenati lontani, con rispetto e ammirazione quasi fossero lì presenti e di quelli morti, come se fossero vivi. Ci parla di Sinclair Lewis e della sua villa di Settignano, pacchiana, priva di comfort, arredata con mobili di pessimo gusto. Sempre ubriaco, non faceva che bestemmiare e inveire contro gli altri scrittori, accusati di invidia e gelosia verso la sua opera. Pochi giorni prima di morire, urla a Evelyn Waugh: «me ne sto andando!», ma Babbit e Main Streeet resteranno. Ci parla di Giles Lytton Strachey, pallido, mingherlino, incartapecorito, con una folta barba e una voce tra il fioco e il pigolante; latore della Regina Vittoria, pieno di acciacchi, che se ne stava eternamente in poltrona, avvolto in scialli e plaids.
Sir Alex Ferguson è un conversatore arguto e brillante, con uno spiccato senso dell’humour, sembra una copia perfetta di uno dei suoi ritratti che pendevano, un po’ alla rinfusa, ovunque dalle pareti della sua villa. Ci parlava di Bernard Berenson (per gli amici, Bibi), minuto come lui, anche lui con la barba, maligno, arguto, intelligentissimo, in doppiopetto blu e l’immancabile garofano all’occhiello.
La voce di Sir Alex riecheggia per gli ampi saloni della villa mentre mi getta delle rapide occhiate, come in tralice, tenta di indovinare tra le pieghe del sottile vestito che indosso le forme del mio corpo.
«Che vuole, mia cara Pentesilea, ora la villa versa in uno stato di irreparabile decadenza. Non ci sono più gli artisti e i poeti di una volta; ora ci sono soltanto dei commedianti, dei faccendieri della letteratura e degli improvvisatori, degli scimmiottatori dell’arte».
Dinanzi a questa ammissione di Sir Alex, atteggio il volto a una sorta di sorriso di approvazione.
«Nessuno - continua Sir Alex - tranne il padre di Sir Elton, (anch’egli si chiamava Elton), che me la descrisse come la conobbe, bambino, ai primi del secolo, quando nelle sale e nei giardini della villa si davano convegno DAnnunzio, la contessa d’Orsay, Carrà, De Chirico, Lawrence, Marinetti. Nella ville toute anglaise, felice, spensierata, gaudente, galante, viveva un cospicuo nucleo di inglesi. Le botteghe d'intorno inalberavano insegne bilingui. Nelle vie e nei salotti schioccava, secco e didattico, l’accento di Oxford e di Cambridge. I nobili fiorentini s’imparentavano con i patrizi inglesi e dall’esotico connubio rampollava un meticciato snob, raffinato, cosmopolita in cui il censo si sposava con il blasone, l’uso di mondo con il culto del bello e dell’arte».
A queste parole, le sopracciglia di Sir Alex Ferguson hanno un sussulto e un sospiro di nostalgia fuoriesce dal suo petto nobilmente inarcato.
«Nessuno, più di Sir Elton - continua con il medesimo sospiro il nobiluomo - seppe incarnare gli ideali, assimilare i gusti, adottare lo stile, assumere, senza averne l’aria, le pose di quel milieu colto, scettico, esclusivo. Questo gran Signore non ne era solo il frutto più prelibato, il distillato aromatico, ma anche l’ultimo, attempato delfino. Sopravviveva agli appassiti nefasti fasti e ne coglieva i funebri rintocchi, ma senza trasalimenti e fremiti; e, soprattutto, senza farsi illusioni sulla sorte del mondo in cui era nato e cresciuto, di cui aveva vegliato l’agonia e raccolto nelle urne della villa le reliquie e le ceneri».
Mentre parla facciamo ingresso in un ampio salone in fondo al quale un’orchestrina sta intrattenendo gli ospiti con musiche languide e nostalgiche. Sir Alex fa appena un accenno all’eleganza del mio décolleté e si congeda con un mezzo inchino.
Mi guardo attorno ed ho modo di accorgermi che le persone presenti sono tutte, indiscutibilmente, di bella presenza e le donne abbigliate con particolare eleganza. Sono incline a pensare che, dopotutto, la tradizione dei Ferguson non poteva smentirsi.
L’ampio salone aggetta su un terrazzo neoclassico con la balaustra in marmo a colonnine tortili. Dietro la balaustra si apre allo sguardo una distesa verde con una grande vasca rettangolare ricolma di acqua azzurra, resa ancora più azzurra dal rivestimento del fondo in piastrelle celesti. Ai bordi della vasca si stagliano alcune statue scolpite nel meraviglioso marmo di Carrara, a dimensione umana, rappresentano divinità pagane: Dioniso nudo che tiene in mano un grappolo di uva nera; c’è Ares dio della guerra, ignudo, con lo scudo appoggiato sul terreno e il gladio nel pugno e, infine, un gigantesco Priapo nero, anch’esso nudo, che mostra in tutto il suo splendore, uno svettante membro color ebano.
C’è qualcosa di strano in tutto ciò, qualcosa che non mi convince. Un’atmosfera decadente, un’aura di nostalgica lussuria. Avverto una specie di sortilegio che unisce i corpi dei viventi a quello in marmo delle bianche statue. Scendo dal terrazzo nello spiazzo che ospita la vasca colta da una curiosità improvvisa. Giunta in prossimità delle statue, mi accorgo che sono state dipinte in nero. Con mia sorpresa, mi avvicino ancora un po’ e mi accorgo con sgomento e meraviglia che le statue hanno una straordinaria, quasi incredibile verosimiglianza con la carne viva. Faccio qualche altro passo fino a giungere davanti alla prima statua, quella raffigurante un giovinetto, Dioniso. Il mio sguardo va d’istinto alla confluenza degli inguini della statua e, con mia sorpresa, mi accorgo della folta peluria che circonda il nero membro. Non è una statua, è un giovinetto in carne ed ossa, completamente nudo, quello che mi sta di fronte. E per giunta quello che credevo trattarsi di una dipintura in nero si rivela essere nient’altro che un negro vero e proprio; tra l’altro il membro del giovinetto ha proporzioni assolutamente invidiabili, per misura e dimensioni. “Uno scherzo di Sir Alex Ferguson?”, mi chiedo “o l’opera di uno scultore in vena di épater les bourgeois?”. Niente di tutto ciò, o forse sì, comunque sia mi sento visibilmente sorpresa ed eccitata alla visione di una nudità che non mi aspettavo, quand’ecco che da una siepe di bossi lì accanto sbuca fuori Sir Alex Ferguson con un ironico sorriso disegnato sul volto.
«Sapevo che la cosa l’avrebbe colta di sorpresa», mi dice senza alcun commento Sir Alex.
«Non sono affatto sorpresa», replico a mia volta senza mostrare la minima emozione «sono soltanto ammirata per la bellezza di questo magnifico corpo nero!».
«Se lo desidera può toccare la superficie di queste statue», mi dice Sir Alex «si comporti come se questi corpi non fossero viventi ma semplicemente statue inanimate. Tocchi, tocchi pure», insiste la voce insinuante dell’anfitrione, «non c’è poi molta differenza tra il verosimile e il vero...». Torno indietro, vado davanti al giovinetto Dioniso e gli tocco il membro, lo stringo nelle mani e quello diventa subito di dimensioni taurine, enormi; sono eccitata, mi inginocchio davanti agli inguini di Dioniso e gli lecco il membro. Massimo e Sir Alex mi guardano divertiti. Inghiotto quanto più posso la verga del giovane e la succhio, ormai non mi importa più niente di mio marito o di Sir Alex che mi stanno guardando, voglio solo godere di quello strumento del piacere e in brevissimo tempo lo porto all'eiaculazione: la statua viene abbondantemente nella mia bocca ed io non perdo una sola goccia del suo sperma caldo. Quando finisco il lavoro sono un po' inebetita, guardo i miei interlocutori visibilmente turbati. «Siete una donna straordinaria», mi sussurra Sir Alex, «la donna più bella e sensuale del mondo».
Io non so cosa sia accaduto in me, perché mi comporto con questa naturalezza, come se quella bizzarra situazione fosse una cosa del tutto normale. In quel frangente, sento uno scalpiccio di passi alle mie spalle. Mi volto, e scorgo mio marito, è visibilmente soddisfatto della mia insolita ipotiposi. Sir Alex non si perde d’animo e si affretta a condurmi dinanzi alla seconda statua: un gigantesco Ares dio della guerra, il corpo è ricoperto di una vernice marmorea. "È alto quasi due metri!", esclamo con il pensiero. Il dio tiene una mano appoggiata sull’orlo dello scudo ovale e l’altra ferma nell’atto di impugnare il gladio. È completamente nudo con un elmo scintillante; tra le armi della belligeranza, scorgo sotto il ventre muscoloso, un voluminoso membro ricurvo che giunge a metà coscia.
«Sir Alex, che significa tutto ciò?», chiedo con una punta di malizia.
«Nulla, significa semplicemente che l’ho scelta perché la ritengo, tra tutte le invitate, la donna più bella ed esigente. E competente in fatto di bellezza maschile».
Sir Alex pronuncia queste parole come se conversasse intorno a un argomento anodino e insignificante. Passato il primo momento di sbigottimento dovuto alla sorpresa, adesso posso affermare che trovo la situazione assolutamente singolare ma non provo alcun imbarazzo. Sono solo un po’ divertita, tutto qui. Ed incuriosita. Inoltre, la presenza di Massimo mi galvanizza. Vorrei confezionargli una sorpresa, qualcosa che lui non si aspetta. Mi avvicino al dio della guerra, distrattamente, tendo una mano e prendo ad accarezzargli il membro, soffermandomi in particolare sull’escrescenza del glande. Procedo con cautela, burocratica efficienza e perizia, guardo in volto Sir Alex Ferguson, noto che ha sempre quel sorriso ironico disegnato sul volto, allora, masturbo il negro con sempre maggiore energia, come se si trattasse di una faccenda burocratica, con apparente distacco, o come qualcosa che non richieda particolari sollecitazioni, quando d’un tratto, all’improvviso, colta da una voglia inespressa, mi inginocchio davanti al dio della guerra e prendo a baciarlo tra gli inguini e sotto i testicoli pelosi. «Dai, fai vedere al Signor Alex cosa sai fare con la tua bocca!», mi incita Massimo. È quello che volevo sentirmi dire. Prendo a succhiare il colossale membro del dio Ares guardando Sir Alex in viso, ma quello non batte alcun ciglio e si limita a sorridermi. «Sono così prevedibile?", mi chiedo nell'ombra di un pensiero. Mi rimetto in piedi sulle alte scarpe a spillo e lascio il membro del dio oscillare come un gigantesco flauto dai rami di un salice. Giungiamo davanti alla terza statua: il dio Priapo, un vero e proprio colosso di ebano che mostra un membro di sconsiderata larghezza ed altezza. "È già in stato di eccitazione!", penso meravigliata guardando tra le sue cosce.
Sono eccitata e divertita: mi trovo tra due uomini che attendono con curiosità di scoprire le mie emozioni ma non dò loro alcun motivo né alcun pretesto per indovinarle, preferisco concentrarmi sulle dimensioni del glande del dio Priapo. Giro intorno alla colossale statua del dio: ogni sua coscia ha una dimensione spropositata e, al centro di esse, oscilla una escrescenza di carne davvero smisurata, contemplo le dimensioni dei suoi lombi, dei muscoli a rilievo del bacino e del petto, sondo con tutte e due le mani la pelle della statua misurandone la consistenza e lo spessore. Mi comporto come se non esistesse nessun altro tranne me e il nero dio pagano che mi sovrasta in altezza, avverto come una forza misteriosa e tellurica insieme, una inclinazione, un clinamen che mi spinge verso quel membro misterioso che esplode tra le cosce della statua nera; noto una piega nel volto di Sir Ferguson afferro, di sguincio, un’espressione di meraviglia e di eccitazione in Massimo, c'è con lui una atmosfera di segreta alleanza e complicità, ciò mi rende ancora più libera, più leggera.
È strano non riesco a ricordare nulla di ciò che è accaduto, come se una istanza segreta abbia cancellato il seguito degli avvenimenti; non riesco a ricordare che cosa abbia fatto dopo che mi sono inginocchiata dinanzi al gigantesco sesso ricurvo del dio di ebano.
*
Ieri sera ho sentito Massimo che parlava sottovoce agli operai. Mi sono insospettita. Perché, che ragione aveva di parlare sottovoce?. Ho fatto finta di niente, mi sono comportata come se non avessi percepito nulla. Gli operai avevano appena terminato di costruire uno splendido acquario, accanto al comò e una parete della mia camera da letto tutta di specchio. Massimo aveva dato ordine di far proseguire lo specchio per tutte le stanze del mio appartamento; in pratica bisognava sostituire tutte le pareti divisorie fra il mio e il suo appartamento con uno specchio continuo sul quale io mi potessi sempre specchiare e ammirare. E sul quale sarebbe stata riprodotta la mia immagine senza soluzione di continuità, durante ogni attimo della mia vita quotidiana.
Non riesco ad immaginare quello che ha in mente Massimo. Ma qualunque cosa abbia in mente sarà certamente per il mio bene, per l’affinamento delle mie virtù. Quali?, ma naturalmente quelle di cui vanno orgogliose tutte le donne: il desiderio di poter ammirare nella propria immagine riflessa la propria bellezza. Sì, il fatto di vedermi sempre riflessa nello specchio, questa idea, dico, ha qualcosa di eccitante e di profondamente morboso. Non saprei esattamente se questa morbosità sia integralmente mia o l’abbia presa in prestito da mio marito; come se io fossi sempre inseguita da me stessa, come se la mia vita quotidiana si sdoppiasse di continuo. E anche il tempo. Io o la mia immagine riflessa? Qual è la vera Pentesilea? Io o lei?, è evidente che nel nostro rapporto coniugale c’è un fraintendimento. Crede di essere lui il più lussurioso, e invece sono io che lo guido, segretamente, in modo indiretto. Ad esempio, l’idea dello specchio gli è nata quando qualche tempo fa gli ho detto che avrei gradito che nel mio appartamento ci fosse un unico specchio in tutte le stanze per potermi permettere, in ogni momento della giornata, di guardarmi, di ammirarmi, senza la necessità di poterlo fare con il terzo incomodo: un uomo che mi guardasse a sua volta. Forse Massimo crede che lui che mi costringe a soddisfare le sue esigenze erotiche a prescindere dalle mie inclinazioni; che lui che mi costringe ai piaceri più raffinati e perversi dove mi trascina contro la mia stessa volontà; (devo ammettere che ho cercato in tutti i modi di dargli questa impressione). E invece le cose stanno esattamente all’incontrario: sono io che gli affido i miei pensieri più segreti, così, allo stato puro, e poi è sua competenza svilupparli in progetti, in realtà. Mi chiedo se nel suo intimo non mi sia ostile.
*
Massimo ha detto a Bruit di stare a mia completa disposizione; gli ha predisposto una stanzetta nei miei appartamenti pronto ad accorrere ad ogni richiamo di un campanello che si è premurato di farmi avere. Ha un suono argentino, un trillo acuto che echeggia per tutto l’abitato. L’altro giorno ero nella sauna ed ho fatto trillare il campanello. Così, per prova. Subito si è presentato il maggiordomo con la sua ridicola livrea a strisce azzurre. Perentoriamente, gli ho detto di spogliarsi e di fare la sauna insieme a me. Lui non si è fatto ripetere l’ordine, si è subito liberato degli abiti ed è venuto accanto a me. L’ho guardato a lungo, l’ho persino toccato con la punta delle dita, ho sfiorato con le dita le sue parti basse e l’ho sentito sussultare, non so se per il piacere o per l’emozione. Orripilante: ha la pancetta gonfia e, tra le minuscole gambette straordinariamente muscolose, ho intravisto il suo membro, le cui dimensioni contrastano singolarmente con la piccolezza del suo corpo deforme. Il membro si è eretto improvvisamente. Ormai fra di noi c’è un tacito accordo: lo lascio libero di guardare il mio corpo (a volte anche di toccarlo) ed io sono libera di osservare, con raccapriccio, il suo piccolo corpo deforme.
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Lo studio di Massimo è al di là della mia camera da letto. Non posso sentirlo ma posso intuire la sua presenza. In qualche modo misterioso indovino quello che sta facendo, se legge, se scrive o sta assorto nei suoi pensieri. E credo che lui provi la stessa cosa nei miei riguardi. Nello studio c’è sempre un silenzio assoluto, ma a tratti o forse è una mia immaginazione, il silenzio non è proprio silenzio, è come se lui trattenesse il fiato per concentrare i suoi pensieri nell’appartamento adiacente. Di solito, accade mentre io passeggio con i sandali dagli alti tacchi a spillo. Non credo che sia soltanto una mia immaginazione. Per quanto tenti di non far rumore, echeggia sempre il battito dei tacchi a spillo sul pavimento, un rumore secco che taglia il silenzio nel quale sono immersa, un silenzio percettibile, credo, anche al di là dello specchio, dove c’è lo studio. A volte, percepisco nitidamente il rumore dei suoi passi quando lui si alza dalla scrivania per andare a consultare qualche libro della biblioteca; altre volte, invece, non sento alcun rumore, e allora penso che sia assente dallo studio o che sia uscito.
Stamane, non so perché, avevo come la certezza che lui fosse al di là dello specchio. Ho preso la decisione: all’improvviso ho lasciato cadere a terra lo strettissimo kimono e sono rimasta completamente nuda. Poi ho fatto squillare il campanello ed subito arrivato il signor Bruit il quale se ne è rimasto in piedi davanti a me, impalato come un pesce colto all’amo. Ha soltanto mormorato: «comandi Signora», ed io gli ho risposto semplicemente di «tirare fuori dai pantaloni il membro». Con mia sorpresa (mi sorprendo ogni volta che rivedo il suo sesso), ha tirato fuori dalla divisa il membro in erezione. Gli ho ordinato di salire su uno sgabello, mi sono inginocchiata e mi sono trovata il suo fallo proprio davanti al viso. Gliel’ho toccato come si toccano gli attrezzi dei chirurghi, con perizia gli ho liberato il glande dallo scroto e l’ho masturbato
*
Sono le dodici e trenta del giorno. Ho dormito ininterrottamente da ieri sera. Ho suonato la campanella e subito è comparso il signor Bruit. Mi informa che mio marito è uscito di casa di buon mattino con la Chevrolet. Gli ho chiesto di portarmi del caffé bollente, così ho trovato la forza di alzarmi dal letto. Credo di star bene anche se ho un forte mal di testa. Mi sento languida e priva di forze. È una buona circostanza per ripensare a ieri sera. Che cosa è successo ieri sera?, anzitutto, perché mi sono ubriacata in quel modo indecente?, e poi davanti a quei due sconosciuti: ma chi erano quei due?; adesso che l’emicrania sta scivolando via ho degli sprazzi di ricordi. Mio marito aveva aperto una bottiglia di Courvoisier del 1956. Devo averne bevuto ben oltre ogni limite, perché per non farmi vedere ubriaca sono corsa al bagno a vomitare. Non so quanto tempo mi sia trattenuta al bagno, non saprei dire, forse mezzora o forse di più. Quando sono uscita dal bagno non avevo più nausea. Anzi, ero in uno stato di esaltazione. Avevo la mente un po’ annebbiata ma ero decisamente lucida: non so perché, ho recitato la parte di chi è ancora sotto l’influsso dell’alcool. Ricordo qualcosa qua e là. Sì, credo che quando sono entrata in bagno mi devo esser tolta i vestiti perché si erano macchiati del mio vomito, e così, quando sono uscita dovevo essere completamente nuda. Anche questo particolare lo ricordo in modo confuso. Dico «mi sembra» ma non ne sono completamente sicura perché tutto quello che è accaduto è come se fosse avvenuto in sogno. Non ho idea di quel che è successo dopo. Ricordo che mio marito mi ha detto di essere gentile con i due ospiti. Allora, ho fatto finta di essere ancora sotto l’influsso dell’alcool per mostrarmi più intraprendente. Mi sono sbalordita di sentirmi giungere all’acme del piacere più assoluto come non avevo mai provato prima. Sono stata presa dai due uomini, a loro piacimento, nelle posizioni che mi comandavano di assumere. Dove era mio marito?, era lì che scattava delle fotografie. Percepivo nitidamente i bagliori del flash che illuminavano la stanza immersa nella penombra. Ma il piacere era troppo intenso per indugiare su questi dettagli. Non avevo mai provato un’eccitazione simile. Finalmente avevo capito che mai fino a quel momento avevo conosciuto un piacere così vero e profondo. E l’avevo fatto con due estranei. Mentre mio marito scattava delle fotografie!
Ovviamente, quando più tardi mio marito è rientrato per il pranzo non ha fatto alcun cenno a quello che era accaduto la sera precedente, ed anch’io non ho detto nulla. C’è un tacito accordo tra di noi. Ritengo che mio marito voglia significarmi questo: che c’è un tacito accordo tra di noi, che il piacere che lui non mi può più dare lo posso prendere dagli altri uomini. Giusto. Legittimo. Del resto, credo che mi abbia sposata per questo.
Stamane i due uomini sono ritornati. Li ho visti entrare dalla porta di servizio. Per caso ero alla finestra in quel momento ed ho potuto assistere alla scena. C’era mio marito ad aspettarli. Adesso, ogni sera bevo cognac insieme a quei due signori. Loro reggono molto meglio di me l’alcool, e poi ne bevono soltanto alcuni bicchierini mentre io, al contrario, dò fondo alla mia inclinazione. Mi piace comportarmi in modo spregiudicato con gli uomini ma devo avere una giustificazione, seppur parziale: mi consegno alle braccia di Morfeo, non tanto da dover essere completamente ebbra ma per quel tanto che mi liberi dai freni inibitori, e allora avviene in me qualcosa di sconvolgente, mi sorge il desiderio di umiliare mio marito concedendomi alle voglie degli uomini. Loro credono che io sia ubriaca mentre invece sono padrona delle mie facoltà e perfettamente lucida, anche se la mente è un po’ offuscata. Così, mi libero da ogni reticenza e posso abbandonarmi ad ogni licenza. "Licenza", che parola è questa?, la riconosco?, è una parola che posso accettare?.
Non posso negare che ormai io sono una donna completamente libera, ciò avvenuto perché ho voluto restare fedele a mio marito. E come potevo restare fedele ad un uomo quasi del tutto impotente?, l’unico modo era appunto quello di concedermi ad altri uomini continuando a restare sempre al suo fianco. Del resto, non è questo anche il recondito desiderio di mio marito?. Sono convinta di sì.
IL GIOCO DELL’AMBIGUITA’
Stamane mio marito mi ha informato che aveva in serbo per me una sorpresa.
Ho sorriso e ho fatto spallucce.
Per un po’ mi ha spiato con la coda dell’occhio finché, con accento neutrale e curiale, mi ha ingiunto di indossare per l’occasione un abito nero di organza molto speciale, strettissimo, che mi fascia il corpo fino al collo e lo lascia ondeggiare mollemente.
Lì per lì, a quell’annuncio sono rimasta interdetta. Mi sono subito chiesta quale altra diavoleria Massimo avesse escogitato, ed ho pensato che probabilmente volesse mettermi in una situazione nuova e inattesa. Una nuova lezione, un nuovo esame che la sua allieva dovrà superare. Ormai è tanto tempo che tra di noi sono cessati i rapporti sessuali che non ne ho quasi più memoria. Potrei affermare che sono ritornata casta e verginale. Ma forse è proprio questo ciò che lui vuole, la sua strategia è chiara: vuole che io interrompa la mia forzosa castità con qualcosa di assolutamente inaspettato.
Un po’ turbata, sono rientrata subito nei miei appartamenti con uno strano presentimento. Ho convocato il maggiordomo agitando nervosamente il campanello che trilla con un singulto interrotto. Poco dopo fa la sua comparsa il maggiordomo: il minuscolo, ripugnante signor Bruit. Sono seduta alla toeletta con una vestaglia in garza trasparente, senza guardarlo e con aria annoiata, gli ordino di spogliarmi e di scegliere nell’armadio un perizoma adatto all’occasione per un incontro speciale. La sola cosa che mi ha chiesto Bruit: se l’incontro doveva svolgersi all’esterno o all’interno dei miei appartamenti, ed io ho risposto che no, che l’incontro ci sarebbe stato all’interno.
Esegue il comando senza indugio: mi spoglia nuda, mi chiede di distendermi supina sul letto con le gambe aperte. Chiedo all’omino di massaggiarmi con la lingua i punti cardinali del piacere; è il modo che prediligo per mantenermi eccitata in vista di un appuntamento particolare o un incontro erotico: Bruit deve limitarsi a sfiorarmi la pelle con le dita e a titillarmi con la punta della lingua sul collo, sotto le ascelle, i capezzoli e la clitoride. Una volta soddisfatta dei suoi leccamenti, mi rigiro, gli offro il retro del mio corpo dove può completare l’opera mordendomi dolcemente la nuca, le spalle, sotto le spalle, dardeggiarmi le ascelle, l’incavo delle reni fino a lambire il solco tra le natiche.
Ecco, come al solito, Bruit esegue il compito con burocratica efficienza, mi porta fin sull’orlo del piacere senza mai consentirmi di oltrepassarlo. O meglio: sono io che non gli consento di oltrepassare la soglia della mia visibile eccitazione.
E poi ha scelto con grande istinto l’abbigliamento per la sera: un reggiseno a balconcino di pizzo nero perfettamente trasparente ed una micro gonna sempre di pizzo, trasparente dietro la quale si profila un perizoma nero sottilissimo.
«È magnifico!», grido in preda all’entusiasmo.
*
Entro nel salotto rosso con quell’abbigliamento, visibilmente spaesata ed incuriosita. Con sorpresa mi accorgo che la sala è vuota, che non c’è nessun ospite e che mio marito, in un angolo del grande salone, è intento a fumare una sigaretta e a fare un solitario.
«Ti stavo aspettando», è la proposizione dichiarativa che mi accoglie.
«Credevo che già ci fosse la sorpresa e invece devo dedurre che la sorpresa sono io». Sono alquanto piccata per l’assenza del misterioso ospite; il mio coniuge si trincera dietro un impassibile silenzio.
Sono all’in piedi davanti a mio marito con un abbigliamento da escort di alto profilo. Lui mi osserva con vistoso compiacimento attraverso la lente del monocolo.
«Tutto chiaro», si limita ad interloquire. E poi: «sei pronta?».
«Sono pronta», rispondo.
Noto che Massimo si dirige verso la finestra, armeggia con il cordone del tendaggio scarlatto, e la tenda, come a teatro, inizia lentamente ad aprirsi… ed ecco che appare il corpo magro e nervoso, mirabilmente levigato di una donna nuda, straordinariamente sottile ma con un seno copioso. “È bionda come me”, mormoro tra me e me, “ed è bella come me”. La considero a lungo con lo sguardo, sempre più trasecolata, finché i miei occhi non incontrano la congiunzione dei suoi inguini. Anche Lei è all’in piedi ed ha le gambe divaricate. Calza dei sandali con i tacchi molto alti e, tra i suoi inguini, si staglia la dimensione di un muscoloso membro raggomitolato.
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Colui (o colei) che ha fatto ingresso nel salone somigliava in maniera incredibile a me. Dunque, io ero lì e Lei (o Lui) era lì, questo ho pensato in un attimo.
Ho sospettato che mio marito volesse prendersi gioco di me. Aveva introdotto questa bizzarra creatura dalla porta opposta rispetto a quella dalla quale ero entrata io e mi diceva: «Guarda, ti metto davanti quella persona che tu avresti dovuto essere!, ecco come dovresti muovere le mani, le braccia, molleggiare le anche e guardare il vuoto con aria trasognata!».
Nel mentre che i nostri occhi si incontravano, involontariamente devo aver tradito un moto di meraviglia. Lui (o Lei) non appare affatto sorpreso della nostra strabiliante rassomiglianza. L’ho osservato attentamente per lunghissimi istanti durante i quali ho scandagliato ogni minima piega del suo volto e del suo corpo. “Che bizzarra coincidenza!”, esclamo tra me e me mi accorgo che anche Lui (o Lei) indossa il mio medesimo aderentissimo abito di organza nero che le arriva fino al collo. Dopo quell’esame, decido che non mi somiglia poi tanto: ha dei lineamenti un po’ troppo netti e marcati che non avevo mai visto sul mio volto. Il mio volto?, sì, il mio volto. In quello stesso istante in cui partorisco questo pensiero mi chiedo quale sia realmente il mio volto (il mio o il suo?), e mi accorgo con raccapriccio che ho dimenticato a che cosa somiglia il mio viso, la persona che è all’in piedi davanti a me mi appare un altro me stesso, il doppio di un io immaginario (o reale?), un clone, perfetto e asimmetrico.
Di lì a poco, si apre la porta dalla quale aveva fatto ingresso Lui, e appare mio marito. Attendo qualche istante meditando su che razza di scherzo sia quello.
Nei giorni precedenti quell’incontro non avevo fatto altro che sognare di continuo: erano sogni che al mattino ricordavo a brandelli e a frammenti come se i singoli pezzi del puzzle mi sfuggissero da tutte le parti, come se mi sfuggisse l’insieme, come se il tessuto di cui erano fatti i miei sogni si fosse sfibrato in mille filamenti
Mio marito sta all’in piedi, a un passo di distanza dal mio sosia. Il suo silenzio è eloquente come lo squillo di cento fanfare.
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È accaduto quello che doveva accadere.
proprio così: ho scoperto di essere attratta irresistibilmente da un uomo in un corpo di donna. O, se preferite, da una donna che possiede un membro virile.
Dapprima, ho tentato di tergiversare, di prendere tempo perché non capivo l’origine di quell’attrazione, e l’ho rivestita dei panni dell’amicizia; per un po’ ho creduto ingenuamente che si trattasse dell’ammirazione che naturalmente tutti nutriamo per le creature belle e le cose belle, ma presto mi sono dovuta ricredere, non ho potuto più a lungo mentire a me stessa. Ho frugato nella mia anima, ho scandagliato in tutti i suoi recessi, anche i più riposti, mi sono sottoposta ad una spietata autoanalisi. «Ma come - mi sono chiesta - tu che ami gli uomini senza alcuna remora o ambascia, tu che ti sei sottoposta al culto di Priapo, proprio tu, creatura neopagana, sei ora attratta da qualcosa di estraneo, di ultroneo e di irriconoscibile, da qualcosa che non rientra né nel maschile né nel femminile, o meglio, che partecipa ad entrambe le nature senza essere né l’uno né l’altra Un ibrido. Una insolenza della natura!».
Ho la sensazione di aver smarrito la mia sicurezza, la mia identità; non sono più quella di prima, e mi rendo conto che d’ora in poi sarà qualcosa di diverso, di imprevedibilmente diverso. Che non sarò più quella di prima.
Per esempio, il suono della sua voce: così argentino e sottile, direi così femminile, mi sorprende sempre e mi scuote a fondo; non mi era mai accaduto prima.
Ho confessato a Massimo il segreto che porto dentro; gli ho detto: «sono attirata da Théodore e che non mi interessano più né gli uomini né le donne»; gli ho anche detto «che il mio amore è soltanto per Théodore, che non ho occhi che per lui».
Contrariamente alle mie aspettative, Massimo è rimasto imperturbabile, non ha mosso ciglio e si è limitato a sorridere, d’un sorriso enigmatico e sardonico, e mi ha detto che «non c’è da preoccuparsi, anzi, che era del tutto normale e prevedibile che mi sarei innamorata di Théodore». Frase enigmatica e sibillina. «L’ho introdotta in casa proprio per questo, affinché tu te ne innamorassi». Ha detto proprio così.
È strano che Massimo continui a parlare dell’ospite al femminile mentre io continuo ad alludere alla sua presenza usando il maschile.
Ho già un piede sospeso nel vuoto, e sento che presto ci metterò anche l’altro. Ho un bel resistere, sento che presto camminerò con tutte due i piedi in quella cosa che comunemente chiamiamo, con termine quasi sindacale, «vuoto».
*
L’aspetto inquietante è la straordinaria rassomiglianza tra Théodore e me. I suoi capelli sono color platino. Sembra l’imitazione perfetta della mia acconciatura: una frangetta le copre metà della fronte e i capelli a caschetto sulle spalle le donano uno squisito aspetto femminile. Ha la fronte alta, proprio come la mia (il che gli dà una vaga connotazione intellettuale), gli occhi sottili sormontano un naso diritto e minuscolo che contribuisce alla nitida visione delle sottostanti labbra carnose e voluttuose. Le spalle, dagli omeri sottili, anch’esse straordinariamente elastiche ed erette, aggettano su un seno copioso che ondeggia ad ogni suo passo. Direi che è straordinariamente bella e sensuale. Ma l’aspetto più inquietante di questa strana creatura riposa nella gentile rigonfiatura del suo basso ventre: un pube accuratamente depilato e una escrescenza muscolosa di dimensioni taurine che pende sospeso tra le gambe affusolate e levigate
Sono affascinata dalla maschilità della sua protuberanza che nasce in uno splendido corpo femminile. Il paradosso e l’ossimoro della natura innestati in un solo corpo.
Allora ho iniziato ad interpretare i suoi sogni e Lei (devo dire Lui?) faceva la stessa cosa: si faceva raccontare i miei sogni e li interpretava Ed io mi chiedevo: erano i miei sogni o i suoi?. Non riuscivo più a rammentare la differenza tra i miei e i suoi, non riuscivo a tirare una linea di demarcazione tra i miei e i suoi sogni; forse avevo veramente sognato i suoi sogni, e Lui aveva veramente sognato i miei stessi sogni.
A quel tempo Massimo prese a rimproverarmi:
«In questo momento il tuo sguardo è come il suo; perché non guardi come guarderesti tu?»; io ridevo sorpresa e meravigliata ma lui continuava:
«Ecco, così, bravissima. Non vi siete mai guardate allo specchio, voi due?, no?, e che cosa aspettate a farlo?»; e ci interrogava su quanto e chi di noi due resistesse a restare se stessa davanti allo specchio. Un giorno, mi chiese a bruciapelo: «Dimmi, Pente, sei sicura che quella che vedi allo specchio sei tu?».
Rimasi senza parole per lo spavento. In un’altra occasione, per dimostrargli che io ero io, presi con me un quaderno dove vi avevo appuntato dei pensieri che chiamavo poesie e gliene lessi qualcuna; ma con mio dispetto e meraviglia, anche quel tentativo rimase infruttuoso, come se Massimo realmente dubitasse della mia (e della sua) identità.
Cominciai a chiedermi: ero io l’ambigua?, o era Lei (Lui)?, ero io che somigliavo a Lei (Lui)?, o Lei (Lui) che somigliava a me?; oh, quante domande cominciarono a ronzarmi per la testa!. Cominciai a sospettare che tutta la mia esistenza non era stata altro che un cammino verso l’ambiguità, verso la perdita della mia identità.
Così, cominciai a capire che ciò che mi attraeva in lui era la sua ambiguità. Come una lente di ingrandimento potevo, attraverso di essa, osservare meglio la mia ambiguità, la mia identità (ambigua).
Cominciai a chiedermi: «che cos’è l’ambiguità?, che cos’è l’identità?».
*
Credo che gli dèi abbiano disposto altrimenti.
Sono profondamente convinta che noi siamo la creta in mano agli dèi. Che gli dèi siano i nostri unici e veri padroni e che duemila anni di morale cattolica siano stati nient’altro che una interminabile, obbrobriosa e vile menzogna, una mortificazione dell’anima e dello spirito.
A che pro’ la mortificazione del corpo, la macerazione della carne, la flagellazione?, a che pro’ il peccato e il senso di colpa?, a che pro’ il pentimento?, a che pro’ il mito della verginità?. In tutto ciò si nasconde il frutto diabolico di una gigantesca menzogna, il prodotto di un inquinamento della paganità originaria che ognuno di noi si porta dietro fin dalla nascita.
Mi sono innamorata di una bellezza in pantaloni e stivali, di una fiera Bradamante che disdegna le vesti del suo sesso per indossare preferibilmente abiti maschili.
Théodore è stata probabilmente un errore della natura, creata dalla natura con uno splendido corpo femminile ma con una imprevista e non trascurabile appendice maschile. La sua figura lascia palesemente trasparire una inquietante ambiguità. Ho scoperto di essere attratta dall’ambiguità. O meglio, anche dall’ambiguità. I lineamenti del suo corpo sono indiscutibilmente quelli di un corpo di donna, ma il suo spirito, incontestabilmente, sono quelli di un uomo. Ma un uomo particolare, che unisce in sé sia la bellezza muliebre che la bellezza virile.
È stata una scoperta tarda ma non tardiva. Qualcosa che giaceva al fondo della «scatola vuota» della mia anima, come una anamnesi, che mi guida verso la riva di un lago dalle acque stagnanti. È come se, giunta in prossimità dell’acqua, scoprissi l’immagine riflessa del mio volto, e i lineamenti del mio volto (quello vero) mi apparissero completamente differenti, irriconoscibili.
Théodore, questo il suo nome, indossa indifferentemente sia gli abiti maschili che quelli femminili. E non saprei affermare quale dei due abbigliamenti gli sia più familiare o confacente.
Non saprei dire quale delle due personalità mi attiri di più. Probabilmente, sono attirata da entrambe le versioni, maschile e femminile, che Lui (o Lei) manifesta. La proiezione maschile è forse quella che prediligo, perché contiene in sé, in un certo senso, anche quella femminile.
Théodore ha un corpo flessuoso, straordinariamente sottile, i fianchi sono poco pronunciati, quasi androgini e, quando cammina, le natiche rivelano sui lati una leggera impercettibile fossetta che le rende ancora più equivoche, ambigue ed irripetibili. Il suo dialogo, particolarmente scintillante e ricco di humour, rivela una intelligenza non comune. Ma anche i suoi silenzi sono significativi. Significativi della sua ambiguità. Le sue pause tra una parola e l’altra, mi inducono una profonda inquietudine.
Théodore stamane era vestito (o non dovrei più propriamente dire svestita?) con un abito di foggia virile ma i pantaloni erano attillati in modo insolito per un uomo, aderivano alle gambe e alle anche in modo, direi, indiscutibilmente femminile. Quando si è tolto (o tolta) la giacca ed è rimasto in camicia e cravatta nel salotto di casa, con una scusa mi sono allontanata furtivamente, sono andata ad ispezionare la sua giacca ed ho scoperto che al suo interno era cucita una fodera femminile, e che in direzione del petto la stoffa presentava come uno slargo, un non so che di capiente che le giacche degli uomini sicuramente non hanno. Ad un tratto, è entrato il maggiordomo Bruit con un vassoio di paste e del the bollente e lo ha deposto sulla tavola dove eravamo sedute Théodore ed io. Ho notato nello sguardo del nano una attenzione particolare nei riguardi dell’ospite. Mi chiedo se anche lui si sia accorto dell’inquietante presenza di quell’essere ambiguo e della sua stupefacente rassomiglianza con la sua padrona.
Non so come sia potuto avvenire ma tra me e Théodore si è subito instaurata una immediata simbiosi. Una istintiva solidarietà tra due nature affini, qualcosa che senti al tuo interno, che pulsa dentro la pelle ogni volta che mi avvicino alla sua persona o la sfioro con lo sguardo.
Théodore ha iniziato a raccontarmi la sua vita.
Da bambina giocava indifferentemente con i maschietti e con le femminucce. E presto il corpo cominciò a svilupparsi in una direzione inattesa e imprevedibile: possedeva il membro virile ma il corpo diveniva, giorno dopo giorno, sempre più manifestamente femminile, la pelle assumeva la morbidezza e l’adiposità tipiche del corpo femminile; cominciò a spuntargli un piccolo seno che poteva essere racchiuso in una coppa di champagne, e due piccoli e rotondi glutei vennero a svilupparsi su una schiena inarcata e su un vitino invidiabilmente esile. Istintivamente, la bambina Théodore veniva respinta sia dai maschietti che dalle femminucce le quali non lo riconoscevano, percepivano nella sua natura una stranezza, una diversità… e la bambina Théodore diventava sempre più solitaria e silenziosa e pallida.
Era tutto così strano. Un membro maschile in un corpo femminile. Un ermafrodita!
Ma era ancora troppo giovane per capire la sua vera natura. Era troppo giovane per comprendere quale fortuna l’avesse colpita. Possedere le due metà, la femminile e la maschile, in un unico corpo, poter fare l’amore sia con gli uomini che con le donne, entrambi i sessi avrebbero potuto trovare in lei ciò che cercavano, tutto quello che segretamente, senza saperlo, cercavano e poter esaudire tutti i segreti più incoffessati e incoffessabili.
Essere contemporaneamente le due metà della mela platonica, le due metà eguali e speculari!
Théodore la personificazione del mito platonico dell’androgino; Lei una specie di deità, che possiede tutta la ricchezza che a noi comuni mortali è interdetta. Lei, Théodore, l’oggetto di tutta la mia invidia e di tutto il mio amore.
Senza esserne consapevole, ben presto la mia esistenza cominciò a ruotare attorno alla sua persona. All’inizio, non ne ebbi il minimo indizio o sentore, ma a poco a poco, in modo sempre più evidente, ne divenni consapevole. Ormai non avevo occhi che per Lei. O per Lui, di grazia.
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Théodore è diventato il mio amante. Lei (o Lui) è il mio doppio. In Lei (o Lui) mi specchio. Considero una fortuna ineguagliabile essermi imbattuta nel mio doppio. Guardandola (o guardandolo), vedo più chiaramente dentro me stessa, vedo più chiaramente dentro l’imbuto della mia infanzia e della mia pubertà: mia madre bigotta che mi sospinge dentro una femminilità catafratta, che mi vuole ricoprire di indumenti anodini ed asettici. Vedo chiaramente come sia stato perpetrato scientemente il tentativo di distruzione della mia femminilità. Ma Théodore, da quale e quanta quantità di distruzione proviene?
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In verità, posso confessarlo, non ho mai amato nessun uomo e non ho mai amato nessuna donna. Tutti i miei sforzi si sono concentrati in direzione del mio narcisismo; se ho messo il mio corpo a disposizione degli uomini, è perché l’atto della compravendita del corpo è un contratto sinallagmatico che non contempla alcun coinvolgimento personale. In questo senso, la prostituta è una specie di santa, la prostituta sconosce il tradimento. La concessione del corpo è un atto soggetto soltanto alla legislazione di un contratto sinallagmatico. All’interno di quel contratto la prostituta è libera.
Adesso, tutto è chiaro: non avrei mai potuto amare né un uomo né una donna perché ciò che cercavo non si trovava né nell’uno né nell’altra; o meglio, cercavo l’uno e l’altra in un corpo solo. Ed ora l’ho finalmente trovato. Ho trovato il corpo del mio fantasma, un fantasma che mi ha abitato da sempre. Ora Lui è qui, mi parla, tocco il suo corpo. Esiste, non è una chimera. Non è un inganno.
Ma perché amo proprio un ermafrodita?. Ecco, ora ricordo, credo di aver trovato la risposta, perché tra le parole bianche che scorrevano sulla lavagna nera non c’era quella parola, quella parola era assente. Ed io mi sono innamorata di una assenza. Ora lo so: posso innamorarmi soltanto di una assenza, perché quella parola non è mai caduta sotto l’incudine dell’interdetto di mia madre che rivedo mentre bacchetta le mani a quella bambina gentile ed educata e che la rimprovera e la insulta In quella bambina mandata in castigo nella camera buia era stato deposto il seme della futura prostituta. Quale morbosità si è dunque sviluppata nell’anima di quella bambina?, chi mi ha infettato l’anima col veleno?.
Proprio così, amo un uomo col corpo di una donna. Per la prima volta sento di amare qualcuno più della mia stessa vita.
Stamane l’ho contemplato a lungo senza che si accorgesse della mia presenza. Ero nascosta dietro la tenda scarlatta e Lui era nudo alla finestra. Era così bello. Il suo sesso svettava sul magnifico corpo muliebre producendo in me uno strano singhiozzo di desiderio. Non ho avuto il coraggio di uscire dalla tenda, trattenevo il respiro per paura di far rumore e di farmi scoprire. I suoi occhi brillavano di uno splendore che i miei ignoreranno sempre nel suo naso perpendicolare riconoscevo con orrore una sinistra rassomiglianza con il mio naso
«Io lo amo», mi sono detta «non c’è nient’altro da aggiungere. Prima di incontrare Théodore ero simile a quegli orrendi idoli giapponesi che si guardano eternamente la pancia. Ero la spettatrice di me stessa, narcisisticamente riflessa sulla mia immagine, ed ero la platea della commedia che si rappresentava. Mi guardavo vivere. Non vivevo e ascoltavo le vibrazioni del mio cuore come fossero i battiti di un pendolo, il mondo esterno per raggiungermi doveva attraversare il denso filtro della lavagna nera, la barriera delle interdizioni di mia madre».
Credo di essere diventata invulnerabile, il mondo esterno non mi può più tangere.
Dopo che mi ero nascosta dietro la tenda per contemplare il corpo nudo di Théodore, sono scivolata via dal salone e mi sono ritirata nel corridoio che separa i tre appartamenti della nostra dimora: l’appartamento della servitù, quello degli ospiti e quello abitato da me e da Massimo.
Ero completamente nuda con uno swaroski sull’ombelico, calzavo degli alti sandali di stoffa bianca. Deambulavo avanti e indietro lungo il corridoio nella speranza di incontrare Théodore, quando è accaduta una cosa inaspettata e incomprensibile: d’improvviso mi sono sentita vuota, ho avuto la netta sensazione che io non ero io (che io ero lui?); la netta percezione della mia inesistenza, anzi, la certezza della mia inesistenza. Lo so che è un pensiero assurdo, lo so che a raccontarlo rischierò di esser presa per folle ma è la pura verità. Per un istante, ho avuto la certezza assoluta che io fossi inesistente, che il mio corpo sodo in realtà fosse soltanto una mera parvenza, un involucro vuoto, una finzione, una entità sottilissima come una bolla di sapone e che lo spazio tridimensionale entro il quale mi muovevo, respiravo e gridavo, non fosse altro che una sottilissima pellicola unidimensionale oltre la quale, a sinistra e a destra, erano sospesi gli abissi di un’altra dimensione che circondava da ogni lato la mia risibile, minuscola dimensione tridimensionale
Per un istante, un lunghissimo istante, ho provato una angoscia smisurata, vasta come un mare e intollerabile.
*
La mia anima è una scatola vuota. E una lavagna nera. C’è ancora mia madre da qualche parte, nascosta in un angolo della mia coscienza, che mi osserva con raccapriccio e disgusto e scrive con il gessetto sulla lavagna le parole proibite: copula, fallo, pube, culo, cosce, sodomia, fellatio etc. Da qualche parte c’è ancora la «scatola vuota» che mia madre metteva accanto alla lavagna quando ero bambina. Questa «scatola vuota» che io chiudo con un piccolo coperchio. Se provo ad agitarla: dentro tutto è silenzio. Un perfetto silenzio. Se provo ad aprirla: non ci trovo nulla dentro. «Meno male», mi dico. Ma è proprio così?, mi affretto a chiuderla con il piccolo coperchio, e la scuoto, la agito. Ma niente, ancora silenzio. Mi affretto ad aprirla di nuovo. «Meno male», mi dico, proprio così, «c’è soltanto silenzio». E così finalmente si svela il niente che la scatola contiene. Non c’è nulla dentro. Nulla di nulla. Né dio né il diavolo. «Meno male», mi dico, «ma è proprio così?».
*
Stanotte ho sognato che io ero Teseo. O forse no: io ero Arianna che attende che il suo Teseo (Théodore!) torni vivo dal Labirinto. Adesso, Teseo è entrato nel Labirinto, in una mano ha la spada e nell’altra tiene una cordicella, e più la tira più quella si allunga. Lui non sa dove va. Avanza a tentoni, brandendo la spada. Ha gli occhi ciechi, vede soltanto muri bianchi. Ma il Minotauro che lui cerca non c’è, è andato via, ha traslocato da qualche altra parte.
Adesso Teseo è prigioniero dentro le pareti bianche della sua anima, da dove nessuno lo potrà scacciare.
Adesso io sono ridiventato Teseo. Io sono Teseo. Io sono quella «scatola vuota». Sono vuota dentro perché l’eros è al di fuori di me, dentro di me non c’è nulla. Se agito quella scatola, dentro non c’è nulla, proprio nulla. L’eros è il senso, la direzione. L’eros è il filo di Arianna. Non c’è altro senso al di fuori dell’eros.
*
Stanotte ho sognato che io ero un cigno.
Osservate il nobile cigno che incede con passo diafano e regale. Ha il collo tortile e leggero e le rigide zampe lo spingono in alto. È bello e perfetto e regale ma non spicca il volo. È incapace di volare e le sue ali sono pesanti.
Io sono quel cigno bianco. Quando il cigno incede, la sua bianchezza consuma tutta la luce dell’atmosfera, che diventa tenebra, si raggomitola e si rifugia dentro quella scatola vuota. Nella scatola vuota c’è la tenebra, che un tempo fu luce. Quando la scuoto e la agito, la tenebra che sta nella scatola vuota si ispessisce e diventa pesante, pesante, e cade in basso, sempre più in basso dentro la scatola vuota della mia anima
La più grande esperienza della mia vita stata la patologia del mio rapporto con il Signor Bruit. Era orribile scoprire come il suo volto raccapricciante e il suo corpicino deforme mi eccitassero. Théodore, invece, fa parte della fase apollinea della mia esistenza, appartiene alla fase della guarigione dalla mia malattia; se non fosse arrivato lui (lei) nella mia vita, sarei stata preda di quello schifoso nanerottolo.
Davvero, per diventare signore della propria felicità come della propria infelicità, è necessaria la scuola più severa, l’infelicità, la malattia. Altrimenti non ci sarebbe il piacere sulla terra, e neanche estasi, giubilo, ebbrezza.
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Ho vissuto per anni, secoli, millenni all’interno della Città del Sole. C’era solo luce e silenzio. Non saprei proprio dire quanto tempo abbia trascorso nella città trasparente... senza vedere mai un volto, sentire una voce umana; confondere il mattino con la notte, e viceversa, confondere l’occhio con l’orecchio, confondere tutti i sensi privi del loro nutrimento naturale, del loro cibo quotidiano qual è il mondo: la terra, le cose, gli spigoli taglienti... ho vissuto nel buio oceano del silenzio come un palombaro all’interno della campana del mare e del silenzio marino; niente da fare, niente da sentire e niente da vedere... ero circondata dal vuoto, dal nulla (che cosa orribile la luce eterna!), totalmente priva di spazio e di tempo, abbandonata ad un tempo vuoto e uniforme... aspettavo, aspettavo... pensavo, pensavo... finché non mi scoppiavano le meningi... aspettavo che si aprisse una porta di cristallo e da lì entrasse un corpo umano, una cosa pesante, una fiera!... insomma qualcosa o qualcuno in carne ed ossa... iniziai a torturarmi al pensiero che non venisse mai più nessuno a salvarmi... come Telemaco abbandonato sull’isola deserta con la sua ferita sanguinante... iniziai ad invocare per me una fine ingloriosa e tenebrosa...
Dentro di me si muove un gancio di ferro con la punta acuminata e arrugginita. È appeso al soffitto e oscilla. Sta lì chissà da quando, e chissà perché. Lasciato chissà da chi e a che scopo. Sta appeso così. È un gancio davvero pauroso. Speravo davvero che non dovessi mai provare il suo taglio lacerante. Ma adesso il gancio sale e scende, sale e scende e lacera le mie carni dal di dentro. E tossisco di dolore ed urlo.
Ma adesso desidero soltanto vedere me capovolta e quel gancio che sta lì, al quale non c’è proprio nulla da appendere tranne le mie carni, le pareti della mia anima dove si agita il nulla.
«Ma proprio così?, tutto qui».
«Ma proprio così?, tutto qui».