Poesia dell’Avvenire? di Giorgio Linguaglossa – L’Antologia Il pubblico della poesia del 1975 – Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica – Una intervista del 1979 ad Alfonso Berardinelli – Berardinelli: a proposito della ristampa della Antologia Il pubblico della poesia con l’editore Castelvecchi 

Giorgio Linguaglossa
Giorgio Linguaglossa

Anni Cinquanta-Settanta – La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’Avvenire

Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Novecento», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una Poesia del prossimo futuro se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Novecento», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.

«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che metta in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, qualcosa che ci induca a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’«impensato»? Che cos’è l’«impensato»?

Mi sorge un dubbio: che idea abbiamo della poesia del Novecento? Come possiamo immaginare la poesia del «Presente» e del «Futuro» se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di «Ieri»? Che cosa è stata la storia d’Italia del primo Novecento? E del secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quale poesia portare nella scialuppa di Pegaso e quale invece abbandonare? Che cosa pensiamo di questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?

Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose. Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che portiamo con noi, e su ciò che dobbiamo abbandonare alle tarme.

Giorgio Linguaglossa
Pier Paolo Pasolini

Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica

È proprio negli anni Cinquanta che l’unità metrica, o meglio, la metricità endecasillabica di matrice ermetica e pascoliana, entra in crisi irreversibile. La crisi si prolunga durante tutti gli anni Sessanta, aggravandosi durante gli anni Settanta, senza che venisse riformulata una «piattaforma» metrica, lessicale e stilistica dalla quale ripartire. In un certo senso, il linguaggio poetico italiano accusa il colpo della crisi, non trova vie di uscita, si ritira sulla difensiva, diventa un linguaggio di nicchia, austera e nobile quanto si vuole, ma di nicchia. I tentativi del tardo Attilio Bertolucci con La capanna indiana (1951 e 1955) e La camera da letto (1984  e 1988) e di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), saranno gli ultimi tentativi di una civiltà stilistica matura ma in via di esaurimento. Dopo di essa bisognerà fare i conti con la invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica. Indubbiamente, il proto sperimentalismo effrattivo di Alfredo de Palchi (Sessioni con l’analista è del 1967), sarà il solo, insieme a quello distantissimo di Ennio Flaiano, a circumnavigare la crisi e a presentarsi nella nuova situazione letteraria con un vestito linguistico stilisticamente riconoscibile. Flaiano mette in opera una superfetazione dei luoghi comuni del linguaggio letterario e dei linguaggi pubblicitari, de Palchi una poesia che ruota attorno al proprio centro simbolico. Per la poesia depalchiana parlare ancora di unità metrica diventa davvero problematico. L’unità metrica pascoliana si è esaurita, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1956). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana cercherà altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni formali e linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato sarà lo smarrimento, da parte della poesia italiana di qualsiasi omogeneità metrica, con il conseguente fenomeno di apertura a forme di metricità diffuse. Dagli anni Settanta in poi saltano tutti gli schemi stabiliti. Le istituzioni letterarie scelgono di cavalcare la tigre. Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà, il risultato terminale dello sperimentalismo, e Montale nel 1971 Satura, il mattone iniziale della nuova metricità diffusa. Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.

Resisterà ancora qualcuno che pensa in termini di unità metrica stabile. C’è ancora chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Ma si tratta di aspetti secondari di epigonismo che esploderanno nel decennio degli anni Settanta.

Giorgio Linguaglossa
Ubaldo de Robertis

l’Antologia Il pubblico della poesia del 1975

Nel 1975 Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli danno alle stampe l'Antologia Il pubblico della poesia che fotografava una situazione di entropia della poesia. Ci si avviava ad una pratica di massa della poesia. Ci si accorse all’improvviso che il numero dei poeti era cresciuto in maniera esponenziale, arrivava a numeri ipertrofici. Si era in presenza di un nuovo costume letterario: la teatralizzazione della poesia, la visibilità e l’auto promozione pubblicitaria.

Tra i poeti di allora, riconosciamo: Dario Bellezza, Dacia Maraini, Patrizia Cavalli, Elio Pecora, Eros Alesi, Adriano Spatola, Sebastiano Vassalli, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Renzo Paris, Valentino Zeichen, Nico Orengo, Vivian Lamarque, Giorgio Manacorda, Milo De Angelis, Paolo Prestigiacomo, Maurizio Cucchi, Attilio Lolini, Franco Montesanti, Gregorio Scalise.

Un questionario di dieci domande era rivolto ai poeti. Le risposte non brillavano se non per noia perché gli intervistati cercavano la battuta intelligente, dare risposte originali alle domande più semplici. L’Antologia era divisa nelle seguenti sezioni “Lo scrivere non fa sangue fa acqua”; “La gente guarda e tace, entra al supermercato”; “Si racconta nelle mille e una notte, nel capitolo della leggerezza”; “Come credersi autori?”

Così Berardinelli in una intervista del 1979 pubblicata su “Il Messaggero” stigmatizzava questo nuovo costume letterario:

«Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti».

Ad una domanda di Sandra Petrignani ad Alfonso Berardinelli intorno alla «diffusa tendenza a teatralizzare la poesia» iniziata  negli anni Settanta, così rispondeva il critico romano: «Sì, ma non la condivido, perché non serve che alla moltiplicazione giornalistico-mitologica di quello che è avvenuto, rito di puro cannibalismo. Né la poesia si è venduta di più perché le platee erano affollate: i piccoli editori lo sanno bene. Tra bassa mitologia e distruttività molte delle manifestazioni poetiche di impianto grosso modo teatrale si fondano sul presupposto che la presenza e il gesto sono tutto, la lettura e il testo nulla. Ma il testo poetico, lo si voglia o no, è costruito in modo da richiedere per sé una focalizzazione, un supplemento speciale di attenzione. Certo questa può essere considerata, rispetto a altri tipi di discorso, una bella pretesa anti democratica…».

E sul problema della «riconoscibilità di un poeta», così si esprimeva il critico:

«Assolutamente no. L’autore continua a non essere riconosciuto dal nuovo pubblico: incontra aggressività, sordità, diffidenza. Ma forse proprio per questo i giovani autori relativamente affermati hanno cominciato a darsi un gran da fare, temono di perdere la loro buona occasione, hanno paura che passino troppi anni senza che intorno a loro si sia stabilito il loro ruolo, la loro immagine sociale. Il fatto è che non può obiettivamente stabilirsi. Perché un autore, una generazione di autori, indipendentemente dalla qualità di quello che scrive, abbia un’identità storica, uno spazio, un riconoscimento, è necessario che la società  stabilizzi la propria figura complessiva, organizzi con un minimo di stabilità i propri ambiti e settori di attività e di vita, proietti di fronte a sé una qualche prospettiva. Tutto questo in Italia non avviene».

http://www.castelvecchieditore.com/spirale/scritture/estratti/pubblico_poesia.html

Giorgio Linguaglossa
Boris Pasternak

«Cominciando dall’inizio» di Alfonso Berardinelli

(a proposito della ristampa della Antologia Il pubblico della poesia con l’editore Castelvecchi)

 Quando uscì, nel 1975, Il pubblico della poesia non era un libro di cui potessi essere fiero. Era un libro nostro, ma anche un libro collettivo, che in un certo senso si era fatto da sé. Noi curatori ne avevamo solo propiziato la nascita. Le idee che ci avevano guidato mi sembravano, naturalmente, abbastanza giuste. Rifiutandoci di fare un’antologia “di tendenza” e cercando invece di capire e di documentare un fenomeno culturale nuovo e imprevisto, andavamo però contro le aspettative non solo della generazione precedente ma anche della nostra. Avanguardisticamente (e secondo un’idea troppo militante dello stesso Benjamin) era ancora diffusa in quegli anni la convinzione che in letteratura e in ogni arte contasse soprattutto la tendenza e non il prodotto finito. Tutto il merito doveva consistere nell’essere più avanti o più indietro nel cammino progressivo della Storia.

Anche se nessuno voleva essere storicista, a me quella sembrava una superstizione storicistica come le altre: solo che alla lotta fra progresso e reazione che aveva caratterizzato la vecchia sinistra, la nuova sinistra aveva sostituito il conflitto fra “avanzato” e “arretrato”, fra avanguardia e retroguardia, nell’illusione di battere il Capitale Sviluppato sul suo stesso terreno. Anche gli artisti e gli scrittori avrebbero dovuto correre e mettersi al passo, come se il tempo nel quale ogni esperienza avveniva fosse unitario, lineare e omogeneo.

Era un modo, mi pareva, per rendere l’arte tautologica e superflua, omologandola alla Storia. Una Storia tra l’altro di cui ci si illudeva di conoscere in anticipo la logica di sviluppo. Invece il bello della letteratura e soprattutto della poesia per me era soprattutto nelle sue discronie e disomogeneità, nel suo mostrare la Storia più come multiversum che come universo intellettualmente dominabile. Così Cordelli ed io facemmo un’antologia che accettava di accogliere una pluralità di tendenze e che si apriva a stella in direzioni diverse.

E tuttavia il libro in sé non riusciva a convincermi.

Ma perché avrebbe dovuto? Come ho già detto, sembrava essersi fatto da sé e io non volevo diventare il portavoce e promotore della mia generazione. Quella che avevamo registrato nel corso della nostra inchiesta era indubbiamente una realtà letteraria che emergeva in quegli anni. Ma tutti quei poeti mi interessavano poco e il fatto che l’autocoscienza storica in molti di loro diminuisse, da un lato mi dava il senso di aver scoperto un fenomeno nuovo e dall’altro mi lasciava indifferente. Anni dopo capii che nella nostra antologia-inchiesta prendeva corpo una situazione della poesia che si sarebbe rivelata tutt’altro che transitoria. Tutti i tentativi successivi di chiudere in un progetto ideologico-editoriale, in una poetica, in un canone minimo di autori quella preoccupante pluralità centrifuga degli anni Settanta si sarebbero rivelati tentativi ingenui o astuti, ma soprattutto inefficaci e fuorvianti. Per tutti i venticinque anni successivi in realtà non si è riusciti a capire che cosa fosse diventata la nuova poesia italiana.

Noi intanto nel 1975 avevamo messo da parte l’equivoco che aveva permesso ai Novissimi di avere tanto successo: credersi ancora avanguardia e fingere di vivere mezzo secolo prima. Proporre se stessi come la soluzione più avanzata del problema dell’arte era un gioco che ancora piaceva molto, prometteva di fare un certo scalpore e ovviamente gratificava parecchio gli autori. Credersi più moderni e più attuali di ogni altro dà senza dubbio qualche soddisfazione e infatuazione. A rischio di non avere successo e di sconcertare i lettori, noi però scegliemmo di andare nella direzione opposta. I poeti della mia generazione erano non meno bravi dei molti che nel decennio precedente erano stati pubblicati con l’etichetta del Gruppo ’63. Ma non si nutrivano di idee.

C’era in loro una notevole naïveté, che se da un lato li preservava dai guai di credersi garantiti da teorie e ideologie, dall’altro li faceva spesso sembrare sprovveduti, poco consapevoli di se stessi e del mondo.

Dovendo descrivere questa situazione e questi fenomeni, mi convinsi che la sola cosa possibile era teorizzare non una tendenza, ma la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni. L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagées sia gli avanguardisti. Era vero invece che nessuna situazione storica dell’arte è definibile a priori in termini di autocoscienza politico-teorica, ma che questa definizione si può ottenere (in termini comunque non univoci) solo a posteriori, leggendo gli autori che pur vivendo negli stessi anni scrivono ognuno a modo suo. L’ambivalenza che è stata subito notata nel mio saggio introduttivo. Effetti di deriva esprimeva appunto i miei dubbi, anche se nel gergo teoricistico di allora. I poeti della mia generazione erano manifestamente più liberi di andarsene ognuno per la sua strada: ma questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica (e da molti suoi eccessi soffocanti e sofistici).

Giorgio Linguaglossa
Helle Busacca

Si poteva fare di tutto in poesia: inventare e ritrovare soluzioni formali moderne, premoderne, manieristiche, neoclassiche, colloquiali, di esibito esoterismo o di smaccato autobiografismo. Questo era indubbiamente (come si disse più tardi) “postmoderno” e faceva sentire più liberi di essere quello che si era senza la costrizione di adeguarsi ad un super-io ideologico o formalistico. Questa inedita libertà creativa, però, avrebbe richiesto una capacità di autocontrollo critico perfino superiore a quella che si era vista in passato. Invece avevo il sospetto che anche quando scrivevano poesie migliori di quelle di Sanguineti, Porta e Balestrini, i poeti de Il pubblico della poesia sapevano meno chiaramente quello che facevano: lo facevano a volte benissimo, ma più a caso. Come autori erano poco strutturati. Per questo proposi di intitolare l’ultima sezione dell’antologia "Come credersi autori?".  L’intenzione era questa: indicare che i poeti più intelligenti conservavano un congruo scetticismo sulla figura pubblica dell’autore, sulla figura mitica del poeta, ma anche sulla figura professionalmente produttiva del poeta “in carriera”. Essere poeta era secondo me un rischio anche maggiore che in passato. I fatti lo hanno confermato. I critici e gli editori da allora in poi hanno lasciato to i poeti a se stessi. A volte li hanno del tutto trascurati, altre volte li hanno consacrati un po’ a caso.

Il risultato è che oggi, quasi trent’anni dopo la pubblicazione di questa antologia, invece che pluralità e compresenza di tendenze, c’è piuttosto una vera e propria confusione critica. Con gli anni Ottanta si è formato un “piccolo canone” comprendente una decina di autori, ma questo è avvenuto non perché un certo numero di critici fossero al lavoro e si discutesse della qualità dei testi. È avvenuto per decisione editoriale o perché alcuni autori mostravano di avere un talento autopromozionale più spiccato di altri. Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti.

Riproporre oggi Il pubblico della poesia può perciò avere un significato: ricominciare dall’inizio della vicenda, riaprire il discorso sui poeti venuti dopo Amelia Rosselli e Giovanni Raboni, invitare la critica a riflettere se i poeti favoriti dall’editoria a partire dagli anni Ottanta sono ancora da leggere e se, una volta letti, dicono davvero qualcosa. Se la nostra antologia ha avuto una “funzione storica” credo che sia stata nell’indicare che la situazione del fare poesia era cambiata, che il pubblico era ormai prevalentemente composto da poeti reali o potenziali, che il rischio consisteva appunto in una crescente autoreferenzialità di questo genere letterario.

Giorgio Linguaglossa
Letizia Leone

In quel momento i miei personali dubbi erano messi in ombra e ritenuti antipatici a causa di un generale ottimismo sul “ritorno della poesia” dopo gli eccessi della politicizzazione. Ricordo che questo ottimismo era condiviso in particolare da due scrittori autorevoli (e quasi due fratelli maggiori) come Enzo Siciliano e Giovanni Raboni, che parlarono dell’antologia come di un evento letterario originale e liberatorio. Ma anche Franco Fortini apprezzò il nostro tranquillo rovesciamento dei criteri neoavanguardistici, parlò dell’antologia in un articolo sul «Times Literary Supplement» e concluse il suo libro I poeti del Novecento (Laterza, 1977) con una citazione dal mio saggio introduttivo.

Qualche anno dopo, Pier Vincenzo Mengaldo, nel suo Meridiano Mondadori sui Poeti italiani del Novecento, pur fermandosi ad Amelia Rosselli, Giovanni Raboni e Franco Loi, indicò tuttavia che Cordelli e io avevamo offerto un’«ottima» guida per orientarsi nei labirinti della poesia più recente.

Quello che a distanza di tempo si vede anche meglio è che gli autori de Il pubblico della poesia, più che essere accomunati da scelte stilistiche, condividevano una certa euforia creativa, che i movimenti politici, dopo il ’68, da un lato tendevano a reprimere e dall’altro esaltavano. Così quello della nuova poesia sembrò (e volle essere) un altro “movimento”, o un settore del più generale e sempre più caotico movimento anticapitalistico che nella seconda metà degli anni Settanta annegò nel terrorismo. Quello che tutti i poeti della mia generazione cercavano era un nuovo pubblico, un pubblico allargato, perfino di massa, capace di liberare la poesia dalla vergogna di essere un ghetto elitario, una conventicola di individualisti incapaci di comunicare con tutti. In realtà la sola cosa che veniva comunicata a quei “tutti” che affollavano le letture di poesia era la voglia di fare tutti poesia, di produrla in proprio invece che leggere e ascoltare quella scritta da altri, da quegli individui speciali che pretendevano di essere loro e solo loro poeticamente creativi.

La poesia divenne più il pretesto per speciali happening e performance teatrali d’avanguardia e di massa che non un fenomeno propriamente letterario. Quel nuovo pubblico della poesia non era un pubblico di lettori, ma di ascoltatori impazienti e inquieti che avrebbero voluto salire loro sul palco piuttosto che starsene ad ascoltare con attenzione la lettura di testi composti da poeti veri o presunti. In quegli anni alcuni cominciarono ad agire perciò su due piani: da un lato si fingeva di accettare e approvare l’ideologia o mitologia di una creatività diffusa e di una poesia per tutti fatta da ognuno e da tutti, dall’altro si lavorava a correggere quell’onestà inconcludente e alquanto autodistruttiva che aveva portato Cordelli e me a registrare pluralità e caos, vitalità, illusioni ed effettiva originalità (anche sociologica e culturale) dei nuovi poeti. Alcuni cercarono di inventare gruppi e tendenze perché solo così (secondo quanto indicava la tradizione novecentesca) si poteva rendere visibile e promuovere un qualche manipolo di autori. Come si è visto più tardi con i Pulp o Cannibali, i gruppetti e le etichette offrono dei vantaggi, aiutano i critici e i compilatori di manuali a fornire informazioni veloci e maneggevoli. Dal nostro Il pubblico della poesia invece si potevano ricavare più dubbi e problemi che soluzioni. La cosa che più mi interessava allora non erano tanto i singoli poeti che antologizzammo, né i sottogruppi e le categorie stilistiche in cui potevano essere sistemati, quanto la strana e irripetibile atmosfera di quegli anni. Finiva il Novecento, si scioglieva il nodo che aveva legato poesia e Storia, la tradizione della modernità si interrompeva, non c’erano più davanti a noi direzioni di marcia né opzioni letterarie storicamente più fondate di altre, il pubblico prometteva di allargarsi enormemente mentre in realtà si restringeva: scrivere poesie sembrava una straordinaria avventura esistenziale e in realtà era diventato un rischio editoriale e culturale forse anche più temibile che in passato.

I tempi da allora sono davvero cambiati. Se dovessi fare un’antologia oggi… ma che dico? L’ho già fatta: è contenuta nel saggio uscito quattro anni fa nei volumi di aggiornamento 1985-2000 alla Storia della letteratura italiana, Garzanti. Da aggiungere non ho altro, per il momento. Quella è l’introduzione alla mia antologia poetica di oggi.