Jason Langer, Mannequins, 1993
Gino Rago
Decima Lettera a E. L.
[il bacio]
Cara Signora Jolanda W.
Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta].
Il mio amico* pensando all’altro amico [che ha lasciato Roma]**ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
Musica, pausa, parola, silenzio. Linguaggio senza lingua
o immagini sfocate dell’ “Io” sopraffatto?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale»
* il mio amico è Giorgio Linguaglossa
** l’altro amico [che ha lasciato Roma] è Steven Grieco-Rathgeb
Lucio Mayoor Tosi
Mi collego a quanto rilevato da Rossana Levati, ai versi
“mi soffiava il maestrale attraverso / una fessura nel torace”… “ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio”; perché questi versi mi parlano di un disagio, di una malinconia, o forse peggio di una pesante tristezza sottoposta a cura:
“ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi (…)
Steven Grieco è tra gli autori NOE quello che maggiormente si occupa dell’aspetto ontologico di questa ricerca. Il suo frammento lungo, meditato, che si dà tutto il tempo che serve, io spero possa servire da esempio, per scongiurare il pericolo che l’uso frequente del punto possa volgere nella direzione di un passo troppo regolare… Voglio dire che le immagini, penso tutte, abbiano come un loro respiro – oh, questa poesia ne è piena – alcune passano rapide, altre si soffermano.
A me ha colpito il verso, già evidenziato da Chiara Catapano, di “quei promontori guarderebbero solo se stessi”, preceduto ma con altro significato da “Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri / quei promontori che nel silenzio guardano se stessi”.
Vi ho sentito senso di estraneità, quasi un Che ci sto a fare qua. Il che mi ricollega alla ferita descritta inizialmente. E alla cura che sempre la natura sa darci, quando depositiamo le nostre domande e semplicemente stiamo.
Tomas Tranströmer
Aprile e silenzio
La primavera giace deserta.
Il fossato di velluto scuro
serpeggia al mio fianco
senza riflessi.
L’unica cosa che splende
sono fiori gialli.
Son trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.
L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
[da La lugubre gondola, Rizzoli, 2011
Traduzione di Gianna Chiesa Isnardi]
Analizzando questo concentrato, denso testo di Tranströmer, che per me e per la mia ricerca di poesia è il traguardo, è [difficilissimo da toccare] il modello poetico esemplare, è facile notare che l’autore de La lugubre gondola si affida a una parola poetica essenziale, concentrata, evocativa, metafisica e con questa parola, non con altre parole, tenta l’immersione nella contemplazione del paesaggio naturale che nel poeta si fa specchio di quello dell’anima, [ecco lo specchio che in altra forma fa ritorno… ], percependo fra sé e il paesaggio stesso un nuovo ordine. Dice la Chiesa Isnardi “[…] Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…” E poi continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in me ha fatto scattare il guizzo dell’accostamento persuaso al nuovo corso della poesia lanciato da Giorgio Linguaglossa, proprio con Tomas Tranströmer come altissimo modello, come faro cui indirizzarci adottando il nuovo corso poetico:”[…] La poesia così diventa “meditazione attiva” in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato; una poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto…”.
Estraggo ed evidenzio:
La poesia come meditazione attiva…
Charles Simic si muove magistralmente proprio in questa scia e lo stesso dicasi per Ewa Lipska. Al di fuori di questi tre per me maestri assoluti di poesia contemporanea non sento alcun risucchio, nessuna vertigine negli abissi della parola, anche se rimane il rispetto assoluto per la fatica che è sempre dentro e dietro qualunque esperienza poetica.
La poesia della NOE deve essere Poesia della meditazione attiva.
[Se i miei bronchi fossero in grado di lavorare come vorrei anziché come capricciosamente stanno facendo da qualche settimana a questa parte, mettendomi non di rado in quella pena nota come ‘fame d’aria’ come Giuseppe Talia magistralmente l’ha definita, potrei dare forse altri contributi, ma non sempre ho la forza per ora per poterlo fare ].
(Gino Rago)
da sx Giorgio Linguaglossa, Lidia Popa, Sabino Caronia, Roberto Piperno, Roma, 2018
Una poesia inedita di Lidia Popa
Anche a questo funerale mancherò
Ho finito di lavare i piatti in cucina.
Ho messo a posto.
Ho lucidato il lavandino.
Ora brilla come l’acciaio appena sfornato.
A pranzo ho mangiato frittata con le patate.
Ho messo tutta la poesia del frigo dentro.
Quattro uova per due porzioni, cipolla e patata lessa,
una grattugiata fresca di Grana Padano.
Ho girato e sistemato tutto
su un piatto da portata.
Apparecchiato. Servito.
Mangiato. Lavato.
Stasera a cena mi è rimasto questo verso.
Insipido.
Oggi ho saputo che è morta la zia.
Lei era un pezzo di pane.
Tante volte una madre.
No, non era come mia madre.
Mia madre è viva.
Mia zia ora è una santa.
Ha convissuto per anni con la cirrosi.
Come mio padre.
Lui è morto nove anni fa, come fosse oggi.
Era quattro luglio del duemilanove.
Era nato in un giorno significativo: undici settembre,
anniversario di morte per l’America.
Per me il quattro luglio è il giorno più triste
che ricorderò per il resto della vita.
Attraversavo la strada.
Il telefono squillava.
Era mio fratello che chiamava.
Erano le diciassette e trentatré di pomeriggio.
Mio padre stava morendo.
Io non c’ero a tenere la sua mano,
a dire che andrà tutto bene.
E bene non andò.
Finii solo per cucinare ogni giorno una poesia dal frigo.
E tanta solitudine marcia.
Volevo solo decorare la morte,
descriverla meno paurosa del vissuto,
contraddicendo chi diceva che ispiro pena,
per aver cercato una vita degna altrove.
Mio padre non ha mai saputo che sono un poeta.
La zia Teodora lo sapeva.
A lei ho letto una domenica alcune mie poesie
fresche di cucina.
Ora incontrerà mio padre e le racconterà,
come so cucinare le poesie dal frigo.
La caratteristica di Lidia Popa è questa aderenza al «quotidiano». Il suo quotidiano non è quello appreso alla lezione della scuola lombarda ma quello appreso dalla sua viva esperienza di tutti i giorni: la cucina, il lavaggio dei piatti, la frittata di patate, il frigo, la madre, il ricordo del padre, la zia Teodora… etc. tutto vero, tutte cose vere, non c’è nulla di inventato, c’è la concretezza delle cose vere e vissute e c’è anche la serietà del lavoro per appropinquarsi alla poesia, con semplicità e con umiltà. Una calzolaia della poesia Lidia, senza grilli per la testa, come le poetesse e pseudo poetesse italiane che girano in calzamaglia e con i tacchi a spillo per far vedere quanto sono brave, e invece sono soltanto banali. Sono «poesie/ fresche di cucina», tra una frittata e l’altra, poesia frugali, senza panna, senza zuccherificio, senza l’inutile ironia o l’inutile gioco combinatorio di vocali e consonanti.
(Giorgio Linguaglossa)
Due poesie di Lidia Are Caverni
da La casa dell’oro (estate-autunno 2016)
In punta di penna
In punta di penna
ti scriverei messaggi
unità di convolvoli
chiudono reti
di giardini mai visti
e tu prosegui
per gli inesorabili
percorsi cercando
la meta dell’oro
senza vedere
che sui fili la libellula
danza la danza
dell’ombra e del sole
solitario ti volgi
altrove senza ritorno.
*
Cinque farfalle
bianche in formazione
s’involano nel prato
la limaccia le ignora
crogiolandosi al sole
neri gli uccelli
macchiano il cielo
e io respiro come
avesse taciuto
da millenni la freschezza
dell’aria.
Lidia Are Caverni è una poetessa di Mestre che ha tutta la nostra stima. Pubblico qui due poesie di una sua raccolta inedita anche se la sua linea di ricerca appare più in linea con la poesia di un Piersanti che non con quella della nuova poesia che stiamo ricercando. È una ricerca degna della più alta considerazione, sicuramente è un progetto di ricerca a cui auguriamo le cose migliori…
Il nostro è un laboratorio di scambio e di proposta e la pubblicazione delle proprie poesie ha un senso in questa ottica, in una visione di confronto e di scambio di tesi, in tal accezione saremmo interessati di sapere da Lidia qual è il suo pensiero sulla nostra direzione di ricerca…
(Giorgio Linguaglossa)
Giorgio Seferis
Efeso
Parlava seduto su un marmo
simile a rovina d’antico portale:
sterminato e vuoto a destra il campo
a sinistra scendevano le ombre dal monte:
“La poesia è ovunque. La tua voce
a volte incede al suo fianco
come il delfino che per poco ti accompagna
vascello d’oro nel sole
e poi scompare. La poesia è ovunque
come le ali del vento nel vento
che per un attimo hanno sfiorato le ali del gabbiano.
Uguale e diverso dalla nostra vita, come cambia
il volto di una donna che si è spogliata,
e tuttavia rimane uguale. Lo sa
che ha amato: alla luce degli altri
il mondo implode: ma tu ricorda
Ade e Dioniso sono la stessa cosa”.
Disse e imboccò la grande strada
che mena al porto di un tempo, ora inghiottito
laggiù fra i giunchi. Il crepuscolo pareva
per la morte di un animale,
così nudo.
Ricordo ancora:
viaggiava sulle coste della Ionia, in vuote conchiglie di teatri
dove solo la lucertola striscia sull’arida pietra,
e io gli chiesi: ” Un giorno torneranno a riempirsi?”
E mi rispose: ” Forse, nell’ora della morte “.
E corse nell’orchestra urlando:
“Lasciatemi ascoltare mio fratello! “.
Ed era duro il silenzio attorno a noi
e non rigato nel vetro azzurro.”
*
Cinque poeti che proclamano la «polivocità» della parola concentrando i concetti in immagini e le immagini in icone [molteplicità di interpretazione, abbandono dei referenti della metafora tradizionale, immagini in movimento, pluralità del tempo e degli spazi, metafore cinetiche, pluralità del senso, oggettività, intemporalità, de-soggettivazione]
(Gino Rago)
1 – Tomas Tranströmer
Silenzio
Passa oltre, sono sepolti…
Una nuvola scivola sul disco del sole.
La fame è un edificio elevato
che si sposta nella notte
nella camera da letto si apre la colonna
scura della tromba di un ascensore verso le viscere.
Fiori nel fosso. Fanfara e silenzio.
Passa oltre, sono sepolti…
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
2 – Giorgio Linguaglossa
In Venedig
Il 24 aprile 1980
sono sceso alla stazione di Venezia.
In Venedig.
Festa di gondole sull’acqua. Canale di Cannaregio.
Lanterna gialla. Luna verde. Laguna.
Dame in maschera e crinoline.
Una bellissima Dama in maschera nera.
Una bellissima Dama in maschera bianca.
[…]
Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra.
Stanza d’albergo di terza categoria.
Ponte dei Sospiri.
Laguna verdastra. Gondole nere.
Un tiretto con il bocchino di avorio.
Una teca di madreperla che reca un cammeo.
Un ventaglio dentro la cornice nera.
La fiala bombata del profumo semiaperta.
La toeletta con un vestito di seta azzurra.
[…]
Abitavo presso una stella sul canale nero.
Un sotoportego.
Una madamigella di Parigi
trasferitasi
in Venedig come dama di compagnia
del conte Almerighi
che poi fuggì a Vienna presso il suo non più giovane
e generoso amante…
[…]
Avenarius mi venne incontro, zoppicando,
sul Ponte dei Sospiri.
Teneva al guinzaglio orrendamente agghindati
un musicante da trivio e un pagliaccio rosso
che saltellavano tra i turisti. «Che vuole – mi sussurrò
all’orecchio – il Carnevale non si è ancora concluso».
Finita la tenzone, il musicante chiuse il violino nella custodia,
il pagliaccio si sedette al tavolino, e ordinarono
un Martini rosso con ghiaccio.
[…]
«Io e la stella ci siamo amati
– mi disse Avenarius – mio caro poeta.
Adesso siamo qui, io e lei, sul ponte.
Né di qua né di là. Un luogo neutrale.
Un luogo mentale.
E passeggiamo come manichini in un gineceo…
[io guardavo le sue scarpe di vernice made in Italy
e la sua farfallina gialla à pois]
Lei mi può capire, è così giovane!
Dopotutto, siamo ospiti del Signor Posterius, o meglio,
di un suo sogno…».
[…]
«La menzogna deve essere più logica della verità»,
mi disse Avenarius.
Il cameriere, intanto, tolse i bicchieri
e sparecchiò il tavolino.
“Che sgradevole ciarlatano!”, pensai
e scendemmo in un bar nel sotoportego a bere un’ombra.
E brindammo, allegri e festaioli.
Come un tempo.
3 – Charles Simic
Gli orologi dei morti
Una notte sono andato ad osservare l’azienda dell’orologio.
Aveva un forte ticchettio dopo mezzanotte
Come se ci fosse una paura insolita.
É come fischiettare superato un cimitero,
Ho chiarito.
In ogni caso, gli ho detto di aver capito.
Un tempo c’erano orologi di quel genere
In ogni cucina americana.
Ora la fabbrica ha tutte le finestre rotte.
I vecchi del turno di notte sono sulla barca di Caronte
Il giorno che ti fermi, ho detto all’orologio,
I piccoli ingranaggi che tengono di scorta
Saranno rotolati via
In qualche posto impossibile da ritrovare.
Pensando a questo, ho dimenticato di arieggiare.
Ci svegliammo al buio.
Quanto è quieta la città, ho detto.
Come gli orologi dei morti, ha risposto mia moglie.
La nonna al muro,
Ho sentito le nevi della tua infanzia
Cominciare a cadere.
4 – Ewa Lipska
Il mondo
A volte sei bello. Un vestito cosmico.
Un guardaroba celestiale di paesaggi.
Del tuo corpo si occupano gli eruditi.
Gli studiosi degli elementi.
Qualcuno prevede sempre la tua fine.
Non hai parenti stretti. A chi
lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso
forse ne avrebbero voglia.
Sei eterno? L’odore
della stagione morta lo nega.
La menzogna a volte ha ragione.
Ce la farò senza di te.
In fondo non mi hai promesso nulla.
Non so nemmeno
se è la storia che ha creato noi
o se noi abbiamo creato la storia.
Se siamo solo l’eco
di un cuore altrui.
5 – Rita Dove
da La scoperta del desiderio, Passigli, 2015 a cura di Federico Mazzocchi
Geometry
I prove a theorem and the house expands:
the windows jerk free to hover near the ceiling,
the ceiling floats away with a sigh.
As the walls clear themselves of everything
but transparency, the scent of carnations
leaves with them. I am out in the open
and above the windows have hinged into butterflies,
sunlight glinting where they’ve intersected.
They are going to some point true and unproven.
Geometria
Dimostro un teorema e la casa si espande:
le finestre in un balzo si librano sino al soffitto,
il soffitto con un sospiro va alla deriva.
Appena le pareti si sono spogliate di tutto
ma non della trasparenza, l’odore dei garofani
se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto,
e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle,
dove si congiungono un raggio di sole riluce.
La loro meta è un punto vero e indimostrato.
Nota di Gino Rago
Tutto è partito da questi versi de La lugubre gondola (1996) di Tomas Tranströmer come incessantemente ha segnalato e ribadito L’Ombra delle Parole attraverso l’opera martellante del fondatore e coordinatore Giorgio Linguaglossa e dalla Redazione della stessa Rivista Letteratura Internazionale:
“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero. ”
Jason Langer, Death mask
Giorgio Linguaglossa
La poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna
caro Gino Rago,
è vero, quei due versi di Tomas Tranströmer che hanno cambiato il mondo, il mondo della poesia intendo, quelle righe de La lugubre gondola (1996) mentre le 17 poesie sono del 1954, del primo libro di Tranströmer, ma in Italia nessuno tradusse quelle poesie se non dopo quaranta anni, e la poesia italiana ha continuato a fare poesia dell’io, poesia ideologicamente orientata o inorientata, poesia di superfetazione letteraria o di giochi di prestigio verbali. Nella poesia che si è fatta in Italia dagli anni sessanta ad oggi la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. La «nuova ontologia estetica» ha semplicemente preso atto dell’eclissi della poesia dell’io e ne ha tratto le conseguenze… La disseminazione che ne è scaturita è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata risorsa e il linguaggio poetico si è rivitalizzato, di colpo. Quella che era la poesia in crisi, la poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna. È paradossale, ma è stata la crisi della poesia che ha prodotto una nuova forma-poesia.
Qualunque sia la via prescelta dalla «nuova poesia»: sovrarazionalità, extrarazionalità o razionalità ultronea in senso stretto e largo, è che si è preso atto che la ragione è a malapena sufficiente a fondare l’auto organizzazione di se stessa. Il funzionamento della tecnica, il fatto che «la cosa funzioni», è un pensiero della communis opinio. Non c’è una razionalità originaria che funzioni da giustificazione per la techné, l’inconscio agisce seguendo le proprie leggi che non sono quelle dell’io né quelle di una presunta «giustificazione», vocabolo che l’inconscio non conosce. È avvenuto che sia la «nuova» filosofia che la «nuova» poesia sono rimaste prive di norme, prive di normatività, a diretto contatto con l’impensato e l’impensabile, di qui gli odierni indirizzi della filosofia debole e della rifondazione di una filosofia dei segni o di una nuova ontologia su basi parmenidee… Ma rimane il dato di fatto che la «nuova» poesia dell’inconscio le norme deve costruirsele da sola.
Ecco perché la poesia che va di moda oggi è quella proposizionale, assertoria, cioè fondata sul proposizionalismo, sull’ordine assertorio promulgato dall’io in quanto ogni proposizione si giustifica da sé, ha in sé una organizzazione perifrastica che corrisponde alla organizzazione dell’io giustificatorio. Si tratta di una poesia della giustificazione palesemente ideologica, della nuova ideologia che non vuole più mostrarsi come ideologia È una proposizionalità posta da quella istanza auto organizzatoria che va sotto il nome dell’io. Istanza posticcia ed effimera.
Lucio Mayoor Tosi
Quanto detto mette in crisi il simbolo e ciò che esso simbolizza. Gli esempi riportati da Gino Rago sono in questo senso assai significativi: il linguaggio resta incolpevole, onirico, astratto o figurativo che sia: il simbolico accidentale in qualche modo sostituisce il linguaggio lirico, mentre la perdita di ideologia rimette in discussione l’universale. La ruota della vita riprende a girare.
Giorgio Linguaglossa
Steven Grieco Rathgeb scrive:
«di tutti i particolari “inutili” e “ripetitivi” contenuti nella bozza o nelle bozze per il solo scopo di dirla compiuta. Essa conserva una molteplicità di collegamenti con i materiali inutilizzati, e sfrutta in modo esauriente quel potenziale per assurgere a struttura aperta; una composizione che, proprio per la sua incompiutezza, proprio per la sua stessa irrisolta complessità, invita il lettore a completare il processo creativo».
Penso che tutti quei materiali verbali «ripetitivi» siano tracce di voci che si sono dileguate o dileguantesi ma, appunto, in quanto dileguate ne restano le tracce, echi sonori di un tempo che fu. Il rapporto tra la voce e la scrittura, che è stato approfondito dalla filosofia contemporanea (Derrida, Heidegger, Carlo Sini, Rovatti…), trova in questa poesia una esemplare personificazione, quelle voci che si sospendono e si emulsionano le une con le altre, sono le voci che la poesia accoglie e registra come un calco sonoro di tracce. Penso che proprio qui risieda il fascino di questa poesia, nel fatto del silenzio che sopravviene quando una voce si dilegua. In un certo senso questa è una poesia fatta di silenzi, di strati tettonici di silenzi che recano il ricordo di tracce di quelle voci un tempo vive. Il registro visivo e spaziale della poesia è talmente vario che configura un altro elemento dell’emersione delle voci, voci che sembrano provenire da dentro, ma che in realtà erano un tempo lontanissimo venienti dal di fuori, e così il dentro e il fuori confluiscono in una mistura dentro-fuori e fuori-dentro, tra prossimità e lontananza, allontanamento e disallontanamento… La poesia oscilla, nuota in questa contraddittoria materia equorea di voci estintesi in tracce… ed è in questo orizzonte della metafisica che può prosperare il pensiero poetico di Grieco, entro il contesto di un registro simbolico fitto di voci, di echi, di orme, di rimandi, di tracce…