Aforismi a cura di Giorgio Linguaglossa – Poesie di Letizia Leone, Gino Rago, Lidia Popa, Bedin Mark, Alfonso Cataldi – Sulla Patria metafisica delle Parole – Dialoghi e Commenti di Lucio Mayoor Tosi

 

Giorgio Linguaglossa
Una volta che sia stata fatta sloggiare dall’esistenza degli uomini la metafisica, si sta preparando per
essi la bara dello spirito, subito seguita di frequente dalla bara degli uomini

 

Aforismi a cura di Giorgio Linguaglossa

 

La vita che si mantiene in vita per la vita della produzione e il consumo si tramuta in contraffazione della vita quale essa veramente è; ma è vero anche il contrario: che chi cerca un senso da dare alla vita o un non-senso, si mantiene nell’orbita della speranza, ultima ideologia del mondo amministrato per chi non ha più speranza e si illude con lo specchietto retrovisore della speranza.

 

L’arte si mantiene in vita fin quando rilascia certificati di buona condotta e dichiara senza vergognarsi il principio dell’autoconservazione quale regolo base del consorzio civile.

 

Non c’è speranza di salvezza dall’autoconservazione se non nell’abbandono senza riserve di ciò che deve essere lasciato cadere.

 

Non c’è alcuna ragione di produrre un libro in più o in meno, soltanto un libro necessario ha diritto all’esistenza. Ma anche l’esistenza degli uomini non ha alcun diritto che la garantisca perché non c’è alcun libro che la dice.

 

Il concetto di intelligibile resta una aporia. Così il concetto di necessità. Non si dà alcuna ragione veramente necessaria. È necessario soltanto il vuoto. È per questo che noi realizziamo una poetica del vuoto.

 

Lo Jugendstil dei primi anni del novecento suppone e prefigura nella sua essenza fatta di tortile vuoto la grande strage che sta per avvenire.

 

Il senza-stile o stile cosmopolitico o stile globale dei giorni nostri,  preannuncia e condensa in sé le leggi del mercato globale, del mercato unico. I tentativi di frapporre dazi e barriere allo svolgersi del mercato globale sono i colpi di coda del coccodrillo che mastica le sue prede con lacrime da coccodrillo.

 

Il non-stile cosmopolitico dei giorni nostri annuncia a prefigura nella sua essenza fatta di tortile pieno la grande stasi che è già avvenuta e sta avvenendo.

 

La metafisica dello stile presuppone sempre una metafisica dei costumi.

 

La falsità dell’ontologia sta nella dimostrazione ontologica dell’esistenza o inesistenza di Dio. La vera questione risiede invece nella esistenza, o meglio, nella non esistenza degli uomini.

 

La bancarotta dell’ontologia sta in coloro che la ritengono un rapporto paritario tra il credito e il debito.

 

Una volta che sia stata fatta sloggiare dall’esistenza degli uomini la metafisica, si sta preparando per essi la bara dello spirito, subito seguita di frequente dalla bara degli uomini.

 

Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno. Il senso è un totem, e come tale esso viene venerato.

 

Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri.

 

Così anche la disperazione e l’angoscia sono le ultime ideologie, utilissime ai fini dell’autoconservazione.

 

Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato.

 

La coscienza infelice è la costruzione di una coscienza falsa. Ma la coscienza falsa è sempre il prodotto di una coscienza infelice.

 

L’angoscia… perpetua il sortilegio come il freddo tra gli uomini. (Adorno)

Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti. (Hegel)

Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco. (Adorno)

 

Giorgio Linguaglossa
Presentazione del libro di Steven Grieco Rathgeb, Entrò in una perla (Mimesis Hebenon), Roma,
2017, biblioteca N. Mandela, a dx Letizia Leone

 

Una poesia di Letizia Leone che mi sono preso la briga di suddividere in distici. Un esperimento. (g.l.)

 

Letizia Leone

 

Il monumento ebbro

 

La Porta.

Era da aprire al centro

 

Dell’immensa Agorà
Nel paesaggio svuotato dai mercati

 

Opaca e pesante. Volante come il culmine di una visione
Socchiusa sull’ala dello sprofondamento

 

Intanto che dai cardini fuoriuscivano cose a groppi
Esitanti piccolissimi animali e sagome d’uomini minuscoli

 

Moribondi anfibi o delfini – la Porta
Che nel riverbero di tutta quella luce rovente sulla piazza. La Porta

 

Immensa, non vedevamo.
Come i gusci, centinaia e centinaia di acini appesi alle ante

 

Tra le cotogne, grappoli e foglie carnose
(Avrebbe perfino pensato a una Rivelazione?)

 

Tanto era il vortice delle creature che schizzavano fuori
Disorientate. Ma a noi

 

E ai portatori
Premevano sul cuore certe cose di zolfo

 

Vive vivai gocce fiammiferi. Fosse stato anche solo il portato di un’illusione
Cervello e utero germinale nell’oscillazione di forme antiche che vomitava

 

La Porta.
Chiesi al portatore la direzione perché le ultime lucertole in cammino sembravano

 

Legate, incapaci di volo o solo di fuga o solo di trovare andatura
Sembrava così, ogni loro movimento scavava una buca

 

Intanto che qualche altra cosa strisciava
Odore o sapore che aveva forma

 

Cifra o grillo, antimateria o polvere che aveva trovato il coraggio di uscire dal covo
Delle puzze e si ergeva ad animale di sangue nuovo malfermo

 

Su gambe su zampe ora eretto ora in ginocchio ma animale comunque incarnazione incontro alfine ricordo dell’uomo con la grande tartaruga in mano. O sotto i piedi, le tartarughe lente e orribili scarpe di un gigante a bordo. Navigavano le tartarughe. Scherzo ed oblio.
Con la potenza degli esorcismi intanto la Porta induriva conchiglie di viti giravano a velocità folle

 

E noi

Per il troppo bagliore un fuoco secco negli occhi accecati al centro della piazza cercavamo chi potesse dirci tutto di quel calice venereo che esalava. Corpi esplosi nuovo sangue.

Ci girammo verso i portatori ma erano già anneriti nel sole con l’obelisco in mano

 

Saldati nei loro gesti brevi

Di cavalieri di piombo.

 

(Roma, Fiera, 8 dic 2017)

 

Giorgio Linguaglossa
“Cara signora Schubert,

ancora si chiede dove andremo ad abitare Dopo? (Parigi)

 

 

Una poesia di Gino Rago che ho suddiviso in distici. Caro Gino, scusami per questa libertà che mi sono preso ma credo che la tua poesia ci abbia guadagnato. (g. l.)

 

Gino Rago

 

(alla maniera di Ewa Lipska)

 

22 settembre 2017 alle 19:32

 

“Cara signora Schubert,
ancora si chiede dove andremo ad abitare Dopo?

 

Dopo. Cioè là dove prima c’era una fabbrica strana
che produceva la vita d’oltretomba.

 

E inquinava le menti. Avvelenava il mondo.
Ha riconosciuto la mia scrittura.?

 

Sì sono io. Sono l’autrice di tutte le lettere.
Si chiede sempre dove andremo ad abitare Dopo?

 

Senza timori vada
al Quartier Generale dell’Aldilà.

 

Al numero civico 777, piano terzo, scala D,
attigua alla abitazione di Dio.

 

Al Quartier Generale tutti e tutte lo sanno.
Il Dopo sarà tra ciò che non abbiamo fatto

 

e ciò che non faremo più.
Cara signora Schubert, e per conoscenza,

 

care signore Dzieduszycka, Ventura, Dono, Colonna,
al Quartier Generale dell’Aldilà ben sanno

 

e lo sapete bene anche voi che l’onda d’urto dell’Oscurità
assale i poeti alla stessa ora del mondo.

 

Cara signora Schubert, e per conoscenza,
care signore Leone, Giancaspero e Catapano,

 

la vita è un negozio di ferramenta.
E Dio è un meccanico supino che stringe i bulloni lenti del mondo.

 

Al Quartier Generale dell’Aldilà
l’acqua si beve in bicchieri di plastica.

 

E nessuna fa poesia coi tacchi a spillo.
Un caicco taglia il blu della laguna. Il cielo è fermo.

 

A nessuno interessano i moti dell’alta e della bassa marea.”

 

 

Gino Rago

 

Il poeta vede ciò che il filosofo pensa

 

“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre,
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,

 

la copia della Gioconda, il lillà
e la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,

 

abbiamo altro da fare, per esempio
ascoltare il canto degli uccelli

 

o il ronzio della Storia
nei bassifondi

 

ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
e quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo

 

smettessero per un pò di fare baccano,
coprono il canto delle allodole di tutto l’Occidente

 

[anche gli dèi imparino a tenere il becco chiuso,
sono sull’Olimpo grazie alla poesia].

 

Cara M.me Hanska, dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria
il poeta vede tutto ciò che il filosofo pensa”.

  

 

Giorgio Linguaglossa 

…la «patria metafisica delle parole», dove le parole sostano in imbelle inazione, che non si offrono e
non si danno, ma che dimorano nell’inedia e nell’inerzia, di esse noi non disponiamo di alcun indirizzo

 

 

Giorgio Linguaglossa

 

Sulla Patria metafisica delle Parole

 

Quando un poeta trova il linguaggio è perché egli è già in cammino da molto tempo verso quel linguaggio… le parole appartengono al linguaggio ma sono nascoste da miliardi di altre parole e non c’è alcuna possibilità per un poeta di andarle a scovare, almeno se egli resta fermo nelle sue convinzioni che lo relegano nella condizione dell’io, nel concetto di «soggetto» della manifestazione della propria volontà di potenza. Le parole della volontà di potenza sono quelle dell’agorà, del politico, del mediatico… le parole di cui ha bisogno il poeta non si trovano belle e pronte, non sono a disposizione di tutti come le parole dell’informazione e del mediatico, le parole del poeta egli deve andarsele a cercare nella «patria delle parole», in quella landa che è per l’appunto la «patria metafisica delle parole», dove le parole sostano in imbelle inazione, che non si offrono e non si danno, ma che dimorano nell’inedia e nell’inerzia, di esse noi non disponiamo di alcun indirizzo. Per prenderle non c’è alcun amo disponibile, nessun raggiro le può catturare, ma, molto semplicemente, il poeta deve entrare in silenzio in una «patria metafisica» dove all’ingresso non ci sono guardiani, né belve furiose, né mitragliatrici… non c’è nulla di tutto questo. C’è forse molta nebbia, molta foschia, e non si vede nulla e siamo costretti ad andare a tentoni… Ma le parole, quelle «vere», non tradiscono, sono lì, pronte, da sempre e aspettano soltanto che venga un poeta a prenderle.

 

Parlando del poeta e della poesia Heidegger (mi scusi Ennio Abate se cito il filosofo tedesco) scrive:

 

«L’esatto significato di erfahren è eundo assequi, camminando raggiungere qualcosa per via, raggiungere qualcosa camminando lungo una via. Che raggiunge il poeta? Non una semplice nozione. Egli giunge nel rapporto della parole con la cosa. Questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra. La parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa in modo che essa “è” una cosa.

Ma con queste considerazioni, per illuminanti che esse siano, ci siamo limitati a cogliere il risultato dell’esperienza che il poeta ha fatto della parole: non siamo penetrati nell’esperienza stessa. Come avvenne questa esperienza? La risposta alla domanda ce la suggerisce una breve parola, l’unica che abbiamo lasciato passare inosservata, quando abbiamo accennato all’ultima strofa:

 

Così io appresi triste la rinuncia:
Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca.

 

[…]
Nelle sei strofe (della poesia) parla l’esperienza che il poeta fa del linguaggio. qualcosa accade, lo colpisce, e trasforma il suo rapporto con la parola. È necessario quindi parlare prima di quel rapporto con il linguaggio, nel quale il poeta s’è trattenuto prima dell’esperienza
[…]
L’esperienza è il cammino lungo un sentiero. Questo conduce attraverso una regione. in tale regione si trova così la terra del poeta come la dimora della grigia norna, cioè dell’antica dea del destino. Questa abita al margine, al confine della terra della poesia, la quale, in quanto “marca”, è essa stessa terra di confine. La grigia norna sta a custodia della sua fonte, cioè della sorgente sul cui ultimo fondo ella cerca, per attingerli, i nomi. La parola, il linguaggio, si trova nell’area di questa regione misteriosa dove il dire poetico confina con la sorgente da cui scaturisce, destino e dono, il linguaggio.».1]

 

1] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. a cura di Alberto Caracciolo, Mursia, 1990 p. 135.6

 

 

Bedin Mark

 

25 agosto 2018 alle 12:08 

 

Volevo complimentarmi sinceramente con Mayoor Lucio Tosi per i suoi incantevoli testi. Poi, se m’è permesso, e qui già porgo le mie scuse nel caso non lo fosse, vorrei postare uno dei due miei testi scritti in questi giorni.

 

La becera mostra

 

Tiresia, nell’alcova s’ostina l’estasi d’una
predizione e fallisce se fallire è la becera mostra.
Si distende sullo scoglio lucente di sale.
I spelacchi del cane tendono nervi,
virgulti scampoli da offrire per un costume
al giorno dei morti.


Dalla feritoia del legno del balcone mangiucchiato
dagli insetti, un luce allarma sul televisore.
James Dean dice che non vale niente
l’amore a suo padre ne La valle dell’Eden.
Al taglio, riflesso l’animale, si rivolta
con la pallina serrata tra i denti e gambe all’aria
in gioco, come niente.
Il maggiore Tom si mise il casco e prese
le pillole cedendo alla Space Oddity.
Di contro Cristo venne crocefisso.
Ma Wagner ha messo un punto nell’entrata
degli Dei nel Valhalla.

 

Nulla è residuo di ciò che fu percepito al modo
dello shock al magnesio di volti figurati ch’è no,
e poi divenuti giallognoli.
La Divina Callas costringe in un ritmo sbronzo
l’ultima Thule a Parigi nel millenovecentosettantasette.
Ne la copertina del Sgt. Pepper’s Lonely Hearts
Club Band, Aleister Crowley annuncia la legge
di Thelema a un pubblico più vasto.

Carmelo Bene si fa dire in un’opera alla Warhol
un perpetuare di io! Io! Io! Ha perso la testa.
Padre Karras dice d’uscire da questo corpo.
Al Supermarket residua tutto in icona e non v’è
sentore mortuaria.

 

Gli uccelli nordici iniziano l’ascesa variopinta
lacrimando ambra.
La contessa nella camera attende
il giovine amante con una leggere peluria sui capezzoli.
Saltò sul tram che lo portò in città forte di nebbia,
nel tepore; preda divenne d’una vaneggio che intuì,
da cui volle distrarsi.


Alla rinfusa romanzi di Dostoevskij e di Kerouac
e piatti sporchi di pasta al sugo.
Fu quando se ne andò che lei tentò un colpo
di pistola alla tempia.
Vladimiro e Estragone attendono Godot.
Si distende sullo scoglio lucente di sale
e in ebraico un abracadabra.

 

 

Giorgio Linguaglossa
all’ingresso non ci sono guardiani, né belve furiose, né mitragliatrici… non c’è nulla di tutto questo.
C’è forse molta nebbia, molta foschia, e non si vede nulla e siamo costretti ad andare a tentoni… 

 

 

Giorgio Linguaglossa  25 agosto 2018 alle 15:33 

 

Caro Bedin Mark,

 

a giudicare dalla poesia che hai postato sopra vedo che stai sulla buona strada, la tua poesia rivela che sei indirizzato nella nostra stessa direzione, inoltre possiedi una notevole carica fantastica, sai fantasticare con grande agilità, sai usare il zig zag, sai scompitare da un rigo all’altro, sai impiegare la deviazione e lo skaz… solo, mi permetterei di darti un suggerimento: di tenere la fantasia sempre agganciata alla terra, al reale, alla forza di gravità, a volte ho come l’impressione che tu divaghi un po’ in eccesso e che ti piace divagare e guardarti allo specchio… invece le divagazioni devono essere solo e sempre apparenti. Bisogna poi essere capaci di riportarle tutte ad un unico comune denominatore: quella che io chiamo la forza di gravità. Per finire, io asciugherei un poco la poesia togliendo qualche frasario pleonastico non strettamente necessario alla significazione del testo. Provaci e postala di nuovo che la commentiamo, la vecchia e la nuova versione. Qui, come avrai capito, si fa officina, nessuno di noi si erge a maestro…

 

 

Lucio Mayoor Tosi   25 agosto 2018 alle 14:35

 

Ringrazio per il contributo. Per parte mia posso dire questo: che lo sguardo esterno, estroverso, andrebbe controbilanciato dal fattore tempo. In questo modo gli accadimenti verranno collocati all’interno di un evento. E si avrebbe bisogno di un’àncora, di un approdo su “cose” reali; esattamente come i tuffatori per lanciarsi nel vuoto si servono della piattaforma o di un trampolino, e poi di una sponda per riemergere.

Se pensiamo alle poesie di Mario M. Gabriele, è vero che si passa da una immagine all’altra con estrema agilità, ma le cose sono posate a terra e, alla fine, pur avendo la sensazione di avere assistito a una cronistoria irreale, per nessuna ragione al mondo metteremmo in dubbio che quanto viene narrato possa essere accaduto.

La questione dell’autenticità va ricercata, e spesso si trova al di fuori della narrazione; perché la realtà è indescrivibile, se non tentando con frammenti un’approssimazione – non può essere detta ma può essere recepita dal lettore. Nel dire tutto manchiamo il bersaglio, e non basteranno le sorprese, i fuochi d’artificio, le citazioni a renderci autentici. Magari bravi, ma non autentici.

 

 

Lucio Mayoor Tosi   25 agosto 2018 alle 14:47

 

Però complimenti per l’immaginazione. Senza questa non si va da nessuna parte.

 

A commento dello scritto di Bedin Mark, mi scuso per non averlo precisato. Scrivo in diretta… Ma vedo che il parere di Linguaglossa non è dissimile dal mio “di tenere la fantasia sempre agganciata alla terra, al reale, alla forza di gravità”.

 

Ringrazio per il contributo. Per parte mia posso dire questo: che lo sguardo esterno, estroverso, andrebbe controbilanciato dal fattore tempo. In questo modo gli accadimenti verranno collocati all’interno di un evento. E si avrebbe bisogno di un’àncora, di un approdo su “cose” reali; esattamente come i tuffatori per lanciarsi nel vuoto si servono della piattaforma o di un trampolino, e poi di una sponda per riemergere.

Se pensiamo alle poesie di Mario M. Gabriele, è vero che si passa da una immagine all’altra con estrema agilità, ma le cose sono posate a terra e, alla fine, pur avendo la sensazione di avere assistito a una cronistoria irreale, per nessuna ragione al mondo metteremmo in dubbio che quanto viene narrato possa essere accaduto.

La questione dell’autenticità va ricercata, e spesso si trova al di fuori della narrazione; perché la realtà è indescrivibile, se non tentando con frammenti un’approssimazione – non può essere detta ma può essere recepita dal lettore. Nel dire tutto manchiamo il bersaglio, e non basteranno le sorprese, i fuochi d’artificio, le citazioni a renderci autentici. Magari bravi, ma non autentici.

 

 

Lucio Mayoor Tosi    25 agosto 2018 alle 14:47

 

Però complimenti per l’immaginazione. Senza questa non si va da nessuna parte.

 

A commento dello scritto di Bedin Mark, mi scuso per non averlo precisato. Scrivo in diretta… Ma vedo che il parere di Linguaglossa non è dissimile dal mio “di tenere la fantasia sempre agganciata alla terra, al reale, alla forza di gravità”.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

 

Lidia Popa  17 giugno 2018 alle 14:37

 

La divisione dei versi, secondo il sentire di ognuno, danno una sosta al respiro del lettore, creando quell’attimo di contemplazione. Riempie di gusto con l’esaltazione del palato di nuovi sapori – una bibita raffinata.

 

Non sono una mosca

 

Le mosche verde brillante
sono dovunque opportuniste per scelta.

 

Annusano la miseria umana da lontano.
Si prendono di mira l’obiettivo prefissato.

 

Spronando dei cavalli purosangue,
impazienti si collocano nello spazio

 

attirando con destrezza l’attenzione,
con punti di vista leggeri e formali.

 

Senza argomenti eternamente validi,
puntano per fare del male al prossimo,

 

infettando di siero ogni posto pulito.
Impara ad essere paziente

 

ed avrai il cielo ai tuoi piedi.
Non sono una mosca.

 

[Poesia “Non sono una mosca” – in origine “Essere una mosca” revisionata con l’esperienza d’oggi, fa parte del mio primo libro di poesie “Punto differente (essere)” con poesie scritte tra 2013 e 2015. Nella versione originale con titolo diverso, senza l’espressione “verde brillante” e la divisione dei versi.]

 

 

Alfonso Cataldi    25 agosto 2018 alle 19:03

 

La porta di emergenza

 

Al che, senza che nessuno dei presenti avesse alzato la mano,
la controfigura fece scattare l’allarme della porta di emergenza.

 

Le maglie, dall’uno all’undici, presero la via di fuga dal processo-Haber.
Il Che è tornato nella roccaforte

 

la folla si riversa nelle piazze,
urla «Chi non salta Ferlaino è…»

 

Lo tira giù dalla stanza dell’albergo.
Lui doveva solamente dire:

 

«una buona azione non cancella un’azione sbagliata
ma la vita non è più in là delle paturnie».

 

Una microspia vigila le maree nella tazza della colazione
e la segretaria conserva il consiglio della carriera nel weekend da bollino nero.