Alcune Domande di Giorgio Linguaglossa a Vincenzo Vitiello, da Topologia del moderno, Poesie in distici di Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa 

Giuseppe Talia

 

Caro Germanico,


oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine


in uno screenshot da pubblicare su facebook.

“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

 

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

 

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale


della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente


si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

 

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione


precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.


Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare


assomigliare a San Carpoforo.

Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele


sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.

Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.


Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.

Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

 

(poesia postata il 26 novembre 2018)

 

Gino Rago

Due fazzoletti al 25 aprile

 

Rosso-bianco-verde. Due fazzoletti.

Uno sul collo di Calamandrei

 

L’altro su quello di mio padre prigioniero.

Hanno spaccato le lapidi dei loculi

 

Sono alla testa di tutti i cortei.

Mio padre disse NO al cibo, agli scarponi,

 

alla divisa cucita su misura.

Rimase negli stracci, nella fame,

 

nei pidocchi. Partì con altri a venticinque anni.

Tornò. La giovinezza mai vissuta

 

per sempre alle sue spalle.

[…]

Con Calamandrei

stasera mio padre senza farsi vedere

 

sarà forse a Marzabotto con i fratelli Cervi.

O forse a Porta san Paolo

 

o alle Ardeatine.

Da anni esce dalla tomba.

 

Si fa fiore tra i fiori mai secchi

sotto le croci di legno

 

sui prati, ai bordi dei fiumi, sulle montagne.

“La libertà. Il meglio fiore… Ma vuole sempre acqua”

[…]

Calamandrei e mio padre lo dicono sempre:

“la libertà… E’ di tutti. Anche di quelli

 

che la negarono a tutti.”

 

Giorgio Linguaglossa

[l’interruttore della luce nelle stanze della tortura della Gestapo in via Tasso, Roma, 1944]

 

 

Giorgio Linguaglossa

La stanza disadorna di Cogito

 

Un pulsante. Un ronzio. L’interruttore della corrente elettrica.

Una stanza vuota e bianca.

 

Dal soffitto, una lampadina, sul tavolo tazzine

con macchie di caffè, bottiglie vuote, tovaglioli di carta.

 

«Egregio Cogito, gli altri cadono nel tempo,

io invece sono caduto dal tempo, una jattura, mi creda, non da poco.

 

Sono disperato, sì, non ho altri che Lei; dopotutto questo tempo

siamo diventati amici», disse il Signor K.

 

Era pensieroso, forse addirittura addolorato…

Il filosofo non si scompose.

 

Era già tardi però, il sole se ne era andato per i fatti suoi,

aveva deciso di disertare la bacheca del giorno.

 

Sull’attaccapanni era steso un asciugamani a quadretti

e una giacca risalente alla guerra fredda.

 

«Ella è il prodotto di coloro che l’hanno preceduta»,

disse Cogito sottovoce,

 

ma scacciò via quel pensiero, per disperazione,

per distrazione o, semplicemente, per dimenticanza…

 

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Alcune Domande di Giorgio Linguaglossa a Vincenzo Vitiello, da
Topologia del moderno, Marietti, edizione, 1992 pp. 249-251:

Domanda:

 

Il linguaggio rinvia ad altro o rinvia a se stesso?

 

Risposta:

 

«Il segno, si è detto, rinvia ad altro. Le lancette che si muovono sul quadrante dell’orologio indicano il tempo che scorre: Il tempo dell’attesa, o

il tempo della memoria; il tempo degli astri: la levata del sole; o del mezzo meccanico: la velocità dell’auto. Sempre un tempo ch’è fuori dell’orologio. Sempre le lancette indicano altro. Il linguaggio, invece, parla di sé, indica sé, presenta se stesso. Può fare ciò che gli altri segni non possono. Certo la parola nomina l’altro, l’altro da sé: il profumo di un fiore, il colore di un tramonto, il sapore di un frutto. Cosa più distante dalla parola – quella della voce e quella della scrittura – che l’olfatto, la vista, il gusto? Pure la parola nomina l’odore, il colore, il sapore: Li nomina e li evoca. Presenta l’altro. Ed insieme presenta se stessa. La parola nomina la parola.

 

Se il linguaggio è l’orizzonte dell’altro, questo orizzonte ha poi la particolare caratteristica di includere sé in sé, l’orizzonte nell’orizzonte. È uno spazio più grande di ogni spazio – perché autoinclusivo. Perciò è la condizione del pensiero. Del pensiero vero. Che è tale se ed in quanto è capace di accogliere sé in sé medesimo».

 

Domanda:

 

Può fare un esempio?

 

Risposta:

 

«Faccio un esempio: se dico che essenza della verità è il segno, il rimando ad altro, questa affermazione è vera solo a condizione ch’essa medesima sia tale: rimando ad altro. Se il pensiero che dice la verità, l’essere della verità, non includesse sé in se stesso, sé nell’essere della verità, resterebbe almeno una verità fuori della verità: la verità definita non sarebbe, non includerebbe la verità definiente. L’essere della verità sarebbe soltanto una verità parziale, limitata, che, non conoscendo il suo limite (dacché non include il definiente in sé, nulla sa di questo: neppure che “c’è”), non potrebbe che porsi come verità totale: come ciò che non è. Non sarebbe verità, ma errore. Solo il pensiero autoinclusivo è vero. Perciò ha bisogno del linguaggio: perché solo il linguaggio dice di sé. Di sé: dell’identità originaria. Dell’Identità che è all’origine del pensiero vero.

 

Il pensiero autoinclusivo è pensiero riflesso. Riflesso-riflettente. Il linguaggio che ad esso conviene è dunque il linguaggio della riflessione.

Ma si dà tutto questo – o è soltanto un’esigenza? Può ben essere che non ci sia verità se non nel pensiero e nel linguaggio autoincludentesi – ma si dà poi verità?

L’esigenza del discorso, del logo (pensiero e linguaggio) autoinclusivo cozza contro questo fatto – questo bruto, impuro fatto: che la parola che dice il linguaggio è sempre particolare, limitata. È un frammento del linguaggio, mai tutto il linguaggio. Il logo che parla, che dice, che nomina e definisce – non è mai tutto il logo. Tutto il logo che pur intende dire. L’intenzionato deborda da ogni lato, fuoriesce dall’intenzione. La riflessione spezza l’identità che è alla sua origine. L’orizzonte della riflessione si rivela troppo piccolo per accogliere in sé l’orizzonte riflesso. Il cogito non è pari al sum. Al sum del cogito, al sum cogitans.

Su questa dis-parità, su questa dis-equazione -la disparità, la disequazione tra linguaggio e parola, logo riflesso o intenzionato e logo riflettente o intenzionante – porta a meditare il pensiero di Heidegger. Il pensiero di Heidegger sull’essenza del linguaggio».

 

Domanda:

 

Il linguaggio è il linguaggio del’io? Possiamo dire che tra le due cose c’è equivalenza?

 

Risposta:

 

«Il linguaggio parla d’altro – d’altro e di sé. Normalmente d’altro: nomina ed evoca e presenta le cose – le cose del mondo, le cose nel mondo. E con le cose gli uomini – i parlanti. Ma quando parla di sé? Quando e dove?

 

Bisogna esser cauti nel rispondere. Non si può dire semplicemente nella poesia. Bisogna dire invece: nella poesia che parla della poesia. Se Heidegger privilegia Hölderlin è perché “Hölderlin ist uns in einem ausgezeineten Sinne der Dichter des Dichters”. Hölderlin poeta del poeta in senso eminente: perché? Perché la sua poesia ha per tema l’essenza del poetare.1]

 

Il linguaggio – ricorda Heidegger citando Hölderlin – è “der Guter Gefahrlichstes”. Il più pericoloso dei beni perché “wo Sprache, das ist Welt”. E solo dove è il linguaggio è il mondo: luogo di incontro dell’ente ed insieme di apparizione del non-ente; luogo di memoria dell’essere, e di oblio ed abbandono. Ora, se non è il linguaggio per l’uomo, ma l’uomo per il linguaggio – come accade, come avviene il linguaggio?

 

Seit ein Gesprach wir sind
Und hören können voneinander 2]

 

Il linguaggio avviene come dialogo. L’avvento del linguaggio è l’avvento della comunità. Della storia. Già per questo il linguaggio è essenzialmente «ascolto”. In uno scritto più tardo, su cui torneremo, Heidegger, rilevando la medesimezza di pensiero e linguaggio, e così la prossimità di Denken e Dichter, scriverà: «Ogni pensare è prima di tutto un ascoltare, un lasciarsi dire e non un interrogare».

 

Per ogni lato il linguaggio supera la parola. È un bene – per quanto sia più pericoloso. Un bene, e cioè: un dono. Il linguaggio è donato. Donato a chi compie la più innocente operazione: al poeta. Unschuldigste definisce Hölderlin l’occupazione del poeta: la più innocente, incolpevole dell’uomo. Perché ai poeti non si può far carico di nulla: «Der Dichter ist ausgesetz den Blitzen des Gottes”. Esposto ai fulmini del dio, il poeta accoglie quanto a lui è dato accogliere.

 

…und Winke sind
Von Alters her die Sprache del Götter 3]

 

Cenni, non parole. Il linguaggio – il linguaggio originario: degli dei – non si dà alla parola, comunica per cenni. Il fulmine di Giove illumina, per un attimo, l’oscurità del Cielo. Ed è per questa illuminazione che l’uomo scopre la sua appartenenza alla Terra. Allora veramente, propriamente dà testimonianza di sé, del suo esser-ci, quando scopre la sua intimità (Innigkeit) alla Terra, al mondo. Alle cose, che in questa intimità si rivelano come sono: in contrasto, im Widerstreit. Unite da ciò che le separa.

 

Ma in conflitto, im Widerstreit, non sono soltanto le cose; un più originario conflitto è all’opera nel linguaggio. Heidegger ci mette sulla traccia di questo più originario polemos già quando parla dell’essenza della poesia che Hölderlin dichter und neu stiftet. Questa essenza, nuovamente fondata sulla poesia di Hölderlin, non è – dice – zeitlos; al contrario: appartiene al tempo, e ad un determinato tempo. Alla durftige Zeit: un tempo della povertà e del bisogno, degli dei fuggiti e del dio venturo – dell’abbandono e dell’attesa.

 

L’appartenenza alla Terra è quindi lontananza dal Cielo. V’è un’amicizia – philìa – tra i divini e i mortali; insieme una profonda inimicizia li separa. E nel linguaggio sono entrambe, Concordia e Discordia: il lampo, Blitz, della parola che illumina e la celeste oscurità del linguaggio che ne è illuminato.

 

C’è da chiedersi, però, se sia storico questo conflitto, o non appartenga invece all’essenza dell’uomo e al destino dell’essere.

Con questa domanda ci inoltriamo nell’altro scritto di Heidegger cui s’è fatto cenno. Lo scritto dal titolo: L’essenza del linguaggio.»

 

1] Hölderlin und das Wesen der Dichtung, in EH, 33-48 (da questo testo sono tratte le citazioni da Heidegger e da Hölderlin)

2] «Da quando un dialogo noi siamo / E possiamo ascoltare l’uno dall’altro».
3] «… e cenni sono/ Dal tempo antico il linguaggio degli dei».

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

Penso che la «parola» poetica scocchi al e dal «discorso» mediante una scintilla. Una scintilla che subitaneamente diventa incendio. Quello che altri chiama ispirazione, è in realtà una scintilla. Ma qui si pone un problema che è stato sfiorato sia da Michel Meyer che da Vincenzo Vitiello: come fare per giungere alla scintilla? Ecco, direi che la scintilla è un dono degli dei (non di dio, si badi); allora, non resta che propiziarci la benevolenza degli dei. La ricerca filosofica e di poetica ha questo senso, quello di procacciarci la benevolenza delle Muse, che sono delle dee particolarmente bizzose e ritrose; fuggono a gambe levate dove il poeta getta ponti levatoi per catturarle, non sopportano alcuna violenza, alcuna effrazione.

 

Però il poeta non può soltanto stare in posizione statica ed estatica di attesa, deve fabbricarle le condizioni affinché l’attesa divenga fruttuosa. Per dirla tutta, il poeta non deve sostare né soltanto sulla «parola», né soltanto sul «discorso»; entrambi: parola e discorso sono acerrimi avversari, sono sempre in conflitto, dove c’è l’una non c’è l’altro; infatti sono di genere opposto: femminile (la parola) e maschile (il discorso). Se il poeta cerca la parola nuova senza aver prima fabbricato ponteggi e gru per arrivare alla parola, finisce per impiegare la parola vecchia, quella già consumata dal discorso, e la Musa fuggirà a gambe levate; se invece punterà sul «discorso», sarà la «parola» a sottrarsi in quanto quel «discorso» è il discorso della tradizione, il discorso in posizione di rigor mortis.

 

Non c’è dubbio che il poeta si troverà così sballottato e distratto tra la «parola» e il «discorso», prigioniero castigato dall’ostilità e dalla conflittualità tra i due contendenti. Il risultato sarà la parola in rigor mortis, con la conseguenza che userà la parola come succedaneo di una tradizione (di un discorso) già nato consunto.

E allora, come fare per evitare di diventare prigioniero inerme tra questi duellanti? Dirò che il poeta deve costruirsi una casa, una abitazione che lo protegga dalle intemperie e dalle tensioni che si sprigionano dalla collisione tra la «parola» e il «discorso», dovrà munirsi anche di un buon parafulmine e di un portone blindato per impedire alle parole consunte e consumate di fare ingresso nella sua abitazione, invaderla e ottundere la stessa possibilità di adire ad una parola poetica autentica.