Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche…
Le Tre Domande
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?
Cara Signora Eeva Liisa Manner, troppo alto il ramo con la mela…
Gino Rago
Tentativo di risposta alle Tre Domande
Troppo alto il ramo con la mela
O troppo basso chi la vuole cogliere?
Qualcuno si solleva,
Qualche altro abbassa il ramo.
[…]
Lo scintillio del bronzo appena fuso
O le sue patine-fuochi d’artificio…
Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.
La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.
La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie, gli scarti,
Gli scampoli nelle sartorie,
I vetri rotti negli angoli delle vie,
Le parole delle nuove poesie…
[…]
Siamo uomini del dopo Hiroshima
In filiformi tralicci di gabbie.
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,
A meno che il suono non significhi niente:
Ni-ente, non-ente.
Tutti vogliono un nome,
Perché ogni nome è una benedizione,
Ma che cosa è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.
E invece è una maledizione,
La nostra maledizione.
Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
Le nuove parole sono gli stracci.
Apri la porta senza bussare:
Un mucchio di cenci in un sacco di iuta.
[…]
Se non a Lei a chi altri confidare
Che la flanella dell’infanzia era morbida
Quando il Tempo di Newton non ci disturbava.
Dalla Finlandia un sibilo nel mio dormiveglia:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».
È Lei ogni notte quella eco.
[…]
Il mio amico di Istanbul** in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio,
Il giorno la cicatrice del dolore»
La cicatrice del dolore,
E’ la stessa di quella che Lei vede nel suo specchio?
[…]
«Quale specchio?»
Lei giustamente chiede,
«Lo specchio dove il tempo si incrina
E Greta Garbo assomiglia a Socrate…»
Non mi dà la risposta, che importa.
Importante è che il poeta ponga domande.
[…]
Thomas Bernhard, in cantina:
«Tutti qualche volta alzano la testa,
Credono di dover dire la verità,
O quella che sembra la verità.
Poi di nuovo incassano la testa nelle spalle…
E questo è tutto»
A Piazza Mastai
Sei personaggi in cerca di bottiglie di Dalmore.
Un messaggio da Stoccolma.
Il Signor T. al mio amico di Istanbul**:
« La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti».
* E’ Giorgio Linguaglossa
Giorgio Linguaglossa
caro Gino Rago,
tu scrivi:
«Sei personaggi in cerca di bottiglie di Dalmore»
e
«La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti»
il dato di fatto da cui tu prendi le mosse è che la poesia odierna è rimasta orfana dell’io, è rimasta priva di un orizzonte di attesa, e inoltre, è una poesia anedonica. Un linguaggio poetico sterile, intimamente cacofonico e amusaico del tutto inidoneo all’impiego poetico, ma tu invece di trincerarti nella narrativizzazione e nella poesia postruista ed euforbica degli epigoni sei andato al di là. Non sono più i personaggi che vanno alla ricerca degli attori ma personaggi che corrono dietro le «bottiglie di Dalmore».
Potrebbero sembrare, le tue, ad un lettore superficiale, delle annotazioni estemporanee, e invece si tratta di considerazioni che vanno al nocciolo della questione. «Dopo la distruzione delle forme» avvenuta in questi ultimi settanta anni, siamo arrivati alla distruzione dell’orizzonte di attesa. È stato qualcosa che ha colpito al cuore la poesia del soggetto panopticon, dell’io plenipontenziario. L’io è stato de-fondamentalizzato, il soggetto legiferante è stato de-localizzato e l’ontologia negativa di Heidegger è stata sostituita con una ontologia positiva.
Si tratta di eventi epocali di cui la poesia italiana che si fa oggi non ha contezza alcuna, ma che la nuova ontologia estetica ha sollevato con tutto il conseguente peso di tali gigantesche problematiche. La nostra, la tua risposta sono state quella di apprestare e mettere a punto un nuovo dispositivo estetico che si esprime in distici, il cosiddetto «polittico», con salti temporali e spaziali, con sovrapposizione di immagini, di citazioni dirette e indirette, di personaggi e di punti di vista.
Una poesia, il «polittico» di sconvolgente novità e di enorme difficoltà di esecuzione. Il poeta ritorna ad essere poeta artifex, demiurgo della materia e dello spirito. Un risultato di estrema audacia.
La totalità dell’arte e della poesia di oggi, ovvero, degli ultimi decenni, è un’arte e una poesia sostanzialmente anedonica, scritta da persone anedoniche e indirizzata a una generalità di persone anedoniche, cioè incapaci di provare una emozione linguistica o emozione di carattere astratto, cioè sublimato.
Recenti ricerche hanno dimostrato che a determinare la complessità psicopatologica dell’anedonia vi sarebbero diversi e molteplici fattori: genetici, ambientali, culturali e sociali, i quali, a causa dell’interazione reciproca, contribuirebbero alla sua insorgenza clinica e sociale in alcuni strati della popolazione e in particolari ceti socio-culturali delle odierne società a comunicazione di massa, ovvero, «negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche» (Giorgio Agamben, Intervista sotto indicata).
Che cos’è l’anedonia?
Quali sono i suoi sintomi e le cause? E come si cura?
In psichiatria, l’anedonia è l’incapacità, parziale o addirittura totale, di provare appagamento o interesse per attività comunemente ritenute piacevoli, come ad esempio dormire, nutrirsi o il sesso. Questo tipo di invalidità è considerata in primo luogo come un disturbo dell’umore e, di conseguenza, può essere annoverata tra le malattie mentali, quali schizofrenia o i disturbi della personalità.
Il termine anedonia venne coniato alla fine dell’800 dallo psicologo francese Théodule Ribot per definire una sensazione contraria all’edonia, ovvero quell’attitudine generalmente positiva orientata alla ricerca e al conseguimento del piacere in ogni sua forma. Ma solo più tardi venne associata ad uno stato di anestesia organica, cioè ad un abnorme disinteresse per il piacere, specie per quello legato al cibo, al sesso, al sonno, e così via.
«… agli inizi degli anni Sessanta il sociologo tedesco Arnold Gehlen individua un fenomeno di cristallizzazione culturale che segna la fine del mondo dell’azione. Per Gehlen la cristallizzazione è appunto quella condizione che interviene allorquando le possibilità contenute in un certo contesto sono tutte sviluppate nel loro patrimonio fondamentale: la società diventa tanto uniforme e omogenea che non ci sono più differenze culturali e personali. Secondo questa impostazione, nulla di veramente importante e di decisivo può più accadere: tutte le attività sono coinvolte in questo processo generale di restringimento e raggrinzimento, una specie di “esonero” (Etntlastung) da quell’ambizione di rapporto con l’essenziale e il decisivo su cui si fondava la possibilità dell’azione».1
1 M. Permiola, op. cit. p. 130
THomo Sacer, Intervista a Giorgio Linguaglossa
Antonio Lucci
Il 25 ottobre 2018 è uscita in edizione unica per i tipi Quodlibet l’opera che ha tenuto Giorgio Agamben impegnato per vent’anni, vale a dire il progetto Homo sacer. Questo, apertosi con il volume omonimo, uscito nel 1995, si è concluso, infatti, con quello che porta la numerazione IV.2, L’uso dei corpi, uscito nel 2014. Nei volumi che fanno parte di quest’opera sono stati definiti e introdotti nel dibattito filosofico concetti che poi diverranno patrimonio comune (anche nel loro essere stati spesso oggetto di critiche) della filosofia contemporanea: quello di “sacertas”, di “nuda vita”, di “campo”, di “forma-di-vita”, la dicotomia “bios/zoe”, per nominarne solo alcuni. L’enorme successo in particolare del primo volume del progetto nel mondo anglosassone ha creato le premesse per la diffusione dei dibattiti avanzati da Agamben a livello planetario (Agamben è al momento, con ogni probabilità, il filosofo italiano più conosciuto all’estero), tra i cui effetti di ritorno vi è anche quella che poi sarebbe stata definita Italian Theory, ossia un movimento di autoriflessione e di interrogazione della filosofia italiana sulle proprie categorie fondative, che ha investito anche (e soprattutto) il mondo anglofono – interessato a comprendere come un pensatore come Agamben potesse essere posto in dialogo con altri autori, sempre italiani, che hanno animato i dibattiti teorico-critici dei decenni scorsi (tra tutti Toni Negri e Roberto Esposito).
*
L’intervista che segue, che si concentra principalmente sul progetto Homo sacer e sulla struttura del volume in uscita, è frutto di una riflessione di chi scrive riguardo alle questioni “architettoniche” dell’opera agambeniana. Oltre a dovere un sincero ringraziamento a Giorgio Agamben per l’occasione di dialogo, vorrei in questa sede ringraziare l’amico Carlo Salzani per i preziosi suggerimenti che mi hanno portato alla formulazione di alcune delle domande presentate.
Antonio Lucci: Giorgio Agamben, escono in questi giorni, per Quodlibet, in un’edizione unica i nove volumi di Homo sacer, un lavoro che l’ha tenuta occupata, praticamente, per vent’anni. Lei stesso, nella prefazione all’ultimo dei volumi della serie, L’uso dei corpi, sosteneva che un’opera «può essere solo abbandonata», rifiutando, all’epoca, di mettere la parola “fine” al progetto. In questa edizione completa, Lei vede, a tre anni di distanza dalla pubblicazione dell’ultimo volume del progetto, un lavoro definitivamente chiuso, o qualcosa ancora passibile di integrazioni?
Giorgio Agamben: Nel pensiero, come nella vita, non è facile sapere che cosa è definitivamente chiuso e che cosa è ancora aperto. Una genealogia della politica occidentale come quella che ho intrapreso in Homo sacer potrebbe continuare senza fine. In questo senso, l’opera compiuta è sempre un frammento. L’apparenza di compiutezza di un’opera è dovuta piuttosto a ragioni per così dire architettoniche e stilistiche ed è soltanto perché l’edificio mi sembrava aver raggiunto una forma coerente che ho potuto abbandonarlo. Un’integrazione in senso tecnico è la lunga nota di quindici pagine sul concetto di guerra che ho aggiunto a Stasis in questa edizione. Ma preferisco considerare altre ricerche che ho pubblicato e potrò eventualmente pubblicare in futuro come opere autonome. Del resto ognuno dei nove volumi qui raccolti era nato con una vita propria e la loro composizione in un insieme non segue soltanto criteri logici e concettuali. Se il primo livello di una composizione filosofica è certamente concettuale, l’ultimo, come ricordava Benjamin, è di ordine musicale.
Antonio Lucci: Una domanda riguardante l’architettura generale del progetto, che prende il nome complessivo dal volume I: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Originariamente questo volume è l’unico a non essere numerato, il che potrebbe dare l’idea che il volume fosse stato pensato per essere autoconclusivo. D’altra parte, la chiusura dello stesso libro apriva già all’epoca alla possibilità di un ampliamento futuro delle ricerche lì presentate, come indica il passaggio conclusivo: «Se chiamiamo forma-di-vita questo essere che è solo la sua nuda esistenza, questa vita che è la sua forma e resta inseparabile da essa, allora vedremo aprirsi un campo di ricerca che giace al di là di quello definito dall’intersezione di politica e filosofia, scienze medico-biologiche e giurisprudenza. Ma prima occorrerà verificare come, all’interno dei confini di queste discipline, qualcosa come una nuda vita abbia potuto essere pensato e in che modo, nel loro sviluppo storico, esse abbiano finito con l’urtarsi a un limite oltre il quale esse non possono proseguire, se non a rischio di una catastrofe biopolitica senza precedenti» (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, p. 211).
Quando ha pensato e scritto questo primo testo, aveva già in mente di non limitarsi a un solo volume, ma di fare di Homo sacer un progetto?
Giorgio Agamben: Anche se sapevo con certezza che avevo intrapreso una ricerca di lungo respiro, non avevo ancora un’idea precisa della sua articolazione. Ho cominciato a intravederla con maggior chiarezza mentre lavoravo a Stato di eccezione. Compresi, cioè, che una ricerca come la mia doveva necessariamente comportare una serie di indagini archeologiche, che sono quelle che sono andate a formare la seconda sezione dell’opera (oltre allo stato di eccezione, la guerra civile, il giuramento, l’economia, l’ufficio – e va da sé che altre avrebbero potuto aggiungersi). Quanto all’ultima sezione, come la sua citazione suggerisce, ero consapevole fin dall’inizio che doveva essere dedicata a una definizione della forma-di-vita.
Antonio Lucci: I primi tre volumi usciti nel progetto, Homo sacer, Ciò che resta di Auschwitz e Stato d’eccezione, sono chiaramente animati da un interesse politico. Nel primo vengono teorizzate due delle categorie filosofiche che avranno poi più successo nella seconda metà degli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo millennio: quella di “nuda vita” e di “campo”. Si sono serviti di queste categorie filosofi, antropologi, sociologi, persino geografi. Nei libri successivi però, l’interesse politico esplicito sembra lasciare il posto all’analisi archeologica e i due succitati concetti perdono un po’ la loro centralità, mi sembra. Ritiene questi due concetti ancora centrali per la Sua filosofia?
Giorgio Agamben: Non ha senso distinguere l’analisi archeologica da quella politica. Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia. I due concetti che lei ha menzionato, avevano il loro posto e il loro senso in una ricerca archeologica sulla struttura del potere e non possono essere separati da questa. Certo, al loro apparire a metà degli anni novanta, questi due concetti suscitarono polemiche e scandalo, e faticai non poco per far capire in che senso la produzione della nuda vita definiva l’operazione fondamentale del potere e perché il campo e non la città fosse il paradigma politico della modernità. Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche (ndr. corsivo mio), in cui lo stato d’eccezione è diventato la regola, quei concetti sono diventati quasi banali. Comunque si preferisce spesso usarli in modo generico, al di fuori del contesto in cui erano stati creati e dal quale sono inseparabili; alcuni hanno perfino semplicemente rovesciato la nuda vita e la biopolitica in categorie positive, operazione quanto meno incauta.