Giorgio Linguaglossa
TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE
Selected poems (1986 - 2014)
L'anima guarda gli occhi stellati del rospo
L'anima guarda gli occhi stellati del rospo.
I pesci d'argento nuotano contro corrente.
Tumefazioni verdi della putrefazione brillano
sulle mani di madreperla di mia madre
posate sui tasti del pianoforte.
Il quaderno nero sul comò
le poesie vergate con inchiostro di china
i guanti di garza nera
il profumo nella profumiera d'argento.
È l'anima svestita di stelle che salpa
verso la rotonda luna.
Una gonna color fucsia si allontana dalla finestra.
Imperioso entra il vento del nord sbattendo la fronte algida
sulla cartilagine del cosmo.
Mia madre al pianoforte suona un Lied di madreperla.
Nell'ombroso cortile ratti mangiucchiano
la carne bianca di un cadavere.
Una sorella azzurra ripete salmodiando
i versi incantati di Orlando furioso
che brama la bella Angelica, esce dai versi dell'Ariosto
e prende la forma di un cormorano nero
l'uccello degli ampi orizzonti.
«Sì», dice Enceladon da una stella,
«dai rami degli alberi uccelli storpi
prendono un volo sghembo,
vanno verso il sole pallido,
portano nel petto il lutto di mia madre
ammalata di stelle».
(1986)
da Atirev(ovvero, l'anagramma della verità) (1986-1988)
*
Entra Amleto, signori, prendete posto
nelle poltrone, di fronte agli attori del dramma;
tiriamo il sipario, che le cortine dell'ombra occupino
il proscenio e il fondale; siano condotti gli attori
per la presentazione al gentile pubblico: sfilino,
ben visibili, alla luce dei riflettori, così risibili
nei loro panni di scena.
Voi mi chiedete: «che teatro è questo?,
quale dramma si rappresenta?». «Onorevoli ospiti
lasciatemi dire che tutto ciò
è in sommo grado cagione di ironia e di ipocrisia:
è l'Amleto, il dramma, o la farsa se volete,
il racconto di Amleto»; «ma è stato già scritto!»
obietta un insulso spettatore;
«sì, è stato già scritto», rispondo;
«qui Amleto non è Amleto ma un suo doppio,
un triplo, un quadruplo, un destinatore che
invia un messaggio ad un ignoto destinatario che
scevera sopra l'armilla del tempo che
rumoreggia e sferraglia sul sipario del teatro:
incastro di motori, di ruote dentate,
rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi.
Sì, la ragione si camuffa in follia
e la reggia si addobba in stalla;
Yorick, il buffone del re,
ha ragione da vendere: un equilibrio precario
regge le sorti del mondo, un fantoccio
tiene le redini di Danimarca, e nessuno
distingue la saggezza dalla follia...»;
una maschera teatrale si insinua nei pensieri di Amleto,
ossessiva lethargia della mente,
ammorbidimento degli umori pineali, linfatismo
di un organismo debole, grasso...
*
... in altro modo servirò il re di Danimarca,
con altra scienza, io e lo specchio e la stella notturna;
come un maratoneta non conterò più i passi
fino al traguardo, con lo spadino cinto
alla vita... in altra guisa...
«Dicono i medici ch'io sia affetto da
una forma catatonica di idiozia,
una paraplegia della fonazione, una lethargia dell'ippocampo».
In altro modo servirò il re di Danimarca,
l'amigdala ha preso stabile dimora dietro il locus ceruleus,
guida le nostre sensazioni, impartisce impulsi.
«Vostra Maestà sono qui per servirvi
il cielo di Danimarca ha il colore del linfoma,
il paradosso, che passeggia sull'assito di questo teatro,
è l'abito della metastasi e la metessi è la stoffa delle cose».
In fin dei conti, chi ha scoccato la freccia?,
io?, mio zio?, Eraclito?, Parmenide?, Zenone?
che fa il calcolo infinitesimale della freccia:?
Ditemi, la freccia si avvicina o si allontana dal bersaglio?,
è reale o immaginaria?
Oh, signori, vi prego, lasciamo stare Eraclito con
la sua vile filosofia che il fiume è un altro fiume,
che panta rei e simili quisquilie;
Parmenide vaneggia sull'essere?, bene, ditemi:
chi ha distrutto Cartagine?,
com'è caduta Siracusa?, chi ha ucciso Cesare?,
chi mi risponde?, c'è una risposta?, una spiegazione?...
Apoptosi: caduta delle foglie dall'albero;
il bruco è diventato falena
il verme si trasforma in farfalla
ma, vi chiedo, la farfalla rammenta la sua vita da bruco?;
la crisalide può tornare farfalla?;
Rosencrantz e Guildenstern anch'essi vaneggiano
hanno stile e disdegno, sibille che scrivono i loro oracoli
sulle foglie degli alberi... ecco che inneggiano:
«in onore del re e della regina, per la monarchia costituzionale!»...
oh, signori, il tedio mi guasta la nobile positura,
la civetta sulla spalla e la nera calzamaglia...
anch'io vaneggio dietro i merli della torre
*
... narro la storia di Amleto che vive
una vita propria, fuori del dramma, di
come la lethargia lo colpì nel rigoglio
del magma e della follia simulata:
trama inscritta in uno specchio convesso
che deforma un dramma più antico:
l'assassinio di Gonzago che riproduce
con esattezza le circostanze del delitto,
del pescivendolo che copula con la baldracca
e dell'adulterio della mia regina,
del giusto Laerte, ignaro strumento
nelle mani del destino e del teschio
di Yorick il buffone del re.
Assistere alla commedia assorti, a guisa
di erranti in un bosco al chiaro di luna
nell'oscuro fogliame, fuggevoli
come ombre nel sonno.
Kindernacht. Spavento di bambini.
Ah, il teschio di Yorick e il cadavere del re
preamboli del dramma... oh, azzurri anni spirituali!,
il diletto del delitto, ordigno attillato al mio abito, e l'inferno
è sicuro... E l'ossequio dei cortigiani
blasfemi al guinzaglio di un cane vestito da re,
il pallore del mio volto sul quale affiorano nuvole,
il battimani di capestri...
Tutto è regolare, un ingranaggio infantile,
ruote dentate che mordono Issione il figlio del sole!
In fin dei conti, proveniamo tutti da un grande delitto,
teschio di Yorick buffone del re!,
tutti irretiti in un medesimo delitto,
teschio di Yorick buffone del re!
*
... nel folto della mia follia abitavo la luna
il castello del re agitato da spettri.
«Realtà, che parola è questa?», agitavo
lo scettro del re, il suo mantello turchino.
«Dovresti, mi dico, innumerevoli vite vivere
e dimenticarle ed affrontare il fuoco
dell'artiglieria, elidere saggezza e follia...»;
dicono i medici «che ormai Atirev è uno spirito morto,
folle da molti anni», «che la sua logorrea
è una piorrea dello spirito», «che il suo monologo
è un dialogo impossibile».
«Davvero, chiedo a Vostra Maestà, credete questo?,
che il mantello delle parole sia un ordigno
ad orologeria?, anticaglia, paccottiglia
simmetrica al tempo?, cronicario
che ho affrontato imbustato nella
divisa di un Dragone a cavallo?...».
Come dirlo?, ero nel folto della follia,
abitavo dietro la luna,
uno scettro nel palazzo del re,
ero un universo di universi...
Nel sogno chiesi la camera del re
e fui introdotto nell'alcova (con la sua baldracca)
e lo colpii alla gola più e più volte
con il mio stiletto appuntito, e il sangue
zampillò, schizzò sulle mie mani, sul mantello,
sullo scettro...
Come un plettro percorre le corde dello strumento musicale
passeggiai sul suo petto straziato, e i ratti del buio
si accucciarono accanto al cadavere.
Sul volto del mio universo eccentrico
è trascorso il diadema del re,
lo zaffiro e il giglio ho perduto
in un pozzo, né so perché
*
... il vizio, un sottile indizio, la voce della luna.
«Tutto è stato detto, tutto è stato scritto»;
ho udito quella voce tante volte nel sonno...
ciò che è strano: attendevo i messaggi, i sistri
degli spettri, calcolavo le maree lunari, gli influssi dei pianeti.
«Tutto ha un inizio, tutto ha un vizio...»
preordinavo il reato con lucida follia,
ottimizzavo il misfatto...
È facile parlare agli uccelli
è facile parlare alle orchidee
è facile parlare alle candide ninfee
la loro voce è il tormento del reame...
è facile parlare ai ratti delle tenebre
è facile parlare agli uccelli...
si posano nel giardino le metastasi e le metessi
che invadono i tessuti...
Osservo la regalità svanire
la demoltiplicazione delle anadiplosi...
Con concupiscenza guardavo la gentile Ofelia,
con circospezione decifravo i segni del destino,
osservavo lo spettro di mio padre
svanire dietro gli spalti del castello, assistevo al
mio regno svanire...
I camerlenghi preparano l'inchiostro e la ceralacca
endiadi del sonno, precipitato di tropismi,
ed io osservo il nero velluto del mio abito
l'odioso ritmico parlottio dei loro conciliaboli...
Non v'è differenza con la poesia, entrambi
recano la macchia del trisma...
Voi mi chiedete «cos'è il trisma?»,
«è uno spasmo dei muscoli masseteri,
disturbo della fonazione, congiuntura
dei muscoli antigravitari, irrigidimento
dei muscoli della faccia e del collo...»
*
... la livrea è il posticcio riparo del pipistrello
la marea deriva dall'algida attrazione della luna
la logorrea del tiranno è il suo fragile delirio.
Mi hanno detto che... (chi l'ha detto?)
«chi combatte contro il trisma non può più tacere»;
ed io rispondo: «la parola dunque a chi non può più tacere».
Al re fu prescritto di morire
ad Atirev è stato prescritto di vivere
e ridere, singhiozzare, sghignazzare...
La voce è un vizio, l'indizio del suo pentagramma.
«Tutto ha una fine, tutto ha un inizio».
Prevalsero i tropi in superficie
e nugoli di topi...
La tethralgia sorella gemella della lethargia
è un fraseggio di foglie tra gli alberi;
al di sotto della vibratile carotide
il singulto mostra la congettura del trisma
spasmo dei muscoli mandibolari
spasticismo dei muscoli della faccia e del collo
lurido psittacismo di cortigiani,
il trisma può essere vinto, dicono, con impacchi caldi
oppure con la narcosi... E invece
il lapsus tradisce la convulsione del trisma
la perfezione del prisma.
Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,
dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,
bisticci di frasari incongrui. Dopotutto
non sono ignobili i poeti che si occupano
di dismorfismi, di monemi?;
tra il sipario e il fondale recitano gli attori
il loro desultorio copione.
Il sipario ondeggia dopo ogni scena.
«Anch'io sono un ipocrita del Macbeth!»;
la mia voce doppiata è oscena, dietro ogni maschera
c'è un cadavere, lo spadino tintinna ad ogni passo
il trucco ad ogni sberleffo.
I commedianti recitano l'ultimo passaggio,
le battute che Amleto ha interpolato.
Ecco l'ultimo dileggio!
da Blumenbilder Natura morta con fiori (1988- 1989)
*
Rugiada. Nella lastra gelatinosa
della fotografia è entrato un bosco
pieno di foglie… hai ripreso a respirare
come il profilo di Simonetta Vespucci!
all’orizzonte, dietro il tuo ritratto,
s’intravvedono uomini armati che
scherniscono un prigioniero con le mani
legate che sostiene una croce;
una folla di pellegrini e pastori
li seguono; più oltre non posso gettare
lo sguardo: il limite esterno rivela
la cornice - la storia disegna il teatro
del mondo, sopprime le comparse
inutili e resuscita i fantasmi -
ma noi, dietro il diaframma, enigmatici...
il mio ritratto osserva il volto
del tuo ritratto; due parvenze, o due essenze!
stormiscono gli alberi; un lieve vento
inanella i tuoi capelli; tu sorridi
come la vittima al carnefice; sei sola
nella tua casa veneziana, slacci
il busto e ti avvicini alla mia ombra;
una farfalla si arresta sul tuo gomito
e tu sorridi fra i tre alberi in fiore
e i tre ritratti...
in una piega del tuo volto abita una stella.
dietro la parete vi sono tre vascelli
idrocaedro invisibile che non hai mai
visto; ma tu sospetti… e aspetti
che da una fessura esca uno stormo di uccelli
e una nuvola di anelli…
ma noi, dietro il diaframma, prismatici
*
... ho trovato ben nascoste nel fondo
del tiretto del tuo secrétaire, un fascio di lettere
- la tua calligrafia incomprensibile! –
legate con un nastro giallo
scritte sul retro di una carta da parati
raffigurante fiori azzurri e rossi scettri di re,
ho avuto torto se pensavo di averti dimenticata
oggi sei ben viva e visibile, non sembri
neanche corporea tanto reale mi appari...
quegli incomprensibili caratteri cirillici
che detestavo! quel flusso osceno
di morfemi asignificanti!
dovevano essere ben importanti
quegli anelli astrusi della tua calligrafia,
ma ora non lo sono più, ora che tu
sei andata – orribile a dirsi – tra i più,
o tra i meno, tra i sottratti,
presto anch’io toglierò il disturbo - del resto
poco importa se non fumerò più i sigari
toscani che tu detestavi...
per il tempo del nostro altezzoso connubio
ho ammirato i riccioli dei tuoi capelli,
le acrobazie del tuo eloquio inforbito
– einfarbich! – «posso aspirare alla disparizione
adesso che ti so perduta
non più nel mondo ma nell’antimondo,
nell’antimateria, nell’antiaria, nell’antifiamma
dietro il diaframma... adesso che il marchio dello sfacelo
e del decadimento reco impresso sul volto
e vivo come una salamandra nel fuoco...»
Le nostre immagini sedute dinanzi allo specchio:
la tua mano usciva dalla tenebra e
mi sfiorava gli occhi
*
... è probabile che ci siamo incontrati
in qualche hall d’albergo di terza categoria,
tu facevi la ballerina ed io
il perdigiorno...
o alla biglietteria di qualche aeroporto:
Santa Fè, Lisbona, Madrid, alla fine o all’inizio
di una tournée, oppure in una latrina di Mogadiscio
al termine di una soirée...
sono indizi che mi tornano alla memoria
ora che ti rivedo in un ritratto
che forse ti assomiglia...
forse progettammo di prendere un tè
in un bar di sottoripa, a Venezia; dovevamo
essere in tre: io il tuo doppio e te;
sì, il tuo doppio! che adesso si vendica
della tua esistenza!
Eravamo drasticamente giovani
questo lo rammento - quanto al resto
non mi dà tormento la stanza sprangata,
ha l’odore d’un vassoio di crisantemi…
ti sei seppellita con le tue mani
in un cunicolo dell’oblio… «ma perché?»
- mi chiedo - «perché?»
saggiamente, sono rimasto a debita distanza,
la memoria è una stanza chiusa
dove non si entra senza bussare...
dovremmo essere in due a chiedere
il permesso…
ma questo il fato non l’ha concesso
*
... dalla prospettiva isometrica dell’aria
osservo il ragno dodecapodo che risale
il margine ove dormi...
il tuo volto che riposa sul guanciale
è il tuo argine,
la sponda che ti raggriccia alla vita;
il sigillo nascosto nel cronometro
è una sonda lasciata nell’adipocera
acrostòlio e termometro dell’esilio
…………………………………..
rammento il tuo olofrastico ritegno
il libro di poesie aperto come un pegno
alla sorte, la farfalla di Dinard, Dora Markus, Arsenio,
il francobollo egiziano,
e non v’era bufera o segno
di ventura, né stetoscopio per ascoltarti
il cuore... le tue mani accese dal
fiore di aconito e di belladonna così
singolari da rammentarmi le manette
dei carcerati...
il tuo teocratico disdegno...
«vincere le barriere, essere come l’aria!» - dicevi -
oh, il ragno improvvido che risaliva
la tua guancia... il cammeo appeso al collo...
…………………………………………
per chi guarda con un occhio centrale
dallo spioncino di un oblò, il reale
appare tradire il principio di costanza
il malessere quieto dell’esistenza,
l’abisso di là dal gradiente terminale…
*
... ti consegno, mia regina, flebilmente la mano
affinché tu mi conduca nell’ampio
salone dove intreccia un drago invisibile
la sua danza... un’orchidea sul mio petto
lampeggia, la mia vasta fronte inclina
il suo algido fulgore verso il tuo guardinfante
e tu stai seduta al pianoforte che azzurreggia....
sulla mensola del camino San Giorgio
sul cavallo impennato trafigge il drago,
nella reggia dell’Escuriale il re e la regina
intrecciano i passi, guerreggia sul tuo volto
bianchissimo la mia notturna paralisi...
(c’è nel vuoto un drago che aleggia!)
il sipario noctiluco si agita...
la fantesca attende i tuoi ordini recisi
la notte farsesca introduce i suoi incubi,
gli istrioni e gli iloti chiedono l’ingresso…
(i sonagli del sonno!)... il fruscio
delle vetrate screzia il nostro luttuoso silenzio...
come Filippo II attendo i cadaveri
relegato nell’Escuriale, il bollettino
mattutino macchiato di decessi
e di sangue...
tu, mia luttuosa regina, canti un’aria
del Don Giovanni di Mozart
e oscilla la tristezza del tuo busto
che ti scopre le spalle sottili
mentre io febbrilmente attizzo il fuoco,
nel camino che dardeggia...
c’è nel vuoto un drago che aleggia…
*
... scorgo nel tuo volto il presagio
di un’altra inquieta parvenza, il nascondiglio
di un altro più profondo, infungibile,
noctiluco destinatario...
perché tu sei
il rovescio dell’indirizzo, il mandante
del mittente, una melancholica dea
tenebrosa, una regina che medita
sul nulla nell’ombra d’una regalità
infirmata...
noi siamo il formulario
d’uno scorbutico alchimista, la
catena ferrea che unisce anello
ed orpello, triglifo e metope, incontro
ad un destino fiorito di tombe
e di cadaveri...
noi siamo (e non siamo)
il possesso e l’effrazione, l’alterco
sul mento e il crocicchio, la fittizia
cresta di un arabesco, l’intreccio
teriomorfico, astruso ghirigoro di ofidi…
ho bisogno, mia regina, per morire
della tua algebra, del calcolo delle longitudini
e delle derivate, del sigillo di
ceralacca che custodisce il sonno,
della improprietà di un vocabolario
intonso al quale siamo legati
indissolubilmente come un discorso
anfibologico che appartiene non sai
se al proprietario o al destinatario
*
... urto contro le foglie dischiuse
del tuo decolleté,
il busto rigido come il collo di una
bottiglia che versa sul tuo seno un
liquore soporoso, corrosivo...
ho dimesso, come vedi, la posa
cinematografica
di cui mi circondo come una cortina
di tenebre, come una cinciallegra
che gorgheggia e un’allegoria,
tortile come uno schiavo della
cappella medicea di Michelangelo...
la nerezza brilla sui tuoi capelli
purpurei,
nell’aria che respiro seguo il tuo lento
incedere...
il volubile gradiente di un angelo nero
cui attecchisce il veleno... graminacea
rampicante, parietaria che invade e divide
gli angoli tra le pietre...
sospese nell’aria che respiro
danzano le palline sonore del pianoforte:
il tuo lugubre Chopin!
la mia camicia che brucia agli orli
delle maniche
*
... il profilo del tuo volto così affilato,
sottile,
che appena lo sfioro con la punta delle
dita ed è subito graffiato
e il sangue
sgorga con la tranquilla effervescenza
d’un palpito segreto...
tu esisti!
– lo rammento con mia meraviglia –
il guardinfante ha l’immobile impalcatura del
cigno, il lungo tortile collo, il
gentile incedere... quasi mi è
impossibile pensare al tuo sangue
che zampilla da una ferita
sull’avorio della tua pelle...
con la schiena rigida nelle stecche di balena
del tuo busto,
sul bianco guardinfante
oscilli nel salotto ornato di
medaglioni fioriti, tritoni e maschere
*
... ti conduco lentamente nell’ampio salone
la mia mano riposa sul tuo fianco,
entrambi danziamo e non sappiamo
dove i nostri passi scortati ci porteranno...
la nostra stanza è l’ampio salone
ove danzavamo alteri quando la stella
il suo silente fulgore obliava,
noi siamo la stella marina
incrostata di sale, che muore
eppure palpita! sanguinosamente
abbandono il tuo anello, socchiudo
gli spiragli dell’aria: «respiriamo
dunque siamo»... ah, le tue parole!...
danziamo... ti serro
al mio petto, pube contro pube...
aspiro il profumo del tuo seno
labbra contro labbra, con la bocca
ti cerco...
siamo divisi come memoria
e oblio, giglio e papavero
il mio occhio lontano guarda il tuo
occhio distratto, il mio sguardo si posa sui tuoi
riccioli purpurei...
«respiriamo dunque siamo» - dicevi -
ed io: «ti amo come il fioraio ama il fiore
come il marinaio ama la nave
o il musicista le sue note sfibrate...»
noi nella danza dormiamo, i tuoi passi
intrecciano i miei passi
come dito ad anello, affresco a parete...
«respiriamo dunque siamo»
Sinfonia n° 25 in sol minore K 183 (K6° 173db)
... per metà il tuo volto è immerso nell’ombra…
colto da asfissia, chiasmo e antipodo,
rivela il sarcasmo e l’ellittico sorriso
che dissimula oblio e orrore.
«Può riservare una sorpresa
il finale di partita, può un’impresa
faceta riservare il dramma?», mi chiedi
inquieta e spaventata nell’ampio salone
di qua dalla veranda tranquilla ove nulla
accade e soltanto il fumo si torce
in volute che seguono la sinfonia di Mozart,
il nostro Mozart che dispregiamo
e amiamo… mentre altrove si torce
qualcosa che non sappiamo, ma che esiste,
esiste! come il cormorano o l’uccello
del paradiso dai colori fiammei.
«Il gallo che alterca con il sole
non distingue l’alba dal tramonto», replica
il mio volto saccente trascinato
come lo strascico di una vestale
dalle note della sinfonia di Mozart,
il nostro Mozart che dispregiamo e amiamo…
«Abbiamo dunque tempo per riscattare
virtù e nequizie? – ti chiedo – la chiosa è normale
come la cosa? e il nulla è l’equivalente
della materia? dispiegamento
che ci sovrasta e che dispregiamo?…»;
oh, altrove, l’ampia svasatura del tuo décolleté
riceve la placida luce del tramonto.
Una tranquilla aria nostalgica si diffonde,
serenamente dubitiamo
della nostra realtà e della musica di Mozart...
ondeggi leggera,
nivea Colombina tra le folgori che guizzano
dietro le ampie vetrate della veranda…
la sera ci sorprende inquieti, malvagi,
presi da incantamento...
e Mozart ci sfiora con le sue vesti sonore...
*
... «in das Niemandsland, das Kinderspilzeug!»
- diceva il nostro demone -
dietro il prato c’era «sich zurechtzufinden»
la casa dalle tegole rosse...
io pensavo che il sole
dovesse splendere in eterno, seppellivo
la mia minuscola eternità dietro lo specchio,
con un orecchino spezzato io
agitavo lo spettro così irreale
del mio mantello e la stella...
«delle nuvole che corrono verso
il bersaglio del cielo non conosco
il significato» - mi dicevi - «l’accidia è
cognizione degli uccelli, impiccagione
del delirio...»
- replicavo in preda alla menzogna -
tu forse eri nella luna
ed io nella clorofilla del sole...
eravamo la febbre nel delirio, il trillo
del violino e la custodia del violino...
la macchia sull’avorio ci induceva in orgoglio...
tracce di fumo sulla madreperla del tuo seno
erano i giorni, come fiumi tranquilli
gli anni che circumnavigavamo...
della melancholia del fauno silvano
e della ninfa intrecciati nell’amplesso
noi dimenticavamo la lussuria
notturna; come la barca tra i violini
di Mozart il nostro idillio periclitava
sommerso dai liquori luttuosi...
come un drappello di fanteria marciava
il tempo con squilli di tromba e grancassa
verso il lutto prescelto...
come da una tomografia assiale noto
il diagramma dell’accidia e dell’acedia
irresistibilmente salire....
io, il chimico della mia sudicia, sconveniente ironia...
il panorama della follia è già stato
sufficientemente commentato,
documentato, archiviato, un’altra glossa la trovo
risibile, defungibile, sommergibile
*
... il tuo tagliente profilo l’ho inciso
con le mie mani
su una medaglia di rame; «il falsario
alberga nel similoro», - glossavi –
“così – pensavo - tu abiti
il metallo come l’emblema di una città
che racchiude il suo destino…
la medaglia è più eloquente
di un foglio protocollo,
ha un suono cupo, sordo come un tonfo,
il tuo mento non trema, non desiste,
non increspa la superficie del tuo volto algido...
aggiungi spendita a perdita, fuga
a viaggio...”; «perché non v’è felicità
senza coraggio» - dicevi; ed io: “non vi è sorriso
sul bronzo a rilievo, né puoi scambiare
a fortiori lo sdegno per saggezza”,
replicavo con il pensiero...
«il nervo vuole la cesoia che lo stacca,
la carne il bisturi – interloquivi algida –
ciò che rimane
è stridore, lamento, ultimo bagliore
del nervo lacerato, della carne, non credi?»;
«no, non lo credo» - replicavo
seduto sul divano occidentale
in attesa, inquieto, della stagione invernale
*
... sfiori la tastiera del pianoforte
per richiamarti alla materia;
sul tuo dito indice
brilla il destino caduco degli uccelli...
la cattività dei nostri intenti era intreccio
teriomorfico di ofidi, geroglifici...
«in tutti questi anni della mia tortuosa
fuga dal mondo ho errato come un
arcangelo oscuro
con la sua spada celeste, fiammeggiante»
- dicevo nell’ira -
«come tutti i poeti sei un bugiardo»
- interloquivi dal sipario-
come una sirena spandevi gorgheggi
sonori e letali; come la «Primavera» del Botticelli
toccavi con un dito in posa rigida
le foglie degli alberi dipinti; i tuoi capelli
recinto di murene e tropi brillavano
purpurei ed io con il leggero volo di Ermes
accorrevo armato di caduceo...
«dormiamo mia idrovora narcomedusa
il narcile assopisce il dolore»
- ti dicevo nel terrore -
«l’età fredda ha la funzione del laccio
emostatico, ci consente di vivere,
respirare, tossici di quarzo, ipnotici
dei nostri contrappunti, dello strabico
volo degli uccelli, della numinosa follia
della tetrapodia giambica...»
il denso feldspato dei nostri capricci
ci lasciava indifferenti, riluttanti
alla passione e al disprezzo, entrambi
distratti e scontrosi guardiani del nostro
desiderio, del nostro adulterio reciproco...
una immagine fittile che crede di respirare
e vivere!
ora siamo sottili lamine di dagherrotipo
esistiamo sulla superficie chimica della materia
*
... sono caduti gli anni come forbici
dalle mani di un barbiere...
cammino con la lebbra agli orli della bocca
sanguino come un vampiro o un nero
uccello notturno...
siamo algidi, mia amata, nella bara di zinco
ci assopiamo al requiem di Mozart
ragionando della passione defunta,
tu oscillavi al ramo di un albero come
un frutto esotico, intorno danzavano cureti
con aste e scudi di bronzo,
che chiasso! sul mare danzavano nereidi
e le tue trecce erano così sottili
e complicate e sibilline
come le latebre del palazzo della Bipenne,
il tuo bacio aveva la fragranza del papavero
e del girasole…
la lussuria della memoria mi ungeva
la fronte (…)
oh, mia amata, nella barca del sonno
remiamo nel nero mare dei Glockenspiel,
culliamoci tra i flutti di porpora
come se nulla dovesse sopravviverci
come la siepe con in cima i girasoli dietro la quale
un bosco di cristallo azzurreggia
Tre fotogrammi dentro la cornice
Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un'ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre
i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.
Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:
«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero
che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,
non sanno l'uno dell'altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c'è;
una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,
inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.
Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;
fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.
Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,
sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d'argento,
la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,
il fermaglio d'argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,
lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io
che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato
gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker
parlano alla radio con eloquio forbito.
Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,
il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l'acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto
di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,
sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo
un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta... mi chiedo:
“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.
Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.
La grigia guarnigione dell'alba posa l'uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann
c'è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra
la macchinina a pedali...
Ecco che il congegno si mette in marcia:
tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario
eppure è fermo, come nell'ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:
resta il cigolio della giostra illuminata.
Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.
Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;
al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala
ripida che scende nel buio.
“È il varco dell'Inferno”, penso con sgomento
questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.
Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,
le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;
una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.
Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.
Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano
a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra
alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;
camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)
“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre
la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)
Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell'ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,
esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio
con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all'esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.
Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto
immerge la mano nell'acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.
Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,
getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.
Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.
Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio
i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.
Una bandiera bianca prende vita dal mare.
Las Meniñas: qui a sinistra c'è l'infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d'onore e il nano, l'italiano
Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi
è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l'effrazione di una serratura,
irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,
guardare dietro i vetri spessi d'una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.
«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.
Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo
e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,
prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,
fa lo stesso.
Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna
e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.
Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,
il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.
Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta
verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio
e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;
sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali
reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata
che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità
diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
- si apre un’altra finestra nella seconda cornice -
una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.
Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.
Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,
una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.
Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento
con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?
Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?
Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice
del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
- quale secolo cade in questo cortile? -
piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:
il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.
Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:
“È così ben vestito!”; «sì - rispondo - abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,
replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa
o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,
indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso
ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito
a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,
(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli
e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».
Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco
tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?
Il secolo dei lumi e della tolleranza?
Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein
ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.
Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,
si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi
e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»
(1992-2013)
da Uccelli (1992)
Il retro dell'inferno è fitto di quisquilie e di oltraggi
Il retro dell'inferno è fitto di
quisquilie e di oltraggi, pachidermi
del non senso, del posterius, del prius.
È nel fiume dell'Averno che diguazzano
i morti con le loro toghe attillate.
Il teatro dell'inferno è gremito
di voci oscure, vocabolario infantile
che mostro come un re espone il proprio
mantello regale; i diletti del giorno di nozze
sono lontani, stantii, soliloqui
d'un demente senile, d'un dio ottuso.
Un dèmone ricciuto contempla i
bambini che giocano con la matassa.
Ho scelto l'infanzia degli dèi.
Per annunciare i miei prodigi
ho scelto gli uccelli.
Strappo dalle ali degli angeli lo zolfo.
Strappo dalle ali degli angeli lo zolfo.
Sono qui con i miei uccellini, dò loro
del cibo e li osservo saltellare
e svolazzare sulle mie braccia, fra i
capelli, mi mordicchiano i baffi,
prendono possesso della mia testa
come d'un comodo giaciglio. Loro
sono gli angioli, i lillipuziani
petulanti. Li guido nel giardino
festanti, Loro lembi del cielo,
dell'empireo imperturbabile,
sostantivi della sostanza, aggettivi
della mia essenza, sono così vicini,
inestimabilmente prossimi al mio
arpeggio, mi proteggono come la
nube protegge il lampo. Penso
che nel giardino non esiste la morte,
c'è soltanto l'immoralità del loro
canto, così simili agli angioli
asessuati, c'è soltanto l'immortalità
del loro vanto, superni capricci degli dèi.
Si addormentano nelle mie mani
minuscoli unicorni, miniature
di dèi afrodisiaci; lucidi spettri
zampillano dalle bocche dei fauni
irridenti disseminati negli orti.
Epigrafe del Labirinto pongo
il canto degli uccelli al tramonto.
Come il re Moctezuma mi credo invulnerabile
Fuggono i miei uccellini dalla gabbia
verso le nuvole del cielo, si ricongiungono
alle stelle, loro dimora naturale.
io l'immortalità l'ho deposta
in un mazzo di girasoli
la tengo stretta nel petto
come gli Aztechi il loro tesoro,
come il re Moctezuma mi credo invulnerabile,
invisibile, assiso sul trono di Quetzalcoatl
circondato dai miei cortigiani-uccellini,
dagli orefici del dio Sole,
dall'esercito con le spade di rame.
Io sono il metronomo, il pendolo
dell'universo, e non posso che oscillare,
volteggio come un aeroplano, sono
un aviatore e non chiedo armistizio
ma una guerra sanguinosa; il vento
scuote il mio mantello. Orribile
come il volo del pipistrello è la mia caduta
verticale.
La mia eternità l'ho declamata in un verso
nel tramonto tra i girasoli gialli.
Il Faraone mi interroga
Muti fiocchi di neve che turbinano
nella tormenta, i miei versi sono
alati aliti, effluvi.
Il Faraone mi interroga.
I miei uccellini frullano le ali.
La sua tempia ricciuta riposa sulla mia spalla,
reclina il capo assonnato nel mio grembo accogliente.
Un gallo d'oro sussurra nel tramonto.
Siamo irrelati come vipera e demonio,
come singulto e singhiozzo.
Come un Faraone ripudio le piramidi,
i giardini di Alessandria colmano
la mia anima di tristezza. L'Egitto
risplende di ricchezze ed io come
Giuseppe sciorino dai geroglifici
dei sogni le dubbie interpretazioni.
A passo di minuetto soffiava l'Angelo
dal cielo ed io sul dorso del cammello
attraversavo il giallo deserto
Alla reggia del Faraone mi recavo
e le stelle precipitavano dalla camicia.
Dal pulviscolo del mio delitto
Dal pulviscolo del mio delitto
sono disceso macchiato di cerone
da teatro; al più coelicolo degli
uccelli mi sono aggrappato come
una maschera teatrale al suo attore
prescelto, come un palcoscenico
mi sono adattato al passo sordo
e convulso d'uno squadrone di Ussari;
con il cordone della Legione d'onore
ho esautorato la grammatica degli
uccelli, provando col nodo scorsoio
la durata dell'ultima vertebra.
Con il rasoio in mano puntavo dritto
al cuore del pretendente, al petto dello
sfidante; esoso rituale da manuale.
Il rifiuto non si attagliava al mio
guanto. Ora la sciabola è nel fodero,
l'onore è appeso alla cintura e al
medagliere che brilla, chincaglieria
farsesca ossidata nel mio sangue
simile ad un inchiostro nero. Vivo
costipato di relitti e di delitti,
come un generale dopo la battaglia
commisuro il trionfo sul computo dei
cadaveri, la plumbea corazza aderisce
alla mia carcassa che oscilla.
Oh, non devi stupirti, siamo nel castello
di cartapesta tra spade di cartone.
Il Pappagallo e gli Uccelli
Ho la testa intrisa di uccelli algidi
che giocano con il berretto a sonagli.
Il pappagallo osserva con occhi algidi
l'insensato scuotimento delle loro ali.
Il pappagallo e l'urogallo, essenze
psittacidi, affilano gli artigli.
Uccelli di quarzo e uccelli neri
intreccio teriomorfico di angeli e diavoli.
Il pappagallo sanguina dagli occhi
e gli uccelli gozzovigliano leggeri.
Il pappagallo, corrucciato, fronteggia
gli uccelli che sbattono contro le pareti.
Il pappagallo immobile con voce rauca
imita il canto soave degli uccelli.
Il pappagallo, cronografo ieratico,
pantografo del sonno, nostalgia,
trascrive la pornografia degli uccelli.
Dodici re Tolomei assorti nel trono di quarzo
Dodici re Tolomei assorti nel trono di quarzo
osservano gli uccellini svolazzanti
impressi nel papiro tra agavi ed acanti.
*
Dietro il sipario della tua sinopia v'è un mare
di distanza, gli archetipi di tre re
incoronati che parlano agli uccelli.
Dietro ogni re vi sono tre torri
e dietro ogni torre vi sono tre vascelli.
Questo è il geroglifico della vita
il criptogramma del canto degli uccelli
Emblematica e paraphernalia
Emblematica e paraphernalia, inventio del caustico inferno.
Paraninfica ars combinatoria, alias, hierogliphica arte degli orpelli.
Il canto è la stenografia degli uccelli.
*
Gli Angeli nostalgia dell'empireo sono il sangue del paradiso.
Gli Uccelli nostalgia del cielo sono i messaggeri della pioggia.
Entrambi iconoduli di un unico Eidolon.
*
È l'uomo vecchio che sta sulla torre,
questo è il panorama che più gli si addice
il cielo stellato più non predice.
È derisorio, dice, osservare gli uccelli.
Quanto a me vivo tra le foglie dell'albero
Quanto a me vivo tra le foglie dell'albero
come un uccello che manda un singulto
spietato. Così futile sono diventato, lascio
il flauto oscillare tra le foglie dell'albero.
Sono più vero quando il vento scuote le fronde
e il terremoto discerpa le radici, le narici
avvertono l'odore del fortunale; siamo amici
io e l'uccello che manda un sussulto ferale.
Aspettiamo l'infinito, guardiamo il temporale.
*
Come uno stemma di frigidi uccelli
suggerisco una pedagogia del delirio,
un drastico abbinamento con l'estetica
del monocolo perché la tenebra discenda.
Meditativo in sottovoce, chiaroscuro,
con l'occhio rivolto alla precipitazione
atmosferica, in direzione del binocolo.
La notte, sorella dello Stige
Brucia il giaciglio, che il fuoco palpiti
parli al tuo volto che incarna il doppio
- la maschera dell'eloquio! - in uno scoppio
di attimi fuggenti, di fuggiaschi strepiti.
Dipingi il ciglio erboso del bosco
preda della maschera del fuoco, stridii
di fiammei uccelli, attriti di rotaie
divelte. Bevi un sorso del liquido tosco.
*
La notte non conosce il canto degli uccelli.
Sul ramo più alto quando la tenebra è più fitta
molto prima che la pioggia avvolga l'albero,
io sono io e gli uccelli sono i miei orpelli.
La notte, sorella dello Stige, i miei anelli
prendono fuoco e oscurità, i cigni dormono
al candore della Balena che non verrà.
La notte, gemella del fuoco e dell'oscurità.
Il mio uccellino apocope degli dèi
Il mio uccellino apocope degli dèi,
apostrofe dell'empireo, imperturbabilmente
rivaleggia, per bellezza, con i piatti
della mensa di Erode, con il riso degli dèi,
con la chioma di Berenice tolomea.
E lui, al quale in sorte e per dimora il cielo
è dato, non scissura né fessura conosce.
*
Il mio uccellino mantello degli dèi
come un re vile è pieno d'oro e d'opulenza
anche ora che vecchiezza lo assedia
e lo incalza con fermagli colorati.
Versatile è il suo canto come un grumo
di sangue, leggero come arco e arciere;
il mio uccellino è un mulinello d'aria,
inessenziale e inessente non conosce
la morte, attraversa la bronzea regalità
come una freccia scagliata dall'arciere
degli dèi.
La caduta dell'Angelo ribelle
I
Nel cielo nitido, al posto di comando, in cabina,
guardo la fusoliera in fiamme, l'incendio divampa
non c'è dubbio, il ronzio del monoplano cessa,
ora tossisce, scalpita, e nel fuoco che già
avvolge la cabina percepisco con chiarezza
la drammaticità della situazione - mi turba
la mia indifferenza, come se tra poco
le fiamme non dovessero avvolgere me, ma un
altro sconosciuto Signore che mi somiglia,
con cui, in rapporto telepatico, vedo
lo stesso cielo nitido, le fiamme, la fusoliera...
II
Nell'attimo del tuffo chiusi gli occhi,
il vortice d'aria mi risucchiò nell'imbuto.
Guardavo il cielo azzurro, opprimente,
seguendo il filo a piombo della gravitazione
universale quando il paracadute variopinto
si dispiegò e, sotto le braccia, lo strappo
mi tenne alto, leggero come un pennuto uccello.
L'orecchio di tigre del paracadute
librato nell'atmosfera, cenotafio del cielo.
Sotto, il mare smeraldino in minuscole scaglie
iridate, risplendeva.
III
Il tonfo plumbeo si schiuse ed entrai
nella vetrosa cornea del mare cristallino
come se le palpebre si fossero scosse e serrate.
Vidi le lastre dell'oceano scindersi e sprigionare
innumerevoli bollicine, il gas della mia vita,
non fiamme o scintille; la vetrina del mare,
i pesci guizzanti spaventati dalla mia caduta
di angelo ribelle. Giunto al punto finale
l'imbuto si aprì e risalii, con mia sorpresa,
gorgogliante, seguendo la traccia perpendicolare
della discesa agli inferi, con pochi colpi,
alla luce, all'aria che risplendeva, al sole
che sfolgorava. Il paracadute tigrato sulla
superficie del mare sembrava una testuggine
esotica, le corde attorcigliate alla
mia vita, la tuta da aviatore. Il plumbeo,
vetroso, turbolento mare cristallino.
IV
In solerte inerzia indosso lo scafandro,
la tuta gommosa, le pinne, controllo
le bombole di ossigeno, il manometro,
le apparecchiature per la discesa, la valvola
di sicurezza, l'orologio. Una missione
tra le tante. La materia equorea si apre,
mi deglutisce in miliardi di bollicine.
Da bambino ero ghiotto di gazosa
per via della gassosità del liquido,
ora mi seduce tutto ciò che è compatto,
inalterabile, insolubile. Il mare,
cilindro ad ipocausto, lo raffiguro come
una miriade di scaglie cristalline.
L'immersione è una vertigine equorea, abluzione,
oblio. Lo scafandro è una carrozza
trainata dai cavalli del sonno. In ipnotica
ipocinesi rimuovo i bulloni dalla chiglia
d'un grande cetaceo inabissato, mi apro
la via nel ventre del mostro. Risalgo.
Abbandono la dimensione equorea, tra poco
sarò nella gassosità, nell'aria, nel fuoco.
da Paradiso (2000)
III
Città assediata. Un ariete percuote la porta di ferro.
Soldati crollano in nere armature. Un vento gelido.
Un'onda percorre a ritroso la Storia.
Un angelo gobbo appare sulla soglia. Piange.
«Sei tu l'angelo eletto, sei venuto ad annunciare la discordia?
Guarda, la tomba è vuota, la resurrezione non è avvenuta».
.......................................................................................................
Fruscio di imposte. Le tende scosse dal vento del Nord.
Il Tempo si muove. All'indietro è più chiaro lo svolgimento,
gli snodi.
Le navi sono partite. Siracusa è presa.
Una colomba porta la buona novella.
Un palazzo in una città del ventunesimo secolo.
Lampadario illumina, telefono squilla,
una bambina piange. Ali crescono sulle spalle della bambina.
Interno domestico. Una donna nuda davanti allo specchio
si spalma il rossetto sulle labbra, sorride
e guarda il suo bambino.
..........................................................................................................
Fruscio di palpebre. Due mele di sonno
ha il secolo sovrano. Due funamboli, Bim e Bom
si scambiano il testimone.
Fascio di scintille di trolley di tram in corsa.
Città lituana. Dal buio esce l'angelo gobbo
che annuncia il male e si inginocchia.
IV
Il paggio tiene le redini. Alla sua comparsa
è affidato il cavallo. Sulla sella l'alterigia del cavaliere.
Ai lati, in primo piano, due Signori inginocchiati.
Lontano, il campo di battaglia, lo strepere di trombe e tamburi,
il cozzare di corazze, il nero nitrito dei cavalli.
Una nube avvolge i combattenti.
Se accosti a terra l'orecchio puoi udire zoccoli di cavalli,
tonfi di cavalieri disarcionati. Lontano,
oltre le montagne, un eidolon si staglia dal fuoco.
Un discobolo. L'algida stella del sesso, l'incavo
del bacino, il passo imperioso della corsa,
lo scatto dei tendini e il braccio a svellere il giavellotto
dallo spazio.
Palazzo del ventunesimo secolo.
Una donna nuda si pettina davanti allo specchio
e canta. La riconosco. È mia madre che canta
impressa nel futuro. Oscilla la testa, i capelli tracciano
un'onda, il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Tutto è illusione. Un dio fabbrile dissolve,
diffrange la Storia, dissigilla lo spettro, lo scrigno,
la sintattica granulosità del fuoco che alita
e lampeggia.
V
Canto di fagotti al chiaro di luna. Soldati romani
crocifiggono i ladroni sul Golgota e il terzo uomo
viene rizzato sulla costola più alta del monte.
Il Sinedrio esulta, a Pilato scoppiano le tempie
e Giuda, l'intellettuale, pensa già
di fare le valigie, tagliare la corda. Ma è tardi.
La pingue Storia. Saturno che divora i propri figli.
Teatro di marionette decapitate. Fili spezzati
che oscillano, ammiccano alla furia devastatrice.
Sipario. Silenzio. Spavento di bambini.
L'Angelo dai quattro volti
Vidi l'Angelo dai quattro volti che guardava
in quattro specchi il mio sembiante riflesso,
quadruplice barbaglio della luce incidente il profilo araldico.
L'abbaglio di otto occhi celesti assorti nell'oscurità.
Tetragrafico, tetracriptico profilo.
*
Gli angeli parlano nel sonno e abitano il paradiso,
luogo del pneuma. Privi sono
di carne, non passioni manifestano né iracondia.
Inferiori, bramano la carne, la nostra sanguinosa
dimensione. Vorrebbero disertare
ma non possono dall'esilio.
Un angelo rivela
La sfericità è l'essenza dell'universo.
La verità di una sfera non coincide
con la verità della sfera sottostante
né con quella che immediatamente la circoscrive.
La soprastante sfericità racchiude
e annulla la verità delle sfere inferiori,
sigillate nella quiete del loro silenzio.
La numericità delle sfere armillari
del mostro dell'universo impallidisce nel riflesso
cangiante della immagine musiva.
Nella disputa tra i mathematikoi e gli akousmatikoi
scelgo questi ultimi, perché nell'orizzonte del mondo
forse non esiste né deve esistere l'armonia.
pag51 .........
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