Commento di Daniele Santoro su La Belligeranza del Tramonto, LietoColle, Falloppio, 2006

 

Poesia di raro spessore culturale, quella che emerge dalla raccolta La Belligeranza del Tramonto di Giorgio Linguaglossa, voce poetica controcorrente nonché narratore, saggista e, soprattutto, critico letterario fine e dissacrante (si ricordino almeno la direzione del quadrimestrale di letteratura «Poiesis» e il voluminoso libro di saggi sulla poesia moderna Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte).

Terzo lavoro del poeta romano, dopo Uccelli (Edizioni Scettro del Re, 1992) e Paradiso (Edizioni Libreria Croce, 2000), La Belligeranza è opera ardita, tutt’altro che di immediata e primaria significazione se, ad un più attento accertamento, non manca di presentarsi problematica e mostrante tutto il fascino delle sue innervazioni sotterranee, pur attraverso un linguaggio esplicito e comunicativo, di immediato impatto sul lettore.

Il discorso di Linguaglossa si costruisce attraverso una serie di personaggi di varia umanità invitati ad abitare i luoghi del libro; si tratta di re, imperatori, sceicchi, condottieri, soldati, filosofi, sguatteri, le vicende dei quali, reali o presunte tali, si dipanano in un indefinito passato, in territori di confine che non escludono scenari mitici o storici più o meno larvati.

Tali personaggi, attraverso l’esemplificazione del loro modus vivendi, si fanno portavoci ognuno di una tesi, di una interrogazione problematica intorno all’essere e all’esistere umano nel mondo e nella Storia - punto di forza del libro. Ecco perché non esito a dire, sin dall’inizio, che con la Belligeranza siamo di fronte aun’opera eccentrica, per statuto ontologico, vale a dire “fuori dal centro” di un messaggio facilmente circoscrivibile; o piuttosto di fronte a un poema filosofico che, di là dell’articolazione in più testi, si mantiene coerente ed è scandito, dal principio alla fine, da una ricerca che affonda le sue radici nella storia del pensiero classico e contemporaneo.

Non è peregrino in Linguaglossa il riferimento alla matrice classica - peraltro confermata da molti titoli della raccolta; va però subito detto che il classicismo del nostro non tende a esercizio di maniera o a puro anacronismo; piuttosto, in virtù della sua straordinarietà fuori dal tempo, esso funge da paradigma, emblema, archetipo che conferma l’assoluta esemplarità del perenne interrogarsi umano intorno al sé e al mondo che lo circonda (di qui pure la funzione che assolve, all’interno del libro, la presenza del mito). 

Si leggano i testi poetici Due ritratti: Ezio e Attila e Il discorso di Ezio agli ufficiali romani che offrono l’occasione per presentare uno dei nuclei concettuali più importanti del credo poetico linguaglossiano. Lungi dall’essere mero resoconto di una battaglia storica, essi piuttosto enucleano la contrapposizione ontologica e ideologica che distanzia i due protagonisti - nella fattispecie Attila da una parte ed Ezio, suo antagonista, dall’altra. In effetti, il conflitto è tutto giocato sul contrasto tra il giovane re «venerato dai suoi soldati come un dio immortale […] condannato a vincere» e il maturo generale Ezio, «l’ultimo dei romani», difensore di un impero in disfacimento che, alle soglie della romanitas, è già «sarcofago vuoto/ una bolla di sapone». Ebbene, la grandezza di Ezio, alter ego del poeta, sta nel sapere opporre ad Attila un sistema di idee e valori “altro”, una scelta di vita che trova il suo perno nella filosofia del punto contro la filosofia della linea, spezzata in due e annientata di cui è invece assertore il re unno. Scrive il poeta - Ezio «difende il nulla […] ha imparato che tra il nulla e il tutto c’è un punto» ed è appunto questo punto, tenuto «a tutti i costi, a costo della vita», che differenzia lo scontro e lo risolve, seppure provvisoriamente. 

Invito il lettore a una serie di riflessioni. È noto, storicamente, che il generale romano non sfruttò al massimo la vittoria ai Campi Catalaunici (la battaglia a cui si allude nella poesia è appunto questa) inseguendo il nemico in ritirata; ora non sappiamo se l’autore abbia voluto attenervisi fedelmente o meno (e in ogni caso l’indeterminatezza è riuscita), sta di fatto che se Ezio lo avesse fatto, avrebbe trasgredito alla sua filosofia e probabilmente sarebbe stato travolto dall’evento. Inoltre, non possiamo ignorare la finezza del poeta nell’avere scelto un soggetto che trova, nella fedeltà storica, un’ulteriore ragione (l’autore non lo dice, ma ho il sospetto che abbia voluto lasciarlo intendere al lettore). Attila, «padrone del mondo» che «ha tutto da perdere», «stanco e timoroso delle cento vittorie», è domabile a condizione che lo si costringa «all’immobilità», perché egli è già vittima di se stesso, «della sua incertezza», della sua hybris («figlia della scelleratezza», la chiama Eschilo nell’Eumenidi) che inesorabilmente ha già decretato per il prosieguo delle sue gesta in Occidente un futuro di fame e malattie e per sé una disonorevole morte per (sic!) epistassi. Se però Attila è il barbaros, il brutale saccheggiatore della romanità, Ezio è il (nostalgico?) portavoce di ideali estranei a un mondo che cambia, a un mondo sgraziato, imbastardito, ridotto alla barbarie, spregiatore del bello e incapace di commuoversi di fronte al mistero del mondo contro cui (e ne è una provvisoria vittoria, una vittoria dello spirito) noi si può dignitosamente opporre la propria fermezza, la fedeltà ai sacrosanti e condivisi principi di verità e bellezza, di civiltà e costumanza. Ne è conferma la chiusa del testo quando in un lapidario tocco tra l’elegiaco e la solennità dell’evento (di dantesca memoria) Ezio, congedati «gli ufficiali, convocò gli aruspici ed uscì dalla tenda a guardare le stelle»; laddove invece Attila è tutto proteso all’imminente, alle gioie terrene, alla selvaggia dispersione dal punto, solo intento «a mietere allori, calpestare cadaveri» perché «va dove lo porta il vento e il puzzo del sangue» e ignora il «vitreo nitore» della bellezza che fa dire all’autore - richiamandosi a un altro passo dell’opera - che se «è nato un fiore tra la gramigna/ […] è già un miracolo che sia sopravvissuto/ […] per questo per noi/ è tanto più bello e degno di considerazione». 

L’assioma del “punto” è asserzione già incontrata, non a caso, in uno dei testi iniziali della raccolta laddove il filosofo Ipponatte, «soldato semplice ed inviato al fronte», fu visto «prima della battaglia» con un ramo a tracciare «un cerchio attorno ad un punto nel bel mezzo del futuro campo di battaglia»; il suo gesto vuole dirci che in fondo la storia scorre impietosa e non c’è modo di contrastarla, di opporle un bastione fideistico o provvidenziale, se non orgogliosamente la fedeltà a se stessi, lo stare hic et nunc irremovibili, tenere il punto di vista, pena la sconfitta, il travolgimento degli eventi, il crollo de La grande casa immersa tra gli aranci, titolo suggestivo di un altro componimento della raccolta. In questa ottica, va letto anche Il discorso di Ettore ai Troiani che, seppure preannuncio di morte e «pegno del lutto», non manca di essere «un preparativo di nozze» e di recare in sé il peso di una riscossa prometeica dell’Uomo se, nell’abbandonarsi alla morte (della quale ha ormai sentore e contro cui nulla può), tuttavia corona il senso della propria vita, la sua fedeltà ontologica ed etica ad essa.

Altro grande snodo della raccolta è il tema della preghiera che l’autore assume non già in termini devozionali nei confronti di un ente trascendente, quanto in accorato quaerere hominem in un mondo, privo di certezze e valori; un mondo da ridestare, da far risorgere dalle ceneri della belligeranza (si consideri il lemma pregnante, e peraltro maiuscolizzato, di Tramonto, quale fenomeno che preclude all’alba, alla rinascita, epifania di un nuovo giorno, di una nuova vita). Non senza perizia, e in osservanza - sul piano formale - all’espediente della rinkcomposition, il poeta cuce l’imploratio iniziale alla misteriosa Atena con quella finale di Ettore a Persefone, signora dell’Oltretomba, passando per quella rivolta allo schiavo Flamurt. È significativo che, in chiusa d’opera, l’eroe troiano non si rivolga ad Atena, dea della sapienza e sua protettrice (quantunque poi spodestata per mezzo del furto del Palladio), ma, attraverso un rovesciamento presago della catabasi che sta per abbattersi sul suo destino, si rivolga proprio a Kore, "la fanciulla", divinità del sottosuolo e - beninteso - della rinascita perché dea greca del grano e in origine ipostasi di Demetra, figlia della quale è Persefone, «possente kore dalla fronte di pietra». Interessante, nondimeno, è il saldarsi delle due preghiere all’irrisoria e sarcastica invocazione, collocata (non a caso) a metà dell’opera, al sordido lacché Flamurt, «schiavo della trireme romana/ […] sguattero della nave ammiraglia/ e barbiere privato del proconsole» (si badi, del proconsole, quale magistrato già precedentemente incaricato di imperium e dunque già navigato in politica, per dire che i servigi di un lacchè sono stati già da questi fruttuosamente testati). 

Di qui la manifesta carica di denuncia del poeta; si tratta di una denuncia che investe le debolezze umane, da sempre esistenti se «non c’è nulla di nuovo sotto il sole», e che coinvolge i lerci meccanismi del potere, il loro immarcescibile nepotismo, favorevole all’avvento sul palcoscenico della storia dei galoppini di turno, degli adulatori servi del potere, dei novelli, imperituri Flamurt. Dunque, volere negare la sacralità della preghiera, come emerge dalla suddetta poesia o dall’esplicito anatema dell’angelo zoppo nel testo Giocavano a dadi con i meteci, in fondo è volere riconoscere la sua fallacia, la sua inutilità in un mondo privo di valori etici di riferimento e in cui «Dio è assenza». Significa riconoscere che tutto è affidato al caso e non c’è motivo di invocare soccorsi ultraterreni o di affidarsi a ottimismi escatologici perché solo nell’immanenza è la salvezza dell’uomo, il redimerlo dal dramma che lo vive e lo assedia. Ne sa qualcosa Icaro che, dopo gli entusiastici trascorsi da trapezista, decide «di volare verso il sole» e, quando ormai «sembrava che qualcosa nel meccanismo delle leggi universali/ dovesse disobbedire alle leggi di gravità», sperimenta il tragico precipizio «nel vuoto […]/ così che le leggi della fisica ebbero il sopravvento sulle leggi della metafisica». Ne sa qualcosa, in Sticomitia tra filosofi, Sto Icibus (non a caso, etimologicamente: “sto nei luoghi”) quando alle glosse di De Sideribus (etim.: colui che proviene “dalle stelle” o che argomenta “intorno alle stelle”) circa la vexata quaestio sull’essere o l’ente resta del tutto indifferente al problema se «tossì abbondantemente, sputacchiò per terra/ […]/ e si recò all’osteria ove divorò un petto di pollo» o, in Confronto di filosofi, «sbattendo la porta si dirige verso il/ lupanare».

Già preannunciato, a inizio libro con i testi dedicati a Ipponatte (con evidente effetto di straniamento, abituati come siamo ad associarlo al giambografo maudit di Efeso), il trionfo dell’irrazionale si prolunga nella suggestiva serie dedicata ai filosofi, per mezzo dei quali il poeta si prende gioco del logos, della riflessione razionale e ripropone a bella posta gli assiomi cari ai post-aristotelici. Scettici sono, infatti, Sesto Empirico e Quinto Metafisico, scettica è l’impostazione della parodia di Ermogene fino alla riabilitazione dell’eversivo, antiortodosso (ai danni del conformismo confuciano) taoismo, in un testo che è la riproposizione dell’assioma del “punto” e la traduzione, in ambito orientale, della filosofia degli Stoici. Si legga la poesia in cui l’allievo (alter ego del poeta e voce narrante del testo) incontra il Maestro Li Po «immerso in un sonno profondo, in posizione verticale, nel mare/ eretto dalla cintola in su» il quale, nonostante sia stato strattonato, «non trasecolò né mosse ciglio». È null’altro che l’affermazione del taoismo. Linguaglossa lo adotta in virtù di quei punti di contatto che esso presenta con lo stoicismo e lo scetticismo occidentali, primo tra tutti la predicazione di rigenerazione dell’individuo tramite la sua adeguazione all’ordine cosmico del tao, letteralmente la “Via” che guida l’uomo alla felicità. 

Sono questi i testi della raccolta che più preferisco per la carica sovvertitrice che li caratterizza, con cui il poeta irride al problema della conoscenza, si fa beffa della ratio impersonata dalla Sofistica di Callicle, dalla politologia di Trasibulo e Proculo, dalla critica dei dialettici e dai metafisici. L’autore sembra riproporre l’assunto, caro allo scetticismo, che solo non avere opinioni né inclinazioni può garantire il raggiungimento dello stato di afasia ovvero di silenzio. Solo non prodigandosi in affermazioni e negazioni sulle cose del mondo, il filosofo (e dunque il poeta) potrà pervenire all’atarassia, all’imperturbabilità di fronte alle cose e agli accadimenti, la cui “comprensione” rappresenta da sempre il cruccio dell’uomo. Di qui, l’epoché ("sospensione di giudizio") cui, suo malgrado, perviene Aristide, condannato per la sua empietà a un destino di impotenza, costretto a vedere «le cose come mai nessun uomo/avrebbe sognato o desiderato», a decifrare «la sontuosità del trionfo/ e la miseria della sconfitta», a conoscere la verità, a non poterla trasmettere agli uomini; e dunque a desiderare lo strappamento degli occhi, la morte che tocca invece allo sventurato nomade portatore del messaggio dell’Artefice, nell’omonima poesia. Ne deriva la consapevolezza che un discorso intorno all’ente è improponibile e che ogni corrente di pensiero, ogni credo intellettualistico è destinato allo scacco, al fallimento tanto più in una società di sguatteri, di falsi sapienti (i sofisti) e di arringatori del fatuo, del nulla. Ecco allora entrare in scena il «rozzo e primitivo» Sificlade e il filosofo Aristobulo che volutamente rinunciano a parlare decidendo di farsi rispettivamente selvaggio e stilita; o il giovane allievo del maestro Li Po il cui apprendistato gli ha aperto la dimensione del silenzio, «il perché del rigore della sorgente e della dolcezza della foce». 

L’insegnamento che Linguaglossa vuole trasmetterci è che solo mantenendoci coerenti a una idea di fermezza, di intransigenza ontologica - prima ancora che etica e gnoseologica - è possibile trovare la forza per risalire il fondo e rinascere e affermare la nostra grandezza incommensurabile di uomini. In un mondo, allora, che pretende di stagliare a valori assoluti l’inganno, il malsano potere, la corruzione, i vitia, la lezione più alta è quella di Ettore e Ipponatte, di Sificlade ed Ezio, di Sto Icibus e del giovane allievo, di Ibrahim Bat, risoluto ulisside in viaggio verso la «città dalle cento torri di quarzo», la Città di ghiaccio, sede dell’ignoto e del silenzio, che il poeta descrive «ai limiti del mondo conosciuto […] presso i popoli delle slitte, taciturni e sapienti, che non parlano perché hanno perduto l’uso della parola e sanno leggere ed intendere gli ideogrammi dell’Artefice, senza spocchia e senza remore».

Per ultimo non possiamo trascurare l’aspetto formale dell’opera che, rispondendo alle ragioni contenutistiche della raccolta, si conforma a mera chiarezza espositiva. Di qui, l’adozione di un linguaggio trasparente, convenzionato e di base primario, solitamente scabro e arido, ma pure talora attraversato da sprazzi di illuminazioni oniriche e di vibrante elegia come in La grande casa immersa tra gli aranci o in Elogio di Paride ad Elena. Quanto allo stile, prevalente è la modalità prosimetrica, sbilanciata verso quella narrativa; quest’ultima, però, da non intendersi come reperto cronachistico, quanto piuttosto resa di un volere esplicitare, per mezzo dell’estensione, la portata di un discorso inequivocabile sul piano denotativo, pena la non-comunicazione del suo messaggio. Né meraviglia che Linguaglossa usi uno stile volutamente impersonale e descrittivo, quasi volesse proporci, pur sotto forma di un poema, un contributo scientifico o filosofico; ne è spia-indicatore, l’uso parco e controllato dell’aggettivazione, essenzialmente oggettiva e referenziale con qualche sparuta eccezione come nelle poesie finali, ispirate al tema della bellezza, dove l’aggettivo è sobrio indice di soggettività ed espressività da parte dell’autore. Si evidenzia, inoltre, un incisivo ricorso alla strategia dialogica - confermata, finanche nei titoli, da lemmi afferenti allo stesso campo semantico; dialogo che, per la sua capacità di porre a confronto le opinioni, tende, da una parte, a fare emergere la verità del messaggio e, dall’altra, bene traduce la problematica dialettica del libro, la conflittualità, e dunque la tragicità, dei suoi protagonisti nel loro incessante interrogarsi.

Per tutte queste ragioni - e cioè, vuoi per l’altezza dei contenuti, vuoi per gli atteggiamenti di stile, coniugati ad una felice capacità inventiva - non esito a definire La Belligeranza del Tramonto un’opera davvero originale e affascinante che, come suggella nella prefazione Dante Maffia, «ha la potenza delle colonne doriche di un nuovo Partenone» e non rinuncia ad essere «riflessione sull’essenza della nostra epoca, un legato testamentario per la civiltà che verrà, per gli uomini del futuro se mai futuro verrà».

 

Daniele Santoro

 

Giorgio Linguaglossa La Belligeranza del Tramonto LietoColle, 2006

 

 

Amo la flottiglia schiumosa dello Stige

perché c’è più verità e lealtà

tra i vizi e gli assassini delle sue sordide acque

che non in tutte le pagine bianche dei tuoi angeli.

 

Nostra Signora dei morti

Perdona nobis Nostra Signora dei morti

se abbiamo bevuto il tuo sangue e mangiato la tua carne

seduti al banchetto nell’ultima cena.

 

Perdona nobis se abbiamo negoziato col nemico nel Tempio

e convenuto con la meretrice nel talamo nuziale

preparando la guerra nel tempo della pace.

 

Ora pro nobis Nostra Signora dei morti

se abbiamo seppellito i nostri cari

e dissotterrato l’ascia di guerra per i nemici.

Tutto è stato vano.

 

Ti scongiuriamo Nostra Signora dei morti

di umiliarci sotto il tuo mantello di neve

Il fratello col fratello, l’assassino col sicario.

Una falange macedone di morti.

 

Deponi ora che siamo morti

il possente elmo di pietra sopra la spiga di grano.

Misteriosa Atena, donaci la mano

accompagnaci nel luogo dove sono i molti.

 

 

Ipponatte parla

 

Condussero il porco nel mattatoio

e lo scannarono con un coltello affilato sotto la gola.

Bevvero il sangue caldo, con le budella confezionarono

saporite salsicce e con i lombi ottime bistecche.

Insomma, nulla fu eccepito e nulla fu lasciato al caso.

Tutto fu maciullato e macellato, compresa la pelle del porco

che divenne gustosa cotica.

 

Si dirà che il porco ha un trattamento particolare

perché quando scuoiarono l’uomo,

questi fu prima impiccato, poi fu gettato con tutte le scarpe

in una fossa e dato in pasto ai vermi

affinché nulla di lui restasse tra i vivi.

 

Si dirà che il porco è il porco e l’uomo l’uomo

e che ciò che il porco è da morto l’uomo lo è da vivo.

 

Tuttavia, v’è una singolare equivalenza

tra il porco da morto e l’uomo da vivo.

 

 

Ipponatte Secondo discorso

 

È nato un fiore tra la gramigna

ed è già un miracolo che sia sopravvissuto.

Ha lottato tra le spire del cobra

ed è sopravvissuto. Per questo per noi

è tanto più bello e degno di considerazione.

 

Non amate i fiori che nascono tra i fiori.

Amate piuttosto i fiori che nascono tra la gramigna,

essi sono tanto più belli ed hanno luce.

Amate la luce piuttosto che l’ombra

 

 

Ipponatte

 

Nella città ove tutto scorre, Elea per l’appunto,

visse un uomo il quale asseriva che soltanto un punto è fermo,

o meglio, che un punto è ben fermo e attorno ad esso tutto scorre

e si rincorre e si ricongiunge.

 

Sosteneva per l’appunto Ipponatte che solo un punto è vero

e che tutto il resto è solo un sogno o ha l’apparenza di un sogno.

Alcuni detrattori lo accusarono di “verismo”, dicendogli:

“allora, secondo la tua filosofia solo tu sei vero

e tutto il resto sarebbe falso e bugiardo.”

 

Altri filosofi, per l’appunto, i critici dialettici, confutarono

la teoria di Ipponatte con l’argomento che nel movimento dialettico

delle cose ogni punto viene superato da un altro punto,

diverso e non più se medesimo.

 

Altri critici, gli eleatici, dichiaravano che il movimento

corre verso l’infinito e che ogni punto corre anch’esso

verso l’infinito e che quindi non ha più senso distinguere

tra vero e falso, perché il Tutto non è né vero né falso.

 

Altri, i metafisici ovvero, gli immanentisti, dichiaravano

che se un punto è vero anche il Tutto è vero.

E così, liquidavano la faccenda senza iracondia e senza facezie.

 

Poi, vennero i platonici, i quali dichiaravano

che soltanto le idee nell’Iperuranio erano vere

e che tutto il resto era falso e bugiardo e che si trattava

di copie delle copie, insomma, per cui il problema non aveva senso.

 

Ora avvenne che quando Elea dichiarò guerra alla vicina città di Enfiteusi,

Ipponatte fu arruolato come soldato semplice ed inviato al fronte.

Prima della battaglia videro il filosofo il quale con un ramo tracciava

un cerchio attorno ad un punto nel bel mezzo del futuro campo di battaglia.

 

I discepoli, dopo lunga riflessione, chiesero al maestro

il significato di quel cerchio attorno ad un punto.

Ed il maestro così rispose: “domani infurierà la battaglia e,

qualunque cosa accada, io sarò qui, con la spada in pugno

e terrò il mio punto.”

 

L’indomani, gli eleatici vennero sonoramente sconfitti, l’esercito sgominato

si abbandonò ad una rotta rovinosa, ma il corpo del filosofo

venne trovato, coperto di sangue e di ferite, proprio in quel punto

dove i discepoli lo avevano lasciato e, intorno al cerchio,

i cadaveri di innumerevoli nemici.

 

 

Il filosofo Aristide

 

Aristide affinò per tutta la vita la vista.

Perseguì l’obiettivo con straordinaria tenacia

aguzzando lo sguardo fino a vedere con chiarezza cose

che sarebbero rimaste ignote e celate a chiunque altro.

 

Aristide imparò a vedere le cose per diritto e per traverso

nella larghezza e nella profondità, fino a vederle nella loro interezza

e nella tridimensionalità.

 

Imparò a vederle nel presente nel passato e nel futuro

nel loro dispiegamento e nel loro sviluppo.

Nulla rimaneva celato all’acutezza del suo sguardo.

 

Incontrando i re e gli imperatori addobbati e drappeggiati

di potenza e di gloria, Aristide ne decifrava la sontuosità del trionfo

e la miseria della sconfitta, ne intravedeva la rovina riflessa

come in controluce nel barbaglio di un raggio di luce nel pulviscolo.

 

Ed i re e gli imperatori venivano al suo capezzale e lo interrogavano

donandogli ori e porpore, gioielli e baiocchi, e Aristide, scuotendo il capo

divinava la loro rovina, i delitti dello scettro, gli orrori e gli onori.

 

Aristide scuotendo il capo canuto prese a mentire.

Prediva allegrezza e beltà, onori e bagliori.

 

Allora, gli prese a nascere un terzo occhio

con il quale poteva vedere cose non mai viste prima

e di cui mai avrebbe sospettato l’esistenza.

 

Ora, vedeva le cose non più dall’esterno ma dall’interno

e con tale forsennata chiarezza che ne ebbe terrore.

Un brivido tremendo lo raggelava e una tosse urticante gli squartava il petto.

 

E Aristide mentiva con dispotica astuzia.

Mentiva come un lenone, in modo infingardo, spudoratamente.

E gli uomini si congedavano da lui finalmente felici.

 

Quale indicibile angoscia crebbe nel petto di Aristide!

Ma quale hybris lo accecò nel chiedere ulteriore chiarezza

alla sua mente spossata.

 

Allora, prese a nascergli un quarto occhio spaventoso sulla fronte

con il quale vedeva le cose come mai nessun uomo

avrebbe sognato o desiderato.

 

Vedeva ormai le cose come soltanto un marziano

poteva vederle. Spaventosamente, tutto era chiaro alla sua coscienza

e spaventosamente Aristide chiedeva clemenza

 

chiedeva che gli strappassero gli occhi, che lo uccidessero

che lo immolassero alla più atroce delle torture,

nel mentre che un quinto orribile occhio cresceva tra il terzo ed il quarto.

 

 

Andromate

 

Andromate fu l’inventore dell’ipotocasamo.

In vita ebbe onori ed allori, riscosse applausi e prebende,

trionfi e tonfi, onte e vittorie.

In vita fu rinomato ed ebbe fama di saggio

ma in morte passò ai posteri quale inventore dell’ipotocasamo.

 

Alcuni studiosi ritengono si sia trattato di un ordigno di guerra

impiegato con successo contro i romani dai Bruzi,

popolo considerato troppo rozzo per un congegno così sofisticato.

 

Altri sostengono invece, con parità di argomenti, che si trattò

di un trattatelo di morale con cui il filosofo

sconfessava la tesi aristotelica della mesotes phronesis.

 

Altri autorevoli storici hanno infine sostenuto si sia trattato

di una lithos, ovvero, di una pietra di provenienza ignota

che alcuni ipotizzano addirittura extraceleste o extragalattica

piovuta dal cielo a bordo di una meteora o di una cometa.

 

Noi, umili posteri, possiamo soltanto formulare ipotesi,

non sappiamo nulla dell’ipotocasamo, come non sappiamo nulla

del vasto mondo, ma anche se lo sapessimo,

nulla cambierebbe nell’ampio circolo dell’orizzonte

come nel piccolo cerchio della nostra domesticità.

 

Comunque sia, rimane indubitabile il fatto che

Andromate fu l’inventore dell’ipotocasamo.

 

 

Il volo di Icaro

 

Diciamo che non nacque sotto una buona stella

ma imparò presto a fare il pesce in barile

nell’atelier del parrucchiere François

tra uno shampoo e una lavanda. Untuoso, con voce melliflua

orecchiando le ultime notizie di cronaca dei giornali.

 

Fece il trapezista in un circo di terza categoria

e, quando fu messo in cassa integrazione, pensò bene

di mettersi in proprio: andava a zonzo per le città dell’impero

a fare spettacoli da baraccone con stampellieri e mangiatori di fuoco,

pornostar e spogliarellisti.

 

Poi, pensò bene di mettere su un’azienda di spettacoli

a luce rossa per marinai disoccupati e azzeccagarbugli,

il tutto condito con birra e sandwich, crostini e spaghetti,

donnine vestite da cow boys senza mutande, lestofanti e paparazzi.

Voi direste: allegria da baraccone, mago Zurlì.

 

Mise su un senatino di matrone pervertite

con le quali attraversò in lungo ed in largo i postriboli

dell’impero dando ricetto a truffatori e ladri da strapazzo. 

A prezzi stracciati.

 

Ma Icaro aveva un debole per l’empireo, e tornò al circo Togni

dove si cimentò in un numero unico: 

saliva sul filo teso in diagonale dalle estremità del circo

e qui radeva la barba ai clienti comodamente assiso sul nulla.

 

Icaro pensò di cimentarsi in esercizi sempre più assurdi.

Fece tirare una fune di acciaio tra i due grattacieli delle Torri gemelle

e di lì scendeva in bicicletta fumando un sigaro toscano.

 

Non contento di ciò, si recò sul gran Canyon, fece stendere un filo

così sottile da essere invisibile, e di lì cominciò a saltellare come un pettirosso.

ma l’empireo era sempre più in alto, sempre più in alto.

 

“Questa è la dimostrazione che la metafisica non esiste”, era solito affermare.

 

Fu così che escogitò qualcosa di assolutamente esaltante e singolare:

tra lo stupore generale, dichiarò che era in grado di volare verso il sole.

Si fece costruire delle ali di cera e di penne di struzzo, se le appiccicò

sulle spalle con della pece e si lanciò da un aeroplano al sorgere del sole.

 

Qualcuno disse di averlo visto volteggiare verso il sole.

Sembrava che qualcosa nel meccanismo delle leggi universali

dovesse disobbedire alle leggi di gravità.

Sta di fatto, che Icaro precipitò nel vuoto, sempre più lontano dal sole,

così che le leggi della fisica ebbero il sopravvento sulle leggi della metafisica.

 

 

Sificlade

 

Avevano dimenticato da lungo tempo la voce del filosofo

e ormai qualcuno obiettava, tra uno sberleffo e l’altro, che Sificlade

avesse irrimediabilmente perduto l’uso dell’ugola

e, financo, il padroneggiamento della sintassi.

 

L’energumeno era solito trangugiare il cibo senza

peritarsi di coloro che lo attorniavano ed era solito

inghiottire interi polli con l’intero piumaggio, ossa e cartilagine,

sonoramente digrignando le copiose mandibole

che trituravano ogni cosa commestibile, senza titubanza.

 

Sificlade appariva oltremodo rozzo e primitivo,

non usava cintola per i pantaloni né tuniche

dall’ampio panneggio, bensì lacerti di stracci e sacchi a pelo.

 

I cittadini dell’agorà dibattevano se il filosofo

avesse perduto l’età della ragione o l’uso del senso comune

o se comunque il filosofo fosse diventato inguaribilmente pazzo

o inequivocabilmente avesse rinunciato a commerciare con gli uomini.

 

Qualcuno rilevò trattarsi dell’euforia del naufrago

o, della filosofia del relitto, quando tutto ormai è inutile.

 

Un giorno, il sofista Callicle gli si piantò dritto dinanzi

ostruendogli il passo e lo apostrofò nel seguente modo:

“Sificlade, il macedone con le sue truppe regolari è fuori

della città e tra poco farà man bassa dei beni stabili,

ucciderà gli uomini in armi e violenterà le donne attraenti e gli efebi.

Orbene, dimmi Sificlade, cosa dobbiamo fare?”

 

Per tutta risposta, senza muovere collo né battere ciglio,

Sificlade sferrò in pieno volto dell’interlocutore un terribile pugno

che lo mandò assopito nel bel mezzo della piazza.

 

Questa fu la risposta del filosofo, la quale apparve a tutti,

senza ombra di dubbio, inequivocabile ed ineccepibile.

 

 

Aristobulo

 

Erano arrivati i Buzzurri, a frotte, menato le mani e razziato polli e conigli e tutto ciò che c’era di commestibile ed anche tutto il combustibile per le automobili.

Talché non si trovavano i taxi neanche a pagarli oro.

Salirono sul Campidoglio e copularono con le vestali e con le ballerine del varietà.

 

L’imperatore bandì cento giorni di giochi equestri, di lotte di galli, di corse di cani e di combattimenti di gladiatori in onore dei vincitori ed in spregio dei vinti. Origene, capo dei Buzzurri, battè cassa e si accaparrò dei proventi delle tasse destinati al suo rissoso e sgangherato esercito, per farne dono alle signorine da postribolo e dote per le matrone disoccupate.

 

In questo frangente, giunse Teodosio, capo dei Burgundi; con un esercito regolare passò a fil di spada i Buzzurri, scannò il loro capo Origene e li ricacciò oltre il Po, da dove quei barbari erano venuti. Fu allora che chiamò a sé i filosofi Aristobulo, Aristogitone e Menippo e chiese loro consiglio sul da farsi.

 

Aristogitone fece subito il pesce in barile. Fine ultimo dell’uomo, almanaccava il filosofo, dal re all’ultimo mendicante, è galleggiare nel mare agitato della Storia; fare un passo avanti ed uno indietro. Perché i nemici sono ovunque, mio illustre re, ed i nostri più fidati amici oggi, saranno i nostri più acerrimi nemici domani. In questo contesto, soleva argomentare il filosofo, ciò che puoi fare oggi non rimandarlo a domani. Quel poco fallo subito, e sii pronto a rimangiartelo domani mattina appena alzato dal giaciglio, e ti troverai bene, mio Signore!

 

Menippo prese a dire che qui tacet neque negat neque utique fatetur, e comunque che tra il dire e il fare c’era sempre di mezzo il mare e che tra il dire e il non dire era sempre meglio rifugiarsi nel non dire, ovvero, nel silenzio. Allora, il silenzio, ovvero, la mancanza di parola, venne inteso da alcuni interpreti come silenzio rifiuto. E al silenzio dell’imperatore venivano decapitati gli ostaggi. Per altri interpreti, invece, il silenzio doveva essere inteso come silenzio assenso. E l’assenza di parola venne così a configurarsi come discorso assertorio. Ed egualmente, al silenzio dell’imperatore gli ostaggi venivano decapitati.

 

In tutta questa confusione, intervennero i politologi, Trasibulo e Proculo, i quali sostenevano che il potere non era altro che detenzione della forza. Ergo, il potere doveva abitare nel corpo di un solo uomo, astuto e sanguinario. Disposto a tutto pur di tenere salda la compagine del clan. Per prima cosa, dissero i due sofisti, occorreva sopprimere il longobardo Diliberto, il quale avanzava le pretese della sordida feccia della classe plebea, e poi sopprimere anche i tribuni della plebe, mandarli ai lavori forzati ed instaurare una videocrazia, ove l’imperatore sarebbe dovuto apparire ammantato con il laticlavio di porpora, nel pieno fulgore della sua posa sussiegosa.

 

Fu a quell’epoca che Aristobulo cessò di parlare. Decise di fare lo stilita, andò a vivere sulla cima di una colonna e non ci fu verso di smuoverlo di lì, né con le buone né con le cattive.

Trascorsero trenta inverni e trenta estati, durante le quali si alternarono al potere i longobardi, i bizantini, i mamelucchi, gli angioini e i salamelecchi, ma Aristobulo non si mosse di lì. Calava, di tanto in tanto, un cestello con un filo e qualcuno si premurava di gettarvi una mollica o una lumaca o una spremuta d’arancia. Dopo i primi anni, più nulla. Il filosofo appariva immerso in un sonno profondissimo, talmente profondo che nemmeno il suono delle campane o il clangore delle armi riusciva a risvegliare. Sopra i suoi bianchi capelli, che il vento spargeva in tutte le direzioni, gli uccellini vi avevano costruito il loro asilo, ed ivi nidificavano e copulavano e si moltiplicavano beatamente strillando rissosi come si conviene a degli esseri pennuti. Rondini, corvi e cornacchie sostavano, di quando in quando, sulla sua zucca ed ivi defecavano sul suo volto giallo, nulla sapendo che quello un tempo era stata una cosa viva e vera: il filosofo Aristobulo in persona!

 

Ormai, Aristobulo si nutriva dell’acqua che cadeva dal cielo e degli escrementi degli uccelli in volo. Era diventato uno spaventapasseri che non spaventava più alcuno. Era diventato una cosa tra le cose, era diventato parte del ciclo delle stagioni e delle stelle. Una parte di materia inorganica, come un sasso o una roccia, una tessera del paesaggio. Il suo volto era ormai irriconoscibile, coperto dagli escrementi dei pennuti; il suo mantello e la sua tunica si erano solidificati ed ispessiti come una corazza, era diventato una statua scolpita dal martello del tempo, sedimentata dalle intemperie e dai fortunali.

 

Volle il cielo che alcuni scienziati si recarono in cima alla colonna e gli fecero un elettrocardiogramma, ed anche l’elettroshoc, per verificare che non fosse già morto, e con meraviglia scoprirono che il battito cardiaco era così sottile e rado e lontano che – ne dedussero - il filosofo si era addormentato: un profondissimo letargo, un fenomeno inspiegabile in natura, durato circa trent’anni. Durante quest’epoca il filosofo era rimasto giovane, come se avesse vissuto appena trenta giorni, e che se fosse sopravvissuto, dissero gli scienziati, si sarebbe potuto risvegliare di qui a trecent’anni in un’era forse meno bellicosa e belluina e avrebbe potuto vivere il resto dei suoi giorni in pace e il gloria e godersi le bellezze della vita nel rigore di un’epoca meno inclemente. 

 

Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Durante una notte di tempesta, un violentissimo nubifragio sconvolse la città, un lampo tremendo colpì la colonna, ci fu un tuono potentissimo, la colonna venne divelta alla base e lo stilita precipitò al suolo con tutta la corazza ed il nido di uccellini sul suo capo. Quale non fu lo stupore degli abitanti dell’agorà quando videro il filosofo aprire gli occhi cisposi, scuotersi di dosso gli escrementi degli uccelli, alzarsi da terra e guardarsi attorno con la curiosità di un marziano catapultato per sbaglio sul nostro insondabile pianeta!

 

Il filosofo aveva finalmente perduto non soltanto l’uso della parola ma financo l’abbecedario della propria madre lingua! Ora, il filosofo aveva raggiunto la compiuta saggezza, privo della lingua, ritrovò la sintonia degli uccelli che lo avevano abitato durante tutti quegli anni. Era finalmente diventato una zolla dell’universo, una parte di quella parte del tutto che poi non è altro che il niente, e a cui, noi mortali, diamo tanto ricetto e attribuiamo tanta importanza. 

 

 

Giocavano a dadi con i meteci

 

Un angelo zoppo ci venne incontro

e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”

 

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar

a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

 

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.

avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

 

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi

con le risposte pronte e gonfiarono le vele

e gettarono le ancore.

 

Io fissavo il loro occhio di vetro…

 

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,

se la spassavano con le troiane,

ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.

 

A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro

e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

alle carovane di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

 

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,

tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

 

Un angelo gobbo ci venne incontro

e disse, senza guardarci: “dimenticatevi il nome di Dio.”

 

 

Flamurt, schiavo della trireme romana

 

Flamurt, schiavo della trireme romana

ha fatto carriera, ora è sguattero della nave ammiraglia

e barbiere privato del proconsole,

detta gli auspici e scioglie gli indizi. Si dice 

che il suo consiglio sia molto apprezzato dal console.

 

Flamurt, liberaci dal dubbio,

scioglici dal male che ci sovrasta

gli indizi sono sinistri, intona i sistri, i pifferi,

recaci il lenimento dei tuoi frizzi e dei tuoi lazzi,

le ballerine dell’Opera caffè e le mutandine da sexy shop,

dacci oggi la gozzoviglia quotidiana

rimetti a noi i nostri debiti come noi

li rimettiamo ai nostri debitori.

Sbrigati Flamurt, il mostro che verrà

ci libererà dal dubbio

e dalla compulsione della copula.

 

Ora, Flamurt, schiavo della trireme romana,

abita il piano alto dell’Hotel, una suite di lusso

con tanto di pornostar per le sue delizie,

ed io sono il suo sguattero, il fedele e devoto sguattero

e spio i suoi amplessi come dalle forche caudine

e bramo, impotente, la sua zoccola.

 

“Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.

Io e la mia ombra non parliamo la stessa lingua” – afferma Flamurt.

 

Deicida ed omicida il suo eloquio lo rivela

per quello che è: un lacché, un sordido lacché.

 

 

Leggenda della Città Trasparente

 

Narra Erodoto che la città di cristallo distava cento notti di viaggio da Kirshasa,

la città più a nord della fortezza di Ulan Bator la temuta capitale dei salafiti, popolo di nomadi e di predoni dediti alle razzie delle carovane di mercanti di pelli e di spezie che per sventura si inoltravano nel deserto dei Gobi.

 

Altre fonti dell’epoca riferiscono che la città di quarzo era munita di cento torri merlate e di mura trasparenti, così spesse che neanche i colpi di un ariete avrebbe potuto scalfirle. E che in svariate occasioni eserciti di tartari avevano tentato di espugnare la città. Alcuni sopravvissuti narrano di aver visto, in lontananza, lo sfarzo dorato delle mura turrite nel tramonto e il diafano lattescente lucore delle torri al mattino.

 

Ibrahim Bat, sceicco di Nasfah e ricco mercante di perle, decise di intraprendere un viaggio fino alla città dalle cento torri di quarzo. Mise in vendita i suoi beni personali, nominò il tutore di suo figlio minore, lasciò le trenta mogli nel gineceo sorvegliate da Eraclio, l’eunuco di corte, acquistò cento cammelli, comprò a suon di talleri le guide più esperte di Persia e si inoltrò verso il deserto dei Gobi puntando dritto verso Nord.

 

Ibrahim Bat assoldò  prezzolati aguzzini e lestofanti e li affrancò dal rigore delle leggi, pagò il loro debito con la giustizia del sultanato e si diresse verso il Nord.

 

Ora, per non spaventare la ciurma e rassicurare gli incerti, predispose sontuose vettovaglie e duecento cavalli affinché chiunque volesse potesse tornare al sicuro in terra di Persia, e ordinò che tutti i carovanieri fossero muniti di arco e frecce e di una spada corta per il corpo a corpo.

 

Ibrahim Bat tenne ferma la rotta della stella polare per trecento giorni e trecento notti fino alle soglie della turrita Ulan Bator e dovette respingere gli agguati dei circassi e dei nomadi ceceni che saltavano con le lunghe spade dentro le tende approfittando delle notti senza luna, facendo strage di uomini e razzia di vettovaglie.

 

Ma Ibrahim Bat tenne ferma la rotta della stella polare, incurante delle perdite e dei disertori e dei nemici che saltavano dall’ombra della notte.

 

Allora, Ibrahim Bat ordinò che si viaggiasse la notte, durante le fasi della luna, evitando le notti bianche di luna piena; ordinò che si cambiassero i cavalli e acquistò i famosi corsieri neri del deserto, piccoli ma sagaci e coraggiosi, che sanno, nel fiuto, la strada verso il ghiaccio del Nord.

 

Correvano i corsieri neri la notte nel ghiaccio e nelle bufere di sabbia avvolti in neri mantelli, senza sosta, e gli uomini della ciurma cadevano colpiti dalle frecce di predoni invisibili.

 

Soltanto i neri cavalli correvano, infaticabili, ululando nella notte argentata.   

 

Ibrahim Bat aveva perso quasi tutti gli uomini e le vettovaglie e i cammelli decimati.

 

Saltò sulla groppa di un nero corsiero Ibrahim Bat e proseguì da solo la corsa verso la città di ghiaccio, ma noi non sappiamo se giunse davvero dinanzi alla città di quarzo, non sappiamo se mai vide davvero le cento torri turrite di cristallo con i soldati lotofagi sulla sommità dei camminamenti.

 

Forse, Ibrahim Bat giunse davvero alla città turrita, noi nulla sappiamo dello sgomento che lo colse di fronte alla città di ghiaccio…

 

Nella pianura sterminata la sabbia del deserto, il ghiaccio, la città trasparente, il gelo universale e la lunghissima notte polare…

 

 

Il messaggio dell’Artefice

 

E l’Artefice consegnò il messaggio ai fidati eunuchi.

 

Costoro verificarono che il messaggio recasse il sigillo dell’Artefice, lo misero in una busta, incollarono gli orli e, sul lembo, applicarono il sigillo di ceralacca con la città turrita sullo sfondo ed un lungo e tortile serpente in primo piano, e lo consegnarono al primo messaggero al quale cavarono gli occhi perché non fosse tentato di sbirciare il contenuto.

 

Misero il nomade in groppa ad un dromedario dalla duplice gobba che viaggiò per venti gelide notti e venti torridi giorni attraversando il deserto rosso finché giunse alla porta di Islamabad dove dei miliziani circassi lo arrestarono, gli tolsero il dromedario e si fecero consegnare la busta con il timbro dell’Artefice che lo sventurato teneva celata nell’interno della tunica. Poi, condussero il timorato nel deserto e qui lo sgozzarono, perché “chi non vede non parla”, dice il proverbio.

 

E i circassi si unirono ad una carovana di commercianti e si diressero ad est lungo la rotta seguita dal leggendario Marco Polo attraversando verdi valli solcate da fiumi azzurri e laghi tanto estesi  che, voltando il capo, non ne scorgevi la fine né a destra né a sinistra.

 

Giunti alla vista della città di Baktapur, edificata ad imitazione dell’orecchio di Vishnu, i circassi vennero affrontati ed annientati da un nugolo di guerrieri Talefiti dalle lunghe e affilate scimitarre i quali si impadronirono del messaggio e lo cucirono nella corazza del più valoroso, proprio sul petto nella direzione del cuore e proseguirono la marcia con indomita tenacia, perché nel Libro è scritto: “non siate né i primi né gli ultimi e non ve ne dorrete”.

 

Si inerpicarono i Talefiti sulle cime invalicabili della mongolia e affidarono il messaggio ai fidati cani mongoli, i più sagaci e tenaci viaggiatori delle tenebre, che corrono di notte ululando nelle notti argentate per spaventare i corvi e i serpenti velenosi. 

 

E giunsero i cani fino ai limiti del mondo conosciuto, alle soglie dei ghiacciai eterni dove anche il mare si ricopre di una lastra di ghiaccio profonda quanto la chiglia di una nave, e qui gettarono i cani la busta con il sigillo di ceralacca nella profondità di una voragine.

 

Ed attesero la muta di cani bianchi del Labrador, i cani delle tenebre eterne e dei ghiacci eterni.

 

E costoro, silenziosi come la notte argentata, postini sinceri e fidati, si inoltrarono nel buio dell’Ignoto presso i popoli delle slitte, taciturni e sapienti, che non parlano perché hanno perduto l’uso della parola e sanno leggere ed intendere gli ideogrammi dell’Artefice, senza spocchia e senza remore. 

 

 

Il panegirico di Erostrato

 

E se noi vinciamo, attraverso trionfi ed onori, piantando l’obelisco della discordia nell’agorà, e discutiamo di metaldetector e metempsicosi, il tutto condito con il sopruso e l’ingordigia, e dichiariamo alla rosa dei venti, con l’imprimatur dell’editto imperiale che noi vinciamo dai trionfi ornamentali dello Spirito alle bolle papali, ai sanguinolenti scranni dei senatori, Urbi et orbi, bolle ed editti, pandette e ricette.

 

Dalle gobbe papali alle ulcere dell’imperatore, al guercio sodomita che lo possiede e lo doma, noi gridiamo, con quanto fiato abbiamo in gola, che noi vinciamo attraverso soprusi e vendette, tra squilli di fanfare e trombettieri azzimati, piantando le banderillas della concordia, degli zeloti che affollano l’impero, e degli sciti e degli scribi disoccupati dall’ultima recessione.

 

E narriamo che il Minotauro è stato sgozzato, che il popolo è salvo e il tributo soppresso nel sangue, e Teseo è vivo e vegeto e rutilante, e i poeti lo elogiano e le vergini lo acclamano, ed il re sodomita esulta e la plebe festeggia.

 

Oh, che bella accozzaglia di untori… dimenticavo il clero, con il mantello costipato di delitti…

 

E se noi vinciamo, quale demiurgo sancirà la nostra vittoria, quale narratura lo narrerà? I poeti, dove sono i poeti? E il pontifex maximus che fa? Perché non richiama la marmaglia allo zelo? Che i poeti narrino le vicende domestiche di Teseo, del fazzoletto che porta al collo, delle camicie inamidate, del parrucchiere François, delle etéree con cui s’accoppia, dei mocassini di vernice… E i sofisti, dove sono i sofisti? Dov’è finita la filosofia? Nel boudoir di qualche gran dama o nei bordelli di periferia? Ai sofisti vada comunque il mio plauso. Ciò che essi irridono è della stessa stoffa del mio delitto. Nulla è lasciato al caso. O meglio, il caso regna sovrano.

 

Se noi vinciamo attraverso la resurrezione della carne, o la metempsicosi l’utopia o l’abiura o qualche altro imbroglio buono per la zimarra. Se il trionfo durerà sul trionfo, se, come un generale a cavallo, dopo la battaglia, calpesto soddisfatto i cadaveri dei soldati, se qualche imbonitore vorrà imporre un guinzaglio allo scettro, o chiudere le zoccole nella suburra, o qualche altra diavoleria per il bene del volgo profano.

 

Noi grideremo, con quanto fiato abbiamo in gola, in coro tra mille squilli di trombe, semplicemente che abbiamo vinto, sui nemici e sugli amici, che abbiamo trionfato sulle nequizie e sulle virtù, che abbiamo anche tradito, alla bisogna, che anche nostra madre sculetta per le vetrine di Amsterdam, e la nostra amata consorte è una sgualdrina di lusso, e ci nutriamo di caffè: la mattina a colazione coi biscotti. A pranzo, a cena dopo il buffet. E la notte, quando si affollano gli incubi…

 

 

Due ritratti: Ezio ed Attila

 

Vivo, Ezio è vivo? E fino a quando?

Ma siamo sicuri che Ezio sia vivo, o invece è morto?

- ammesso che tra essere vivi o morti ci sia una qualche differenza –

Ezio è anziano e questa è la sua ultima battaglia.

 

Attila, invece, è il padrone del mondo.

E’ giovane e bello ed ha tutto da perdere.

 

Paradossalmente, Ezio ha un vantaggio cospicuo:

è così prossimo alla morte, così vicino all’ombra dell’ombra

che non ha più nulla da temere.

in verità, Ezio non è né vivo né morto,

non puzza ancora di cadavere ma non è neanche più vivo.

 

Attila invece ha tutto da perdere: è giovane, amato dalle prostitute, venerato dai suoi soldati come un dio immortale. Ah, Attila non può perdere, è condannato a vincere, a mietere allori, calpestare cadaveri. Trionfare, trionfare, trionfare…

 

Ezio sa di essere solo, non c’è nessuno dietro di lui. L’impero è un sarcofago vuoto, una bolla di sapone. E’ lontano, sempre più lontano, evanescente. Non c’è nulla dietro di lui.

 

Ezio difende il nulla. E lo sa. Ma questo è un vantaggio strategicamente determinante. Ezio ora sa. Conosce l’essenza delle cose. Ha imparato che tra il nulla e il tutto c’è un punto.

 

E che bisogna tenere quel punto soltanto. 

A tutti i costi. A costo della vita.

 

Attila invece è confuso delle cento vittorie. 

E’ preda del buio del tutto. Vuole tutto e subito,

e prepara la linea del suo invincibile esercito.

 

 

Il discorso di Ezio agli ufficiali romani

 

- In primo luogo, occorre sapere da dove viene e dove va; in secondo luogo, occorre sapere il perché e cosa lo spinge. Noi sappiamo che Attila va dove lo porta il vento e il puzzo del sangue lo attira come una carogna attrae l’aquila. E non c’è un perché: Attila ama la gloria, ama il trionfo incondizionato. Ma – come dice il filosofo – se vuoi l’incondizionato ti sia concesso l’irriconoscibile.

- Sciolte queste tre incognite, possiamo abbozzare una risposta adeguata, possiamo prevedere le sue mosse e neutralizzarle. 

 

Così parlò il generale romano ai suoi ufficiali smarriti e impauriti. Poi, tracciando dei segni su una carta geografica, così continuò:

 

- È un esercito che ha attraversato il mondo sgominando i nemici che per ventura si è trovato dinanzi. Un esercito gigantesco, dotato di una cavalleria sterminata. Praticamente invincibile. Il rapporto di forze è uno a tre. Inoltre, non avremmo scampo se accettassimo lo scontro di cavalleria. Sul piano dinamico, il nemico è invincibile, e dotato di una tale fiducia nelle proprie virtù che lo rende invulnerabile.

 

E qui il generale tacque un lungo istante osservando i volti pensierosi dei suoi ufficiali. E riprese, con voce metallica.

 

- In verità, non esistono eserciti invincibili e, tantomeno, invulnerabili. Inoltre, Attila è stanco e timoroso delle cento vittorie. E’ un timore interno che lo rende incerto e claudicante. Ha visto troppe stragi e detesta il puzzo del sangue. E’ questo il nostro vantaggio. Dovremo approfittare della sua incertezza. Infine, Attila è troppo arrogante, non accetta neanche l’ipotesi di una sconfitta. E questo lo considero un punto nevralgico. Il punto di sua massima vulnerabilità.

 

Gli ufficiali attendevano rigidi come dinanzi al patibolo.

 

- Aspetteremo Attila in Gallia – indicò un punto sulla carta geografica -, prepareremo il terreno della battaglia con tutta calma. Scaveremo valloni profondi per la sua cavalleria, imbuti per la sua fanteria. Faremo convergere le ultime legioni in questo punto. Inviteremo la cavalleria nemica verso la trappola, la faremo scorrazzare per i prati. E qui troverà imbuti, valloni, trappole per topi. E li stermineremo. Si troveranno di fronte la nostra fanteria immobile, in attesa del corpo a corpo. Disarcionati dai cavalli sarà un gioco passarli a fil di spada.

 

E qui il generale tacque. Chiese eventuali obiezioni agli ufficiali, e riprese con vitreo nitore.

 

- Dobbiamo cambiare le carte in tavola: dal piano dinamico al piano statico, dovremo costringere il nemico all’immobilità. Il nemico è la linea e noi saremo il punto. 

 

Detto questo, congedò gli ufficiali, convocò gli aruspici ed uscì dalla tenda a guardare le stelle. 

 

 

I tre filosofi

 

Giardino fiorito. Crepuscolo plumbeo-azzurro.

I tre filosofi siedono ai vertici di un immaginario triangolo isoscele.

 

Sicutvultdeus si alza in piedi, avvolto nel candido panneggio della sua tunica e dice:

“In principio fu il Verbo. La parola è la cosa. La parola è la rosa.”

 

Il secondo filosofo, Sesto Empirico, sta sguaiatamente seduto per terra con la giacca macchiata di unto. Fuma un grosso sigaro. All’improvviso, si alza, va dritto verso Sicutvultdeus, gli si para davanti e gli affibbia un solido ceffone sulla guancia. Poi fa dietro front e, sempre in silenzio, torna al suo posto di servizio. Svogliato e neghittoso.

 

Sicutvultdeus resta imperturbabile, come assorto in una profonda riflessione.

 

Il terzo filosofo, Quinto Metafisico, si alza e compie con passo tranquillo due perfetti cerchi attorno a Sicutvultdeus e a Sesto Empirico. Durante il viaggio, soltanto il vento scompone i suoi capelli, sosta più volte a cogliere e annusare dei fiori, intento a non calpestare formiche o minuscoli insetti.

A volte sosta per osservare le stelle che iniziano a baluginare nella tenebra precoce.

 

Al termine del viaggio, proprio nel momento in cui calano le tenebre, egli si ferma nel punto di tangenza dei due cerchi. Ad osservare le stelle.

 

 

Dialogo dei tre filosofi e del giovane peripatetico

 

- Ermogene non è affatto figlio di Hermes, perché Ermogene non ne possiede le qualità o attributi: non l’eloquenza né l’abilità nel commercio e nelle frodi, che sono le caratteristiche del dio. Il suo nome quindi: stirpe o prole di Hermes è un falso -, disse il primo filosofo.

 

Ma il secondo filosofo, sostenne che Ermogene è vero perché quando è chiamato, risponde, e tutti lo indicano a dito con tale nome. Ciò attesta che il nome è verace, nonostante sia fondamentalmente un atto arbitrario, per il fatto stesso che la comunità lo ha accettato, esso è una legittima convenzione. Così, il nome, che non ha alcun legame con il reale, assume valore di designazione: esso identifica il segno e la cosa.

 

- Il ponte sul quale passiamo esiste solo come entità astratta, la quale diventa concreta ogni volta che lo attraversiamo. - Interloquì il terzo filosofo – Così è la parola, essa ha una esistenza virtuale, prima della pronuncia; dopo la pronuncia ha una esistenza effettuale, storica. E quindi ha una esistenza eidetica prima della pronuncia, subito dopo, una esistenza tra i realia. Ma è un’esistenza fugace – aggiunse laconicamente il filosofo – che dura il battito di un’ala.

 

- Ma se Ermogene non designa affatto il reale, come potremo raggiungere l’essere? Interloquì il giovane peripatetico rivolto ai tre filosofi.

 

 

Confronto di filosofi

 

De Sideribus è colto da un presagio. Un flash lo illumina in un corridoio. È immobile. Un flauto e l’alata lira lo attendono e due candide ancelle suonano quegli strumenti.

È immerso nel sonno, ma è un sonno verticale. Il filosofo dorme ad occhi aperti e le sue tesi hanno la veste di considerazioni. De Sideribus disserta ma non intende argomentare.

 

Egli dice: “Se uno sguardo da un’altra stella cadesse sul nostro pianeta, non lo riconoscerebbe.”

Poi, De Sideribus prende la pipa ed inizia a fumare.

 

Sto Icibus, invece, è nervoso. Guarda attentamente dalla finestra, passeggia distratto, dimentica gli occhiali in frigorifero. Il rumore di una radio ciarliera attraversa la stanza.

Il filosofo sorseggia un caffè, il suo umore è variabile: all’alba è tetro; allo zenit raggiunge la quiete, per piombare, nuovamente, la notte, nel vaso di Pandora delle nequizie.

Egli dice: “Sono qui, all’incrocio di due assi cartesiani, in un punto dello spazio-tempo. Irripetibile e terribilmente reale.”

Poi, Sto Icibus esce di casa sbattendo la porta e si dirige verso il lupanare.

 

 

Sticomitìa tra filosofi

 

- Ha una stabile durata per un tempo eternamente breve

- disse De Sideribus – i filosofi lo chiamano essere o ente

e la dottrina che lo studia si chiama ontologia.

 

- Fin qui nulla da eccepire – interloquì Sto Icibus.

 

- Ciò che dura nel tempo è tempo – aggiunse De Sideribus.

 

Nel mentre, Sto Icibus tirò una boccata di fumo di pessimo tabacco.

 

- Il tempo è necessario perché riempie l’assenza

- e l’assenza è necessaria perché riempie l’essenza – glossò De Sideribus.

- Dio è assenza – imperversò De Sideribus.

 

Sto Icibus tossì abbondantemente, sputacchiò per terra

poi si frugò le tasche in cerca di qualche tallero

e si recò all’osteria ove divorò un petto di pollo.

 

 

L’allievo e il Maestro Li Po

 

Il Maestro Li Po mi indicò col dito la sorgente del fiume.

 

Ed io, senza indugio, raccolsi il mio zaino e mi diressi verso la sorgente del fiume, a ritroso, inerpicandomi su per le montagne.

Ma lì v’erano ghiacciai di neve impenetrabili e il vento gelido sferzava e mi feriva il volto.

Fu lì che mi arrestai, spaventato e soggiogato dal rigore dell’inverno.

 

Fu allora che ridiscesi il corso del fiume attraversando montagne a strapiombo e verdeggianti vallate, fino ai boschi rumorosi di uccelli, alla foce del grande fiume azzurro.

 

Lì saltavano a pelo d’onda storioni e salmoni e trote, come gettati alla rinfusa. E i pescatori cantando e ridendo agguantavano i pesci con le mani e li gettavano vivi nelle barche.

Fu lì che mi arrestai e sostai trasognato dalla mitezza della primavera.

 

E fu lì, nel bel mezzo del delta del fiume, che vidi il Maestro Li Po immerso in un sonno profondo, in posizione verticale, nel mare, eretto dalla cintola in su.

 

Incautamente, mi avvicinai al maestro e lo strattonai sulla tunica, ma quello non trasecolò né mosse ciglio.

 

Allora capii il perché del rigore della sorgente e della dolcezza della foce. 

 

 

La grande casa immersa tra gli aranci

 

La grande casa immersa tra gli aranci.

Un vento freddo la percorre a ritroso.

Nel cofanetto, i gioielli di mia madre, il bocchino d’avorio,

le lettere avvolte in un nastro azzurro, il quaderno viola dove è scritto il destino.

Sullo stipite del tempo, l’algida immortalità dell’angelo:

“Vivete in casa e la casa non crollerà.”

 

Un bambino siede sulla riva del mare spumoso.

Plumbei cavalieri in armi galoppano sulla spiaggia.

Il bambino guarda dalla siepe di oleandri e ginestre

la nuvola di polvere sollevarsi, gli zoccoli dei cavalli sferraglianti,

la testa di un Apollo d’avorio è riversa

tra i solchi di un campo di grano.

 

Un’ombra passa sul volto di mia madre giovane

che si affaccia sul davanzale della finestra e saluta qualcuno

che si assottiglia e scompare nel margine del bosco.

 

Lenzuolo di neve. Soldati italiani in divisa grigioverde.

Il colonnello spara alla tempia del giovane tenente,

poi si rivolge la pistola in bocca e preme il grilletto.

Sono padre e figlio condannati al medesimo inferno.

La bianca neve bacia il loro orgoglio disperato.*

 

Ora è finito tutto veramente.

Mia madre invecchia sempre più velocemente,

mio padre è caduto in battaglia

e la mia città è in fiamme.

 

Dietro una siepe di cardi e rovi in fiore

il bambino osserva i corpi dei morti abbandonati sui campi

i cadaveri dei cavalieri disarcionati…

 

E mia madre invecchia sempre più velocemente.

 

* Episodio realmente accaduto tra il padre, Colonnello dell'esercito italiano e il figlio, tenente, ferito gravemente, durante la ritirata di Russia nel 1942

 

 

Elogio di Paride ad Elena

 

Entravano le foglie degli alberi

nell’azzurro davanzale della finestra

 

E tu, sovrassatura di realtà e di potenza

dimoravi nell’orto del mio ludibrio…

 

Era il rancore beato della felicità

il bisbiglio del vento tra gli alberi

 

E tu, sovraccarica di ori e di porpora

il passo nella bellezza delle tre grazie

 

Entrava il corteo del tuo corpo ignudo

scosso dalle foglie degli alberi

 

E tu, sovrassatura di spazio e di quarzo,

alzavi lo stendardo del mio stupore

tra albatri e baratri

 

“Se noi vinciamo nel lutto della porpora

getteremo l’onta della sconfitta – dicesti –

ricchi di gloria e nudità…”

 

 

Epinicio di Paride ad Elena

 

Noi abitammo il medesimo delirio.

Tu indossavi il plettro e lo scettro

ed io la mia funesta divisa di ufficiale

 

Tintinnava la quarzea cristalleria

e si apriva il guardinfante della tua gonna di velluto

ed io incedevo quarzeo e damascato

con il medagliere infuocato sul petto

 

E colombi di vetro esplodevano sul selciato del giardino…

 

Il melodioso canto del canarino

ci accoglieva amanti trepidanti ed inquieti

 

Ed il sinistro bagliore di un incendio

ci rapiva… efferati e disperati…