Giorgio Linguaglossa Uccelli Scettro del Re, Roma, 1992
Il retro dell'inferno è fitto di quisquilie e di oltraggi
Il retro dell'inferno è fitto di
quisquilie e di oltraggi, pachidermi
del non senso, del posterius, del prius.
È nel fiume dell'Averno che diguazzano
i morti con le loro toghe attillate.
Il teatro dell'inferno è gremito
di voci oscure, vocabolario infantile
che mostro come un re espone il proprio
mantello regale; i diletti del giorno di nozze
sono lontani, stantii, soliloqui
d'un demente senile, d'un dio ottuso.
Un dèmone ricciuto contempla i
bambini che giocano con la matassa.
Ho scelto l'infanzia degli dèi.
Per annunciare i miei prodigi
ho scelto gli uccelli.
Io sono il giardiniere di me stesso
Io sono il giardiniere di me stesso
e lascio crescere l'erba rigogliosamente, liberamente,
affinché invada l'atrio della mia casa
e salga la parietaria fino al tetto
e ricopra il pergolato di bianchi fiori.
Il mio giardino è un angolo riparato
dal mondo e il vento non fraseggia
che tra gli alberi; io invecchio e giro
in tondo tra le siepi e ascolto il gorgheggio
degli uccelli, li lascio liberi
di camminare sul mio corpo e sugli
alberi di pere e colgo le pesche
rosseggianti sul far dell'estate, colgo
le more e le bacche e sono tranquillo,
null'altro mi occorre.
Strappo dalle ali degli angeli lo zolfo.
Strappo dalle ali degli angeli lo zolfo.
Sono qui con i miei uccellini, dò loro
del cibo e li osservo saltellare
e svolazzare sulle mie braccia, fra i
capelli, mi mordicchiano i baffi,
prendono possesso della mia testa
come d'un comodo giaciglio. Loro
sono gli angioli, i lillipuziani
petulanti. Li guido nel giardino
festanti, Loro lembi del cielo,
dell'empireo imperturbabile,
sostantivi della sostanza, aggettivi
della mia essenza, sono così vicini,
inestimabilmente prossimi al mio
arpeggio, mi proteggono come la
nube protegge il lampo. Penso
che nel giardino non esiste la morte,
c'è soltanto l'immoralità del loro
canto, così simili agli angioli
asessuati, c'è soltanto l'immortalità
del loro vanto, superni capricci degli dèi.
Si addormentano nelle mie mani
minuscoli unicorni, miniature
di dèi afrodisiaci; lucidi spettri
zampillano dalle bocche dei fauni
irridenti disseminati negli orti.
Epigrafe del Labirinto pongo
il canto degli uccelli al tramonto.
Come il re Moctezuma mi credo invulnerabile
Fuggono i miei uccellini dalla gabbia
verso le nuvole del cielo, si ricongiungono
alle stelle, loro dimora naturale.
io l'immortalità l'ho deposta
in un mazzo di girasoli
la tengo stretta nel petto
come gli Aztechi il loro tesoro,
come il re Moctezuma mi credo invulnerabile,
invisibile, assiso sul trono di Quetzalcoatl
circondato dai miei cortigiani-uccellini,
dagli orefici del dio Sole,
dall'esercito con le spade di rame.
Io sono il metronomo, il pendolo
del'universo, e non posso che oscillare,
volteggio come un aeroplano, sono
un aviatore e non chiedo armistizio
ma una guerra sanguinosa; il vento
scuote il mio mantello. Orribile
come il volo del pipistrello è la mia caduta
verticale.
La mia eternità l'ho declamata in un verso
nel tramonto tra i girasoli gialli.
Il Faraone mi interroga
Muti fiocchi di neve che turbinano
nella tormenta, i miei versi sono
alati aliti, effluvi.
Il Faraone mi interroga.
I miei uccellini frullano le ali.
La sua tempia ricciuta riposa sulla mia spalla,
reclina il capo assonnato nel mio grembo accogliente.
Un gallo d'oro sussurra nel tramonto.
Siamo irrelati come vipera e demonio,
come singulto e singhiozzo.
Come un Faraone ripudio le piramidi,
i giardini di Alessandria colmano
la mia anima di tristezza. L'Egitto
risplende di ricchezze ed io come
Giuseppe sciorino dai geroglifici
dei sogni le dubbie interpretazioni.
A passo di minuetto soffiava l'Angelo
dal cielo ed io sul dorso del cammello
attraversavo il giallo deserto
Alla reggia del Faraone mi recavo
e le stelle precipitavano dalla camicia.
Dal pulviscolo del mio delitto
Dal pulviscolo del mio delitto
sono disceso macchiato di cerone
da teatro; al più coelicolo degli
uccelli mi sono aggrappato come
una maschera teatrale al suo attore
prescelto, come un palcoscenico
mi sono adattato al passo sordo
e convulso d'uno squadrone di Ussari;
con il cordone della Legione d'onore
ho esautorato la grammatica degli
uccelli, provando col nodo scorsoio
la durata dell'ultima vertebra.
Con il rasoio in mano puntavo dritto
al cuore del pretendente, al petto dello
sfidante; esoso rituale da manuale.
Il rifiuto non si attagliava al mio
guanto. Ora la sciabola è nel fodero,
l'onore è appeso alla cintura e al
medagliere che brilla, chincaglieria
farsesca ossidata nel mio sangue
simile ad un inchiostro nero. Vivo
costipato di relitti e di delitti,
come un generale dopo la battaglia
commisuro il trionfo sul computo dei
cadaveri, la plumbea corazza aderisce
alla mia carcassa che oscilla.
Oh, non devi stupirti, siamo nel castello
di cartapesta tra spade di cartone.
Il Pappagallo e gli Uccelli
Ho la testa intrisa di uccelli algidi
che giocano con il berretto a sonagli.
Il pappagallo osserva con occhi algidi
l'insensato scuotimento delle loro ali.
Il pappagallo e l'urogallo, essenze
psittacidi, affilano gli artigli.
Uccelli di quarzo e uccelli neri
intreccio teriomorfico di angeli e diavoli.
Il pappagallo sanguina dagli occhi
e gli uccelli gozzovigliano leggeri
Il pappagallo, corrucciato, fronteggia
gli uccelli che sbattono contro le pareti.
Il pappagallo immobile con voce rauca
imita il canto soave degli uccelli.
Il pappagallo, cronografo ieratico,
pantografo del sonno, nostalgia,
trascrive la pornografia degli uccelli.
Dodici re Tolomei assorti nel trono di quarzo
Dodici re Tolomei assorti nel trono di quarzo
osservano gli uccellini svolazzanti
impressi nel papiro tra agavi ed acanti.
*
Dietro il sipario della tua sinopia v'è un mare
di distanza, gli archetipi di tre re
incoronati che parlano agli uccelli.
Dietro ogni re vi sono tre torri
e dietro ogni torre vi sono tre vascelli.
Questo è il geroglifico della vita
il criptogramma del canto degli uccelli
Emblematica e paraphernalia
Emblematica e paraphernalia, inventio del caustico inferno.
Paraninfica ars combinatoria, alias, hierogliphica arte degli orpelli.
Il canto è la stenografia degli uccelli.
*
Gli Angeli nostalgia dell'empireo sono il sangue del paradiso.
Gli Uccelli nostalgia del cielo sono i messaggeri della pioggia.
Entrambi iconoduli di un unico Eidolon.
*
È l'uomo vecchio che sta sulla torre,
questo è il panorama che più gli si addice
il cielo stellato più non predice.
È derisorio, dice, osservare gli uccelli.
Quanto a me vivo tra le foglie dell'albero
Quanto a me vivo tra le foglie dell'albero
come un uccello che manda un singulto
spietato. Così futile sono diventato, lascio
il flauto oscillare tra le foglie dell'albero.
Sono più vero quando il vento scuote le fronde
e il terremoto discerpa le radici, le narici
avvertono l'odore del fortunale; siamo amici
io e l'uccello che manda un sussulto ferale.
Aspettiamo l'infinito, guardiamo il temporale
*
Come uno stemma di frigidi uccelli
suggerisco una pedagogia del delirio,
un drastico abbinamento con l'estetica
del monocolo perché la tenebra discenda.
Meditativo in sottovoce, chiaroscuro,
con l'occhio rivolto alla precipitazione
atmosferica, in direzione del binocolo.
La notte, sorella dello Stige
Brucia il giaciglio, che il fuoco palpiti
parli al tuo volto che incarna il doppio
- la maschera dell'eloquio! - in uno scoppio
di attimi fuggenti, di fuggiaschi strepiti.
Dipingi il ciglio erboso del bosco
preda della maschera del fuoco, stridii
di fiammei uccelli, attriti di rotaie
divelte. Bevi un sorso del liquido tosco.
*
La notte non conosce il canto degli uccelli.
Sul ramo più alto quando la tenebra è più fitta
molto prima che la pioggia avvolga l'albero,
io sono io e gli uccelli sono i miei orpelli.
La notte, sorella dello Stige, i miei anelli
prendono fuoco e oscurità, i cigni dormono
al candore della Balena che non verrà.
La notte, gemella del fuoco e dell'oscurità
Il mio uccellino apocope degli dèi
Il mio uccellino apocope degli dèi,
apostrofe dell'empireo, imperturbabilmente
rivaleggia, per bellezza, con i piatti
della mensa di Erode, con il riso degli dèi,
con la chioma di Berenice tolomea.
E lui, al quale in sorte e per dimora il cielo
è dato, non scissura né fessura conosce.
*
Il mio uccellino mantello degli dèi
come un re vile è pieno d'oro e d'opulenza
anche ora che vecchiezza lo assedia
e lo incalza con fermagli colorati.
Versatile è il suo canto come un grumo
di sangue, leggero come arco e arciere;
il mio uccellino è un mulinello d'aria,
inessenziale e inessente non conosce
la morte, attraversa la bronzea regalità
come una freccia scagliata dall'arciere
degli dèi.
Il capo di una repubblica costituzionale
Il capo di una repubblica costituzionale
che arringa l'opposizione parlamentare schierata
negli scranni di battaglia, la brillante divisa
bianca dello Czar che abita le stanze illuminate
del Cremlino rivestito dal mantello di neve,
il Re Sole ritratto nel palazzo di Versailles tra il
lusso della corte oziosa, il sultano di Istanbul
che osserva la flotta saracena in parata
scorrere sulle acque del Bosforo infiaccolato,
Lucifero ed Issione intrecciati come
l'albero e il serpente ad uno stesso destino
e le crudeli Moire in attesa del canto
del mio uccellino il sottile filo tagliando...
La caduta dell'Angelo ribelle
I
Nel cielo nitido, al posto di comando, in cabina,
guardo la fusoliera in fiamme, l'incendio divampa
non c'è dubbio, il ronzio del monoplano cessa,
ora tossisce, scalpita, e nel fuoco che già
avvolge la cabina percepisco con chiarezza
la drammaticità della situazione - mi turba
la mia indifferenza, come se tra poco
le fiamme non dovessero avvolgere me, ma un
altro sconosciuto Signore che mi somiglia,
con cui, in rapporto telepatico, vedo
lo stesso cielo nitido, le fiamme, la fusoliera...
II
Nell'attimo del tuffo chiusi gli occhi,
il vortice d'aria mi risucchiò nell'imbuto.
Guardavo il cielo azzurro, opprimente,
seguendo il filo a piombo della gravitazione
universale quando il paracadute variopinto
si dispiegò e, sotto le braccia, lo strappo
mi tenne alto, leggero come un pennuto uccello.
L'orecchio di tigre del paracadute
librato nell'atmosfera, cenotafio del cielo.
Sotto, il mare smeraldino in minuscole scaglie
iridate, risplendeva.
III
Il tonfo plumbeo si schiuse ed entrai
nella vetrosa cornea del mare cristallino
come se le palpebre si fossero scosse e serate.
Vidi le lastre dell'oceano scindersi e sprigionare
innumerevoli bollicine, il gas della mia vita,
non fiamme o scintille; la vetrina del mare,
i pesci guizzanti spaventati dalla mia caduta
di angelo ribelle. Giunto al punto finale
l'imbuto si aprì e risalii, con mia sorpresa,
gorgogliante, seguendo la traccia perpendicolare
della discesa agli inferi, con pochi colpi,
alla luce, all'aria che risplendeva, al sole
che sfolgorava. Il paracadute tigrato sulla
superficie del mare sembrava una testuggine
esotica, le corde attorcigliate alla
mia vita, la tuta da aviatore. Il plumbeo,
vetroso, turbolento mare cristallino.
IV
In solerte inerzia indosso lo scafandro,
la tuta gommosa, le pinne, controllo
le bombole di ossigeno, il manometro,
le apparecchiature per la discesa, la valvola
di sicurezza, l'orologio. Una missione
tra le tante. La materia equorea si apre,
mi deglutisce in miliardi di bollicine.
Da bambino ero ghiotto di gazosa
per via della gassosità del liquido,
ora mi seduce tutto ciò che è compatto,
inalterabile, insolubile. Il mare,
cilindro ad ipocausto, lo raffiguro come
una miriade di scaglie cristalline.
L'immersione è una vertigine equorea, abluzione,
oblio. Lo scafandro è una carrozza
trainata dai cavalli del sonno. In ipnotica
ipocinesi rimuovo i bulloni dalla chiglia
d'un grande cetaceo inabissato, mi apro
la via nel ventre del mostro. Risalgo.
Abbandono la dimensione equorea, tra poco
sarò nella gassosità, nell'aria, nel fuoco.