La nuova ontologia estetica – Poesie di Anna Ventura, Antonio Sagredo, Gino Rago, Francesca Dono, Lucio Mayoor Tosi, Edith Dzieduszycka, Mariella Colonna, Tomas Tranströmer, Carlo Livia con Commenti di Giorgio Linguaglossa e Gino Rago – Da dove viene l’inconscio?

Giorgio Linguaglossa

da sx Giorgio Linguaglossa, Costantina Giancaspero. Franco Di Carlo, Sabino Caronia, 2017

Giorgio Linguaglossa

Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici.

L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia del discorso poetico. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua e sussiegosa che rifugge da ogni petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.

Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza del senso comune, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che è destinato a rimanere sul piano della espressione comune.
Dovremmo chiederci perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia». Il bisogno di una «nuova ontologia» del poetico è oggi diventato una necessità.

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Tomas Tranströmer

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

(da Tomas Tranströmer 17 Poesie, 1954, prima poesia che ha titolo: Preludium)

Anna Ventura
10 ottobre 2017 alle 17.29

La vergine di Norimberga*

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

* notizie storiche sulla Vergine di Norimberga

La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.

La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.

Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Commento di Giorgio Linguaglossa

Questa è una poesia recente di Anna Ventura, se non sbaglio, del 2015. L’andamento colloquiale e il tono di ironico distacco sono i tipici procedimenti impiegati dalla poetessa nel corso di tutta la sua produzione a far luogo da Brillanti di bottiglia del 1972. Una poesia in sottotraccia, understatement, dove il «detto» sembra corrispondere al «voler dire»; c’è invece un interdetto che apre una divaricazione tra il «detto» e il «dire», un po’ alla maniera della Szymborska, del suo minimalismo metafisico. Ebbene, Anna Ventura nel corso del suo tragitto poetico più che quarantennale ha sempre mantenuto ferma la direzione di ricerca: una dizione essenziale, un lessico sobrio, un verso libero, spezzato in modo non convenzionale, tematiche le più varie, che vanno dal quotidiano al metafisico del quotidiano, impiego del traslato, impiego di una metafora direi implicita al discorso poetico senza impiego di retorismi eccentrici e senza dispiegamenti di eccessi linguistici e stilistici. Oserei dire che Anna Ventura in tutti questi anni ha pagato lo scotto della scelta di un tipo di poesia che non consentiva digressioni nel privato o cedimenti alla moda degli oggetti esibiti o cedimenti alle mode poetiche; così ha pagato in tutti questi anni il dazio per una poesia che non è mai scesa a compromessi con le mode della vulgata maggioritaria ed ha anticipato in tempi non sospetti gli esiti e gli elementi di quel tipo di poesia che noi oggi chiamiamo la «nuova ontologia estetica». Oggi noi sappiamo che una riforma linguistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di «immediata riconoscibilità». È un dato di fatto che qualsiasi operazione di «rottura» determini necessariamente una solitudine stilistica e linguistica a chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di naufragi. Ma, giunti allo stadio zero di «riconoscibilità» della scrittura poetica di moda oggi, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

10 ottobre 2017 alle 18.21

«Amate l’esistenza della ‘cosa’ più della cosa stessa. Amate il vostro ‘essere’ più di voi stessi».
E’ il più grandioso direi precetto Mandel’štamiano de« Il mattino dell’acmeismo».
Come dire, usando le parole di Giorgio Linguaglossa nel saggio “L’acmeismo, la prima avanguardia postuma del Novecento” (POIESIS, N. speciale 33, anno 2005) che « (…) la verità della poesia si trova fuori dalla poesia, riposa nell’atteggiamento che il poeta deve avere verso il mondo. La verità della poesia risiede nello sguardo che essa rivolge al mondo…».

«[…] la bellezza non è capriccio da semidio / ma l’occhio avido e preciso di un concreto falegname». Con la costante volontà di superamento delle “idealizzazioni simboliste”, con Mandel’štam sullo sfondo, insieme stiamo costruendo una nuova figura di poeta. Non trova più posto nessuna ispirazione divina nella sua scrittura, che viene per questo ri -considerata, ri-apprezzata secondo un diverso punto di vista. Il poeta è un ”falegname“, o un ”calzolaio“, o un “architetto”, incline a giocare con le parole come se fossero il suo vivo e concreto materiale di lavoro.
La sua è una costruzione che richiede tempo, ingegno, e che ha il suo punto di partenza nell’aspetto fenomenico del reale, nella materialità degli oggetti e degli eventi, senza nulla concedere all’autobiografismo, a quell’Io sconfitto su ogni fronte.
Mi pare che questa prova poetica di Chiara Catapano, ben sostenuta dalla nota di accompagnamento di Letizia Leone, si muova con passo autonomo lungo questo sentiero.
Possente l’immagine “di fiori e sangue” che si mescolano alla punta delle lance nella ‘Vergine di Norimberga’ di Anna Ventura.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Da dove viene l’inconscio?

«Con concetti come quello di traccia o di differenza, si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa essere il padrone… La differenza è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto, incessantemente differito nel movimento del discorso rispetto a quello originario. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti, in una rete che lo dispiega e nello stesso tempo lo allontana. Cosa dirà dunque Lacan, se non precisamente che “il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante”, espressione celebre che consacra il fossato e la scissione del soggetto da se stesso… Come potrà il soggetto intercalarsi fra l’”io” del suo discorso e se-stesso? Come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo porta-voce e non autore in senso teologico, Lacan fa del soggetto questa presenza assente, questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più che segno, con una significanza che si libera dal rapporto fisso al significato, e si sposta al suo luogo. Dovrà così sorgere l’ermeneutica. Il soggetto, altro da sé, avanzerà solo mascherato, stabilendo la sua identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. La sua identità si realizza a questo prezzo, e questo prezzo è dunque l’inconscio. In tal modo risulta rimosso lo scarto retorico rispetto a sé, retorico perché l’identità non è più che figurata e non letterale».1]

1] Michel Meyer Problematologia. Pratiche editrice, 1991, p. 183

Alfonso Cataldi

11 ottobre 2017 alle 10.19

Gentile Gino Rago,
le chiedo come si incastra questa esigenza artigiana della poesia che parte dalla materialità degli oggetti con questo estratto di Giorgio Linguaglossa:
“Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.”

Gino Rago

11 ottobre 2017 alle 10.59

http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica40
Gentile Cataldi,
ecco il link ove troverà le Sue soddisfazioni.

“I cavalli zoccolano su divani,
calpestano i cuscini,
incedono sui tappeti.
Stai in sella
e ti senti in tasca
un biglietto d’invito a casa di Tamerlano”.

Questo deve arrivare a scrivere il “poeta” se sprofonda nell’abisso del linguaggio poetico. Altrimenti, resterà un ‘continuatore’ in grado, al più, di scrivere qualche verso ben riuscito. Parlo per me, solo per me, naturalmente.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

10 ottobre 2017 alle 19.17

L’acmeismo, Mandel’štam, Gorodeckij, Gumilëv, Achmatova, la prima avanguardia postuma”
di Giorgio Linguaglossa

[…]
“Nel 1919 viene pubblicato il terzo manifesto dell’acmeismo di Osip Mandel’štam, intitolato Il mattino dell’acmeismo, che tenta di raccogliere le file delle posizioni che si erano profilate e di cementarle in uno zoccolo unitario. Ne riassumo i punti fondamentali:
a) in primo luogo il problema della parola poetica, che si contraddistingue per una straordinaria «densità» e non mero segno, rappresentante di qualcos’altro estraneo, il denotatum; un complesso di molti elementi che non costituisce un «valore» in sé ma che ha senso soltanto nella «architettura» verbale come materiale da costruzione.

  1. b) Il poeta è l’architetto che costruisce un edificio di parole.
  2. c) Come nella cattedrale gotica una pietra, pur conservando la sua specificità, non ha valore se non nell’insieme della totalità architettonica. La parola è la pietra della costruzione architettonica, che entra «in gioiosa interazione con i propri simili».
  3. d) Si costruisce soltanto nel mondo tridimensionale, il quale costituisce «la condizione di qualsiasi architettura». Non è possibile creare un’opera poetica se non nel mondo reale, secondo le regole del tempo e dello spazio. «Costruire significa lottare contro il vuoto… Non c’è uguaglianza, non c’è rivalità, c’è una partecipazione di tutti gli enti alla congiura contro il vuoto e il non essere». L’acmeismo ritorna al concetto di «fisiologia».
  4. e) La formula «a realibus ad realiora» deve essere sostituita con l’equazione A=A; tutti i fenomeni fisici sono equiparabili nella loro comune opposizione al non essere”.

da “Il mattino dell’acmeismo” del 1919 di Osip Mandel’štam, racchiuso in 6 punti, magnificamente sintetizzati e commentati da Giorgio Linguaglossa, ha iniziato a dare i suoi primi passi la «nuova ontologia estetica».

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

11 ottobre alle 11.52

caro Alfonso Cataldi,

100 anni sono trascorsi dalla stesura del 3° Manifesto dell’acmeismo di Osip Mandel’štam e la nuova ontologia estetica. 100 anni è un tragitto lunghissimo durante i quali abbiamo visto il mondo sconvolto da tre guerre mondiali, crisi economiche, crollo di imperi, dissoluzione del cristianesimo, la nascita dei fondamentalismi, l’islamizzazione dell’Occidente… la Cina quale potenza mondiale… La nascita della consapevolezza del quadridimensionalismo è un «portato» di questi avvenimenti macro storici… senza il concetto del quadri dimensionalismo ogni ricerca artistica rischia di rimanere sul piano del kitsch, sul piano di una figuratività  di stampo mimetico del reale… Oggi, e ce lo ha insegnato Tranströmer con quei due versi mirabili che hanno cambiato la poesia europea:

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

oggi, dicevo, non si dà poesia moderna senza la consapevolezza della quadri dimensionalità dell’inconscio e che tutta la poesia di qualità di questi ultimi decenni è soltanto quella che pesca in queste abissali profondità…

Secondo l’algebra lacaniana, il fantasma risponde alla formula: $ a, e cioè: soggetto barrato in rapporto all’oggetto a. Sta di fatto che il fantasma, ed è questo l’orizzonte della nostra analisi, accoglie in una sola scena le due facce del linguaggio, la tensione tra dicibile e indicibile.

Il soggetto barrato è nel linguaggio lacaniano il soggetto tout court, il soggetto così come si profila all’interno dell’articolazione del desiderio.
L’oggetto a, è invece il nome che Lacan destina alla Cosa in quanto all’oggetto perduto; rappresenta, ma sarebbe il caso di dire “indica”, allude, al venir meno stesso, alla mancanza costituente e al vuoto lasciato dall’intervento del significante ai danni della Cosa, in ragione cioè dell’azione letale del significante.
Ecco così che il fantasma annuncia una sorta di schibboleth del linguaggio, la scena in cui la rappresentazione viene a toccare la mancanza, «la beanza aperta dall’effetto dei significanti».
È così che il fantasma introduce nel discorso filosofico la questione dell’inconsistenza del soggetto parlante; denuncia che parlare è mancare. Ed è questa è la tesi di fondo della «nuova ontologia estetica». La poesia di Chiara Catapano si volge istintivamente in questa direzione. A mio avviso, non c’è dubbio.

Scrive Freud nella Metapsicologia (1915):

«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali».

Quindi, sono i «residui» «delle percezioni verbali» quelli che consentono che una parte dell’inconscio e delle sue rappresentazioni «cieche» affiorino alla superficie del sistema Conscio. Non c’è dubbio che la forma-poesia è la più idonea a recepire i messaggi «ciechi» provenienti dall’inconscio organizzandoli entro le strutture del discorso pubblico qual è una tradizione letteraria, una petizione di poetica, e, in fin dei conti, una soggettività creatrice.
A questo punto sorge la domanda: che cos’è l’Io?
Nella seconda topica Freud affronta il problema e si chiede se l’io sia veramente solo un nucleo facente parte del sistema percezione-coscienza:

«Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale Io era legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti i processi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita la censura onirica».

La forma-poesia sarebbe una modalità o modo, la più elitaria, che consente la trascrizione di un contenuto inconscio che dormiva nelle abissali profondità («le posate d’argento» transtromeriane) in un linguaggio evoluto al massimo grado di sublimazione e sofisticazione culturale qual è la poesia.

La forma-poesia è un progetto come orizzonte di eventi e di intenzioni che si realizza anche contro e a lato delle aspirazioni e intenzioni umane; il progetto è una apertura dinanzi alla insondabile profondità del linguaggio. Ciò che sta oltre il linguaggio non appartiene al linguaggio. Voglio dire che l’essere che sta al di là del linguaggio è quello stesso essere che condivide il linguaggio al suo interno, per ciò non mi convince l’idea di una separazione netta e assoluta tre essere e linguaggio, la separazione c’è, ma c’è anche un «ponte» che unisce le due sponde (lontanissime), ma questo ponte non potrà essere mai percorso…

La questione è di cruciale importanza. Qual è il rapporto tra essere e linguaggio? Lacan direbbe «nessuno», per Heidegger, basterebbe citare la celebre affermazione secondo cui «il linguaggio è la dimora dell’essere». Eppure, il senso dell’essere, nonostante l’Heidegger della Khere ne abbia accentuato la vicinanza, non passa per il linguaggio, non si definisce per un rapporto interno al linguaggio, bensì per la sua condizione di «trascendens puro e semplice».2] Anzi, sottoposto aristotelicamente alla logica della predicazione, l’essere è quella parola il cui senso resta indeterminato e che non trova collocazione all’interno del linguaggio se non come suo presupposto. Non dunque l’essere presuppone il linguaggio ma il linguaggio presuppone se stesso.

L’essere cioè, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non rientra nel linguaggio nel quale sembra tuttavia anche risiedere. Eppure una simile condizione di fuggevolezza rappresenta allo stesso tempo la sua centralità. È in questo senso che Derrida può dire: «Lo si consideri come essenza o esistenza […] lo si consideri come copula o posizione di esistenza […], l’essere dell’essente non appartiene al campo della predicazione, perché è già implicato in ogni predicazione in generale e la rende possibile».

«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di tale dimora» (Lettera sull’«umanismo»)
La poesia è «il linguaggio originario di un popolo», «il fondamento che regge la storia» (Heidegger)

Se ci soffermiamo sul nesso tra essere e linguaggio, l’ontologia diventa ermeneutica, esercizio di interpretazione di enunciati verbali. Ma se l’interpretazione
rappresenta l’unica via per pensare l’essere — e se la storia dei significati di una parola coincide con la storia dell’essere — ne segue che l’etimologia diventa una componente necessaria dell’ontologia. Di qui l’etimologismo heideggeriano, che si sviluppa di preferenza su parole greche e tedesche. L’ermeneutica dell’ascolto di Heidegger si configura come un’ermeneutica «in cammino», che scorge, nell’essere, un appello inesauribile e mai totalmente esplicitabile. Infatti, il filosofo pensa l’interpretazione come Erörterung, come un esercizio di «localizzazione», cioè di porre in un luogo il discorso che, invece di limitarsi a prendere atto di ciò che è stato detto, colloca il detto nel «luogo» (Ort) che gli è proprio, ossia in quel non-detto che lo nutre e lo regge.

1] Freud, L’io e l’es (1920) trad it. Boringhieri, Torino, 1976 p. 476
2] M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tubingen 1927; trad. it. a cura di Volpi F., Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1990 (2005), p. 69.
3] J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 172

Giorgio Linguaglossa

Antonio Sagredo
9 ottobre 2017

da “Poesie dell’anno avaro 2017”
Misere prove in versi

Dal viottolo se ne veniva la maschera ciondolante di un presagio di cera
che mal recitava un epitaffio mai prescritto e un necrologio non sapeva
cantare.
Te ne stavi come una cariatide dismessa dalla gravità, e dietro una quinta
cartacea le tue dita torcevi e inabile fra i serpenti eri gelosa di Atlante.

L’urlo sbandierato della risacca era lo sberleffo di un acrostico lacustre,
un refrain recitato in falsetto a malincuore da una banderuola disossata.
Miravo per te un tramonto di biacca come fosse una ciambella veneziana,
il bianco marcio di un uovo affettato come ai tempi di Boris.

Mi ricordai dei rigagnoli fetidi della mia città natale, i coriandoli
ossuti dei miei pensieri e i concreti sogni di un banale quotidiano,
come scintille di fatue effimere senz’ali! La marina attonita del mio passo
infantile, le rivoluzioni della Purezza nello stazzo di un cortile.

Mi opprimevano le notturne filologie di parole polari e i fonetici echi
sui lastrici rossastri dei chiassetti, le oscene lingue boreali delle lanterne
s’accasciavano come prostitute in deliquio e le vocali davanti ai suoni stellari
delle consonanti… ero… ero… ero ubriaco di frammenti!

Urlavano gli occhi dei legni stremati nella culla di sesse oleose:
se non c’è da creare più nulla, perché continuare a morire inutilmente!

e il mare ballava il fox-trot coi tacchi appuntiti dei marosi sui moli…

(Roma/Campomarino, giugno-settembre 2017)

Giorgio Linguaglossa

Edith Dzieduszycka
9 ottobre 2017

A cosa sto pensando
in quel preciso istante
che più non è l’istante
quello che prima

c’era
non lo sarà mai più
e non ancora è
quello che poi verrà

A cosa sto pensando
in quel bivio fugace
che tra due pensieri
non farà mai in tempo

a fermarsi
per chiedere
com’è che sto pensando
a quello a cui penso

tra l’istante di prima
del dopo suo fratello
mi sento assediata
e non so più davvero

se guardare in avanti
trattenere il respiro
chiudere lo sportello
smettere di pensare.

Lucio Mayoor Tosi
                                     @ Mauro Pierno

A pesca sull’Himalaya

Entra nel buio della cucina spenta,
s’accorge di quanto effimera sia la sua presenza,
esce e ci ritorna.
Scrive In un catalogo di stelle e A pesca sull’Himalaya.

Si accorge di una matita pericolante.
La mette al sicuro.
Sottolinea
Il futuro in quella notte soltanto.

Dove non si vedono stelle, riflessa nei vetri
compare la sua sagoma scura del terrestre.
Tutto testa e braccia.

L’isola piena di vento.

L’arsenale delle reliquie.

Il giorno dopo.

E Buddha rispose:

Un guaio dopo l’altro.

*

Tutto l’immaginario sul ballatoio.
Messo alla rinfusa. Davanti al tragico orizzonte.
Scendendo le scale si arriva al cortile
– di casa a ringhiera ristrutturata –
poi all’androne dove non si può uscire.
L’impedisce un portone di legno
alto fino al soffitto. Sempre chiuso.
Eterno e infinito.
Eppure è soltanto una metafora, una meteorite.
Manca il sole, non si vedono uccelli in volo,
nessuna anima viva e nemmeno fantasmi.

I pensieri hanno occhi di luce bianca.
Spariscono quando compare la pupilla.
Mentre penso non posso (imbracciare il fucile).
Penso, quindi penso. E non so, quindi non so.
(Nessun fucile).

Ci sono parole nei libri che vivono clandestine,
in incognito. Merce sottobanco. Sottovoce.
Senza voce.
Si sa di loro che vivono in qualche giardino.
Ci si immagina una selva.
Trasparenti e muti filosofi. A che vale tanta fatica?
Chi sa di pensare può smettere in qualsiasi momento.
Tutti i pensieri hanno inizio e fine.
Quando la loro ultima parola se ne va
di solito lascia inudibile la coda di una vocale
che si allontana.

Dentro il motore del tempo
tra un secondo e l’altro c’è lo stare in eterno.
Non si ha bisogno di cibo e bevande,
non si teme l’inverno. Non si nasce
e nemmeno si muore una volta.
Eternità gioisce se mi preparo del tabacco.
La diverto, si diverte. Mi diverto.
Torno sul ballatoio, metto in ordine.
Guardo l’orizzonte e penso. Scrivo.

Sette rovine di paglia da allineare.
Soli nell’universo. Ricettacoli.
Cose mai scritte.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Commento di Giorgio Linguaglossa

La tua poesia è l’elenco di un insieme di eventi; vengono esposte delle situazioni che meglio sarebbe chiamarle «eventi». La poesia è questo insieme di eventi narrati in modo oggettivo, impersonale, con una sintassi lineare, con numerosissimi punti di interpunzione, con divisioni nette e marcate.

Cito non un letterato o un filosofo ma uno scienziato, Carlo Rovelli:

«funziona pensare il mondo come rete di eventi. Eventi più semplici ed eventi più complessi che si possono scomporre in combinazioni di eventi più semplici. Qualche esempio: una guerra non è una cosa, è un insieme di eventi. Un temporale non è una cosa, è un insieme di accadimenti. Una nuvola sopra una montagna non è una cosa; è il condensarsi dell’umidità dell’aria man mano che il vento scavalca la montagna. Un’onda non è una cosa, è un muoversi di acqua, l’acqua che la disegna è sempre diversa. Una famiglia non è una cosa, è un insieme di relazioni, di avvenimenti, sentire. E un essere umano? Certo non è una cosa: è un processo complesso, in cui, come nella nuvola sopra la montagna, entrano ed escono aria, cibo, informazioni, luce, parole, e così via… un nodo di nodi in una rete di relazioni sociali, in una rete di processi chimici, in una rete di emozioni scambiate con i propri simili».1]

Giorgio Linguaglossa

 

Gino Rago

È domenica. Passa un funerale.
Le campane della chiesa protestante hanno un timbro scuro.
Ma il dolore non è nella bara.
L’ipocrisia del dolore circola tra i vivi.
Appare d’un tratto una corona.
Sono rose autunnali.
(…)
Si sente qualcosa in lingua straniera
(forse un discorso in onore del morto?).
Occhi umidi. Sotto i veli un pianto di donne luterane.
Il cocchiere arresta il cavallo.
Un silenzio cade sopra il selciato.
I ferri non consumano le pietre.
Il poeta barba-bianca
fa un balzo sulla scena:
“Ci sono poeti fra i parrocchiani che piangono?
Ricordatevi sempre dell’inconoscibile.
Non sprecate parole nel delirio annebbiato.
Gettate lo sguardo sul paesaggio.
Smarritevi pure nella memoria.
Tre parole. Soltanto tre. Tempo. Spazio. Eternità.
Da Notre-Dame a Santa Sofia passando per San Pietro.
A Roma. Ma per udire sull’Appia la voce dei cesari.”
(…)
Un parrocchiano domanda: “Chi sei?”
Risponde sparendo un fiato nel fumo:
“Mi chiamavano Ubaldo… Ubaldo De Robertis”

Giorgio Linguaglossa

Mariella Colonna

L’ autobus 2006

Mi hai mandato un messaggio
dall’autobus che hai preso
un paio d’anni fa
per venire a trovarmi
e ancora non sei sceso.
Distratto come sei, scommetto
che avrai sbagliato autobus:
altro che 26!
E dire che t’avevo avvertito:
attento a non finire
sul 2600, che fa capolinea sulla luna.
Per quei due zeri in più
ti sarai perso nell’universo.
Vuoi un consiglio?
Chiedi un passaggio alla cometa di turno
oppure ad una stella cadente.
Dai, casa mia è a due passi dal cielo,
dai che ti aspetto!
Ti aspetto al solito angolo
di via delle nuvole
e lì finalmente
parleremo di cose leggere.

(stesura precedente alla NOE)

Giorgio Linguaglossa

Francesca Dono

hanno tutti un mantello nero
il bruciaprofumi ai lati della bocca. Nell’insieme la calca scomposta.
_ Due fidanzati varcano l’entrata elettrica.
Distrattamente io è a sinistra delle suole di gomma.
_____L’uomo numero 8 non ha la camicia.
Divertente _ dico al figlio del macellaio e all’altro condannato
in corsa per il grande autunno.
Ci sono arance sedute
Fermacapelli- leone tra le maniglie piegate
_____________________Lo speaker ha la voce metallica
una cerchio di spine strizzato sul grembo
_______Alla terza stazione gli schizzi serrano
le palpebre emorragiche. Non un ricordo del metrò .
Le sagome immobili e sciupate. Un libro di poesia nel tunnel
volante. Allora immagino di essere morta con la coda -leopardo
attaccata fino all’altro vagone .
________________Il rimbombo si è arrampicato per
ogni colletto. Aria criminale in movimento.

Giorgio Linguaglossa

Carlo Livia

Nella sala della cerimonia vidi: due cavalieri feriti, donne di marmo, un bambino addormentato, una dea in lacrime, un ricordo di giardini e rossori, un peccato, molti sospiri, notti piene di anime, fanciulle d’un tempo, un amore in vesti di glicine, un terrore tinto di corallo, il sogno d’un angelo scomparso, un’aurora malata d’ardesia, una luce eterna, un vento triste con un giuramento, un’assenza con guanti di musica, un sorriso dipinto.

Un silenzio inaudito mi sfioro’ e scomparve.
Qualcuno disse “per sempre”, due volte.
Il tempo s’inondo’ di lacrime.
Una voce, colma di cielo, pronuncio’ il mio nome.