INTERVISTA a ELIO PECORA (1936) a cura di Giorgio Linguaglossa – “La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo?”,   “la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia”, “Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza” “ “La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii  beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento“, “la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato” – con un Commento impolitico  dell’intervistatore e una scelta delle poesie dell’autore da “Simmetrie” (2007)

Giorgio Linguaglossa

 

Commento impolitico  di Giorgio Linguaglossa

 

Il percorso poetico di Elio Pecora ha inizio nel 1970 quando pubblica la raccolta d’esordio La chiave di vetro. Degno di nota il semantema simbolistico di quel titolo che ammiccava a una civiltà che non c’era più, che aveva riposto nel deposito bagagli smarriti ogni riferimento simbolistico. E non è casuale che Elio Pecora peschi proprio nel bagaglio simbolistico per il titolo della sua prima raccolta. I titoli sono importanti, sono sempre significativi di un percorso e di un progetto; e in quella specificazione di «vetro» c’era già tutta quanta la fragilità di quella «chiave» che mondi avrebbe dovuto aprire. Se non che quel mondo simbolistico era scomparso da un pezzo, spazzato via dalla contestazione del ’68 e dalla iperattività della neoavanguardia letteraria che occupava quasi tutto lo spettro di «nuovo».   Nel frattempo il boom economico si è arrestato, l’Italia  subisce l’invasione delle fiat Cinquecento, delle lavatrici, dei frigoriferi per tutti, inizia la balneazione di una popolazione  che si è trasformata in piccola borghesia rapace e rampante; si va tutti in villeggiatura al mare  mentre la classe operaia va in paradiso e il partito comunista sta all’angolo con le sua parole d’ordine diventate inutili. Nel frattempo, sia il romanzo che la poesia rinunciano alla rappresentazione di una società in rapido e tumultuoso cambiamento. Con Trasumanar e organizzar (1968) Pasolini abbandona la poesia al suo destino e si dedica al cinema, al giornalismo; Montale nel 1971 pubblica Satura, opera di svolta della sua poesia e della poesia italiana ed adotterà un linguaggio para giornalistico; scende dal podio simbolistico e si ritira nel suo olimpico scetticismo domestico. Questo è il quadro macro storico. Nel piccolo microcosmo della poesia italiana avviene una mutazione genetica, una mutazione che va di pari passo con la mutazione antropologica di cui parlava Pasolini. E la poesia si appresta a diventare una pratica di massa.

 

Quelle del giovane Elio Pecora sono poesie che abitano il registro colloquiale, il piano basso, il bisbigliato, una versificazione che appare antica per quel suo passo ritmico e cadenzato, fatta di suoni di quantità in delicato equilibrio, con cadenze interconnesse e ritmi apparentemente stabili ma che in realtà stanno appena al di sopra dei sommovimenti equorei  profondi della poesia di quegli anni. Una poesia dove il silenziatore ha una funzione dominante. Una poesia senza stacchi, acuti, o suoni sopra le righe del pentagramma, ma ritrosa e intima, che sembra non conoscere modellizzazione privatistica e invece è sapientemente elaborata in vista di una voce bisbigliata e sommessa. Ecco, possiamo dire che a questo registro minimo la poesia di Elio Pecora è poi rimasta fedele in tutto l’arco della sua produzione fino ai giorni nostri. Una poesia che si è mossa, come una invariante, fin dall’inizio, nel solco della continuità, ma senza essere conservativa, nel solco di una modernità che non equivaleva a modernizzazione, tantomeno forzata e sopra le righe come era in auge in quegli anni che ben presto divennero di «piombo». Una continuità che filtrava la poesia di Saba e Penna mediante il Pianissimo di Sbarbaro. Insomma, Pecora si ritagliava un suo Novecento e ripartiva da lì, da dove la poesia italiana si era interrotta e incagliata, ripartiva da una zona non ancora esplorata. E forse questo è stato ed è il merito della poesia di Elio Pecora: l’aver intravisto con chiarezza la direzione da intraprendere sin da subito, sin dal 1970. Un discorso poetico ricco di piccolissime cose, minuzie, amnesie, ricco di ombre e in chiaroscuro «come cartoline di saluti, come telefonate frettolose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe» (da Simmetrie, 2007).

 

Giorgio Linguaglossa
Elio Pecora

Intervista a Elio Pecora di Giorgio Linguaglossa

 

Domanda: Il tuo primo libro è La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo? In quel volume c’è in nuce una voce nuova di un poeta che prende le distanze dalla poesia dell’opposizione, dalla poesia d’impegno, ideologica e sperimentale di quegli anni. Possiamo dire che il tempo ha dato ragione alla tua poesia; la poesia che allora era in voga è stata dimenticata mentre  la tua poesia all’apparenza così esile e fragile oggi torna ad essere apprezzata.

 

Risposta: quel mio primo libro, che veniva da anni di letture, dai miei diari di ventenne, e da personalissime macerazioni, avevo dato un titolo che tuttora ritengo il più esatto ” Narciso in pensiero”: perché quell’io,  nell’attenzione alle proprie storie e al mondo che lo accoglieva e imprigionava,  poneva insieme consapevolezza e smarrimento. Ma l’editore Cappelli, che mi contentò nelle cure particolari del volumetto, chiese insistentemente un titolo diverso da quello che gli suonava “intellettualistico”. Seppi  tempo dopo che “La chiave di vetro” era anche il titolo di un famoso romanzo poliziesco di Hammet. Invece lo inventai guardando i dipinti di Magritte e decisi per quella chiave  trasparente, perché credevo, e credo, che l’uomo possa rispondere alle domande che lo inquietano e lo accompagnano solo se  mette in conto i limiti di ogni possibile risposta; e pure seguita a cercare la verità adoperando i suoi strumenti tutti assai fragili. Ho derivato questo modo di essere e di vedere,  prima di ogni scrittura, dai miei amati presocratici, in seguito ripensati  nelle analisi abbaglianti di Giorgio Colli,  e da Nietzsche che intravede nuove misure dell’esistere, più tardi da Bertrand Russell, dai diari di Max Frisch,  dalle percezioni affilate di Virginia Wolf, ma anzitutto  dal Leopardi che, nella mia prima adolescenza, mi si è presentato come il più alto e intimo riferimento.  Peraltro, nel tempo del mio primo libro,  mentre ero molto preso dagli scritti  di Freud  avevo stretto una forte amicizia con uno  psicoanalista tedesco, venuto a Roma per scrivere un romanzo, e di cui fui, per alcuni mesi, ospite in Baviera, in un paese di nevi,  dove  scrissi “Narciso in pensiero”  assiduamente riflettendo sul narcisismo e discutendone animatamente con il mio ospite.

 

Domanda: Alcuni critici affermano che nel secondo Novecento, dopo Laborintus (1956) di Sanguineti  e La Beltà (1968) di Zanzotto la poesia lirica ha esaurito la sua spinta propulsiva e che oggi si scrive una poesia non più lirica, una sorta di esperanto narrativo con degli a-capo. Qual è la tua opinione?

 

Giorgio Linguaglossa

 

Risposta: Non ho esitazioni nell’affermare che la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia, malattia che sta fra la pavidità e la cecità. Ed è condizione ben grave se  porta a riparare in sentenze scheletrite e ad arroccarsi in un passato di comodo,  già  tutto codificato,  dunque impossibile (per inerzia e pavidità) da ricollocare fuori di codici scontati e di facili nostalgie.  Rifugge insomma dal  rischiare nel presente più attentamente guardando e vagliando. (Non è casuale che il poco della migliore poesia delle generazioni più giovani propende all’elegismo.) Mi chiedo se  in un paese sfiduciato e depresso, proprio la poesia,  musa appartata e  fuori dell’utile, possa  essere data ancora per viva?  (A un osservatore attento non può sfuggire che gli stessi esegeti delle fini e degli esaurimenti, si contraddicono ogni volta in cui  dispensano  riconoscimenti anche eccessivi e rilasciano indubbi certificati di esistenza a singoli poetificanti. Quanto poi all”’esperanto narrativo con gli a capo”, di sicuro è fenomeno dovuto al “vogliamo tutto”, da cui “possiamo tutto”,  innescato  da   contestazioni affrettate e insensate in decenni ormai lontani.

 

Domanda: Alcuni critici affermano che dopo il ’68 la poesia si è democratizzata, è diventato più facile scrivere poesia, tutti scrivono poesia che sembra  una pratica di massa, una scrittura facile, alla portata di tutti,basta andare a capo ogni tanto. Non ci sono più regole, non c’è più un Canone, sembrano scomparsi i modelli narrativi e poetici, e la valutazione critica sembra un atto casuale o, al più, arbitrario. Qual è la tua opinione?

 

Risposta: La storia non insegna, ma fornisce esempi ragguardevoli. Vi sono epoche in cui il nuovo consiste quasi solo nel respingere  il passato e non solo per quel che è obsoleto, ma anche per  quel che renda possibile la qualità nella prosecuzione.  S’abbuia la memoria, s’annientano i confronti. Si ritiene che solo da una “completa” libertà, intesa come spoliazione,  possa scaturire il meglio e il necessario. Basti ricordare  che, nei decenni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale, è emersa una massa informe che ha chiesto quanto prima gli veniva negato: a una tale massa è stata riconosciuta non più di una confusa apparenza. Nella confusione è passato e passa di tutto e la stessa autorità crtitica è venuta meno: così ciascuno gioca  a suo modo. A questo punto il critico, sfiduciato e scontento, si concilia con se stesso inserrandosi in un recinto di negazioni e rischiando l’asfissia.

 

Domanda: Nel 1987 esce il tuo libro Interludio con l’editore Empiria di Roma. Ricordo che all’epoca, quando lo lessi,  fui colpito dalla nudità del tuo modo di parlare in poesia, come di un colloquio che si svolge in un territorio non più sacro ma ridotto allo stato laicale, come indica il titolo, tra due ludi, due festività del gioco, un parlare sommesso con una voce esile che si compie in un terreno sconsacrato. Quel parlare che tu hai continuato a coltivare come essenza della poesia: un dialogo, un colloquio, o meglio, un soliloquio in una stanza. È questo, credo, il timbro riconoscibile della tua poesia. Da quella data la tua poesia trae le conseguenze della propria imperturbabilità pur nel caos degli avvenimenti della cronaca e della storia. È una lettura corretta della tua poesia  o ho preso un abbaglio?

 

Giorgio Linguaglossa

 

Risposta: Hai letto come meglio non posso augurarmi. Dici del tono nudo e sommesso. L’ho già più sopra accennato. Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza. La poesia non è mai gridata e quando lo è suona di enfasi, di atteggiata. Vale anche per quella che definiamo epica. Gigalmesch,  Ulisse, Macbeth, Faust ci chiamano dalla loro parte soprattutto quando trovano gli accenti della verità, e questa non può essere esclamata, ma  solo accennata così come Eraclito dice della  Sibilla, che accenna non dice.  Non  convince l’eccesso del tono, la manifestazione recitata del vigore. Ho sempre sentito, fin dall’infanzia, che le parole durevoli sono quelle pronunciate con voce ferma, pacata;  perfino la bestemmia e l’insulto, detti sottovoce, fanno  maggior  male. Finanche il dolore si rivela profondo e immedicabile solo quanto svela e rivela con parole nude e chiare, anche solo mormorate.  Come per la  musica, quel che fa straordinaria una voce  è, così come annotava Roland Barthes,   la sua “ grana”  fatta di testa e di  ventre, di ragione e di sentimento, e tutto questo non può raggiungere la giusta espressione se non nella dovuta misura. La poesia, vado ripetendolo in diverse scuole, non è spontaneità e immediata emozione, non è  facile cronaca,  ma ricreazione di  queste  in un altrove che, al di fuori di quel che chiamiamo realtà, pure della realtà consiste e la significa. Da ciò la mia “ imperturbabilità”.  

 

Domanda: Recentemente tu hai scritto: «Verso che stiamo andando? E sarebbe da rispondere:  da che veniamo?», mettendo in un certo modo il punto sulla questione della nostra contemporaneità. Il mondo che è rimasto orfano delle «Grandi narrazioni» sembra condannato, scriveva Montale, alla «balbuzie» a quel «mezzo parlare» che il poeta ligure aveva intravisto già all’inizio degli anni Settanta. Oggi veramente non si chiede più nulla al poeta e alla poesia? Qual è la tua opinione in proposito?

 

Risposta: La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii  beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento,  corpuscolo fragile e infinitesimo in un fluttuare di universi infiniti. Conclusi gli ardori romantici, traversate guerre spaventose  e rovine tremende, l’uomo ha da accettare una nuova misura di sé, sapersi fragile e breve,  e in tale misura bastarsi e riconoscersi. Ma questo  lo antivedeva, già nel primo Ottocento,  il Copernico leopardiano. Può questo uomo ancora dare e dire molto , proprio  dopo  una  trasformazione travagliata e pure aperta a nuove crescite, in special modo della psiche. Hilman ha scritto che gli dèi camminano ancora fra noi e certo i sentimenti che li significano e gli umori che li contraddistinguono tuttora ci nutrono e ci spingono, Poeti come Brodskij e come Walcott non hanno dubitato e non dubitano della presenza della  poesia. ( Scendendo nelle giornate di tutti va ricordato che, mai  come in questi anni e in Italia, è cresciuto a dismisura il numero di coloro che scrivono versi e versicoli, oltre a prose più e meno sgangherate, svendendole per poesia. Se una tale proluvie di libri e libretti denuncia il poco e il niente che li produce, questa stessa proluvie dimostra quanto tuttora valga l’illusione e la speranza di affidarsi, in un universo di chiacchiere, a parole durevoli. E questo prova quanto sia viva e più che mai vincente, in tanto inutile rumore, l’idea di poesia.)  Vale ricordare che la poesia è un raro uccello? A pochi è dato,  per talento e per qualità di strumenti,  accostarla e  raggiungerla. Gli altri, i tanti, vanno piuttosto avvertiti, istruiti. La mia generazione imparava fin dalle elementari molte poesie a memoria, poesie degli autori maggiori, e questo bastava a portarsi dentro un patrimonio che stabiliva raffronti e misure. Forse il bisogno di consegnarsi agli altri con  parole durevoli potrebbe essere al meglio soddisfatto ripetendo le parole assolte e risolte che  la poesia,  raro uccello, ci ha lasciato e ci lascia  affidandocele. E’ una questione di ignoranza da combattere.

 

l

Domanda: L’ultimo tuo libro di poesia ha un titolo significativo:Simmetrie (2007) pubblicato ne Lo Specchio Mondadori. Perché quel titolo? – Il libro, insieme al  volume Poesie 1975-1995 (Empiria, 1997), ci consegna il percorso di una poesia di sapiente compostezza metrica, che rimanda alla linea che va da Sbarbaro e  Saba,  e arriva a Penna e Bertolucci attraverso il progenitore della poesia italiana del Novecento: Pascoli. C’è il tema del viaggio e del congedo, un viaggio che si dirama  “lungo la strada del cuore” attraverso il “corpo”:

 

È una stanza il corpo
nido-cella-recinto.
Abito in cui bastarsi,
da non potersi assentare un istante.
Gabbia d’ossa e di arterie,
di dove assistere al mondo.

 

*

 

Un albero, per appoggiarvi la schiena.
Stare là, senza pensieri, senza possessi.
Il mondo davanti dietro interno.
Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
la tegola rotta, la stanza stretta?
Restare fino a che è dato,
senza orologio e senza calendario.
Chi ha deciso questa inquietudine?

 

Risposta: IL titolo “Simmetrie” riassume e significa quella mescolanza di opposti che per me muove  l’intera esistenza e l’essere in sé. Ho trovato e  trovo questa verità, ossimorica, in ogni istante della mia giornata. L’ho riconosciuta nella gioia-dolore che da Schopenhauer passa in Leopardi e che, nel Novecento Italiano, nutre e dà luce soprattutto in Saba e in Penna, a mio parere i poeti più  dentro il nuovo millennio: la ”serena disperazione” dell’uno, la “strana gioia di vivere” dell’altro. M’è toccato nell’infanzia: erano gli anni della guerra, mio padre era lontano sulle navi della marina militare, tutto era faticoso e doloroso da accettare, ma c’erano le poesie e le canzoni, gli orti che inverdivano a marzo,  le allegrie di mia madre dopo le oscure malinconie, le felicità improvvise, brevi, continuamente attese, instancabilmente cercate. Non ho mai smesso di vedere, di sentire, in tutto quanto mi tocca, in tutto quanto  affronto o rifiuto, nel mio stesso corpo che è insieme un peso e un dono, negli sconcerti e sconforti degli eventi pubblici, in un tempo di cambiamenti e di rumori,  la grazia di un affetto, la luce della bellezza, la voglia testarda di vivere e di continuare  che in ognuno resiste e alberga. Ho scritto molti anni fa un verso che in diversi ricordano: «Io compio l’avventura di restare.»  Ho scelto, molto tempo fa, prima dell’adolescenza, di stare nella vita  fuori della menzogna, ma anche fuori della tristezza come rifugio e medicamento. So che l’esilità e la fragilità non mi corrispondono se in ogni istante mi adopero per  vedere chiaro, per capire meglio.  Questa  è la sostanza che nutre le mie forme. 

 

Domanda: Molta poesia che si pubblica oggi, anche di autori di rilievo, sembra indirizzata al Ceto Medio Mediatico colto, quel pubblico di “poeti” che poi deve dare il plauso alla nuova poesia. Si realizza così un corto circuito tra le generazioni, una pratica molto diffusa tra i giovani oggi al di sotto dei quaranta anni che scrivono tutti allo stesso modo scimmiottando i modi della poesia maggioritaria. Qual è la tua opinione in proposito?

 

Risposta: Ho fin dalle mie prime poesie saputo che scrivevo  per il testimone attento e severo che mi porto dentro e subito dopo per gli altri, per  tutti gli altri. Sono stato per mia natura, o limitatezza, estraneo a scuole e   ideologie. Quanto alle scimmiottature e alle omologazioni, non ho dubbi: il poeta è fedele a se stesso, non può venire meno a questa fedeltà, pena il suo spegnimento. E  in conclusione: niente più della poesia denuncia il suo autore, le sue qualità e le sue mancanze. Sono sufficienti poche frasi, a volte un solo verso, per scorgere il vuoto e la bugia.

 

Domanda: Vorrei finire l’intervista con la domanda che faccio sempre ai poeti intervistati: pensi che ci sarà posto per la poesia nel mondo del futuro?.

 

Risposta:  Mai come oggi l’uomo e il poeta hanno tante domande a cui rispondere, emozioni e sensazioni e umori da raccontare, rilevare, percepire. Chi annuncia la morte della poesia, a mio parere accerta solo la morte che si porta dentro e la cupa volontà di giustificarla come condizione comune. Lo ribadisco: la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato. La modernità ha reso più incerto e scontento l’umano, più esteso e oscuro il suo desiderio, più folte e complesse le sue domande. La poesia, questo lo credo fermamente e vado da anni ripetendolo, è “educazione ai (e dei) sentimenti”.

Giorgio Linguaglossa
Elio Pecora

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1936,  da decenni vive a Roma. 
Ha pubblicato romanzi, saggi critici, una biografica di Sandro Penna 
(Frassinelli, ultima edizione 2006) e curato antologie di poesia 
contemporanea. Ha collaborato con articoli letterari a quotidiani, 
settimanali, riviste e a numerosi programmi culturali della RAI. Dirige 
la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

 

In poesia ha pubblicato:

 

– 2012  Dodici poesie d’amore  (Napoli,  Frullini Edizioni)
– 2011  In margine  (Salerno/Milano, Oédipus )
– 2010   Tutto da ridere (Roma, Empiria) 
 2007   Simmetrie (Milano, Mondadori)
– 2007   L’albergo delle fiabe e altri versi (Roma, Orecchio acerbo)
– 2006   Insettario/Insectionary (Roma, Almenodue)
– 2004   Nulla in questo restare (Trieste, Il Ramo d’Oro)
– 2004   Favole dal giardino (Roma, Empiria)
– 2002   Per altre misure (Genova, San Marco dei Giustiniani)
– 1997   Poesie 1975-1995 (Roma, Empiria; ristampato nel 1998)
– 1995   L’occhio corto (Il Girasole)
– 1990   Dediche e bagatelle (Roma, Rossi & Spera)
– 1987   Interludio (Roma, Empiria; ristampato nel 1990)
– 1985   L’occhio mai sazio (Roma, Studio S.)
– 1978   Motivetto (Roma, Spada)
– 1970   La chiave di vetro (Bologna, Cappelli)

 

POESIE DI ELIO PECORA
da Simmetrie (2007)

 

L’OCCHIO CORTO

Eventi da poco. Notizie prossime, come cartoline di saluti, come telefonate fretto
lose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe.
A volte, in pochi righi, appare l’allegria, passa velata la morte. Una folla, in 
cammino  verso il giorno o la notte, verso il ricordo o la dimenticanza, 
sosta dentro il presente.
Che vale di queste storie mentre il pianeta ruzzola e ruota, avanzano ghiacciai, 
si consumano stelle, il tempo cambia di numero, si perpetrano orrori, 
si assolvono speranze?
Vengono certo da umori segreti, da attenzioni a minimi segni: passi brevi, 
desideri inseguiti, attese bestemmiate, rabberciate bellezze. Lacerti di 
un  mondo spiato, intravisto da un occhio corto.


*


Vanno: mani, piedi, volti
– sterminata moltitudine di attese,
di speranze, di uguali
per fame, per morte,
l’uno l’altro cercando
che rassicuri, impedisca,
tutti compiendo destini
variamente intricati,
mai cessando dietro le arterie,
fin dentro il riso o il grido,
la paura di essere cacciati
da un recinto indifeso.


*


Felice. Ma è possibile che questa felicità,
così colma, comprenda
anche tutti i disagi, tutti gli assilli?
Il sole alto sulla piazza, la folla svagata, i cani,
la violinista con l’orchestra nel registratore,
la vecchia dei fiori puzzolente di orina. Tutto visto, sentito,
e il pensiero dell’amore assente
e il pensiero di essere vivo e breve.
Felicità e disperazione.


*

 

Traversare il dolore
come una stanza scura,
contando i passi, i fiati.
Cercare nel chiuso
un buco, una crepa,
perché non sia memoria
ma presenza
in quell’assenza di luce.
All’uscita sapere
che toccherà tornare.
E l’allegrezza ancora
aspettando l’assalto.


*


Esistere
senza disperare della brevità,
conoscendola come spazio e confine.
Ma vale ogni giorno.
Dentro la contentezza sapere che finirà.


*


In ogni spigolo o lembo,
dietro le viscere e il cuore,
s’aprono spazi imprevisti
e ancora abissi e cunicoli.

 

(DOPPIO MOVIMENTO)

 

Un albero, per appoggiarvi la schiena.
Stare là, senza pensieri, senza possessi.
Il mondo davanti, dietro, intorno.
Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
la tegola rotta, la stanza stretta?
Restare fino a che è dato,
senza orologio e senza calendario.
Chi ha deciso questa inquietudine?
Partire, tornare, tenere, trattenere,
quando basta appoggiarsi a un albero.
Invece, nella sazietà
temere la fame, sospirare nella contentezza. Così, da per tutto.
Non un attimo di sosta. Sempre una guerra,
un contrasto. Profumi che divengono fetori,
polpe che infradiciano,
parole come baccelli svuotati.
Una barca fragile su un mare senza fondo,
l’ansimo nella corsa dell’atleta,
l’urlo dopo il traguardo.
Non sapeva e gli è toccato imparare.
A che è valso?
Continua, come se non fosse avvertito.
Si sveglia da sogni confusi,
si dice che oggi capirà.
Un istante e tutto si ripresenta,
uguale a ieri e a ieri l’altro,
lo stesso disagio, la medesima angoscia.
Quando è cominciato tutto questo?
(…)

 

Elio Pecora, Simmetrie (Mondadori, Lo Specchio, 2007, pp. 115, € 12)