Mario Benedetti,Poesie – da Tutte le poesie a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta,  Garzanti, 2017 pp. 327 € 16, con un Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
[foto Edward Honacker] Elementi. Terra,/ metalli, pietre preziose, fiori, veleni./
Anima. Mente,/ memoria, oblio, pape, stupefazione./ Inferno.

  Mario Benedetti nasce a Udine nel 1956, dopo i primi venti anni trascorsi nel paese di Nimis (Ud), si trasferisce nel 1976 a Padova dove si laurea in Lettere con una tesi sull’opera complessiva di Carlo Michelstaedter, diplomandosi poi in Estetica presso la Scuola di Perfezionamento della stessa Facoltà universitaria. Si dedica all’insegnamento sia a Padova che a Milano, città in cui si trasferisce e dove attualmente risiede. La sua esistenza, la sua poesia ed il suo modo di essere sono fortemente connotati dalla presenza di una malattia congenita, una particolare forma di sclerosi multipla che lo accompagna dall’infanzia. Gravi episodi dovuti a questa malattia si verificano nel ’99 e nel 2000. In seguito ad un arresto cardiaco avvenuto nel 2014 è ospite presso una struttura sanitaria milanese. Dal 1994 vive a Milano. Le opere più recenti sono: Umana gloria (Mondadori, Milano 2004), Pitture nere su carta (Mondadori, 2008), Materiali di un’identità (Transeuropa, Massa 2010), Tersa morte (Mondadori, 2013). È presente in varie antologie tra cui Poeti taliani del Secondo Novecento (Mondadori, 2004).

Scrive Stefano Dal Bianco nella nota che precede il volume:

«Della quantità di libri e plaquettes pubblicati un po’ alla macchia a partire dal 1982, e poi variamente confluiti con tagli e rimaneggiamenti acerrimi in Umana gloria nel 2004 (e non soltanto lì), il titolo che mi sembra possa rappresentare al meglio la postura fondamentale di Benedetti è Il cielo per sempre (1989), già apprezzato da Andrea Zanzotto […] La verità sta anche nella fatica dell’uscire da sé, che è enorme e nei versi si sente: ovunque compaiono forme di impossibilità della comunicazione immediata, e in qualche modo questa poesia conserva, malgrado gli sforzi in senso contrario, una potente dose di autoriflessività, di incapacità di uscita. Sibi u “groppi della scrittura, che sarebbe ingiusto considerare come l’esito di una qualche ricerca espressiva, e che sono invece degli autentici residui, dei pezzi di carne cui è difficile rinunciare… nei buchi neri della lingua, in ciò che manca, nelle giunture vertiginose e nelle ellissi, in quanto carenza o impertinenza dei nessi connettivi, e insomma nel recalcitrare alla sintassi».

Scrive Antonio Riccardi nella premessa al volume:

«La lingua di questa poesia è quella della vita quotidiana, il tono è un basso e dimesso parlato, le figure retoriche sono rare. Il suo stile cerca “uno scarto minimo” rispetto alla comunicazione ordinaria… Lo stile semplice e antiretorico di Umana gloria esprime, dunque, una fiducia nella poesia vista come strumentazione per raccontare “in chiaro” l’esperienza.

Nei libri successivi questa fiducia sembra entrare progressivamente in crisi: in Pitture nere su carta (2008) la scrittura si fa più violenta e frammentata (“erano le fiabe, l’esterno./ Bisbigli, fasce, dissolvenze.// L’esterno dell’esterno/ qualcosa ascolta.// Qui// Oh.”); e in Materiali di un’identità (2010), addirittura, Benedetti sceglie una tipologia testuale sincopata, mista tra la poesia e una forma di non fiction espressiva che rielabora di volta in volta le letture e le ascendenze… La crisi della parola in Pitture nere  e in Materiali è superata con l’ultimo libro, Tersa morte, dove il problema della rappresentazione dell’esperienza diventa soprattutto il terreno di una ricerca etica. […]

Alcune tra le esperienze più significative della nostra poesia recente sono concentrate soprattutto sulla vita privata e interiore dell’io, proposta di volta in volta come paradigma di verità, nella prospettiva confessionale ed espressivistica che fa leva sul neo-individualismo, negli anni Settanta, oppure come opzione teatrale e ironica negli anni Ottanta del postmoderno. In modo sottile e autorevole Benedetti chiede invece alla soggettività di stare in poesia senza falsificazioni, di spogliarsi, di pronunciare senza tentennamenti la verità su se stessa, pur nei comprensibili limiti della storia di un individuo. Parlare di soggettività in poesia diventa così un atto di conoscenza e di forza etica, in cui si può leggere una chance neo-umanistica».

Giorgio Linguaglossa
la discarica delle parole di poesie che respingono.

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Mario Benedetti inizia  a scrivere a metà degli anni settanta; se consideriamo l’orizzonte della poesia italiana di quegli anni non possiamo non prendere atto della liquidazione delle poetiche in auge in quegli anni che il poeta friulano pone in essere, fa una poesia disboscata di tutti i luoghi retorici di quegli anni, va in contro tendenza, il suo parametro di riferimento è il registro basso, un metro atonico, la dismissione di ogni armamentario segmentale e sopra segmentale e l’allineamento alla struttura frastica della poesia lombarda. Negli anni ottanta Benedetti stampa una rivistina, “Scarto minimo”, che conta tra i suoi collaboratori anche Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori, già il titolo è una dichiarazione di intenti: «scarto minimo» rispetto alla lingua di relazione, al linguaggio di tutti i giorni, con in più una deviazione minima dal linguaggio comune. Quello sarà il suo imprinting: l’opzione-petizione per una poesia della fedeltà alle «cose» e al «quotidiano». Forse Benedetti è tra i pochissimi in Italia nei decenni ottanta e novanta a percepire che un intero universo di parole è ormai andato definitivamente alla deriva, si è usurato: «le parole hanno fatto il loro corso» scriverà in una poesia di Pitture nere su carta (2008); parole inequivoche, quasi testamentarie da cui deriva una precisa scelta etica e l’opzione per un discorso poetico che fosse il più possibile fedele alla linearità sintattica e semantica, intento che resiste fino alla raccolta richiamata più sopra del 2008 quando si faranno evidenti le tracce della raggiunta consapevolezza dell’ulteriore aggravamento della crisi della poesia; qui il dettato diventerà didascalico, conciso, preciso fino a sfiorare l’asemantico, quasi un referto medico. Leggiamo due poesie di questa raccolta:

Dal cadavere spagnolo, incisioni oli su tela tempere.
Gli oggetti i ritratti dei Narducci le vedute di una Milano

La seta le insegne dei negozi l’illuminazione.
La ruota
per la deposizione dei neonati, enorme, alla carità.

I navigli. Città d’acqua.
Cavalli calessi cani anatre barche.
Donne e uomini, ragazzi, bambini.

e il cielo lombardo, smeraldo sotto la fuga dei ponti.
ingresso ridotto, Euro 4,50, ai Musei di Porta Romana.

*

Elementi. Terra,
metalli, pietre preziose, fiori, veleni.
Anima. Mente,
memoria, oblio, pape, stupefazione.
Inferno.
Nomi di diavoli, tormento, lamento, ah, disperazione.
Quantità. Misura,
forziere, valigia, in parte, spanna, scheggia, cospargere,
Particelle.
Elle, egli, ei, elleno, ello, eglino, ella.
Particelle.
O! vocante, o! dolente, o! riminiscente.

Non c’è dubbio che qui viene abbandonato il suo primo idioletto dello «scarto minimo» per una rastremazione sintattica ai limiti della sistematica assenza di semantica. Il realismo si tinge del colore del «nero», il peso della sintassi si fa sentire, la sintassi diventa franta, si spezza come davanti all’urto dei tempi nuovi. Albeggia la percezione che una intera tradizione poetica sia andata a finire nelle secche del Ticino, che l’antico linguaggio non sia più sufficiente, che le parole sono diventate buone per la « discarica »; avviene allora che si aprono delle fessure nella sintassi un tempo granitica, anche l’identità dell’io diventa incerta, sfumata: «io sono su questa fotografia»; la crisi esistenziale accompagna, rinforzandola, la crisi della poesia; le composizioni diventano sempre più brevi, sincopate, stenografiche, interrotte da astigmatismo mentale ma il verso rimane pur sempre lineare e unitemporale:

Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi
la discarica delle parole di poesie che respingono.
Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie.

Non c’è dubbio che qui arriviamo quasi a lambire le problematiche estetiche, esistenziali ed ontologiche che la «nuova ontologia estetica» ha messo sotto la propria lente di ingrandimento in questi ultimi anni: la definitiva crisi della poesia vista come crisi che si autoalimenta della propria crisi e la necessità di prendere atto di dover aprire una nuova pagina della poesia italiana al di fuori della linearità sintattica. 

Scriveva qualche giorno fa Donatella Costantina Giancaspero: «C’è oggi una poesia che sa di essere in un sentiero interrotto, che non conduce ad alcun approdo, che “vuole” parlare tramite un linguaggio non-poetico, poroso, un linguaggio da carta assorbente, che annette i linguaggi stracci del mediatico, i robivecchi, i vintage, i rottami, i frantumi, ciò che resta del riciclo dei materiali semantici esausti e combusti. Parlare in arte con un linguaggio artistico «rotondo» oggi è una rimembranza del mondo antico». Ed io commentavo: «I linguaggi della carta assorbente sono i linguaggi disfanici, distopici, i linguaggi dei sentieri interrotti, i linguaggi delle strade di Roma piene di buche, i linguaggi da discarica… Chi non capisce che siamo giunti a questo punto non ha capito nulla di ciò che è avvenuto nella poesia e fuori della poesia di questi anni, chi continua a redigere polinomi frastici, continuerà in buona fede a scrivere polinomi frastici e frasari polinomiali, perché alla buona fede non puoi imputare nulla… A chi non capisce che un nuovo Sandro Penna oggi è impensabile (sarebbe tra l’altro un super kitsch), a chi non capisce che un nuovo sanguinetismo è oggi qualcosa di impresentabile e di irricevibile… a queste persone noi non abbiamo nulla da rimproverare…».

Giorgio Linguaglossa
[Mario Benedetti]

Da Umana gloria (2004)

Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.

*

Matrimonio al rifugio Fodara Vedla

È il giorno che pare di condividere la terra con i fiori,
il fiore tenerlo vicino al cuore perché parli.
Ognuno beve in alto il suo bicchiere,
ognuno è bello e pensa che i corpi sono in mezzo ai fiori,
i prati alti sopra ogni cattiva idea del mondo.
Nessuna storia toglierà le erbe dalla roccia,
un altro cielo non sarà il nostro ma la memoria
perché altri vivano e chiedano dopo di noi
le nostre stesse cose:
com’era per loro che erano tutto
innalzati sopra la terra?
Nessuna cultura toglierà le mani alle mani,
la pelle ai vestiti.
Difendiamo anche nella disputa le nostre vite,
ci difendiamo da chi vuole altre cose,
si cerca di venire a un patto,
di non farci troppo del male.

*

Da Pitture nere su carta (2008)

Dalla notte il mattino la notte,
pantaloni verdi, pantaloni blu,
il nero, l’azzurro, il ramato, tutto.
Perché non è più qui una parola.
Sono case i mari, le strade,
e strade e mari, le case.
La pietra affonda senza corda intorno al collo.
Affiorano a cerchi le parole sulle sue labbra.
Ma non importa, non importa.
Qualche vocale, lungo il viso bianco,
e nero, di capelli, la sua luce.
Affossata su un fianco. Accucciata.
Dietro di te, e davanti, oltre, non c’è niente.

Giorgio Linguaglossa

Da Tersa morte (2013)

maggio 2010
Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero
prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo
portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi.
Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.
Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto.
Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma
di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola.
Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello
o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive.

*

Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.

*

Secche e immobili nella luce sul terrazzo
le montagne appese allo stendipanni, i gualciti
accappatoi rivoltati dal vento ieri notte.

*

È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora.
ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia.

*

Guardare prima, guardare dopo.
Cadere fuori pagina, mentre un’altra penna
guarda. e non sapere come
da sogno a sogno le figure quasi si raccolgano:
la via con la casa da poter comprare
prima, la via con i terrazzi in alto
dopo: il dopoguerra, la nostra passeggiata.
Il vuoto si rigira qui e fa ombre
esili quanto esile è la pagina.

*

Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo. Per la vita
è la scoperta
della morte e della vita.

*

da Questo inizio di noi (2015)

Se le vite si ritraggono ognuna
nel suo continuare o nel rimembrarsi
avremo sempre le parole in posa.
Vedi, il libro ti è davanti, le frasi
mozze bene assottigliate sussumono
anni di giornate con le loro ore.
Getta quel libro, è odore della carta:
e il bimbo apriva e ripiegava, apriva
e ripiegava l’odore d’inchiostro
e delle figure: la madre giovane
ma il bambino la vedeva una morta
ma anche non era una morta, davanti
quell’angolo di muro che si apriva
e ripiegava, apriva e ripiegava.

Dedica

Allora, il tempo della vita dopo. Allora.
Eri lì o una di queste sere. Ma ci vuole affetto
per parlare, dell’affetto per scrivere.
Cose fuori pagina, che si vivono e basta.
Pensieri. E comunque, stai bene? hai
studiato? Come passano gli anni,
vedi, come passano gli anni,
e i tuoi sono ancora pochi. E il volere
che non si parli più, non si scriva più
per andare a capo. Una sola voce lontana…,
quando sarò non presente a me…
Solo offuscati… e piano piano andarcene.